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EDITORIALI
Letteratura
pag. 9
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato
il 13 Marzo 2013
C'era una volta
Carlos Castaneda
Gli sciamani lungo la
via della luna cercano la luce e mai le ombre
di
Pierfranco Bruni
Perché
letteratura e alchimia hanno sempre un viaggio
interrotto e poi ripreso tra i cominciamenti dei
simboli? La letteratura diventa una rappresaglia
quando non si fa preghiera e illuminazione. Nel
percorso di una letteratura simbolo la figura dello
sciamano diventa fondamentale. Viaggiare dentro la
propria anima è viaggiare nella saggezza dello
sguardo, dell’ascolto, dell’impeccabilità, del
guerriero della luce e mai delle ombre.
Il combattente del
sole, della luna e mai delle ombre e delle tenebre.
Carlos Castaneda. Ritorna con il silenzioso passo.
Leggiamolo con umiltà e con coraggio. A chi manca il
coraggio di vivere la letteratura come magia,
alchimia, mistero si allontani da Carlos. Ma la
parola non può esistere senza i simboli sciamanici
del sogno.
Ci sono parole di
consolazione ma ci sono anche illuminanti visioni in
cui la letteratura non è soltanto linguaggio ma
contemplante eternità. C’era una volta un tempo in
cui la memoria era soltanto sogno. E il sogno si
colorava di fantasie lungo i viaggi dell’essenza
della vita. Il silenzio era potere. Il potere del
silenzio era una arcana energia dello spirito.
C’era una
volta la memoria, che si sposava con il mistero e
l’isola della metafora era l’isola dei segreti , dei
segreti velati e poi chiariti. La magia e il mito
ridisegnavano i luoghi di questo mistero.
Nell’isola
di Carlos Castaneda (in origine Carlos César
Salvador Aranha Castaneda, Cajamarca, 25 dicembre
1925 – Los Angeles, 27 aprile 1998) la magia e il
mito sono richiami ed echi che ci portano nella
lontananza del tempo – memoria. Ritorna con noi
spesso. Spesso si fa silenzio.
L’isola
del Tonal di Castaneda (Rizzoli, 1997) è un
intreccio di sfere la cui cultura diventa sapere dei
popoli. E i popoli si impossessano di questo sapere
filtrando il tempo attraverso la nostalgia. I
dialoghi tra don Juan con don Genaro aprono le
finestre al vento della memoria.
Si legge:
“Il mondo non si offre a noi direttamente; di mezzo
vi è la descrizione del mondo. Propriamente, quindi,
noi siamo sempre a un passo di distanza e la nostra
esperienza del mondo è sempre un ricordo
dell’esperienza. Noi siamo perennemente in atto di
ricordare l’istante che è appena accaduto, appena
trascorso. Noi ricordiamo, ricordiamo, ricordiamo”.
È un andare
tra i ricordi. Ma la distinzione tra il ricordare e
afferrare la memoria è presente. Nel tempo i ricordi
si frantumano e si raccolgono sulla tastiera della
memoria. Nella memoria c’è il sapere e c’è il
potere. Sentire, sognare e vedere. Sono i compiti
anche della farfalla notturna che si metaforizza con
il suo volo e con la sua presenza nel mondo. Il
mondo e la memoria.
Castaneda filtra
queste due dimensioni che sono delle sfere. La
circolarità del tempo è un ritornare costantemente,
al punto di partenza. Nel potere del silenzio c’è la
circolarità del tempo – memoria. Il sognare. O il
viaggiare. Già, appunto il viaggiare è il tema
dominante della ricerca di Castaneda. Proprio ne
L’isola di Tonal il viaggio è la trasparenza
dell’isola. L’isola della partenza ma anche l’isola
del ritorno. Dove i riti magici si compiono, si
offrono, si avvertono. Il mondo degli stregoni non è
soltanto il mondo della magia. È il mondo del sogno.
Si legge in
Il potere del silenzio. Arcane energie
dello spirito (Rizzoli, 2001): “Il nagual Elìas
aveva grande rispetto per l’energia sessuale disse
don Juan. Riteneva che ci fosse stata perché la
usassimo nel segno. Credeva che il segno fosse
caduto in disuso perché poteva sconvolgere il
precario equilibrio mentale delle persone
sensibili”.
È un
itinerario lungo ma circolare. Per esempio così in
Il secondo anello del potere (Rizzoli, 2001),
in Il dono dell’aquila (Rizzoli,
1985), in L’arte di sognare (Rizzoli, 2000).
Il sapere e il potere sono, comunque, incarnate
dalla metafora della farfalla notturna che troviamo
ne L’isola del Tonal. La
sottolineatura è singolare oltre ad essere bella.
“Il sapere e
il potere. I sapienti hanno l’uno e l’altro. E
tuttavia nessuno di loro potrebbe dire come riuscì
ad averli: potranno solo dire che li hanno ottenuti
agendo come guerrieri, e che ad un dato momento
tutto è cambiato”. I guerrieri della notte si
incontrano con la farfalla.
E poi: “Un
guerriero deve essere calmo e padrone di sé, senza
perdere mai il controllo”. Gli stregoni e i
guerrieri. Ma è Castaneda che incide un solco con
queste parole: “Se volete esprimervi in modo preciso
secondo gli stregoni, ma in modo molto ridicolo
secondo il vostro linguaggio, potete dire che
stanotte avevate un appuntamento con una farfalla
notturna. Il sapere è una farfalla notturna”.
Le metafore
sono anch’esse circolari perché camminano nel cuore
del tempo e si fanno voce dentro l’anima del
guerriero. Ma queste metafore chiedono allo stregone
di mobilitarsi nel linguaggio. Alla fine il tempo è
sempre il mistero, che si imprigiona nella memoria e
si fa destino.
Appunto, il
destino. L’incontro tra l’Occidente e l’Oriente è
anche qui la trasparenza del potete del silenzio. E
questo potere senza la forza e la consapevolezza del
destino è follia. Ma Castaneda si rivela
nell’isola, si rivela nel silenzio, si rivela nel
sogno.
Tre percorsi
la cui luce primordiale vive non solo nel passato ma
nella richiesta del presente. Il futuro è già
memoria. La conoscenza è destino. Il silenzio
interiore è la civiltà che si fa memoria. Un invito
ad andare oltre alla ragione. Oltre la ragione c’è
sempre il mistero. Un mistero che fa del nostro
cammino il senso e l’orizzonte nella luce
illuminante. Il volto non della verità ma del
viaggiare dentro la propria anima.
Io che ho seguito
e non smetto di leggere e di vivermi
nell’immaginario di Castaneda ho sempre trovato il
mio compagno di strada. Un compagno nella vita e
nelle parole. Nei linguaggi e di ciò che usiamo
chiamare letteratura nella spiritualità del sogno.
Tutto altrimenti diventa relativo. Ed io che al
relativismo non mi sono mai affidato e tanto meno
alla ragione trovo in lui l’aquila e il volo tra il
sogno e la fede.
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pubblicato il 13 Marzo 2013
D’Annunzio tra il
mondo albanese e il Mediterraneo
Per celebrare i 150
anni della nascita
di Pierfranco
Bruni
L'Albania in
D'Annunzio. Gabriele D’Annunzio, di cui ricorrono i
150 anni dalla nascita, ha molto amato la cultura
albanese. Quella “albanesità” sospesa tra
l’Adriatico e il Mediterraneo. Un richiamo che è
evidente nelle testimonianze e nella scrittura.
D’Annunzio aveva studiato e conosceva bene le
imprese del condottiero e del personaggio Skanderbeg.
Era nato a Pescara il 12 marzo 1863 e morto a
Gardone Riviera il 1º marzo 1938. La presenza di
D’Annunzio nella letteratura albanese è ben
specificata, negli studi di Koliqi, attraverso una
visione artistica e culturale che pone al centro una
dimensione di cultura orientale.
“Si trovano
palesi testimonianze della simpatia di Gabriele
D’Annunzio verso l’Albania e gli albanesi visitando
l’interno del Vittoriale. Nella Stanza delle
Reliquie, proprio sull’altare dei cimeli di guerra e
dei simboli religiosi, si può ammirare un rarissimo
esemplare rilegato in pelle dell’opera su Scanderbeg
dell’abate scutarino Barletio, in versione tedesca
del 1561. E’ se la memoria non mi falla, uno dei
quattro o cinque libri ammessi dal Poeta in quella
parte mistica della sua dimora”. E’ ciò che scrive
Ernesto Koliqi in Saggi di Letteratura Albanese
(Olschki, 1972), nel capitolo dedicato a “Gabriele
D’Annunzio e gli Albanesi”.
Molti scrittori
albanesi lo consideravano un maestro. La poesia
albanese risente del battuto lirico alcionico. Fu il
poeta Lazzaro Shantoia a tradurre "La pioggia nel
pineto" nel 1942 sul giornale letterario "Tomorri i'
vogel (ovvero "Il piccolo Tomorri"). Ma tutta
l'impostazione letteraria di Shantoia è strutturata
sulla lezione dannunziana. Così pure la formazione
di un altro scrittore quale fu Bernardino Palaj
(1887 - 1946) o le traduzioni di Masar Sopoti (1916
- 1945), il quale tradusse D'Annunzio nella pagina
letteraria in lingua albanese della "Gazzetta del
Mezzogiorno" di Bari dove Sapoti rivestì il ruolo di
redattore.
Ma non è
soltanto questo che ci fa stabilire il rapporto tra
D'Annunzio e l'albanesità. D'Annunzio ebbe rapporti
anche con il poeta Giorgio Fishta. Comunque, Ernesto
Koliqi, come si è già sottolineato, ha dedicato al
rapporto D'Annunzio e mondo albanese delle pagine
singolari che restano nella storia di questa
letteratura. D'Annunzio aveva, in fondo, uno
"spirito islamico" forgiato su una visione quasi
bizantina di un modello storico e culturale che
aveva caratterizzato molti suoi scritti.
C'è proprio
una testimonianza del Koliqi nella quale si
sottolinea: "Partendo dall'insegnamento dannunziano,
alcuni fra i più dotati giovani scrittori intorno al
1930 aumentarono le possibilità espressive della
maschia lingua schipetara e, senza lederne il sano
midollo eroico - patriarcale, che ne testimonia
l'antica nobiltà, la piegarono a esprimere con più
sottile perizia i moti interiori e a descrivere con
più lucida precisione vicende e ambienti moderni
fino allora sconosciuti alla vita e alle lettere
albanesi, a evocare con toni sfumati epoche e
momenti suggestivi del passato, a soffondere di
vaporosità sognanti il bisogno d'evasione della vita
quotidiana".
Da Bala in
poi questa letteratura è stata attraversata da un
mosaico sul quale i tasselli di una eredità
favolistica hanno avuto un valore metafisico. Si
pensi sia a Girolamo De Rada e a Giuseppe Schirò. A
volte ci si trova di fronte ad una letteratura che
sembra priva di una preoccupazione storica.
Sostiene
sempre Koliqi: “Il D’Annunzio come spirito eclettico
e per la particolare paganeggiante concezione di
vita poteva considerarsi il più vicino alla
mentalità e al gusto albanesi”. D’altronde la
cultura orientale ha sempre affascinato il Vate.
Ancora Koliqi: “Quella parte, oggi considerata la
più caduca della produzione letteraria dannunziana,
in cui si raffigurano personaggi violenti e nel
contempo raffinati, in cui si descrivono ambienti
circonfusi di fasto orientale, rispondeva al gusto
bizantino infuso profondamente negli Albanesi,
specie delle città, da secoli di attiva
appartenenza prima all’Impero di Bisanzio e poi a
quello ottomano il quale conservò, permeandoli di
spirito islamico, le fogge e le usanze della civiltà
bizantina”.
Su questo
argomentare ho avuto la possibilità di soffermarmi
in molti saggi. Per l’occasione dei 150 anni della
nascita di D’Annunzio è in preparazione un lavoro
sul tragico e sui modelli estetici dannunziani e il
suo rapporto con l’Oriente e la cultura albanese è
parte integrante di un legame che comprende la
visione letteraria e antropologica del Novecento tra
le sponde mediterranee e balcaniche.
Giovanni
Papini ebbe a dire, a tal proposito, che in
D’Annunzio si intreccia “un misto di grecità
decadente e d’orientalismo: Alessandria o Bisanzio”.
Un mondo in cui l’atto poetico è un tracciato il cui
senso del sublime resta letterariamente (sul piano
estetico) emblematico. Una testimonianza che propone
ancora Koliqi ha una grande portata esistenziale e
culturale “… ciò che meraviglia e appassiona nel
Vittoriale il visitatore albanese è di vedere
proprio sul tavolo di lavoro del Poeta, nello studio
detto Officina, nel quale carte e documenti e
libri rimangono com’egli li lasciò, un dizionario
albanese – italiano, e precisamente quello della
Società Bashkimi, edito a Scutari nel 1908.
(…) L’opera… la inviò Hasan Pristina in dono al
Comandante, non so se su richiesta o di spontanea
iniziativa. D’Annunzio l’ebbe a portata di mano, fra
gli ultimi libri di cui si circondò prima di
morire”.
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pubblicato il 13 Marzo 2013
A Cento anni dalla nascita di Giorgio Caproni:
una delle ultime lettere, completamente inedita.
Il Centro Studi e Ricerche
“Francesco Grisi”, diretto da Pierfranco Bruni, in
occasione del Centenario della nascita del poeta
Giorgio Caproni (nato a Livorno il 7 gennaio 1912 e
morto a Roma il 22 gennaio 1990), ha organizzato un
incontro di studi, per ricordare l’opera e la figura
di uno dei poeti più caratterizzanti del Novecento
italiano, sul tema: “La poesia di Giorgio Caproni.
Un centenario nel viaggio delle partenze e la
profezia di Enea”.
“Bisogna necessariamente
celebrare un centenario, cesella Pierfranco Bruni,
in un contesto in cui la poesia costituisce un
viaggio tra le parole e il sentiero dei sentimenti.
Il poeta che ha tracciato un percorso virgiliano
ponendo all’attenzione il mito di Enea come modello
profetico e lirico”.
E' stata presentata una
lettera inedita che Caproni scrisse il 24 settembre
del 1989 proprio a Pierfranco Bruni. È una delle
ultime lettere che Caproni scrisse. Infatti, la
morte lo coglie nel gennaio dell’anno successivo.
Nella lettera ci sono alcuni
passaggi profondamente malinconici e doloranti.
Caproni scrive a Bruni: “… mi trovo in condizioni
tali di salute da non aver nemmeno la forza di
buttare giù una lettera… (…) io non ho più l’energia
necessaria per star dietro a tutto, anche perché,
per vivere, devo continuare a lavorare”.
E poi più avanti: “…ormai vivo
isolato quasi l’intero anno in un paesino ligure,
dove per ordine del medico non mi vengono spedite né
lettere né altro… e questo forse le spiegherà in
parte il mio silenzio, diventato un’assoluta
necessità…”.
“Giorgio Caproni è un riferimento che va riletto e
riproposto, osserva Pierfranco Bruni. La sua
produzione poetica, editorialmente, ha come inizio
il 1936 con un testo dal titolo: ‘Come
un’allegoria’ e un congedo post mortem che ha
rimandi metaforici forti: ‘Res amissa’, libro
pubblicato nel 1991. Tra l’incipit e il concluso,
come ferita non cucita (o percorso incompiuto)
volutamente dal destino, c’è ‘Il passaggio di Enea’
che racchiude poesie tra gli spazi di un tempo che
collega il 1943 al 1955. Poi ci sarà ‘Il seme del
piangere’ e ancora ‘Il muro della terra’ e così tra
i labirinti dei linguaggi che si focalizzano in un
camminare tra città lungo le vie dei treni o i
corridoi delle biciclette”. Alcune delle poesie di
Caproni portano delle dediche al altri poeti e
scrittori che ha amato e con i quali ha condiviso un
perso di esistenza e di poesia. Tra questi poeti ci
sono Michele Pierri (al quale dedica i versi “X”
tratti da “I lamenti” da "Il passaggio di Enea)
e Libero
Bigiaretti, le cui dediche compaiono proprio nel
testo su Enea.
A Giorgio Caproni il Centro
Studi e Ricerche “Francesco Grisi” dedicherà, nel
corso dell’anni, altri convegni e delle
pubblicazioni.
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pubblicato il 12 Marzo 2013
Dibattito sul
Ministero per i beni e le attività culturali
Senza provocazioni
ma con serenità e serietà
Chiamiamolo
Ministero della Cultura e dell’identità Italiana o
trasformiamo il concetto di cultura
di Pierfranco
Bruni
Si riapre il
dibattito sulla proposta di una nuova progettualità,
di un nuovo “abito”, di nuove competenze, di nuovo
tutto che dovrebbe avere il Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, già Ministero per i beni
culturali e già ancora Ministero per i beni
culturali e ambientali.
Un Ministero che
si rinnova sostanzialmente o non sostanzialmente con
il Codice dei beni culturali del 2005. Prima di
questa data, nonostante circolari, decreti,
strutture e sovrastrutture tra dirigenze varie e
dipartimenti, aveva (e forse ancora lo ha) un punto
di riferimento certo: la legge del 1939, la n. 1089
per i beni culturali, ovvero una Legge nata in
Regime fascista. Ci fu, addirittura, il tentativo di
soppressione del Ministero o dell’accorpamento.
La storia la
conosciamo bene (la conosco bene anche per i diversi
libri scritti sia in termini istituzionali –
organizzativi che culturali: “La risorsa beni
culturali” e poi “Beni culturali identità”, 2004,
2005, sia per le diverse consulenze gratuite sul
tema) sin dalla Commissione Franceschini (anni
Sessanta) e poi dal 1974 e ufficialmente dal 1975.
Il problema si pone per una serie di questioni. Che
non abbia avuto un ruolo importante, nel corso di
questi anni, non è vero. Altrimenti chi avrebbe
retto tutte le strutture periferiche del mondo dei
beni culturali: dagli scavi archeologici alle
biblioteche, dagli archivi ai monumenti, dai musei
alla promozione della cultura italiana nei paesi
esteri?
Deve essere chiaro
un dato: aver inserito i beni archeologici, i beni
musicali, lo spettacolo dal vivo, il cinema, il
teatro, le antropologie, i premi per la traduzione,
il diritto d’autore in un unico taglio istituzionale
è stato un fatto interessante perché è la
testimonianza di una idea complessiva di cultura e
aver messo insieme la valorizzazione, la tutela e le
attività è stato un inizio in cui i processi vitali
di un territorio si sono aperti, almeno idealmente,
ad un raccordo tra risorsa, vocazione ed economia.
Il nervo scoperto è che senza “finanze” non si fa
cultura. Ed è una questione nevralgica emersa nel
dibattito di questi giorni che sta impegnando
intellettuali ed esperti. Ciò è l’antico Nodo di
Gordio. Ma per chi fa cultura, secondo la mia
diretta esperienza, e per chi ha rivestito cariche
istituzionali proprio in questo campo anche come
assessore alla cultura della Provincia di Taranto
(per quattro anni) e per chi è stato in molti paesi
esteri a rappresentare la cultura italiana e per chi
ha ricoperto e ricopre presidenze in Comitati e
Centri Studi e per chi continua a lavorare sul campo
istituzionale posso affermare con consapevolezza che
non tutto dipende e può dipendere dalla mancanza di
risorse economiche.
Visitiamoli questi
luoghi della cultura in tutta Italia, quelli che
dipendono dal Ministero e quelli che dipendono dagli
Enti locali, per renderci conto che le idee fanno,
in molte occasioni, un salvadanaio per investimenti.
Spesso ci “nascondiamo” sotto il fatto che non
abbiamo i soldini per portare avanti un progetto ma
il progetto ha bisogno di idee e, quindi, non solo
di linee amministrative ma di percorsi culturali che
tirano nel gioco altre realtà. Allestire un museo
didatticamente leggibile nella modernità delle
dialettiche internazionali non è solo una questione
di vuoti economici. Lavorare tra Enti e
associazionismo e volontariato non è questione
soltanto di vuoti economici. Proporre una
articolazione di mostre tra archeologia,
antropologia, architettura, “emeroteche” non è
questione di mancanza di economie. In quattro anni
di assessorato i progetti non mi sono piovuti da
Marte me li sono inventati guardandomi intorno.
Aprire un forte
dibattito sulle culture sommerse è coraggio, volontà
e scelte. I compiti dei beni culturali non sono solo
quelli rigorosamente istituzionali ma intellettuali.
L’intellettuale deve raccordarsi con il mondo vasto
dei beni culturali e poi bisogna ampliare sempre più
questo mondo dei beni culturali alle culture che non
sono solo quelle “caratterizzate” nelle norme del
Codice. Un Ministero aperto. Ovvero un Ministero
della Cultura. Già, fa paura ancora parlare di
Ministero della Cultura. Ci porterebbe direttamente
al Min.Cul.Pop.? Invece, dell’attuale Mi.B.A.C?
Ci sono epoche che
separano realtà. Bisognerebbe rileggere la posizione
di un intellettuale che conosceva il fascismo della
cultura e la cultura del fascismo, ovvero Giuseppe
Bottai, quello che votò per l’Ordine Grandi nella
seduta che fece cadere il fascismo.
In questi giorni
si è parlato della “nazionalità” delle cultura e del
valorizzare la cultura italiana attraverso le
diverse arti. Per fare questo bisogna aprirsi ad
idee divergenti e articolate per giungere ad una
convergenza di una cultura dell’identità italiana.
Senza una filosofia e una estetica della identità
italiana non si può parlare di un Ministero dei beni
culturali che sia altamente rappresentativo in tutto
il mondo. È vero che le economie sono povere. Ma
anche le idee non sono ricche.
Un Ministero della
Cultura deve essere un Ministero delle Idee e per le
idee e non tentare di fare della cultura unicamente
un progetto economico “provvidenziale”. Capovolgo il
discorso. Partiamo dalla cultura delle idee per
proporre una cultura che possa essere investimento.
In questo discorso abbandoniamo una volta per sempre
le ideologie perché nonostante si continui a dire
che sono morte queste, le idee, sono ancora più vive
che mai anche se si sono trasformate in pensieri
sull’economia.
I beni culturali
lasciamoli alla cultura e a chi fa cultura, con ciò
non si intende di rinchiuderli nel cerchio degli
addetti ai lavori ma il discorso è molto più alto e
problematico in un coinvolgimento di visioni globali
(e chi scrive ha sempre lottato per lo sdoganamento
dei beni cultuali come appannaggio degli
specialisti), e a chi vive la cultura con
esperienze, eredità e una forte testimonianza
identitaria. Perché la cultura resta l’identità di
una Nazione.
Chiamiamolo,
dunque, Ministero della Cultura dell’Identità
Italiana. Altrimenti trasformiamo il concetto stesso
di cultura.(sic!).
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pubblicato il 12 Marzo 2013
L’attualità del Machiavelli a 500 anni dalla
proposta de “Il Principe”.
La politica nella storia letteraria di una
Nazione
di Pierfranco
Bruni
Politica e
letteratura. Non un legame. Anzi. Mai un legame.
Ma un incontro che ha offerto, nei processi
culturali, chiavi di lettura di particolare
interesse soprattutto quando a porre
l’attenzione su un simile “intreccio” sono stati
i maestri della politica moderna. Maestri che
provengono comunque della letteratura.
Cosa c’è di più
attuale, rischio nell’usare il termine
contemporaneo (?), di personaggi come Nicolo
Machiavelli (Firenze 1469 – 1527) e Francesco
Guicciardini (Firenze 1483 – Arcetri 1540) non
solo con i loro scritti ma anche con il loro
esempio e la loro azione?
Quest’anno è un
anno importante proprio per una “caduta di
destini” che sta a indicare modelli di cultura
politica e di strategie di potere nati in un’età
qual è stata il Rinascimento.
Tra i tanti
anniversari e celebrazioni (da Boccaccio a
Machiavelli, da D’Annunzio a Camus) lo sguardo
resta puntato, proprio per il contesto politico
che si attraversa con le sue difficoltà e le sue
rotture storiche, sul ruolo de “Il Principe”,
come metafora della politica cortigiana o dei
cortigiani che cercano nella politica un
tentativo di affermazione.
Mi riferisco al
Machiavelli de “Il Principe” risalente al 1513,
di cui cadono quest’anno i 500 anni della sua
nascita. Ho avuto modo di occuparmi di
Machiavelli in diversi incontri, alcuni anni fa
a Santo Domingo, per conto del MiBAC,
relazionandolo alla funzione culturale di
Giuseppe Prezzolini e ai suoi scritti su
Machiavelli.
Il Centro Studi
e Ricerche “Francesco Grisi” ha in preparazione
uno studio a più voci dedicato a “Il Principe.
La politica nella cultura e l’inconoscibile
antipolitica” con scritti di Carmen De Stasio,
Gerardo Picardo, Micol Bruni, Neria De Giovanni,
Marilena Cavallo.
“Il Principe”
nella politica del 500 e dentro una riflessione
a tutto tondo nella politica del 2013? Direi
proprio di sì. Il suo lavoro potrebbe essere
utile a questa contemporaneità che ha smarrito
il suo senso della memoria.
Chi
riattualizzò Machiavelli fu Giuseppe Prezzolini,
il quale nel suo saggio scritto nel 1926 con
un titolo che definisce un raccordo tra storia e
modernità: “Vita di Nicolò Machiavelli
Fiorentino”.
Con
Machiavelli, secondo Prezzolini, si entra
nell’epoca moderna. Proprio in questo scritto si
legge: “Savonarola era il Medio Evo, Machiavelli
era il tempo moderno che nemmeno i suoi tempi
potevano intendere. Savonarola aspettava tutto
da Dio, Machiavelli tutto dall’uomo”.
Cultura e
politica costituiscono, in Prezzolini, un
unicum. La lezione di Machiavelli diventa
fondamentale tanto che pubblica nel 1971 un
ulteriore testo: “Cristo e/o Machiavelli”.
Un lavoro che fece molto discutere e che oggi,
se avessimo la forza e il coraggio di
riproporlo, acuirebbe il dibattito tra la
posizione del mondo cattolico e la politica.
Prezzolini
chiedeva e si chiedeva rivolgendosi, appunto, al
“Principe” di Machiavelli: “Forse il
cristianesimo risponde a domande
intellettuali?”.
Credo,
comunque, che uno dei concetti più forti di
Prezzolini ricavato dalla attenta lettura del
Machiavelli politico dell’attualismo
dell’antipolitica lo porta ad una considerazione
pungente tanto da considerare il Principe “metà
volpe e metà leone” con la capacità però di
poter “imporre la pace fra le sètte e liberare
l’Italia da’ Barbari”.
Se si ritorna a
discutere del “machiavellismo” nei processi
politici contemporanei è anche perché
quell’identità nazionale delle corti
rinascimentali è rimasta nei cuori fragili della
politica post fascista.
E la
contemporaneità di Machiavelli si ripropone
nella voce di Prezzolini che non può restare a
margine di un dibattito più articolato tra
politica e cittadinanza. Perché è proprio nel
suo esilio che Prezzolini rilegge il fiorentino
delle lettere e dei linguaggi politici. Lontano
dal Regime propone Machiavelli come il vero
“apostolo rinnegato dagli uomini del suo tempo”
considerandolo come “il più grande pensatore
politico dopo Aristotele”.
Di recente
proprio su “Il Corriere della Sera” (6 gennaio
2013) Giuseppe Galasso lo considera come lo
specchio delle diverse modernità che hanno
occupato lo scenario delle civiltà come “uno
snodo decisivo del pensiero e della coscienza
moderna, come una spinta forte e fondamentale
alla laicizzazione e alla modernizzazione
dell’idea di politica”.
Un percorso
dentro il quale il Novecento è anche il secolo
di Machiavelli: da Croce a Gramsci, da Gentile a
Gobetti, da Bottai a Prezzolini.
In una
congiuntura dialettica, qual è quella che stiamo
vivendo in questo nostro tempo desertificato,
la rilettura e l’interpretazione, oltre
qualsiasi scuola di pensiero e oltre la visione
scolastica antologica tout court, “Il Principe”
potrebbe costituire un punto centrale per
ricondurre il pensiero su strade di spessore sia
umano sia filosofico sia politico.
A 500 anni
dalla sua proposta non si può non ammettere che
sarebbe necessario offrirlo alle nuove
generazioni come elemento vitale di discussione.
C’è la separazione dell’etica dalla morale, la
separazione dal pensiero universale al pensare,
dalla filosofia alla storiografia.
In una visione
prettamente politica Machiavelli sconfigge gli
eretici per diventare egli stesso eretico. Ma su
questo argomentare ci ritornerò con un
approfondimento attinente.
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pubblicato il 12 Settembre 2012
Nel Pascoli omerico i discendenti di Ulisse
tracciano la tradizione e la modernità.
Il saggio “Nel mare di Calipso. La dissolvenza
omerica e l’alchimia mediterranea in Giovanni
Pascoli”.
di
Cosimo Dellisanti
Tre
sono i personaggi mitologici che preferisco, sin
dalla mia infanzia: Taras, figlio di Poseidone e
della ninfa Satyria, mitico fondatore di Taranto;
Eracle, celeberrimo semidio figlio di Zeus e
Alcmena, eroe mitologico per eccellenza, e, ultimo
ma non ultimo, Odisseo, Ulisse, figlio di Laerte e
Anticlea, marito di Penelope, padre di Telemaco e re
di Itaca.
Ciò che più risalta di Ulisse, rispetto agli altri
due che ho citato, ma anche rispetto a tantissimi
altri eroi mitologici, è proprio la sua estrema
umanità: Ulisse non è figlio di alcun dio (vanta
appena una lontana ascendenza con Hermes, suo
bisnonno), quindi non dispone di particolare potenza
come Eracle; la sua Itaca, un isolotto popolato da
pastori, non è certo la Micene di Agamennone o la
Sparta di Menelao e non è particolarmente amato
dalle divinità stesse, come può esserlo Achille,
figlio di Teti, che vanta una panoplia forgiata da
Efesto. Al contrario, Ulisse è inviso a molti, sia
ad uomini che a divinità: il nome Odisseo, non a
caso, significa per l’appunto “colui che è odiato”.
Sua unica protettrice è proprio Atena, che lo adora
per la grande astuzia, che lo distingue in mezzo a
tutti gli altri.
Abbiamo detto che Ulisse non vanta nessun aspetto
divino o particolarmente regale: eppure e lui a
mettere fine alla decennale guerra contro Troia, con
lo stratagemma del cavallo. Non è la forza e l’ira
primordiale di Achille, che muore sotto le mura
della città, colpito ad un tallone da Paride, né è
la potenza di Agamennone ad aprire le porte del
superbo Iliòn. No, è l’idea di un umanissimo re
marinaio, che è al comando di un esercito
proveniente da un’isola ionica popolata da pastori.
Un re che ha in mente solo il suo ritorno a casa:
non è mosso dal desiderio di gloria eterna, come il
Pelide, né dalla sete di ricchezze che Troia
custodisce, come l’Atride. Ulisse desidera solo
tornare a casa da sua moglie e suo figlio, che non
ha visto crescere. E, poveretto, non può immaginare
ciò che il Fato ha in serbo per lui.
Ulisse non è certo l’unico eroe che deve affrontare
il nostos, il ritorno in Ellade. Tutti i
generali Achei sopravvissuti alle battaglie, poiché
meritevoli di punizione per alcuni atti empi, devono
affrontare parecchie peripezie “di purificazione”,
così da espiare le colpe. Il nostos di
Ulisse, senza dubbio, è quello più impervio e più
interessante: dopotutto Omero (o chi per lui, se non
credete nella teoria unitaria) gli dedica un poema
di ventiquattro libri, pari all’Iliade, ovvero il
poema portante del ciclo troiano. Probabilmente
anche gli aedi e i rapsodi finirono con l’essere
affascinati dal personaggio, in tutto e per tutto
speculare al protagonista dell’Iliade Achille: se
questi era l’eroe dell’Ira Funesta, quindi degli
istinti primordiali, Ulisse è l’eroe del Multiforme
Ingegno, ovvero delle abilità tecniche e mentali.
Personalmente, credo che fosse proprio per queste
peculiarità che, in epoca alessandrina, l’Odissea
fosse preferita all’Iliade. L’abilità tecnica di
Ulisse (che si costruisce una zattera per andare via
da Ogigia) sicuramente doveva piacere a molti greci
ellenistici. Quelli erano i secoli successivi alla
morte di Alessandro Magno, che aveva conquistato un
impero che andava alla Macedonia all’Egitto fino ai
confini dell’India (comprendeva, quindi, parecchie
terre mediterranee); erano i secoli in cui scienza e
tecnica cominciavano a fondersi in maniera più
efficace; erano i secoli del cosmopolitismo,
cioè dell’essere cittadino del mondo, viaggiatore,
proprio come Ulisse.
E, di conseguenza, l’Odissea fu anche il fulcro su
cui si sviluppò la letteratura latina: Roma,
eccezion fatta per qualche verso ad uso rituale,
fino al terzo secolo avanti Cristo non poteva certo
vantare una letteratura degna di tale nome. Fu
merito del tarantino Andronico, e ci tengo a
ricordare questo aspetto, se i romani furono in
grado di conoscere l’Odissea, tramite la
rielaborazione artistica battezzata Odùsia, e di
cominciare una produzione propria di grandi opere,
da cui deriverà quella italiana ed europea, e non
solo. Mi piace immaginare l’Odissea come la prima
tessera che cade su un’altra e scatena l’effetto
domino che perdura fino ai giorni nostri.
L’Odissea piace molto per il senso di avventura che
la permea, ma sarebbe ingiusto definire Ulisse
solamente un marinaio avventuriero, magari un po’
swashbuckler, ed esploratore dell’ignoto. Ulisse
è la metafora dell’intelletto umano che cerca
continuamente di superare il limite della conoscenza
presso cui è giunto. E’ l’uomo che, giunto ai
confini dell’Universo, si chiede “e dopo, cosa
c’è?”. Un elemento, questo, che dovette affascinare
non poco Dante: egli inserisce Ulisse nell’Inferno.
Non può inserirlo nel Limbo dei pagani virtuosi,
come fa con Enea, anzi, lo affossa in uno dei cerchi
più bassi, nella bolgia dei fraudolenti. E questo
perché Dante, uomo medievale, non può giustificare e
premiare la “follia”, ovvero la blasfemia, di colui
che sfida gli dèi.
Per Dante, Ulisse, incapace di rimanere fermo a
godersi la serena vecchiezza alla fine del viaggio
promessagli da Tiresia, decide di ripartire con i
suoi uomini fedelissimi alla scoperta del mondo,
alla volta delle infinite meraviglie che ancora non
era riuscito a vedere in gioventù. Ripercorre in
lungo e in largo il Mediterraneo, unico oceano fino
ad allora conosciuto, e, non sazio, decide di
superare le Colonne d’Ercole. E, a quel punto,
persino gli uomini che da sempre lo avevano seguito
senza opporsi mai, tentennano. E Dante, quindi, fa
pronunciare al suo Ulisse quelle frasi che, credo,
rimarranno celebri e vive finché l’uomo camminerà
sulla terra:
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.”
Ovvero: “Ricordate che siete uomini: non siete nati
per vivere come bestie, ma per inseguire per sempre
la conoscenza”. Come detto, Dante non ammette il
gesto di un uomo che supera il limite che Dio ha
imposto all’umanità, ovvero le Colonne d’Ercole, e
che raggiunge, da vivo, la montagna del Purgatorio.
Ulisse compie il “folle volo”, ovvero un viaggio
blasfemo, e viene punito per la sua ybris, la
sua arroganza: la stessa che, nell’Odissea, lo rende
nemico di Poseidone.Perché Ulisse, in fondo, è
sempre stato un po’ arrogante. Diciamo anche un
superuomo nel senso nicciano del termine: non forte
e potente, ma l’uomo che va sempre oltre. L’Oltreuomo,
appunto.
L’Ulisse romantico. Ulisse, come detto, non è
interessato a guadagnarsi la gloria eterna da
tramandare ai posteri o la ricchezza. Lui nemmeno ci
vuole andare in guerra! Certo, è merito suo se gli
Achei sono costretti a partire alla volta di Ilio
per recuperare Elena. E, anche questa volta, c’è di
mezzo un cavallo; si potrebbe dire che la guerra di
Troia cominci a causa di un cavallo e finisca per
mezzo di un altro cavallo. Era accaduto che, data la
bellezza di Elena, i maggiori re della Grecia erano
accorsi per chiederle la mano, ma ciò stava
provocando degli scontri. Ulisse, allora, propose di
compiere un giuramento: sacrificarono un cavallo e,
davanti alla carcassa, tutti i pretendenti giurarono
che, chiunque di loro fosse stato scelto come marito
di Elena, sarebbero accorsi per proteggerla.
Successivamente, Ulisse ne sposa la cugina,
Penelope, seconda ad Elena in bellezza ma pari al
marito in astuzia; con lei concepisce Telemaco e
vive tranquillo sull’isoletta popolata da pastori.
Ma Elena si innamora di Paride, scappa con lui a
Troia e scoppia la guerra: ora coloro che giurarono
sul cavallo devono tener fede alla promessa e andare
a salvare la moglie di Menelao.
Ma Ulisse non vuole partire: era stato lui a
promuovere l’iniziativa, ma non vuole partire. Ne
idea una delle sue: si fa vedere mentre ara una
spiaggia e vi semina il sale nei solchi. Pensandolo
pazzo, i messi di Agamennone lo avrebbero lasciato
perdere, e invece no: uno di loro (in alcune
versioni Diomede, che quasi lo eguaglia in furbizia
e col quale Dante lo affianca nell’Inferno) mette
davanti all’aratro il piccolo Telemaco e Ulisse si
vede costretto a fermarsi per non travolgere e
uccidere il figlioletto, dimostrando di essere
savio. Perché Ulissa sarà anche l’uomo dal
multiforme ingegno, ma nutre profondo amore per ogni
membro della sua famiglia. Un amore che sarà
fondamentale quando si troverà poi sull’isola di
Calipso.
Calipso era una dea; sorella della stessa Circe che
anche aveva amato e cercato di trattenere Ulisse su
Eea. Viveva su Ogigia, un piccolo paradiso terrestre
in prossimità delle Colonne d’Ercole, punto più
estremo raggiunto da Ulisse nell’Odissea. Calipso si
innamora di Ulisse e gli promette l’immortalità e
l’amore eterno. Ma Ulisse non può accettare e
diventa sempre più triste, nel ricordo della casa e
della famiglia che ha lasciato, tanto che Atena,
commossa, manda Hermes a costringere Calipso la
Nasconditrice (il nome greco Calipso significa
proprio “colei che nasconde”) a lasciare andare
l’eroe. Ulisse, così, si costruisce da solo una
zattera e riparte.
C’è un quadro di Arnold Böcklin, datato 1883 e
intitolato, per l’appunto, Ulisse e Calipso,
(in copertina al saggio di Marilena Cavallo e
Pierfranco Bruni) dove la scena è divisa in due: a
destra dello spettatore c’è la dea, illuminata,
lussuriosa e solare, che scosta le vesti quasi ad
invitare ed allettare l’avventuriero con le sue
grazie. A sinistra, immerso nell’oscurità più triste
e buia, ammantato di una cappa nera, c’è Ulisse, che
guarda l’orizzonte, dando le spalle allo spettatore,
e manda il suo pensiero alla sua Penelope e a
Telemaco, del tutto indifferente agli inviti della
dea. Ecco, questo è Ulisse. E mi piace leggere in
lui una certa attualità: penso ai tanti ragazzi del
Sud Italia che, ogni anno, partono verso il Nord,
alla ricerca di conoscenza e fortuna. L’unica
differenza tra Ulisse e i ragazzi è che questi,
purtroppo, preferiscono rimanere con le varie
Calipso, Circe e Sirene piuttosto che tornare ad
Itaca, sul Mediterraneo…
Infine c’è l’Ulisse mai visto. E’ l’Ulisse che
troviamo in Pascoli; l’Ulisse stanco, malinconico e
confuso. E’ l’Ulisse dell’Ultimo viaggio (nei
Poemi Conviviali). Ma Pascoli, di cui quest’anno
ricorre il centenario dalla morte, non racconta di
un viaggio all’insegna della sete di conoscenza,
come in Dante: l’ultimo viaggio dell’Ulisse
pascoliano ha come fulcro la ricerca di se stesso,
perché l’eroe di Itaca, dopo nove anni dal suo
ritorno in patria, non sa più chi sia. Non ricorda
più se quelle avventure che si narrano su di lui
siano realtà o sogni. E si rimette in viaggio con i
suoi fedelissimi, ripercorrendo a ritroso l’Odissea,
ritornando su ogni tappa: ma Circe non esiste;
Polifemo è un semplice pastore e le Sirene non sono
che scogli. Scogli cui lui urla, implora per
ricevere le risposte, con l’unico risultato di
finirvi contro e di naufragare. E, morto, giungerà
di nuovo su Ogigia, dove c’è Calipso: essa lo
avvolge nel suo abbraccio e Ulisse si dissolve. Si
dissolve nel mare di Calipso, nel Mediterraneo.
Perché Ulisse è Mediterraneo.
Potrei forse banalizzare, ma c’è un esempio che
ritengo sia sintomatico di questa idea di
dissolvenza del personaggio nel Mediterraneo. Nel
Sud Italia (e immagino che si usi anche altrove,
dato anche il forte fenomeno dell’emigrazione) si
dice molto spesso che “qualcuno faccia lo scemo per
non andare in guerra”. Ho già raccontato
dell’episodio della finta follia di Ulisse, ma
risulta quasi incredibile che questa attualizzazione
di una storia di derivazione epica appartenga
soprattutto alla cultura contadina del Mediterraneo.
Questo perché Ulisse è dentro noi: appartiene al
nostro pensiero sin dal momento della nascita. I
nostri avi, secoli e secoli or sono, hanno radicato
la storia di Ulisse nella testa e, di generazione in
generazione, questa è stata tramandata come una
sorta di ereditarietà genetica. Noi, che viviamo
sulle sponde del Mediterraneo, discendiamo tutti da
Ulisse.
A questo proposito, rimando alla lettura del volume
“Nel mare di Calipso. La dissolvenza omerica e
l’alchimia mediterranea in Giovanni Pascoli”, di
Marilena Cavallo e Piefranco Bruni , edito dalla
Luigi Pellegrini Editore e pubblicato nel 2012. Il
libro nasce in seno ad un progetto riguardante,
appunto, le celebrazioni del centenario del poeta
Pascoli.
In questo libro si potrà assaporare per davvero il
senso di dissolvenza del personaggio nel Mare
Nostrum, di cui ho solamente accennato sopra, e,
insieme, apprezzare le suggestioni orientalistiche
che fanno parte del bagaglio di temi caro alla
produzione di Pierfranco Bruni, che, come in altri
libri, riesce a rendere la prosa (che in un saggio
ci si aspetta essere quanto più asettica e prolissa
possibile) una vera e propria poesia, tanto che è
difficile distinguere i passi poetici riportati dal
testo esplicativo.
E se il lettore me lo concederà, consiglio di
leggere il testo ascoltando Battiato.
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pubblicato il 29 Marzo 2012
CONCLUSO
CON SUCCESSO IL FESTIVAL DEL DIALETTO
E LINGUE MINORITARIE DI CALABRIA -
2012
Si è conclusa con un meeting nazionale dal titolo
“I Dialetti e le lingue minoritarie di Calabria, tra
senso di appartenenza e territorio", la seconda
edizione del Festival del Dialetto. Un’intera
giornata dedicata all’analisi dello stato attuale
dei Dialetti e delle Lingue minoritarie regionali
ospitata nella Sala Convegni di San Girolamo e
seguita da un interessato pubblico, proveniente da
tutta la regione, nonché da una rappresentanza di
studenti delle scuole della città del Pollino.
L’evento, che s’inserisce meritatamente tra le
kermesse culturali più accreditate per la promozione
e la tutela del patrimonio linguistico regionale, è
stato promosso dal Centro d’Arte e Cultura 26,
diretto dall’antropologa Maria Zanoni, con il
patrocinio del Ministero Beni e Attività Culturali –
Soprintendenza BSAE Calabria, della Regione Calabria
- Dipartimento 11 - FUC 2011 Linea 3 - della
Provincia di Cosenza e dell’Ente Parco Nazionale del
Pollino.
Dopo i saluti istituzionali portati dal referente
del Ministero Beni e Attività Culturali –
Soprintendenza BSAE Calabria, dott. Silvio Rubens
Vivone, dal presidente dell’Ente Parco Nazionale del
Pollino, on. Mimmo Pappaterra e dal Provveditore
agli Studi dott. Luigi Troccoli, ha introdotto i
lavori la Prof.ssa Maria Zanoni, presidente del
Centro “26” al suo 35° anno di attività di
promozione culturale.
La Zanoni ha parlato degli obiettivi del Festival:
un progetto linguistico-culturale che ha come
protagonisti molti giovani e meno giovani che amano
il Dialetto, come bene culturale da tutelare che
s’inserisce in un percorso identitario e di civiltà,
che non prevarica la lingua nazionale ma la
rafforza, favorendo la conoscenza, la promozione e
la conservazione di un prezioso patrimonio in via di
estinzione.
A seguire l’intervento del Prof. Egidio Chiarella,
dell’Ufficio Legislativo del Ministero Pubblica
Istruzione, che ha portato all’attenzione del
pubblico, con toni
raffinati, un’attenta disamina sugli
interventi del MiUR in materia di
difesa delle lingue
locali, come beni culturali, al pari degli altri
innumerevoli beni, che fanno parte dell’importante
patrimonio culturale calabrese.
La Prof.ssa Donatella Laudadio Marzano, già
Assessore provinciale alle Minoranze
etnolinguistiche, ha appassionato la platea con il
suo intervento
sull’importante lavoro di ricerca del Centro
Culturale “26” rivolto, in questi ultimi decenni,
allo studio antropologico-linguistico, alla lingua
madre, asse portante della memoria storica.
La scrupolosa
relazione sulla donna e l’amicizia nella tradizione
dei proverbi calabresi del Prof. Biagio Giuseppe
Faillace, studioso del Dialetto dell’area del
Pollino, e quella del prof. Orlando Sculli di
Brancaleone, studioso dell’area grecanica, hanno
completato la prima parte dei lavori del Convegno.
Nel pomeriggio l’incontro di studio è ripreso con la
proiezione di un video clip sulle antiche tradizioni
contadine e con la presentazione del volume “Terra e
Casa”, Vocabolario etnofotografico in dialetto
calabro, in arbereshe, in grecanico e occitano, a
cura della dott.ssa Claudia Rende, responsabile
della Comunicazione di www.arte26.it promoter
territoriale accreditato dal MiBAC. La giovane, con
competenze in Statistica ed Informatica per
l’azienda, ha comparato i dati statistici regionali
e nazionali sull’atteggiamento della generazione
giovanile nei confronti del dialetto, contrassegnato
da tendenze innovative e conservative al contempo.
Sono seguite le relazioni specialistiche del prof.
Hans Kunert, ricercatore di Occitano all’Unical, del
Prof. Pierfranco Bruni, coordinatore del progetto
Lingue del MiBAC, e del Prof. Giovanni Agresti
presidente del Festival delle Letterature
minoritarie d’Europa e del Mediterraneo, che,
proveniente da Parigi, ha portato il suo autorevole
contributo all’incontro.
A conclusione dei lavori si è tenuta la cerimonia di
consegna dei premi ai vincitori del Concorso
letterario in dialetto di Calabria, provenienti non
solo da tutta la regione, ma anche da varie città
d’Italia dove risiedono i nostri emigrati che,
tuttavia, nutrono un forte legame con la loro terra
d’origine. Hanno ricevuto l’importante
riconoscimento gli affermati scrittori dialettali:
Filippo Scalzi di Isola Capo Rizzuto, Sebastiano
Defonte di Crotone, Rocco Criseo di Melito Porto
Salvo, Francesco De Rose di Cosenza, Paolo Lacava di
Reggio Calabria, ma residente ad Ancona, ed Antonio
Natale di Castrovillari che hanno incantato il
pubblico con la declamazione delle loro poesie, con
sottofondo musicale degli Astiokena, gruppo
vincitore del Concorso nazionale "Kaulonia
Tarantella Future" 2011.
Il dott. Silvio Rubens Vivone, che ha coordinato la
convention, ha chiuso i lavori con un plauso ad
Arte26 per la rete di comunicazione che ha raggiunto
con oltre 100 siti Internet i 5 continenti: un
contributo alla valorizzazione della cultura
calabrese nel mondo.
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pubblicato il 12 Giugno 2012
SUL VOCABOLARIO
ETNOFOTOGRAFICO "TERRA E CASA"
di
Michele De Luca*
Raffaele Corso
suggeriva, circa un secolo fa, di registrare i
reperti etnografici con schede dettagliate, disegni
e fotografie. Ed è, forse, questo il merito maggiore
di "Terra e casa", di Claudia Rende e Maria
Zanoni, soprattutto nella parte relativa al
vocabolario etnografico.
Bisogna precisare che non è affatto facile reperire
materiale fotografico di manufatti, edifici e
soprattutto persone immortalate in ingiallite foto
d'epoca. Ancor più trascrivere le voci dialettali
con i corrispondenti lemmi italiani!
Lo sa bene chi si appresta a redigere un qualsiasi
vocabolario, come ci ricorda il linguista Bruno
Migliorini: «quelli che non vi hanno lavorato non
hanno un'idea della quantità straordinaria di lavoro
che si nasconde in un vocabolario».
Ancor più pressante è l'impegno per i vocabolari
areali, in cui i lemmi siano affiancati da apposite
fotografie. Ciò comporta una capillare indagine sul
territorio, spostamenti continui, percorsi
accidentati e una buona dose di ottimismo!
Augurio rivolto alle due autrici: jàti aundi vi
pòrtanu 'i pedi, nommu perditi 'i caminati!
'andate dove vi portano i piedi, per non perdere i
passi già fatti!' e vale:
seguite sempre la via intrapresa per conseguire
l'obiettivo prefisso!
*Prof. Michele De Luca - Studioso
della cultura popolare e dei dialetti calabri,
Autore di "BREVE STORIA DEI DIZIONARI CALABRESI DAL
PRESUNTO MASSARA A ROHLFS".
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pubblicato il 13 giugno 2010
Un
Barocco aperto alle innovazioni. Tra tradizione e
rivoluzione linguistica -
Giuseppe Battista
di Pierfranco
Bruni
La poesia
barocca è una dimensione della cultura del Seicento
che ha caratterizzato modelli non solo letterari ma
anche artistici e filosofici. La cultura meridionale
ha trovato nel barocco una testimonianza di forte
espressività artistica. Nella poesia ci sono
elementi non solo lirici ma anche problematici e
filosofici.
Un rappresentante
della poesia barocca, in contesto in cui la visione
della cultura mediterranea esprimeva valori
profondamente etici, è stato certamente Giuseppe
Battista. Un poeta e uno scrittore che ha
attraversato i limiti del seicento dentro una
cultura certamente baracco ma in una civiltà il cui
stesso barocco ha sempre vissuto di condizionamenti
e di intrecci tra le culture dei vari paesi ma anche
eredità di diverse epoche.
Il Regno di
Napoli e la sua storia hanno segnato modelli
importanti che hanno contraddistinto le civiltà
successive. In Battista ci sono elementi
significativi di un passaggio epocale la cui
interpretazione è dentro i secoli successivi. Uno
sguardo caratterizzante e che ha caratterizzato quei
processi di confronto tra la parola e l’immagine o
meglio tra i linguaggi fatti di parole e i linguaggi
fatti di colore e forma.
In fondo il
Barocco è ancora oggi una espressione del “limite”
tra i codici dell’arte pura e i simboli della parola
ricamata grazie ad esperienze che non provengono
soltanto dalla letteratura e dall’arte ma
soprattutto dall’estetica che si àncora alla
filosofia.
Giuseppe
Battista è stato letto con particolare attenzione e
proposto all'attenzione del grande pubblico da
Benedetto Croce. Croce individuò in Giuseppe
Battista un "caposcuola" di quella poesia barocca
che al valore della religiosità aveva offerto una
profonda esperienza etica? Ma Croce misurò i suoi
giudizi sul rapporto delle valenze storiche ed
estetiche ed usò, in alcune occasioni, il metro
della comparazione ideologica proprio in riferimento
al Battista.
In fondo
Battista fu un poeta che rappresentò non solo la
poesia ma una particolare visione della cultura del
Sud. Mario Sechi in un saggio di qualche decennio fa
parlò di Battista collocandolo in un contesto di
"ideologia letteraria".
Battista non
è un poeta (e un intellettuale con tutte le sue
specificazioni) "provinciale". Va oltre. Partecipa
attivamente ai processi culturali che si innescano
in quel Seicento napoletano. In fondo,
culturalmente, pur essendo nato in Puglia, resta per
formazione un "napoletano". Se si vuole, forse,
anche distante da Giovan Battista Marino.
Una
sottolineatura di Sechi, in questa atmosfera, la
dice lunga: "Ad un'esemplare distanza dal Marino si
colloca l''estremismo' di Giuseppe Battista, poeta
meridionale di pieno Seicento, che opera all'interno
della Weltanschaung barocca e con i soli
strumenti culturali da essa offerti, un radicale
rovesciamento dei suoi fondamenti ideologici".
Non soltanto - per
restare sul piano delle constatazioni più agevoli -
la vena sensuale - descrittiva (così importante per
i marinisti delle prime generazioni) si inaridisce
nei suoi versi a tutto vantaggio di una rigorosa
tensione morale, capace di subordinare a sé la
tradizionale varietà dei temi e dei materiali
poetabili; ma la stessa poetica della meraviglia
svincolata dalle sue originarie destinazioni
politiche - culturali (la battaglia per la
leardership europea, la rivendicazione di un agibile
spazio storico per il moderno intellettuale), e di
conseguenza privata del suo implicito valore di
rottura (l'antiregolismo, la mercificazione della
letteratura e il risolutivo appello al pubblico),
finisce per adeguarsi ad un tessuto ideologico
estraneo, di altra origine e di altro segno, e per
omogeneizzarne la singole componenti in un
prevalente impegno di analisi sulle condizioni della
'poesia' contemporanea" (Mario Sechi, in "La
Rassegna della letteratura italiana", N. 1-2,
gennaio - Agosto 1971).
I temi
trattati hanno, tuttora, una forte incisione sul
piano dell'attualità del dibattito. Anche allora, in
quel Seicento napoletano e meridionale, Battista
diventava una figura preminente. Non ci fu,
comunque, soltanto il poeta a determinare il suo
ruolo. Ma la sua presenza è imponente sul piano di
una dialettica intellettuale che campeggiava in
quella temperie.
La comparazione
necessaria è un gioco di specchi tra la poesia
barocca italiana e quella spagnola e francese.
Perché proprio in questa triangolarità, tutta
europea, che il Barocco trova la sua maggiore
elevazione anche se la Spagna riveste una centralità
fondante.
Ma chi era
Giuseppe Battista? Giuseppe Battista, il poeta
"secentista" - barocco - grottagliese - napoletano
- avellinese (di una Puglia barocca e forse anche
decadente ma profondamente radicata in un profilo
religioso che diventava una proposta progettuale sul
piano etico e formativo e di una Napoli fedele agli
"Oziosi"), nato nel 1610 (a Grottaglie, in provincia
di Taranto, in pieno contesto ceramico - terrigno
mediterraneo) era, in realtà, un caposcuola in quel
Seicento che si apriva ad un rinnovamento delle
arti.
Il poeta
Giuseppe Battista fu un caposcuola. Anzi, un "capo"
A sottoscrivere questa cesellatura fu Benedetto
Croce, come si è già detto, (campano come si
considerava, in fondo, campano anche il Battista)
ponendolo all'attenzione di una comparazione critica
non indifferente. Accanto a questa comparazione il
profilo di una tensione letteraria - esistenziale
diventa ricerca e invito anche morale.
Fu lo stesso
Benedetto Croce a porre sulla scena una poetessa
della vicina Lucania: Isabella Morra, che visse in
anni precedenti ma il cui contesto poetico è
completamente diverso rispetto al Battista anche se
parlando di Mediterraneità poetica "moderna" i due
profili andrebbero certamente riletti e riproposti
sul piano culturale.
Ebbene,
Giuseppe Battista è certamente un poeta che si
inserisce nel quadro storico del Seicento ma le sue
proiezioni in termini lirici si sono ascoltati,
soprattutto in una eredità religiosa, sino al secolo
Decimonono. (Significativi sono, tra i vari scritti
sul Battista pubblicati in Puglia, le riflessioni di
P. Marti del 1903 e di M. Rigillo del 1914 su
"Rassegna Pugliese" il primo e "Apulia" il secondo,
oltre al saggio di Girolamo Mariella del 1995, dove
è possibile recuperare altri riscontri
bibliografici, nel quale è tracciato un profilo
storico - biografico).
Croce lo
indica proprio come un caposcuola. Si pensi
certamente a quelle poesie dedicate al Santo
Francesco di Paola ma oltre le sottolineature
poetiche i suoi scritti in prosa sono un tracciato
tangibile di un processo che non è solo un dettato
letterario ma anche politico. Battista conosceva
bene, proprio per la sua formazione, l'ironia nel
linguaggio politico.
Croce ci
offre, tra i suoi scritti su Battista, questa
significativa cesellatura: "Non solo il Marino fu
caposcuola di poesia in quel secolo, ma altri che
parvero già rispondenti al crescente bisogno di 'novità',
come, in quella sorta di 'secentismo del secentismo'
che fiorì nella seconda metà del secolo, Giuseppe
Battista e Giuseppe Artale, l'uno capo, l'altro
sottocaposcuola". Un'indicazione abbastanza precisa
e anche rigorosa dal punto di vista della critica
letteraria.
Ma ci sono altri
metri di misura del Croce che sottolineano una
contraddizione di fondo che pone lo stesso Barocco
come “movimento” in esercitazione costante e in una
ambiguità artistica.
Nella sua “Storia
dell’età barocca in Italia”, edizione del 1929, si
legge: “…il barocco è una sorta di brutto artistico,
e, come tale non è niente di artistico, ma anzi, al
contrario, qualcosa di diverso dell’arte…”.
Sottolineatura che riporteremo anche in seguito per
una più definitiva contestualizzazione. Ma è
necessaria tale sottolineatura anche perché in Croce
il barocco, per restare al testo già citato, viene
ad essere considerato come “un peccato estetico”,
anzi “un peccato umano; e universale e perpetuo”.
E proprio in
virtù di un rapporto tra letteratura e
manifestazioni di impegno etico Giuseppe Battista si
"diverte" a giocare sul termine di menzogna. La
menzogna come espressione anche di natura politica
oltre a diventare uno strumento di mascheramento
esistenziale. Tanto che elogiò la menzogna. Ma la
menzogna come modello di interpretazione delle
civiltà.
Il concetto
di Mediterraneo trova in Battista un interprete
moderno. Senza correre a metafore Battista sostiene:
"Le nazioni più da noi rimote furono bugiarde. Degli
egiziani disse Alessandro Napoletano: 'presso gli
egiziani non c'è limite al mentire, e totale è
l'impunità quando si mente'. I greci, continua
sempre Battista, perché mancano di fede, mancano di
verità; perché la perfidia s'appoggia su la bugia. I
candiotti furono celebri per le menzogne, tanto che
erano in bocca di tutti: 'Cretenses mendaces'".
Battista, il
canonico, un poeta che faceva parte dell'Accademia
napoletana degli Oziosi. (Muore proprio a Napoli il
1675). Rivestiva una carica importante, ovvero era
censore della lingua volgare e latina. Ma amava i
paradossi. E non disdegnava le utopie. Forse anche
per questo oggi una sua rilettura è necessaria
partendo da alcuni scritti meno conosciuti o
addirittura non conosciuti. Si ricorda una polemica
esplosa tre anni prima della sua morte in
riferimento alla sua poesia. Trovò delle
"opposizioni" sulla sua poesia proprio nella sua
terra natìa.
E.N. Girardi
nel Dizionario della Treccani così la
racconta: "il poeta grottagliese D. Giovanni
Cicinelli aveva composto una Censura del parlar
moderno, Napoli 1672, contro i traslati e lo
stile turgido degli scrittori contemporanei e
specialmente del Battista. Questi, credendo che la
censura fosse opera di Federico Meninni, scrisse, o,
come vuole il Pedio, fece scrivere da un amico,
contro il gravinese, gli Affetti caritativi di
N.N. (Padova s.d.), suscitando prima una
Risposta del Sig. F. Meninni agli Affetti caritativi
del petulante ludimagistro G. Battista (stampata
falsamente in Padova s.d.) e poi, anonimi, ma dello
stesso Mennini, i Furti svelati nelle
poesie meliche e negli epigrammi di G.B. (s.n.t.).
Contro il Meninni si mossero gli amici del B.,
capeggiati dal principe Caracciolo; ma il poeta,
seguace anche in questo del Marino che aveva
interceduto in favore del Murtola, li pregò di
perdonare l'avversario".
Lo si
ricorda come poeta. Ma fu non solo poeta. Anzi fu
il sostenitore di Ovidio, di quell'Ovidio che
cantava: "…bugiarda, Creta che sostiene cento
città". Ma la storia dei greci, che mancano di
verità perché sono privi di fede è una bella e
pungente risposta al tempo moderno.
Ovvero, ed è qui
che gli intrecci si complicano, "Non è bugiarda
l'aria se, tornando da man sinistra, promette
felicità a' latini; infelicità a' greci? Quando poi
tuona da man destra, prosperi avvenimenti a' greci;
calamità a' latini?". E così via di seguito. C'è, in
realtà, in Battista un progetto che non è soltanto
di natura letteraria. La sua tensione etica va oltre
una questione puramente ontologica perché pur
studiando e analizzando alcuni importanti percorsi
classici si inserisce nella temperie politica del
suo tempo.
Da questo punto di
vista la sua posizione ha una cruciale attualità.
Quando afferma, sempre nel suo scritto sulla
menzogna, che "Vedete bugia solenne! Vantavano
d'aver il sepolcro di Giove, e pur adoravano Giove
come dio immortale. Gli africani, gente come di due
facce, così di due lingue". E poi aggiunge ancora:
"Ciarloni gli alessandrini. E chi non sa troppo
mentisce, chi troppo favella?". Ironia della sorte.
Ebbene, il
Seicento barocco, pugliese e napoletano, di Battista
pur partendo da elementi che sono profondamente
metafisici e lirici (non dovremmo dimenticare la sua
poesia melica) resta un Secolo di
attraversamento ma anche di deposizioni culturali
profondi. Lo stesso Mario Sansone traccia una linea
in questa direzione. Si serve di strumenti letterari
"colti" che hanno derivazioni ellenica. Si pensi
addirittura ai versi di "Democrito ed Eraclito".
Ovvero: "Democrito, tu ridi e col tuo riso/tutte le
umane cose a scherno prendi/e, sia del Fato o mesto
o lieto il viso, con lieto viso ogni accidente
attenti".
Poesia
morale nel recupero della classicità? Il tema
dominante è sì il recupero di una identità classica
sia nello spirito poetico che nel modello
linguistico ma questa identità è anche una lettura i
cui tracciati sono greci e romani. Battista, in
fondo, anche in tali contesti non è solo un poeta.
E' anche un poeta che intreccia storie e personaggi.
Ridefinisce i personaggi attraverso una coloritura
linguistica emblematica. Tra l'altro è uno studioso
di miti e di poesia. In una lettera a Marcantonio
Grifoni scrive: "La Poesia è un furore, che viene
spontaneamente. Bisogna aspettarlo".
Battista
politico? Ma le metafore sono anche dei paradossi
che non disdegnano appunto le utopie. "Se la verità…
è madre dell'odio… genitrice dell'affetto sarà la
menzogna". Le corti. Il potere. "Se vi dà l'animo
di porr nella soglia delle corti il piede, non
ferirà altro suono le vostre orecchie che di
cacalecci bugiardi. O si fanno encomi al vizio, o
invettive alla virtù. Le adulazioni grondano mèle, o
vomitano veleno le accuse". Ecco il Battista,
dunque, de L'apologia della monzogna.
Il Battista,
poeta, è anche in queste sottilissime venature
ironiche di natura etica. Non si smentisce. Ma oltre
questo affiora, come sottolineato da Sechi, un
"ideale stilistico" il cui rapporto fondamentale con
la vita è giocato sui riferimenti estetici e su
quelli morali che sono verifiche etiche.
Il poeta che
"regola" e comprende i processi culturali di
un'epoca che si intaglia in una civiltà non solo
letteraria e artistica ma anche politica ricca di
significati qual è stata la cultura espressa nel
Regno di Napoli. Una cultura complessa e articolata
che ha sempre trovato nel concetto di Mediterraneo
una visione lungimirante di confronto e di incontro.
Pietro Marti
nel 1903 così ne parlava: "Un solo poeta salentino
ebbe, a mio giudizio, la forza di affermare la
propria dignità d'uomo e di artista, e di obbedire
alle vergini ispirazioni del cuore: Giuseppe
Battista". E poi: "Nell'animo del Battista due
sentimenti dominarono sovrani: l'amore di libertà e
la coscienza dell'io, che gli veniva in parte dalla
natura, in parte dallo studio profondo dei Greci"
(in "Rassegna Pugliese", numero 6-7, Luglio 1903).
Il richiamo
alla grecità che significa fondamentalmente
dimensione mediterranea in Battista si coniuga, in
fondo, con una profonda classicità dalla quale
deriva anche il sentimento dell'esistere. Questo
respiro mediterraneo lo si avverte persino nelle
lettere. Si portava dietro la malinconia di una
cultura i cui radicamenti erano profondamente legati
ad un identità greco - romana.
In una
lettera indirizzata a Settimio Foglia si legge: "…I
Filosofanti sono emuli di Platone, d'Aristotele. I
Poeti d'Omero, di Virgilio. Gli Storici d'Erodoto,
di Livio. I Capitani d'Alessandro, di Cesare…".
In una
lettera a Giavambattista Manso annota: "Dimoro in
Sorrento, che vuold dire nella città delle Sirene.
Quindi è che favolosa mi pare l'opinion di coloro
che la vogliono edificata da Ulisse, il quale
fuggiva le Sirene. Aveva io letto l'amenità di
questa regione, ma la credeva colorita da pennelli
poetici. Ora che ci sono presente, appena la veggo
abbozzata, tanto mi sembra di gran lunga maggiore.
E' tutta un giardino, dalle mani di Pomona piantato
per delizie della vita umana. Teti non ha recesso,
dove goda quiete più tranquilla".
In un'altra
lettera indirizzata sempre a Giovambattista Manso si
legge: "Così va agli umili sassi d'Itaca Ulisse,
come Agamennone alle superbe mura di Micene. Niuno
ama la patria perché è grande, ma perché è sua". Il
tema omerico è significativo. Questo sentimento
della Patria (Itaca non è soltanto un simbolo) è
fortemente sentito. Muore lontano dalla propria
patria. Muore lontano da quel paese che, secondo il
poeta, aveva dato i natali ad Ennio.
Alla sua
morte l'accademico Trasformato Donato Antonio
Gravillo con grande dolore disse: "Ios. Baptista
gutta moritur:/Heu guttis Baptista perit, qui
fulserat alter/Sol; Phoebus guttas quo cadat inter
habet". Una sua poesia dal titolo: "Conforta se
stesso a non temer la morte" si ascolta: "Un viaggio
è la vita, ed è sudato,/tutti siam peregrini, ed è
felice/chi dell'ospizio pria giugne alle porte".
Il
sentimento del “peregrino” è uno dei temi
affascinanti che apre una interpretazione
completamente estetica che riguarda certamente gran
parte delle sue lezioni ma incide in molti tracciati
poetici e nelle pagine non trascurabili in cui la
menzogna entra nel contesto barocco come fenomeno
apologetico o forse come modello di un “elogio” o
meglio ancora un elogio alla utopia (o forse follia)
della maschera.
Una
contemplazione che annienta il presente e sottolinea
la dimensione dell'attesa. Da religioso Battista non
ha temuto la morte. Con la morte ha sempre stabilito
un dialogo. Un passaggio che soltanto la fede può
colmare: Ancora nella poesia testè citata si legge
si legge negli ultimi tre versi: "Se il sonno altro
non è, com'altri dice,/che immagine di morte, ed è
sì grato,/più grata del morir sarà la morte".
Battista resta
poeta fino in fondo come nella lezione che spesso
sottolinea nei suoi saggi Maria Zambrano: “Perso
nella luce, errante nella bellezza, povero per
eccesso, folle per troppa ragione, peccatore in
stato di grazia”.
Credo che questa
della Zambrano sia una motivazione con la quale
poter rileggere l’opera di Giuseppe Battista, perché
soltanto in questi termini è possibile un approccio
dentro la contemporaneità.
La sua
inquietudine barocca non resta focalizzata, come già
si avvertiva, ad un barocchismo ma penetra quei
sottosuoli dostoewskjani che toccano le ombre, le
luci e gli orizzonti della propria anima. Una
religiosità rivelata, comunque, nel tempo mitico
vichiano.
È questa
l’importanza ma potrebbe anche essere una novità
interpretativa, partendo, certamente, dalle poesie
per attraversare il suo incontro con la figura di
San Francesco di Paola.
Un Battista che è
riuscito a focalizzare un rapporto interessante che
è quello tra la poesia melica vera e propria e il
concetto di assurdo che è molto presente sia nella
poesia spagnola che in quella inglese. In una
analisi appropriata la comparazione tra il poetico
barocco di che attraversa la temperie italiana e
quello che si è sviluppato in modo particolare in
Spagna diventa fondamentale. Sia in poesia che nelle
altre esperienze ed espressioni artistiche.
Ma con Giuseppe
Battista va superato il concetto crociano di un
Barocco “sorte di brutto artistico” o di “peccato
estetico” e va riletto, in una chiava di
neoavanguardia, oltre i metodi scolastici
antologizzati e meramente didattici e didascalici,
grazie ad una comparazione e ad una comprensione di
un Barocco come teoria dello sguardo ed estetica
dello specchio, ricontestualizzando il dialogo tra
la cultura italiana del Seicento e la funzione
letterario - artistica ispano – americana e francese
Battista resta
certamente un poeta barocco all’interno di una
temperie che ha “recitato” la sua trasparente
inquietudine sulle traiettorie di un vissuto
interiorizzato dentro gli schemi della parola e
dell’immagine.
Un barocco senza
barocchismi perché aveva nel di dentro, quella sua
poesia, la capacità di penetrare processi culturali
articolati che hanno toccato il mistero e la
religiosità stessa di un mistero che ha bisogno
della grazia per diventare espressione fondante qual
è stata la scuola di pensiero dalla quale proveniva
il poeta grottagliese. Un percorso tra estetica
dello sguardo ed estetica delle forme.
Giuseppe Battista
e il suo pensiero di una estetica della
rappresentazione dell’apparenza come modello di
cerniera tra la cultura europeo – mediterranea e
l’elaborazione epistemologica sviluppata nel Regno
di Napoli. Un tema, questo, che si apre a ventaglio
su un poeta dentro l’eredità barocca e “infuturato”
nei processi mediterranei. Proprio per questo
penetrare il tessuto della triangolarità tra
finzione, bellezza e apparenza nel gioco
indefinibile ella rappresentatività il tema della
maschera diventa una chiave di lettura che
interpreta la dimensione onirica della bellezza.
Un Giuseppe
Battista moderno nella contemporaneità e attuale
nella quotidianità dei processi culturale e
dell’essere e del tempo. In virtù di ciò in Battista
è possibile rintracciare un Barocco che va oltre la
concezione di Benedetto Croce che considerò il
Barocco stesso, in alcuni suoi scritti pubblicati,
in una forma articolata ma in un corpus unico, come
“una sorte di brutto artistico, e, come tale non è
niente di artistico, ma anzi, al contrario, qualcosa
di diverso dell’arte…”.
Battista grazie
alla maschera come concetto definitivo dell’assurdo
nella vita recupera il Barocco dell’estetica
dell’apparenta e la filtra attraverso
all’immaginario creativo che acquisisce una eredità
illusoria in quel campo estetico che è fatto della
civiltà della rivelazione della parola. Battista
visse nell’attraversamento del Rinascimento e della
Controriforma in un contesto in cui l’arte assumeva
i contorni di una profonda sensualità sia fisica che
onirica.
La sua lezione
dedicata alla “Apologia della menzogna”, lezione che
proviene dalla Giornate Accademiche,, si inserisce
chiaramente in un quadro in cui la tradizione
diventa fondante ma anche in una dimensione di
avvertimento di forme sperimentali e innovative.
D’altronde tutto il Barocco, dalla Francia alla
Spagna, dall’Italia all’Inghilterra sino ai poeti
barocchi del Sud America, non si è specchiato nelle
forme di un residuo rinascimentale o di una eredità
prettamente classica e greco – latina, ma ha dato in
indirizzo profondo di sensualità. Si pensi ad
Ignazio di Lajola.
Una dimensione
cosmica dove l’accostamento con il cristianesimo
diventa una passione di spirito intrecciato sulla
sensualità di una fede sia carnale che spirituale.
Battista, da laico e da religioso, si è
costantemente confrontato con un tessuto filosofico
che è quello dell’estetica dell’esistenza, ovvero la
ricerca della bellezza, di quella Bellezza – Tempo
di natura plotiniana ma soprattutto definita nella
bellezza come salvezza enunciata da San Paolo.
Il Barocco
spagnolo spesso si è confrontato con le religiosità
dei processi culturali e in modo particolare con le
varie forme di cristianità. Cosa diversa in Francia
dove insistono forme chiaramente sperimentali non
solo nei sentimenti e nelle problematiche ma nella
struttura linguistica che definisce il verso nella
complessità dei linguaggi. In Italia il Barocco è il
bello che si vede ma è anche il bello che si
nasconde.
Superata la
concezione manzoniana del “rozzo insieme ed
affettato” il Barocco gioca la sua dimensione
onirica su una strategia della teatralità.il teatro
non solo come rappresentazione figurata ma
soprattutto come visione di un mosaico prettamente
onirico.
Il Novecento ha
“ristrutturato” sia l’immaginario del barocco e ha
recuperato soprattutto la figura di Battista
collocandolo sì nel Regno di Napoli ma ridefinito il
Barocco non interpretabile soltanto con la geografia
italiana ma trasportandolo tra i luoghi e gli
strumenti letterari e artistici che si inseriscono
nel tessuto europeo. Per dirla tutta non è pensabile
parlare di Battista “bloccandolo” a Grottaglie o nel
Regno di Napoli perché la sua lezione anticipa
festosamente due principì estetici – filosofici che
sono l’assurdo e la speranza. Principi molto cari
sia a kafka che a Pirandello.
Il Battista
moderno nella contemporaneità è quello di una
indagine critica che lo colloca nella misura di un
incontro con Calderon de la Barca o con Quevedo pur
non trascurando sia Marino che Manso ma con il
concetto di finzione – menzogna si va molto oltre.
In fondo la sua teatralità della sintesi è possibile
scorgerla anche nella poesia melica e la bellezza è
nello sguardo dei personaggi che giocano interno
alla grecità e alla santità.
I due estremi, il
mito e il sacro, sono tenuti insieme dalla parvenza
metaforica della bellezza che traccia non fili di
melodramma ma la sinteticità di un senso tragico,
qual è la bugia per sopravvivere, e l’ironia. Nella
sua “Poetica” che risale al 1676 evidenzia un
tentativo di “libertà dello scrittore” con la
“qualificazione fantastica” e con l’immaginario
metaforico.
La cosiddetta
“lirica concettualistica” non è una espressione
della poetica, è, piuttosto, una esperienza che va
considerata come lirismo di una certezza che è data,
appunto, dalla certezza che la bellezza che non si
contrappone alla maschera ma ne è parte integrante.
Qual è il punto
nodale di un poeta Barocco come Giuseppe Battista e
il suo legame con la poesia di un Seicento che
chiama in causa i fenomeni di un linguaggio
sperimentale? Un interrogativo che si pone ogni qual
volta ci si trova a rileggere il percorso della
poesia Barocca che non è rimasta soltanto
all’interno di un secolo ma che ha attraversato
completamente il suo tempo e la sua contestualità
allargandosi su visioni abbastanza motivate
culturalmente sino a toccare intrecci con il post –
illuminismo e il Romanticismo.
Partiamo da un
presupposto centrale. Il Novecento letterario e
filosofico come ha considerato il Barocco? Quel
Barocco focalizzato intorno al Regno di Napoli?
Due poeti –
filosofi italiani hanno tracciato una linea
all’interno dei processi estetici – comparativi (tra
poesia e filosofia) che rispondono ai nomi di
Giordano Bruno (1548 – 1600) e Tommaso Campanella
(1568 – 1663).
Quattro poeti
spagnoli hanno individuato il futuro del Barocco,
ovvero: Calderon de la Barca (1600 – 1681), Gongora
(1561 – 1627) Juana Ines de La Cruz (1651 – 1695),
Quevedo (1580 – 1645). Uno scrittore sempre spagnolo
ha definito nel Barocco nascente il classicismo
della follia nell’amore: Cervantes (1547 – 1616).
Tre poeti francesi hanno modernizzato il linguaggio
dell’aspro lirico manzoniano: Jean De Sponde (1557 –
1594), Pierre De Marbeuf (1596? – 1636?) e Robert
Angot de L’Epéronniere (1581 ? – 1640 ?) grazie ad
una poesia che potrebbe essere definita teoria della
parolibera. Un poeta tedesco: Paul Fleming (1609 –
1640). Un poeta inglese: John Donne (1573 – 1631).
Un quadro
articolato dentro il quale la linea Italia, Spagna,
Francia trova una sua chiave di lettura tra profilo
prettamente estetico – simbolico e quello spirituale
– metaforico.
Ebbene, Giuseppe
Battista in una antologica del Barocco trova il suo
punto di contatto proprio nella “Poetica” che risale
al 1676, dove la libertà dello scrittore si enuclea
intorno ad un immaginario della bellezza che si fa
voce disputante in quel che Leopardi chiamò i
piaceri della vanità nel famoso “Dialogo di Plotino
e di Porfirio”.
Ecco perché il
“classicismo” Barocco di Battista non resta e non
può essere considerato soltanto come uno dei
tasselli viventi nel Regno di Napoli ma la sua
funzione estetico – letteraria ed estetico –
filosofico si articola in una stretta comparazione
con un Barocco che esce naturalmente dai canoni sia
dell’accademia vera e propria sia dal cerchio del
legame Marino – Manso per una funzione europeizzante
sia del Barocco sia della stessa dimensione poetica
battistiana.
Una chiave di
lettura che trova conferma nei suoi scritti proprio
attraverso l’immaginario della bellezza.
Dimensione
poetica? Visione onirica? Sfuggente definizione di
una estetica della parola e della filosofia? Un
insieme granito che fa di Battista non un poeta
soltanto dentro il Barocco ma un indagatore della
teatralità del’essere nelle sue sfaccettature in cui
la finzione non è l’ambiguo ma il necessario.
L’originalità di
questo Battista sembra un gioco perverso ma è un
anticipatore di una filosofia che verrà
successivamente. Se la sua poesia resta dentro il
Barocco la sua lezione sull’estetica della
“apologia” porta il Barocco del Regno di Napoli a
confrontarsi con i secoli futuri.
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