Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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EDITORIALI 

Letteratura  pag. 8


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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 

 pubblicato il 21 agosto 2012

Lingua e antropologia.

Un modello per difendere l’etnia di un popolo

di Pierfranco Bruni*

L’eredità linguistica delle comunità Italo – albanesi, e non solo di queste comunità ma anche di tutte quelle che si sottolineano per una marcata incisività linguistica sia sul piano filologico che di una semantica ben definita nella struttura sintattico – grammaticale, porta dentro il proprio vocabolario una articolazione di forme che vivono di un meticciato intrecciato tra una forma di condivisione a priori (risalente alle origini della parola di appartenenza) e una forma di inclusione tra l’esistente e la tradizione. 

La questione della lingua, che ha un suo sostrato strutturato nel tessuto storico del territorio, pone una problema sia prettamente linguistico che metafisico riferito alle singole realtà individuali delle comunità e proprio per questo va considerata come una “proprietà”. Siamo proprietà di una lingua perché noi abitiamo la lingua che diventa  non solo una lingua in senso generale ma una lingua propria lingua attraverso un assorbimento di cadenze, di ritmi, di vocaboli.

Da questo punto di vista il concetto di eredità ha una sua partitura nell’incontro tra la condivisione e l’inclusione. Ed è naturale che non solo va considerata come un patrimonio culturale ma un patrimonio che viene ad essere attraversato, condizionato e condizionabile ma anche in grado di condizionare. In un sistema culturale in cui la lingua è l’incipit di un processo identitario è necessario affiancare un valore aperto che è quello dato dalle antropologie.

La lingua si lega ai fattori etnici e alle antropologie che una comunità e un territorio custodiscono. In altri termini il valore aggiunto alla lingua è la storia sotto una forma che intreccia le tradizioni di un popolo, le realtà archeologiche di un territorio e tutte quelle caratteristiche che hanno una valenza fortemente etnica. Proprio per questo ci si deve sentire proprietari della lingua.

Nelle lingue dei Balcani e del Mediterraneo i modelli di linguaggio non sono comprensibili senza l’eredità storica di quella dimensione che è etnica e geo-politica. Mi sembra che la presenza dell’eredità linguistica debba avvalersi sempre più di una “cofrontiera” che è quella del sentire l’appartenenza come identità e questa come visione di una diversità che diventa capacità comprensiva in un dialogo tra la parola e la forma delle parole.

La forma, in sé, chiama in causa il confronto delle diversità che soltanto in una lettura etnoantropologica è possibile viverle in un processo in cui civiltà e popolo sono un tratteggio unico o percorso come nella affermazione di una profonda sottolineatura di affermazione, appunto, di eredità. Ma considerandoci proprietari di una lingua non possiamo che  considerarci abitanti di una cultura e quando una cultura la si abita non bisogna abitarla pensando di stare in affitto ma di viverla come affermazione di un sistema storico e spirituale.

Quando si perde una lingua si esce fuori dalla storia, dalla storia in senso più complessivo ma soprattutto si esce fuori dalla storia personale. Perché questa vive in quanto riesce a custodire il passaggio fondamentale tra la tradizione, la memoria e il presente.

La lingua non ha bisogno soltanto della memoria, questa è già nel sistema ereditario, ma anche della trasformazione tra il quotidiano e il presente. La contemporaneità, in fondo, non può smettere il suo vestito del quotidiano senza perdere il contatto con il presente e la lingua da sola non la forza di resistere alla “liquidità” del presente. Resterebbe come risarcimento di una memoria in caduta.

Per renderla viva nella vitalità del presente l’àncora di salvataggio delle lingue “etniche” non sta nella difesa della sua eredità semantica soltanto ma nella percezione, che deve diventare atto concreto, di recuperare una antropologia dei linguaggi che diventa scavo esistenziale in un modello culturale pre-definito nella esistenza di un popolo e nella durata di una civiltà. 

L’antropologia dei linguaggi non può fare a meno dello scavo tra storia ed identità che si materializza nella difesa di un principio portante che è quella della tutela di ogni riferimento che possa rimandare al recupero della tradizione. È su questo piano che si territorializza la coscientizzazione del legame tra lingua condivisa e lingua includente.

Una partecipazione nella dimensione in cui geo-etnologia, lingua e storia costituiscono dei parametri di un vissuto la cui testimonianza ci obbliga a far parlare i modelli antropologici espressi da un tessuto abitativo che ha come elementi prioritari l’interazione. Così anche le forme di folclore assumono una singolarità la cui visione umanizzante si disegna intorno sia alla testimonianza della memoria sia intorno alle esperienze.

La lingua, comunque, costituisce l’impalcatura la cui funzione viene ad essere maturata dai linguaggi. I linguaggi delle comunità etnolinguistiche sono patrimonio culturale nella loro interezza e necessitano di parlarsi.

Ecco perché la funzione della lingua assume una sua specificità nell’interpretazione antropologica. E credo che su questa strada ci siano i tasselli per una sicura difesa di quella eredità che resta come cifra decodificante di una comunità etnica.

 * Responsabile progetto “Minoranze linguistiche ed etnie” del Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale per i beni librari, le biblioteche e il diritto d’autore

 

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pubblicato l' 8 Novembre 2011

“LA NUOVA PRIMAVERA DEI GIOVANI”

 di Maria Zanoni

 

 Il romanzo di Egidio Chiarella “La nuova primavera dei giovani” (Ibiskos Editrice - 2011) merita più di una lettura, più di una riflessione, più di una disquisizione.

In stile scorrevole e con chiarezza di linguaggio, il testo analizza temi interessanti e delicati, alla luce di un'etica di ordine universale improntata all'antropologia cristiana.

Sono 183 pagine che fanno intuire, pensare, ragionare, ricercare, capire.

I tanti interrogativi esistenziali, le problematiche di scottante attualità, che sono dei personaggi, sono dello scrittore e sono anche del lettore, sembrano prendere il sopravvento, e, coinvolgendo nel profondo, invitano alla riflessione, al confronto dialettico sui grandi temi della cultura contemporanea.  

Pagina dopo pagina si scopre e si apprezza una cultura straordinaria, un'invidiabile apertura mentale di chi scrive per comunicare un vissuto, un ricco patrimonio di cultura ideale, e si scopre l’autenticità del narrato, nel suo intrinseco potere di trasformare la società.

Il genere “romanzo” per Chiarella non è solo un modello letterario, ma anche esistenziale. Qui lo scrittore s’incammina attraverso gli intricati meandri del racconto realistico che accoglie volentieri l’invenzione, il verosimile intrigante, a volte necessario, che porta con sé ricordi e metafore, nella consapevole ricerca di sé.

Già nel titolo prorompe la voce interiore dell’Autore, la speranza riposta nelle nuove generazioni, che, “guardando verso il cielo”, con i piedi ben fermi sulla terra, sappiano coltivare i giusti valori, per opporsi ai pericoli ed alle insidie del sistema di vita post-moderno.

Con buona volontà ed un grande amore cristiano, lo scrittore pensa all’impegno educativo nei confronti della giovane generazione come l’azione esercitata dagli adulti, come intervento sociale intergenerazionale, atto a favorire la maturazione umana e culturale degli adolescenti, nonchè la loro sicurezza sociale.

Il prof. Teo (anche la scelta del nome porta con sé valori metaforici) e Padre Anselmo nei loro contributi alle discussioni, non trasmettono modelli culturali preconfezionati e stantii, non travasano nei giovani interlocutori la cultura degli adulti, bensì offrono loro la possibilità di sviluppare coscienza critica, di evidenziare le capacità e le potenzialità di giovani desiderosi di essere protagonisti del futuro.

Il legame spirituale tra le vecchie e le nuove generazioni è rappresentato dagli ideali e dai valori morali. Solo così è possibile un dialogo intergenerazionale, in una società in cui prevale l’egoismo sfrenato, il giovanilismo a tutti i costi, la ricerca del benessere, del tutto e subito, senza limiti. In tale contesto il dialogo, la comunicazione sociale,  diventano estremamente difficili.

Sono diversi i linguaggi, il vissuto e le esperienze di ognuno, quindi le culture, i metodi, le scelte. La distanza tra “vecchi e giovani” (per dirla con Pirandello) può essere ridotta, se non colmata, con l’educazione sociale, con il giusto dialogo.

Così Teo-Anselmo-Egidio, narrando, sostiene, aiuta, promuove la crescita umana ed intellettuale di tanti Vanessa, Luigi, Elena, Alessandro, Vittorio...

Tra le righe, nel confronto dialettico-sociale, si suggerisce la propensione all’ascolto ed al rispetto dell’idea dell’altro, per l’arricchimento personale. Così le discussioni della vacanza-studio su etica, economia, religione, vanità, cupidigia, diventano strumento di orientamento nello studio e nel lavoro, guida alla ricerca di una propria collocazione nella società, con prospettive di futuro e di migliore qualità di vita, all’interno di processi storici in continua evoluzione. Dunque, diventano stimolo ad un rinnovamento della società, ad un nuovo Risorgimento Italiano.

E non dimentichiamo che da molti anni Egidio Chiarella si sta spendendo in prima persona anche per il nuovo rinascimento di una regione martoriata come la Calabria. Alla Fiera della Cultura a Roma nel 2006, infatti, rivolgendosi ai numerosissimi giovani presenti al meeting, ha incitato all’impegno, per arginare l’emigrazione delle giovani eccellenze calabresi.

Ed in questo suo recente lavoro, mettendo in gioco prima di tutto se stesso, riafferma con forza l’esigenza-necessità di un’agorà, “una Sinagoga del Sabato”, dove il confronto ed il dibattito siano il perno attorno al quale ruota lo sviluppo sociale, economico e culturale del Paese.

Chiarella, in questa sua pubblicazione, usando un linguaggio adeguato e proponendo contenuti interessanti, sa ben dosare le sue verità generazionali, in quanto educatore, e sa ben aprirsi agli apporti giovanili, altrettanto interessanti.

E qui ha giocato certamente un ruolo decisivo per l’uomo impegnato da anni nel sociale e nella politica, la vicinanza, il ritorno temporaneo al contatto diretto con giovani studenti, nel luogo più appropriato per delucidare problemi, cercare soluzioni e dare risposte. Proprio allora, il Prof. ha preso coscienza che le nuove generazioni studentesche sono cambiate e, nel bene o nel male, sono diventate compagne di un difficoltoso viaggio alla ricerca della definizione della propria identità, nel rispetto della reciproca libertà.

Oggi i giovani hanno molto da insegnare, in alcuni campi, agli adulti, soprattutto in questo tempo d’incontro con altre culture. Anni addietro l’insegnante aveva un ruolo fisso in cui l’esperienza era determinante, e se era anche anziano era più autorevole. Nella complessa società odierna, è autorevole e dà certezze chi è innovativo e propone idee nuove, anche se giovane.

Ma con il crollo delle ideologie, con la mancanza di punti di riferimento, si rischia di perdersi in questo grande mare; ecco allora il bisogno di una guida che ponga in primo piano il confronto. E proprio la crisi dei valori ideali appare oggi determinante nel generale smarrimento e senso di solitudine nelle giovani generazioni.

Per il Prof. Chiarella è la famiglia che, in simbiosi con la Scuola e la Chiesa, deve riservare la giusta dose di attenzione ai giovani, “svolgendo il suo fondamentale ruolo educativo”, onde evitare che si determini “nel progresso sociale e civile di una comunità un vulnus capace di ritardare il suo stesso avanzamento democratico”.

Nella seconda parte del volume, dopo una lucida analisi della condizione della Scuola italiana, è riservato ampio spazio al confronto su impegnativi temi religiosi.

“La carità cristiana, l’amore... la pietà... la solidarietà... sono il tentativo concreto di intervenire per la nostra parte, piccola o grande che sia, nel rinnovamento materiale e spirituale del nostro pianeta” (fa dire lo scrittore a Padre Anselmo - sua anima teologica).

Il volume chiude con l’auspicio di un serio programma di interveti in cui in sinergia tra loro “le energie migliori della politica, della produttività locale, della cultura, delle associazioni laiche, d’intesa con le Presidenze delle Regioni e la Conferenza Episcopale locale” possano lavorare per superare la crisi in atto, offrendo un futuro ai giovani, assetati di “Libertà”, quella vera.

In conclusione, questo romanzo di uno scrittore impegnato, come Chiarella, è a “tesi”. Ha qualcosa da offrire al mondo, perchè venga condiviso. Scommessa impegnativa, ma possibile.

 

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pubblicato il 1° ottobre 2011

Giuseppe Garibaldi nel racconto di Alexandre Dumas

L’antropologia del viaggio risorgimentale

  

di Pierfranco Bruni

  

Anche il Risorgimento e i processi che hanno caratterizzato l’Ottocento italiano hanno bisogno di una lettura e interpretazione etno – antropologica a cominciare dal rapporto tra Garibaldi e il Sud e Garibaldi e la presenza di scrittori viaggianti come Alexandre Dumas.

Perché nel Risorgimento (o nel dibattito sul discusso Risorgimento come processo storico o come concetto etico e filosofico) resistono quei personaggi ai quali l’immaginario rivoluzionario ha segnato una dimensione centrale? Ci sono domande che restano ancora appese al filo del pensiero non tanto storico quanto “retorico”.

 

Ma la retorica del rivoluzionario ha una sua importanza proprio nel momento in cui i fenomeni storici si prestano ad una chiave di lettura più articolata. Cosa resta il Mazzini carbonaro o il Mazzini “profeta” secondo la lettura di Giovanni Gentile? Cosa resta il Garibaldi rivoluzionario dei Mille o quello di Caprera? Perché primeggia la figura di Maria Sofia su quella di Francesco II? Perché il brigantaggio politico è diventato non solo elemento di contesa “ideologica” (lo è dalle sottolineature che nel 1924 Togliatti offriva nei suoi articoli) ma di attualità per capire sia la fase post unitaria sia per dare voce a un Risorgimento con più chiavi di lettura?

 

La letteratura, a volte, ci offre sguardi peculiari per comprendere sia la storia che i personaggi soprattutto perché penetra fenomeni che sono etno – antropologici. Il Risorgimento oggi può essere letto senza una visione complessiva degli aspetti antropologici o etnici? Garibaldi stesso non è forse un personaggio che rientra nell’antropologia risorgimentale?

È naturale che la figura di Giuseppe Garibaldi non può essere consegnata soltanto al mito ma è necessario una rivisitazione storica del rapporto tra Mazzini e Garibaldi e tra Cavour e lo stesso Garibaldi. Dopo l’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II le sorti del “libertario” Garibaldi mutano completamente.

 

Lo stesso Garibaldi si rende conto che sono venuti meno gli accordi per una regolarizzazione e legittimazione, nel nome della libertà, dell’Unità d’Italia intesa come atto di pacificazione e di equilibrio all’interno dei due Regni: quello Sabaudo e quello Borbonico. Garibaldi viene isolato per poter realizzare il progetto cavouriano e sabaudo che era ben altro. Proprio sulla scia di questo disaccordo si innesta la questione del brigantaggio politico. Una delle figure splendide che emerge nello spaccato tra il 1859 e 1861 è quella di Maria Sofia di Baviera, consorte, appunto di Francesco II di Borbone.


 Soprattutto la letteratura ha raccontato uno spaccato di storia filtrata attraverso la raffigurazione e la centralità di alcuni personaggi. Ma il fenomeno del brigantaggio va riconsegnato ad uno studio approfondito e ad una visione ideologica meno precaria e anche attraverso la peculiarità antropologica di alcuni romanzi: penso  a “L’eredità della Priora” di Carlo Alianello. Già Vincenzo Padula sosteneva che era necessaria una distinzione tra brigantaggio politico e il brigantaggio dell’inizio dell’Ottocento, i quali sono due aspetti completamente diversi sia dal punto di vista della temperie storica sia in merito alla contestualizzazione socio – economica.

 

C’è da dire che all’interno del fenomeno complessivo sulle fasi del brigantaggio politico e ad una ricontestualizzazione dell’Unità d’Italia all’interno del Risorgimento il brigantaggio è da considerarsi un processo spontaneo e non va dimenticato che briganti come Carmine Crocco o Ninco Nanco nascono proprio dalle file garibaldine.

 

L’immaginario storico entra in un contesto propriamente etno – antropologica dei territori. Il racconto popolare, in questi casi, è testimonianza vibrante. Carmine Crocco aveva partecipato alla spedizione dei Mille e da garibaldino diventa un anti sabaudo per difendere il ceto popolare ma davanti alla militarizzazione dei Cialdini guidati dalle teorie cavouriane e all’imperversare della guerra civile assume le difese di quei “cafoni” che lottano per un pezzo di terra.

 

Ma Garibaldi è un personaggio nel mito perché l’immagine che si è data è quella di un rivoluzionario e resiste sino a quando il rivoluzionario come immaginario (pur nella storia) resta centrale. Nel momento in ci viene isolato, esiliato, allontanato entra nel paesaggio della memoria e lo si recupera soltanto attraverso un’operazione che è quella mitico – letteraria.

A raccontare le avventure garibaldine non ci sono soltanto gli scrittori italiani ma anche quelli stranieri, i quali definiscono, in una dimensione geografica ma anche geo-politica, una lettura storica che diventa interpretazione e dimensione antropologica.

 

Alexandre Dumas (Alexandre Dumas, padre, 1803 – 1870) che scrive le memorabili ”Memoires de Garibaldi” risalente al 1860 e poi “I garibaldini” (Les Garibaldiens, 1861) scritto proprio al seguito della spedizione dei Mille usa delle pennellate non soltanto letterarie o incise in una particolare angolatura storica ma si serve soprattutto di una penetrazione antropologica ponendo accanto alle “imprese” la descrizione dei luoghi, del paesaggio, della realtà che si racconta all’interno di un vissuto che è dato dalla vicinanza tra lo scrittore e Garibaldi stesso.

Si tratta di un percorso narrante che scava nei fatti e che riporta sulla scena anche degli aneddoti che permettono, oltre la retorica, di scavare nel vivo, l’impresa garibaldina. Uno spaccato interessantissimo perché attraverso Dumas si ricrea una atmosfera particolare che è quella che vede protagonista certamente Garibaldi ma emerge il bisogno di credere di poter cambiare un mondo che andava in sfacelo.

 

Ma cosa fa Dumas? Vive in prima persona le avventure garibaldine all’interno di una partecipazione che non è propriamente politica ma culturale ed è qui che le sfaccettature antropologiche prendono il sopravvento. Viaggia in quel Regno di Napoli attraversando paesi e comunità. Garibaldi lo nomina direttore dei musei e a seguito dei garibaldini commenta e annota imprese e paesaggi.

 

Viene stimato e considerato tanto che in Calabria il Comune di San Marco Argentano lo storicizza con queste parole: “L’illustre Alesandro Doumas è dichiarato cittadino di Sammarco Argentano, considerando che si devono raccomandare alla gratitudine dei posteri italiani quegli egreggi [sic] uomini che a qualunque nazione appartengono si adoperano a rendere opportuni servigi all’Italia; considerando che i due periodi di tempo abbisognanti di ajuto sono stati per l’Italia la splendida rivoluzione del ’60 ed i giorni nefasti del brigantaggio, considerando che l’illustre Alesandro [sic] Dumas fu appunto uno di quei egreggi [sic], che resero all’Italia il nobile uffizio di aiutare la rivoluzione con ogni sorte di mezzi e d’illuminare la pubblica opinione sulle cagioni del brigantaggio e sui rimedi d’esso”. Si trova scritto così su una delibera del Consiglio Comunale di San Marco Argentano alla data del 22 novembre del 1863.

 

A raccontare altre notarelle sul Dumas al seguito di Garibaldi è stato Giuseppe Cesare Abba  nel suo Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei mille. Anche qui il valore antropologico assume una rilevante significativa. Il viaggiatore e scrittore Dumas ha contribuito a dare un senso al mito garibaldino e lo ha fatto vivendo in prima persona la storia di una impresa. Una storia che non può fare a meno di quegli elementi che sono intrisi di uno scavo etno – antropologico vero e proprio.

Cosa resta del personaggio? O cosa resta dei personaggi. Il fatto è che in questa Unità d’Italia non basta soltanto la storia tout court  dei territori. Il Risorgimento ha valore se non lo si lega soltanto alle imprese e alla storia politica. Ma si trasmette grazie, nella sua complessità, a quei fattori che hanno una rilevanza fortemente legata al territorio. Ovvero a presupposti fortemente radicanti.

 

L’immaginario ha  un senso e proprio per questo un Risorgimento e una lettura dell’Unità d’Italia (nella fase pre e post) nella sua completezza necessitano di una scavo profondamente antropologico in cui le presenze linguistiche, etniche, simboliche nelle varianti più possibili possano costituire incisi nella civiltà di un popolo.

 

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pubblicato il 1° ottobre 2011

Il centenario della morte di Pascoli

UN POETA “SDOPPIATO” TRA CARDUCCI E I CONTEMPORANEI

Incomprensibile a Vincenzo Cardarelli

 

 di Pierfranco Bruni

 

Tra Giosue Carducci (morto nel 1907) e la poesia moderna (in un certo qual modo a cominciare da “La pioggia nel pineto” di Gabriele D’Annunzio) c’è di mezzo un poeta che ha rotto alcuni schemi sia semantici che espressivi (la poesia come innovazione linguistica) che è certamente Giovanni Pascoli. Non possiamo non sottolineare il mosaico ottocentesco carducciano che pur confrontandosi con modelli europei per quell’epoca molto sperimentali restava, appunto, ben ancorato nella tradizione tardo Ottocento.

      Carducci muore nello stesso anno di un poeta innovativo e moderno come Sergio Corazzini. Attraverso la poesia di Corazzini, in quel vibrante segno “crepuscolare”, ci si apre realmente ad un Novecento poetico Futurista ed Ermetico. Ma è D’Annunzio che pone una problematica linguistica importante proprio attraverso linee semantiche e puramente espressive.

 

      Tracciati che campeggeranno in tutto il Novecento: da Montale a Cardarelli, da Ungaretti a Pavese. Pascoli resta una via di mezzo e propone una chiave di lettura di un verso aperto sicuramente ai linguaggi comunicativi ma anche non dimentico di una forte tradizione il cui humus è nella lezione carducciana.     

      È proprio Vincenzo Cardarelli a proporre una lettura provocatoria ma che ha la sua particolare importanza soprattutto per una interpretazione complessiva dell’opera di Pascoli pensando al prossimo centenario della morte. Cardarelli usò queste parole: “Io non ho da fare a Pascoli altra obbiezione se non questa: cioè ch’egli è più uno stornellatore, un verseggiatore elaborato, colto, fine quanto si vuole, che un poeta. Come dire più discretamente quanto poca individualità di linguaggio e di forme metriche (ho detto, senz’altro, i due elementi costitutivi della poesia) si riscontri nelle liriche di Pascoli? Chi sa quel che significhi mettere un pensiero, una sensazione, un’immagine in forma di discorso lirico non di maniera, dare alle parole un tono non indifferente, sa pure (se è lecito parlare con la nostra autorità di lettori, dimenticando di essere anche noi gente che s’arrischia a fare poesia) che cosa io voglio dire”.

 

      Una precisazione dura ma singolare che oggi andrebbe ripresa per un più accorta interpretazione.

      Nonostante tutto Giovanni Pascoli lo si trova come chiavistello in molti poeti dal linguaggio moderno. Si pensi ad alcuni squarci di Sandro Penna. Un Penna fortemente dannunziano per alcuni affreschi di paesaggi. Comunque la rilettura di Giovanni Pascoli nel contesto contemporaneo ci pone di fronte a questioni di natura puramente letteraria e naturalmente di ordine storico – critico. Pascoli, chiaramente, è stato letto attraverso diverse chiavi interpretative. Ma ciò che resta fondamentale e non dovrebbe essere discusso è la preziosità del senso della memoria che è dentro la parola “pascoliana”.

      La memoria resta comunque soltanto come passato. Un passato che è (ed ha) bisogno di fedeltà. E’ una memoria che non si apre alla possibilità di futuro perchè è senza avvenire. O meglio, il futuro resta sempre la riproposta del segno della memoria. E’ chiaro che è interessante discutere su Pascoli e il senso della memoria nella letteratura del Novecento.

 

      Accanto a Pascoli troviamo i crepuscolari per la storia che li contraddistingue e li caratterizza. Accanto a Pascoli troviamo un certo decadentismo. Accanto a Pascoli troviamo una fisionomia precisa della letteratura europea. Ma Pascoli resta un punto intorno al quale ritornare a meditare. Sia per ciò che riguarda il suo dettato poetico e il suo viaggio all’interno del tempo-sogno-cronaca. Sia per ciò che riguarda la sua fase teoretica.

      La poetica del fanciullino non è assolutamente da trascurare perché ci offre delle possibilità di ricerca che non sono soltanto poetiche, ma anche antropologiche e filosofiche, letterarie e mitiche. Nel fanciullino c’è il mito e c’è soprattutto la riscoperta del mito come riappropriazione dell’infanzia intesa come spontaneità.

      La memoria nostalgia ridisegna il circuito lirico di Pascoli. In questo dialogo ciò che si coglie immediatamente è il sogno. O meglio. Dalla memoria-nostalgia nasce il sogno del passato. Ieri era sempre bello. Oggi la tristezza ci intrappola. E’ questo ciò che domina la voce di Pascoli.

 

      In una intervista rilasciata ad Ugo Ojetti Pascoli diceva: “La poesia non è in ogni caso razionalità, non procede per sillogismi e non è nemmeno logicità, non tende a convincere la mente... il segreto della poesia non sta nella rima o nel verso, ma in una improvvisa rivelazione del mondo”.

      Rivelazione come magia. Rivelazione come mistero. Ma è soltanto nel passato, che diventa memoria-sogno, che la poesia si fa rivelazione del mondo.

      Giovanni Pascoli era nato a San Mauro di Romagna nel 1855. Muore a Bologna per un male incurabile nel 1912. Myricae è del 1891. Ci sono state diverse ristampe. Quella definitiva è del 1900. Nel 1897 apparvero i Primi poemetti. Nel 1903 i Canti di Castelvecchio. Dal 1904 al 1913 abbiamo i Poemi conviviali, Odi ed Inni, Nuovi poemetti, Canzoni di re Enzo, Poemi italici, Poemi del Risorgimento. Pascoli ha scritto anche delle prose e dei libri di critica.

 

      Con Myricae si apre il mondo poetico pascoliano. Già in questo primo libro c’è ormai una precisa identità poetica non solo sul piano espressivo ma anche tematico. I poli tematici che caratterizzano l’intera dimensione pascoliana sono tutti calati in questo primo libro. Il paese, le radici, il padre, la famiglia, la natura non sono echi. Sono esiti fondamentali.

      In Pascoli attraverso il significato poetico della memoria-nostalgia emerge il sogno del ritorno. Il ritorno è un sogno perché la memoria è sogno. C’è una poesia dal titolo il “Sogno” in cui primi quattro versi recitano: “Per un attimo fui nel mio villaggio,/nella mia casa. Nulla era mutato./Stanco tornavo, come da un viaggio;/stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato”.

      In fondo Pascoli è il poeta del ritorno. E appunto nel ritorno che la sua vita si compie e si realizza così il grande messaggio della nostalgia. Un ritorno che si dichiara nella metafora ma che non può giocare la sua partita fino allo strazio. Il dolore è ferita che sanguina. Ma il ritorno resta comunque un sogno-metafora perché in Pascoli non c’è il futuro. C’è la profonda melanconia che lacera l’anima ma non c’è la religiosità o l’illusione dell’attesa compiuta.

 

      La mancanza di futuro d’altronde è l’impossibilità del ritorno. In una poesia dei Canti di Castelvecchio si ascoltano gli ultimi versi: “Oh! Tardi! Il nido ch’è due nidi al cuore,/ha fame in mezzo a tante cose morte;/e l’anno è morto, ed anche il giorno muore,/e il tuono muglia, e il vento urla più forte,/e l’acqua fruscia, ed è già notte oscura,/e quello ch’era non sarà mai più” ( da “In ritardo”).

      “Pascoli – scrive Francesco Grisi nel suo I Crepuscoli (Newton Compton) – è sempre sdoppiato. C’è la vita (che è quella che è) e la sua esistenza (che non coincide con la sua vita). Esamina e si dispera nel suo sdoppiamento. Vorrebbe fare coincidere i due momenti. Ma è una speranza irrealizzabile. In Pascoli e nel crepuscolari non c’è avvenire. Si dibattono disperatamente anche con un certo languore narcisistico. Ma Pascoli, a suo modo, è un moralista. E mistero con le sue stazioni di servizio: l’abbandono, la volontaria viltà, l’aberrazione, l’infamia, la solitudine. E, al limite, un delirio liberatorio che, riconoscendo in sé il peccato, gli dà la forza e il diritto di denunciare”.

 

      Lo sdoppiamento in Pascoli è talmente forte tanto da sentirsi sempre più solo. La solitudine non è più sogno. E appunto la solitudine che fa rompere a Pascoli il miraggio del ritorno. La solitudine fa capire a Pascoli che la vita ha le sue rotture.

E allora la memoria-nostalgia è sogno e Pascoli viene straziato da questo sogno: “Nel mio cantuccio d’ombra romita/lascia ch’io pianga su la mia vita!” (da Canti di Castelvecchio in “L’ora di Barga”).

      L’attualità di Pascoli? E’ chiaro che con Pascoli andrebbe riletta la letteratura del primo Novecento. La sua attualità è nel saper leggere non solo la sua poesia ma l’intero contesto storico e letterario in cui è vissuto. Non so se è possibile parlare di un Pascoli attuale. Credo, invece, che ogni poeta vive all’interno del proprio contesto con rimandi letterari e linguistici che provengono da una precisa formazione.

 

      In Pascoli resta vitale un percorso carducciano. Cosa che non si evidenzia in modo straordinario in D’Annunzio. Ma Pascoli, comunque, resta un filtro importante per le generazioni successive e forse anche un filtro necessario. Ma oggi non è più un riferimento come non lo è chiaramente Carducci.

      D’Annunzio invece resiste. Soprattutto per alcuni aspetti poetici risulta ancora l’apripista per una poesia che non ha accettato le griglie semantiche tradizionali. La stessa poetica di Montale non è pensabile senza comprendere i riferimenti dannunziani. Così lo si avverte in Cardarelli, in Pavese e in quella recita mediterranea che va da Salvatore Quasimodo a Raffaele Carrieri.

      Ma la storia della poesia è nell’intreccio delle poetiche che si dichiarano attraverso i poeti e le dimensioni liriche. C’è un Novecento poetico (con i suoi richiami e i suoi rimandi a un mondo pregresso) che non si dissolve e resta come testimonianza a dimostrazione di temperie che vanno rilette senza dimenticare il presente e senza dimenticare di confrontarsi con il linguaggio contemporaneo (nel quotidiano della letteratura) e senza sfuggire al rapporto tra letteratura e ricerca linguistica all’interno dei vari passaggi epocali. in questo percorso pascoliano è l’ulissismo presente nella poesia di Pascoli con un approfondimento dei Poemi conviviali.

       Ulissismo e mediterraneo. Ma cerchiamo di dare un senso a questo annuncio celebrante dell’opera di Pascoli.

 

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pubblicato il 18 maggio 2011

Il Mediterraneo delle parole oltre il Mediterraneo delle statue

Da Kavafis a Calabrò, da Elitis a Pascoli, da Pavese a Seferis, da Theodorakis ad Abshu

 

 di Pierfranco Bruni

 

Il Mediterraneo delle statue e del racconto affidato ai musei. Il Mediterraneo delle parole e dei linguaggi. Il Mediterraneo degli incontri imprevedibili tra Ulisse, Cristo e Maometto. Il Mediterraneo ancora degli Orienti (i più Orienti che abbiano nella nostra storia e nelle nostre memorie) e dell’Occidente. Ma in un Mediterraneo che ha un cruore cristiano, musulmano, berbero, ebraico, armeno (intrecciamo religioni e civiltà), greco e Magno – greco la letteratura diventa il meridiano dell’attesa.

 Non solo il pensiero meridiano disegnato da Albert Camus ma anche quell’orizzonte degli abbracci tra il mare, metafora del tutto, e il deserto (metafora del comunque sempre), ovvero dell’acqua e della terra. La Bibbia ci recita la durezza dello sguardo dei padri del deserto con la dolcezza delle parole e così ci porta, altresì, lungo il cantico che Salomone ha raccolto come i cantici dell’ebbrezza tra le colombe e i danzatori dervisci.

 

C’è una poesia nella grecità soffusa che ha un immaginario turco, islamico, berbero come i cavalli del deserto che si dirigono verso le acque dei fiumi o le distese dei mari. C’è una letteratura che non ha inteso mai confrontarsi con la ragione, divieto manifesta di una poetica dello sguardo e del mistero.  Il “Capitano Ulisse” di Alberto Savinio ci indirizza verso le isole dell’impossibile che diventano decifrabili ma indefinibili se manca l’amplesso tra Odisseo e Circe.

 

Un Mediterraneo, dunque, non delle fate ma delle streghe. “Da Lipari ad Alicudi/piano piano si fredda/il mare/ch’è un immenso bacile d’olio grigio”:  una geografia degli incisi nella parola delle metafore percettibili ma mai descrivibili con Corrado Calabrò che al mediterraneo ha dato il senso dei linguaggi. Ma il Mediterraneo è l’immenso mare degli Adriatici, dei Tirreni, dei paesaggi sullo Jonio, dello suardo intenso di Cleopatra e dei fili intrecciati nella Mesopotamia dei segni..

 

Odisseo cammina tra le grotte della finzione per condurci non chissà dove ma per portarci mano nel vento lungo la comprensione di ciò che il Mediterraneo è stato. Quello che è stato non è. Non possiamo vivere il Mediterraneo dei nostri giorni pensando soltanto ad Omero. Perché, come recita Odisseo Elitis, il ricordo è libertà. “La grecia che con passo sicuro entra nel mare/La Grecia che sempre mi reca in viaggio/Su monti nudi gloriosi di neve”.

 

Elitis ci recita il canto delle “tessitrici del sole”. Una mediterranea grecità e Calabrò  intaglia i suoi versi dalla fisicità greca a quella dei “mercanti di pietra” che hanno la simbologia segnata negli occhi. Questo è Mediterraneo. Ed è il Mediterraneo di Costantino Kavafis che  ci fa rivivere l’incanto e il disincanto dei Troiani: “Sono gli sforzi di noi sventurati,/sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani. (…)/Dei nostri giorni piangono memorie, sentimenti./Pianto amaro di Priamo e d’Ecuba su noi”. Un viaggiare nella grecità del Mediterraneo senza perdere l’essenza dello sguardo di Ritsos o di  Hikmet sino a  toccare la lirica sufi e il mare che ad Ulisse sempre ci conduce.

 

Perchè alla fine tutto ci conduce ad Ulisse? Giorgio Seferis nelle nostalgie che cerchiamo e attutiamo ci sfida: “Il mare: e come è divenuto questo il mare?/Anni indugiai sui monti,/accecato da Lucciole./Ora su questo litorale aspetto/che attracchi un uomo/un relitto, una zattera”. Sino all’Ulisse di Pascoli e a quella figura di Penelope o a Pavese che raccoglie nel mito di Calipso il cammino dell’immortalità. Cosa accetti Odisseo? La vita che è l’amore o l’immortalità? La Calipso di Pavese nel cuore del Mediterraneo di Leucò. E Pascoli nei suoi “Poemi Conviviali” (l’unici testo che di Pascoli oggi resta): “E gli dicea la veneranda moglie:/’Divo Odisseo, mi sembra oggi quel giorno/che ti rividi. Io ti sedea  di contro,/qui, nel mio seggio. Stanco eri di mare,/eri, divo Odisseo, sazio di sangue!/Come ora. Muto io ti vedeva al lume/del focolare, fissi gli occhi in giù”.

 

Ma questo è il Mediterraneo che abbiamo sempre accolto nel nostro pellegrinaggio di voci e di destini. Un pellegrinaggio metafisico che raccoglie, tra l’altro, sia le istanze di Omero, di Virgilio ma soprattutto di San Paolo. Ma la poesia non ha mai confini e non si lascia aggredire dagli orizzonti spersi tra le nuvole. La poesia ci tocca e toccandoci ci penetra. Penetrare. La poesia è un lento penetrare. Il Mediterraneo non può essere capito se si escludono le parole, le immagini, gli sguardi. E l’amore è nella intensità delle perdute nostalgie.

 

La grecità di Calabrò: “Entra – se puoi – nell’anima,/entra nei miei occhi senza farmi male/così come, all’ingresso del porto,/le navi s’introducono incorporee/nell’azzurra vetrata del Naxos.//Appena oltrepassata Filicudi/s’erge nel mare una stele votiva/dall’acqua blu cobalto che sprofonda”. Già, le isole sono una metafora nella fisicità dei luoghi ma non sono musealizzabili.

 

Il Mediterraneo greco ha la danza delle odalische o delle zingare (come ci canta Franco Battiato) o dei dervisci tra i camini delle fate della Cappadocia. Ma l’amore è l’immenso travolgente luogo dell’esistere: “Solo chi l’ha bevuto racconta/-come una storia di pesca fatata-/d’una vela scorrente sull’acqua,/gravida del pallore della luna,/che una sera si trova riflessa/nella vetrata che l’aspetta in sorte”: è ancora Corrado Calabrò nel suo sottosuolo dell’anima che intriga il fremito dei corpi con la stregoneria che il mare, la donna,il viaggio si portano dentro.

 

Ed è un Mediterraneo stregato o stregone che raccoglie l’orizzonte e le linee della cristianità con le eresie di Nazhim Abashu, poeta musulmano convertitosi al cristianesimo, che incentra la danza delle sue parole sul senso della croce e poi sprigiona  sulla “talassia” del vento le erosioni e il terribile eros: “Se non ci fosse il vento delle maree mediterranee/io sarei rimasto a custodire la sabbia di Tunisi/ma tu, amante mia, porti negli occhi le banderuole de naufragi e della salvezza”.

 

Cosa è questo Mediterraneo della parola. La parola è sempre un fluttuare di acque nell’anima che è destino di civiltà. “L’Egeo s’è rizzato e mi guarda/-Sei tu? Mi chiede./-Sì, gli rispondo, sono io/insieme ad un altro,/non lo conosci?/ma quest’altro/sei tu!/L’Egeo s’è coricato/il Sole ha tossito/son rimasto solo/del tutto solo”. Mikes Theodorakis in questi suoi versi il gioco delle geografie è sempre più un incastro. Ma è una canzone libera in cui la grecità è nello scavo dei luoghi e del luogo che si porta dentro come una paese del fascino intoccabile.

 

Chi può mettere una mano su questo mistero? Il mistero è intoccabile e forse è invisibile se non attraverso le emozioni della percezione. Il Mediterraneo delle parole o anche delle etnie che si incontrano nei linguaggi. Ma cosa ci permette di comunicare e di attraversare questa comunicazione? La poesia. Impercettibile come le conchiglie, le foglie, le stelle di Odisseo Elitis. Ma le parole possono essere affidate alla musealizzazione?

 

Il Mediterraneo che troviamo nei Musei, le statue del Mediterraneo, le archeologie del Mediterraneo, le maschere, i vasi, i frammenti sono la memoria scavata che ritorna a farsi sentire e ci chiede di essere ascoltata. Il Mediterraneo delle parole è il “Mediterraneo dei silenzi mai definiti nelle voci” ci dice Abshu e questo Mediterraneo non ha neppure bisogno di memorie perché in ogni parola la dimensione delle immagini non ha stratigrafie di terreni ma palpiti, sensazioni, percezioni.

 

Il Mediterraneo della poesia è altro dal Mediterraneo dei musei. Le parole non hanno fisicità e non sono oggetto. “Non toccarmi l’anima/tu donna dei Mediterranei perduti/ho già camminato sulla sabbia del tuo deserto/e non ho sguardi da consegnarti/il rumore che ascolti non ha tempo/il suono della cetra ha l’odore dell’incenso/e le stanze che abiti sono paesi di infinito/il Mediterraneo lo porti con te”.

È Nazhim Abshu nel teatro dei Mediterranei che includono ad definirsi tra le parole intoccabili, inafferrabili, leggere come il vento che soffia nel fluttuare delle maree. In questo fluttuare le parole inafferrabili sono le parole del mistero avvolgente: da Kavafis a Savinio, da Camus a Calabrò, da Elitis a Pascoli, da Pavese a Seferis, da Teodorakis ad Abshu.

 

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pubblicato il 18 maggio 2011

PASSEGIANDO TRA LE VIE DI FRANCESCO GRISI

NELL’UMANITA’ DI CUTRO

Tra i luoghi e il racconto della Magna Grecia

 di Pierfranco Bruni

 

Passeggiando tra le vie di Cutro in due giornate di sole e di pioggia. Per ricordare e raccontare i luoghi di Francesco Grisi. Lo scrittore che nonostante sia nato a Vittorio Veneto il 9 maggio del 1927 era fortemente legato a questa Magna Grecia dagli accenti ellenici e dai colori sfumati, tra le albe e i crepuscoli, di un Mediterraneo che recita i segni e i numeri di Pitagora.

Due giornate sempre costantemente accompagnati dal sindaco Salvatore Migale. Questo sindaco che volle fortemente che Grisi restasse cittadino onorario di Cutro e al quale l’Amministrazione Comunale ha dedicato la Biblioteca Comunale in un immaginario che è recita e vita.

I genitori di Francesco erano cutresi. Il padre, maresciallo dei Carabinieri,  con la sua famiglia, si trovava di istanza a Vittorio Veneto. Ma  la calabresità di Francesco resta nel sangue. Nel sangue delle parole. Di quelle parole che bussano sempre alla porta del cuore e danno un senso agli sguardi lungi tra gli orizzonti e il mare.

Abbiamo trascorso due giornate nella città di Francesco. Per la seconda edizione del Premio Nazionale alla cultura e per un Convegno dedicato agli scritti Risorgimentali e mazziniani di Grisi. Scritti che hanno sempre un narrato e una favola antica tra gli squarci delle voci e le canzoni che Dorotea, la bella Dorotea con l’accento da brigante e da regina, ha siglato lungo le conversazioni del nostro discorrere.

Cutro. Giù il mare e appena lasciata la strada chiamata 106 si legge l’ombra, tra la lontananza e la vicinanza sempre più diretta, il paese – città dal quale Francesco partiva con lo sciaraballe del nonno per raggiungere Santa Severina dove egli aveva studiato negli anni della giovinezza.

Cutro. Una cittadina che è un riferimento tra una chiesa, quella chiamata delle “Monachelle”. Splendido complesso d’arte e di restauro, appena inaugurata e il Crocefisso dai tre volti o meglio delle tre espressioni, di cui Francesco sottolinea i particolari. Basta una angolatura per leggere i segni di un Cristo che sorride, che vive l’agonia e che muore tra le attese della rivelazione. E lascia dentro il silenzio voci antiche.

Il Convegno con i versi mazziniani inediti e il Tempio di Pitagora che scava nella memoria e nel sogno e ancora con il canto di Dorotea che dava un senso agli occhi turchini o alla passeggiata su Posidonia in una danza ritmata.

Tutto ha un senso. Anche la finestra della nonna dove i colombi si posavano per raccogliere briciole di mollica di pane. Quella nonna e quei palazzi tra le strade dei ricordi che restano a fissare il tempo perduto.

Una Calabria che ha una ospitalità profonda in quell’anima che è leggenda e linguaggio popolare. Il sindaco ha preannunciato che al prossimo appuntamento ci sarà un busto che ricorderà l’ironia di Francesco. E poi un Parco Letterario. E per no? E poi la biblioteca che custodisce alcuni segreti sulla cui parete centrale d’apertura campeggia la sua firma in grande come se fosse un inciso, un graffito. Anzi un benvenuto.

Abbiamo parlato del sacro, del mistero, del sogno e dei viaggi in una Calabria bella e selvaggia che sa di pane e di sardella. Cutro. Città nazionale degli scacchi. Città che ha storia raccolte nei destini. Un gioco nel gioco con gli applausi che dureranno nei secoli avrebbe detto Francesco Grisi.

E i colori sono destino. Sono andato via con nostalgia ma con i graffi dei simboli nello scavo dei miti di un Mediterraneo diffuso tra gli accenti delle donne. Delle donne di Cutro che hanno occhi come olive e sorrisi marcati sul viso tra gli scogli del tempo che cammina nel nostro vivere.

Ho passeggiato nelle mattine delle albe incerte tra i vicoli di Cutro ed ho trovato il fascino di una accoglienza che è stile, gentilezza, umanità e in un abbraccio c’è stata una accoglienza che in nessun altro luogo ho trovato. Anche i vigili, nello loro divise, hanno il calore dell’umanità. Francesco lo diceva spesso. Sono andato via con malinconia.

Ma l’appuntamento, gli appuntamenti andranno avanti. Altri Convegni, altri incontri. Raccoglieremo  le relazioni del Convegno sul Risorgimento grisiano in un volume. Presto. Per ritornare a Cutro e discutere con i cutresi di Francesco, della Calabria, della storia di una terra che ha l’attraversamento del mistero nel corpo e negli occhi. Occhi di oliva o occhi turchini. In una danza che è tutta mediterranea come la prima sera al Kiterion dove il sorriso è di casa. Il Premio, il Convegno, il discutere possono essere un pretesto per ritornare, a futura memoria, a Francesco Grisi. Ma nulla si dimentica. Come quell’accento che ci fa capire, con Pavese, che qui un tempo era tutto greco.

 

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pubblicato il 28 Febbraio 2011

Il romanzo di una vita nella vita che si fa romanzo di Bruni

Il destino tra il narrare e l’alchimia della memoria e del sogno

di Annette Vicy

 

“E’ un libro tra le pagine della vita che si racconta come foglie in un giardino con un  paesaggio di stagioni e di colori tra le età e i destini che sempre si incrociano e vivono anche oltre”.

LA BICICLETTA DI MIO PADRE” di Pierfranco Bruni, nelle librerie in questi giorni, è il romanzo di una vita. O forse è il romanzo che si fa vita. Edito dalla Casa editrice Pellegrini in una veste elegante con sopra coperta nera, vive lungo le vie di una recita in cui tutto è possibile. Si incontrano luoghi, nomi, amori e amore, follia, morte e tragico sentire. Ci si pone in ascolto. Un romanzo che ha  la dolcezza del tremore, la sensualità dei corpi  che si stringono e si amano ma conoscono l’abbandono e il distacco, il gioco incantevole della provvidenza e la capacità di confrontarsi con la provvisorietà. Il padre è la voce nel silenzio del camminamento. La bicicletta è il tempo finito e l’immagine di uno specchio che tutto riflette.

Si vive tra i dettagli e in un incantesimo che non bisogna mai capirlo ma raccoglierlo tra le pieghe del vissuto nel vivere. Il deserto o il mare. Il personaggio – io narrante si pone tra le rughe di questi fogli che non sono ingialliti. E la risposta è sempre una ruga in più.

Pierfranco Bruni con questo romanzo conferma di essere  un maestro della parola e un fantasista dei destini dei personaggi che compaiono e smarriti ritorno a far festa sotto la tenda e intorno ai falò.

Bruni quasi in conclusione al romanzo scrive in una breve annotazione: "Ho veramente combattuto la mia buona battaglia? Devo spiegare le vele. Potrei essere uno sciamano? Tutto si confonde? Tutto si intreccia. Ma oltre il deserto c'è sempre il mare. Ho soltanto segnato le rughe che nascondono le mie giovinezze. Potrò mai dimenticare i paesi e le donne della mia vita? Le donne? O gli amori? Gli amori che non ho nascosto e la passione che mi recita il vero infinito amore? È rimasta appesa ad una parete della mia grande casa di paese la bicicletta nera di mio padre. Resto un lanciatore di sogni e di alchimie".

Un romanzo tra le pieghe dei sogni e del vento del tempo nel quale si racconta la vita di un intellettuale che non smette di metaforizzare la vita vissuta attraverso i segni che si leggono nella magia dei giorni. Sembra un diario. Forse lo è tra le pagine di mezzo. Ma c’è una storia che sembra lacerarsi non dal rimpianto, non c’è mai rimpianto, ma dalla memoria nella quale convivono sia i ricordi che la nostalgia.

Pierfranco Bruni ci offre un romanzo vissuto sulla scacchiera di un linguaggio elegante il cui senso dell’estetica è un entrare e penetrare il tessuto della poesia.

La bicicletta potrebbe essere soltanto un pretesto o ancora una metafora del tempo che è sempre un viaggiare. Ma proprio grazie alla bicicletta si riprende il cammino sotto l’onda di una profonda spiritualità sia cristiana che  sufica con un interloquire con la misteriosa visione sciamanica del  tempo.

San Paolo stesso sembra un maestro nello stile sciamanico e il paesaggio è quello delle lune e del mare. Dunque, un intellettuale che ha capito che non occorre cercare e neppure cercarsi ma aspettare e il vero luogo dell’essere resta  la pazienza legata all’attesa.

C’è attesa perché l’amore è l’armoniosa conquista dell’attesa nella pazienza senza il bisogno di cercare.

Questo intellettuale che non crede alla ragione prende  tra le mani il seno del mistero che diventa sfuggevole perché è indefinibile ma giungono i suoni della vita e di un amore che sembra fuggire ma resta dentro l’anima e nella sensualità che scava nello sguardo.

Un romanzo molto forte e straordinariamente intriso di una pacata alchimia. Bruni gioca con l’alchimia dialogando con  il passare delle sensazioni. Dopo “Paese del vento”, “Quando fioriscono i rovi”, “L’ultima primavera” e “Il mare e la conchiglia” questo romanzo sembra chiudere un ciclo.

Cinque romanzi in cui la storia è assente perché la ragione non è nella parola e nell’onirico vivere in quanto nell’io narrante si formano i personaggi.

Come in “La bicicletta di mio padre”. I personaggi si intrecciano con l’io narrante e il linguaggio è un fiume che recita il mistero. L’autore si rivolge spesso al “caro lettore” per renderlo personaggio e per portarlo sul teatro di una recita mai fittizia ma metaforica tra il tempo e il sogno in una dimensione che ha la sua alchimia tra gli archetipi e i labirinti.

Ma tutto sembra avere senso o non senso. Il romanzo è sempre un viaggio incompiuto come la vita che si la cera nel tempo.

Bruni è dentro questo mosaico i cui tasselli sono corde di musica bell’infinito e nell’indefinibile. Un romanzo importante di uno scrittore tra le sponde degli orizzonti che hanno tramonti ma anche le albe e le aurore.

Si è detto più volte che questo romanzo è il romanzo di una vita.

Con questo romanzo Pierfranco Bruni riconcilia la scrittura al fascino di un narrare senza storie ma con grandi immagini che si definiscono nel segno di una provvidenza che è speranza e religioso oblio tra le parole e la memoria che continua a vivere tra le pagine di un viaggiatore che si è fermato per ascoltare una partita tra le ombre, le nebbie e le lune oltre la luce.

 

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pubblicato il 20 Febbraio 2011

TUNISI NEL MEDITERRANEO DEGLI ESCLUSI

 di Pierfranco Bruni 

Ci sono giochi di luci sul Mediterraneo che fanno ombre tra le nuvole e la pioggia. La Sponda Sud, come canta Eugenio Bennato, è il nostro destino che abita la memoria. Una memoria che vive tra i tragitti delle attese nella storia che si ripete mai uguale ma si ripete con i popoli che vivono le diaspore e le fughe nella disperazione.

Questo nostro Mediterraneo di tramonti e di albe è infuocato dalle etnie, dalle lingue, dalle tradizioni, dai costumi e da una impercettibile malinconia che recita la poesia di un Occidente che penetra in un Oriente tra la durata dei riti e la trasgressione delle eresie. Ma Tunisi è una rivolta.

Ho ricordi che affiorano tra i bagliori dei lanci nelle piazze. Le donne tunisine, algerine, marocchine hanno gli occhi rivolti al mare ma il loro sguardo ha la durezza e la tenerezza del deserto. Sono stato a Tunisi. Di recente.

Una donna con il foulard sul capo mi ha detto, mentre aspettavo il mio turno in aeroporto, con voce dal ritmo francese e arabo: “Tu sei Mediterraneo ma non appartieni alla nostra gente. Sei di un Mediterraneo nobile che ha intrecciato le civiltà ma non vive tra i luoghi del nostro mare o negli spazi dei deserti. Conosci il nostro mare e il deserto come una fotografia e anche se il tuo viso è avvolto dalle nostre pashmine e dai nostri colori tu sei altrove. Potrai mai capire i nostri distacchi, le nostre lontananze, la nostra parola”.

Mi ha preso la mano e ancora mi ha detto: “Noi, donne di Tunisi siamo anche la nostra parola. Tunisine, arabe, francesi, siciliane. Abbiamo di fronte i limoni e gli aranceti ma i sapori e le onde degli odori hanno un’altra natura. Hai avvertito il dolciastro della Medina? Ti ho visto nella Medina, l’altra sera fumavi il calice della pazienza ma era incerto, quasi pauroso. Non sei uno dei nostri anche se ne porti i segni e il tuo guardare ha la profondità della pazienza”.

E poi: “Siamo vissuti e viviamo tra le strade di questa città ma il nostro cuore è impastato di acqua e di terra. Di acqua di mare, acqua salata e di sabbia, una sabbia che ha granelli sottili. Abbiamo sempre il timore di una sabbia d’acqua o di una pioggia di sabbia. Per noi andare via è strappare la sabbia che si fa acqua e l’acqua che vive nella sabbia della nostra storia”.

Mi ha guardato a lungo. Poi con gli occhi abbassati si è allontanata. Non sono riuscito a raggiungerla. Ho perso il ritmo dei passi e la fila si è allungata. Una corsa nell’aeroporto di Tunisi ma non ho trovato il suo profumo di donna nella malinconia della partenza o di donna nella nostalgia del ritorno.

Tunisi è un immaginario nella realtà. La Tunisi che ho conosciuta alcuni anni fa. Dei miei incontri. In un albergo di Tunisi ho finito di scrivere la seconda edizione del mio libro su Marika e Aldo Moro. Non sono passaste molte lune eppure il tempo cammina e cammina sulle onde che scivolano nell’alta marea.

Oggi la tragedia si intreccia ai suoni orientali. Tunisi, Algeri e poi la Libia con la sua stringente mediterraneità tutta araba tra i solchi dei cammelli e il vento che giunge dalla Sicilia.

Quest’Africa del Nord è nel nostro Sud. Dovremmo non disperdere i ricordi e neppure i pensieri. Sono davanti al mare di Sicilia e ascolto le voci. Chissà che fine ha fatto la mia tunisina dall’accento arabo – francese – siciliano?

“Ma certo, noi facciamo parte di un Mediterraneo degli esclusi”. Con queste parole si allontanò da me. Continuo a riflettere su questa frase tanto che diventerà il titolo di un mo libro. Il Mediterraneo degli esclusi. La vita, la poesia, i poeti, gli amori, i viaggi. Un diario che racconterà frammenti di destini.

Ma cosa ci resta in queste dimenticanze che urlano l’oblio di una civiltà? Mi ritornano come un fulmine viola le mie passeggiate tra le viuzze della Medina di Tunisi. Uno scialle bianco e nero sul capo e sulle spalle. La Moschea con i suoi tappeti. Puntuale l’urlo della preghiera. Ma quando si prega non ha importanza essere cristiani o musulmani.

Mi affascina l’Islam. L’Islam di Nazhim. I suoi versi mi lacerano l’anima. Ma Nazhim era nato proprio a Tunisi. Nella città dei fuochi e delle fiamme che cristallizzano il cielo.

“Mai mi allontanerò dalla Medina./Cristo restituiscimi il porto./Tu conosci le parole./Maddalena.  Maria. Giuda./Il cuore di pietra nel solco del mare./La sabbia del tuo deserto io parlerò./Parlerò le tue lingue/con l’inquietudine in frantumi./L’acqua del tuo mare io parlerò./Resto come vela nel porto dei nostri destini./Cristo./Le mie preghiere sono nella tua stagione/e il quotidiano è una ferita nel sale dei giorni./Con te/io vivo”. Nazhim Abshu mi accompagna con il suo pensare, i suoi versi, la sua avventura.

Mi restano questi versi tra le pieghe di un quaderno dalla copertina nera. Ancora ci sono le luci nel Mediterraneo. Tunisi mi sconvolge. Cerco altri ricordi. Sono nella fuga dei misteri o nel volo dei dervisci danzanti che ruotano nel cerchio magico dell’infinito.

Un sogno mi ripete: “Se hai coraggio dimentica. Se il ricordo ti assilla non allontanarti. Il paesaggio della memoria non ha orologio o clessidra. Resta nei tracciati della magia. Un mistero è una magia. Cristo è nel culto degli sciamani. Ma solo il silenzio renderà bello l’eterno. Abbiamo bisogno di bellezza e la provvisorietà è nel giro tondo dell’imprevedibile”.

Qui finisce il sogno. Questo sogno. Non so se mi sarà data la possibilità di ritornare a Tunisi. La Sponda Sud. Ma non ho rimpianti e non credo al caso. Non mi interessa la razionalità. Cerco di capire la Provvidenza e mi affido non alla ragione ma al mistero che custodisce i segreti. il vento di Tunisi mi riporta echi e lo sguardo della donna conosciuta in aeroporto mi accompagna.

Mi accompagna. La donna con il foulard. Con la sua dolcezza e con la sua sparizione. Il suo Mediterraneo degli esclusi è nel mio diario. Ma perché mi ha parlato del Mediterraneo degli esclusi? Donna di Tunisi con il viso avvolto negli azzurri e gli occhi che fissano il mistero.

 

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pubblicato il 25 Ottobre 2010

A 150 anni dall’Unità d’Italia

GIUSEPPE GARIBALDI: SOCIALISTA E LIBERALE?

Marx non amava Garibaldi!

E Garibaldi era lontano dal materialismo marxista

  di  Pierfranco Bruni

E' tempo di consuntivi non solo politici ma anche storici. Le riletture si fanno sulla base di una ricostruzione e di una interpretazione. Si parla e si parlerà ancora di Giuseppe Garibaldi (Nizza 1807 – Caprera 1882) in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia.

      Ci sono alcune considerazioni di ordine ormai storico e non più ideologico.

Su quale storiografia si basa il “pensiero” politico di Garibaldi? Una provocazione? Direi di no. Ma una osservazione certamente sì.

Che Giuseppe Garibaldi non fosse amato da Carlo Marx è un fatto risaputo. Diciamo che a Marx non era simpatico Garibaldi. Lo aveva addirittura “stroncato”. Ciò è stato confermato anche da “l’Unità” non molto tempo fa.

      Si potrebbe parlare di un Garibaldi eretico? Ma ancora una volta storia, leggenda e mito si ritrovano insieme nel tentare di ridefinire il personaggio. La rilettura di Giuseppe Garibaldi attraverso il volume (il cinquantaduesimo) del Dizionario Biografico degli Italiani aveva già posto delle riflessioni anche politicamente provocatorie che dovrebbero aprire una pagina significativa della nostra storia. Un Garibaldi “altro” potrebbe anche mutare o approfondire una visione dell’Unità d’Italia e del Risorgimento stesso.

      Mi sorge spontanea una domanda che, a dire il vero, mi ero già posto nei mesi scorsi, in una rilettura complessiva dalla storia unitaria ai nostri giorni, e che ora ritrovo nella sua attualità ma anche nella sua sostanza storica.

Eccola.

E se, chiaramente alla luce di una rilettura, Giuseppe Garibaldi fosse, tutto sommato, un “pensatore” dell’azione nazionalista? O un “garibaldino”, rivoluzionario per dirla tutta, la cui idea principale era quella dell’identità nazionale? Fuori da qualsiasi concetto internazionalista? Proprio così.

      Ma sì. La domanda non è peregrina. Bandiera del Psi all’epoca craxiana. Il Craxi nazionalista e difensore della Patria. Mito indiscusso del leader socialista in quegli anni dai consensi inebrianti. Craxi, in quel tempo, si sentiva un Garibaldi redivivo. O con quali socialisti starebbe oggi Garibaldi? Tra l’ironia e la rilettura, piuttosto spinta sulle comparazioni, Omar Calabrese aveva sottolineato un paragone che andrebbe letterariamente approfondito.

Infatti si era così espresso: “… nella giungla dove Sandokan fugge con la Perla di Labuan, par di vedere Garibaldi con Anita nella pineta di Ravenna”. Calabrese ha condotto il suo discorso spingendosi sulla popolarità di Garibaldi. Eroe popolare ma anche eroe del popolo.

      Renato Zangheri, invece, aveva posto l'accento sul Garibaldi socialista e sul ruolo dei contadini nell’avventura garibaldina. Ha precisato: “I contadini avevano assistito passivamente al moto unitario. Ma quando entrarono nella vita dello Stato negli ultimi decenni dell’’800 e nei primi del ‘900, lo fecero in gran parte sotto le bandiere del socialismo. Un socialismo riassunto soprattutto dalla figura di Garibaldi”.

Franco Della Paruta ha parlato del Garibaldi “convinto internazionalista in America Latina”. Carlo Jean si è soffermato sul condottiero risorgimentale.

      Credo che la figura di Garibaldi vada riproposta attraverso una precisa contestualizzazione storica in un quadro di rilettura generale pre e post unitaria.

Fu socialista e nazionalista, monarchico e liberale. Insomma non lo si può lasciare ad una lettura scolastica, ma va approfondita la sua posizione all’interno di una temperie che nel corso di questi decenni ha vissuto dei veri e propri processi di ricerca e interpretativi.

      A parte questo, il discorso su Garibaldi nazionalista può assumere una riflessione seria.

Si ricominci a discutere del ruolo che ha avuto il Garibaldi nazionale e nazionalista in tutte le vicende politiche che lo hanno visto protagonista. Nazionalista e liberale lo fu in tempi non sospetti.  Ma si parlò di un Garibaldi “interventista dei nazionalisti” come si parlò di un Garibaldi “profeta della dittatura” e poi di un Garibaldi “progressista del Fronte popolare”. Ma ci sono dati che vanno confutati.

      I liberali italiani, dopo che la Legione italiana, da lui fondata nel 1843, difese Montevideo da un cruento assedio e dopo la battaglia di San Antonio al Salto dell’Otto febbraio 1846 nella quale gli italiani ebbero una straordinaria vittoria (fu in questa battaglia che i legionari garibaldini adottarono la camicia rossa), organizzarono una sottoscrizione in tutta Italia per insignirlo con una spada d’onore.

      Ciò è soltanto un mero episodio trascurabilissimo in confronto a tutte le posizioni assunte da Garibaldi nel corso della sua attività politica. Soprattutto  bisognerebbe rileggere le sue “Memorie” per rendersi conto della vera statura del generale e della grandezza dell’uomo politico, il cui senso della rivoluzione è rompere gli steccati per creare libertà alla tradizione, alla Nazione, alla Patria, alla famiglia, attraverso quei modelli di libertà che provengono certamente dal liberalismo ma anche dal nazionalismo.

      In molte occasioni si potrebbe accostare Garibaldi ad Antonio Salandra. Il primo Presidente del Consiglio che unificò la conquista per la terra ad una politica liberale. Un primo ministro che veniva dal Sud, dalla Puglia, e conosceva molto bene il rapporto tra le lotte per la terra e una concreta politica agraria.

      Molte tappe segnate da Garibaldi sono da considerarsi in quel profilo politico, in cui l’idea dell’Italia si definiva nell’Idea dell’Identità Nazionale.  Un personaggio forse  eretico. O un generale eretico nazionalista. E lo ha testimoniato più volte nel corso del suo impegno e della sua attività. Sino a quando fu relegato a Caprera, dalla quale si allontanò soltanto dopo la caduta di Napoleone III per andare in aiuto della Francia che era stata invasa.

Non va trascurato il fatto che nonostante fosse stato eletto in quattro dipartimenti non volle partecipare mai alle sedute dell’assemblea di Bordeaux. Nel 1874 venne poi eletto nel Parlamento italiano. Si occupò di sovranità nazionale e dei problemi inerenti le realtà contadine.

      La guerra, per Garibaldi, era un fatto nazionale e di popolo. Era sempre una guerra per la libertà e non un fatto militare soltanto. Una guerra è sempre, secondo Garibaldi, un coinvolgimento di popolo e come tale va considerata: come portatrice dei valori di una Nazione.

Ristudiare Garibaldi certamente offre, oggi, una diversità di valenze.

La storia non finisce e non ha parentesi. Rileggere Garibaldi tra il mito e la storia significa anche reimpostare un processo storico che parte dalla preparazione dell’Unità d’Italia, ovvero dalle fasi post - unitarie.

Garibaldi, personaggio che va letto attraverso due profili che, comunque, non possono vivere separati: la storia e il mito. Insieme costituiscono il fascino di questo eroe dei “due mondi”.

      Proprio per queste ci sono spaccati che vanno compresi, e in un tempo di perdute ideologie è necessario riflettere con maturità e consapevolezza. Giuseppe Garibaldi resta una personalità controversa. Si pensi soltanto ai suoi anni di riposo (o meglio di esilio) o ancora alla sua “vertenza” liberale riguardante proprio l’Unità d’Italia.

Garibaldi fu un Generale che non accettò il marxismo e non condivise i cosiddetti percorsi proletari. D’altronde perché Bettino Craxi, che la storia del socialismo la conosceva bene, lo aveva indicato come riferimento partendo proprio da un certo teorico del socialismo che rispondeva al nome di Proudhon (Besancon 1809 – Parigi 1865)?

Il socialismo ha nel suo Dna l’idea di identità nazionale. Quell’identità nazionale per la quale i socialisti interventisti  difesero la Patria proprio nella Prima guerra mondiale.

 

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