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EDITORIALI 

Letteratura  pag. 5


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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 

pubblicato il 23 ottobre 2009

Oriana Fallaci nell’Ottantesimo della nascita

e a tre anni dalla morte.

Una scrittrice sui confini dei Mediterranei

di Pierfranco Bruni

Ottant’anni fa nasceva Oriani Fallaci, nel 1929. Moriva il 15 settembre di tre anni fa, 2006. Non solo una giornalista ma una scrittrice che ha penetrato i sentieri delle parole attraversando luoghi e vivendo avventure e destini. Non può che stare con orgoglio e senza pregiudizi nella storia della letteratura italiana del Novecento.

Una scrittrice che ha saputo raccontare la nostra contemporaneità tra le tragedie della modernità. Passare per le parole e giungere al limitare degli orizzonti. Quegli orizzonti, che per la Fallaci, segnano il confine tra l’Occidente e il Mediterraneo.

 Il deserto, forse l’esilio e le donne che sembrano impastate da intreccio che recita rivoluzione e senso di una assenza. Passate le parole restano le immagini e le immagini fanno la storia, la storia di una visione della vita e dello spazio nel quale si abita la nostra esistenza. Ma forse più della rivoluzione può la consapevolezza di vivere dentro una temperie fatta di scontri, di guerre, di viaggi tra il mare, il deserto, le sabbie, le frontiere, le trincee e gli amori spezzati proprio nel momento in cui si affollano le comprensioni o le interpretazioni dei destini.

Una storia. Certo, quella di Oriana Fallaci che non ha mai conosciuto rinunce ma è stata dentro quegli orizzonti tra Occidente e Oriente. Una metà di un Mediterraneo che è dentro in ognuno di noi.

Una giornalista che è entrata nella letteratura. Anzi una scrittrice che ha “fisicamente” e letterariamente “cucinato” il linguaggio giornalistico con quello di una scrittura rapida, in cui il narrato, il vissuto, il sofferto, il visto si è trasformato nelle lunghe sfide che hanno abbracciato la vita trasformandola in un destino proprio sul filo della letteratura. Anche le sue interviste hanno raccontato, anche le sue interviste hanno fatto storia, anche le sue interviste sono il narrato di un pezzo di esistenza non solo di Oriana Fallaci ma di un contesto che è quello di una civiltà che si è giocata la propria eredità ed identità tra i rossi tramonti abbruniti degli spari tra le trincee dove gli uomini muoiono veramente e i popoli si sradicano e la ricerca di una affermazione di umanità.

 L’Occidente con gli Stati Uniti d’America sono stati il perno di una formazione culturale dentro la quale la controrivoluzionaria Fallaci ha definito la sua non stanzialità e il suo nomadismo legati ad un bisogno di sapere e di conoscere. Nel 1969 pubblica la sua esperienza di un anno di guerra in Vietnam in un libro dal titolo: “Niente è così sia”. Ma sono gli anni di una contestazione non solo studentesca ma esistenziale. La Fallaci, come Pasolini, guarda con sospetto i figli di papà che inneggiano a  Che Guevara e crede ben poco alla risoluzione di quelle piazze occupate in Italia o in Francia. Sembra tutto ben poca cosa rispetto a ciò che avviene in India, in Pakistan, in Sud America, in Medio Oriente.

 C’è un Occidente, in quegli anni, che esplora con l’Apollo 12 la luna e un Medio Oriente in costante conflitto. La Fallaci non vuole restare soltanto una testimone dei fatti che raccontano sempre mosaici di vita. Il suo rapporto con Alekos Panagulis, conosciuto, in Grecia, il 21 agosto del 1973 è uno dei tasselli importanti, straordinari, unici sia per il suo cammino letterario sia soprattutto per quello intimo, sentimentale, esistenziale. L’incontro tra i due avviene proprio nel giorno in cui Panagulis esce dal carcere. Un incontro che diventa una unione di passione e di condivisioni. Il loro rapporto dura soltanto tre anni, perché Panagulis muore in un misterioso incidente stradale il 1 maggio del 1976.

Una storia, dunque, che racconta la Grecia dei colonnelli e la vita di Un uomo.

 Il suo romanzo del 1979 ha per titolo, appunto, “Un uomo”. La stessa Fallaci parlando di questo libro, in una intervista, dirà: “Un libro sulla solitudine dell’individuo che rifiuta d’essere catalogato, schematizzato, incasellato dalle mode, dalle ideologie, dalle società, dal Potere. Un libro sulla tragedia del poeta che non vuol essere e non è un uomo – massa, strumento di coloro che comandano, di coloro che promettono, di coloro che spaventano…”. Un romanzo nella grecità profonda e moderna come era stato il suo primo romanzo del 1962 dal titolo: “Penelope alla guerra”, nel quale si racconta la storia di una donna che non vuole attendere il suo Ulisse e si metaforizza in una Penelope che viaggia e lascia le mura di Itaca per penetrare il senso di una identità in una ricerca verso le libertà come valore di una consapevolezza.

 Anche qui si registra uno scontro diretto con le eredità mediterranee alle quali la Fallaci si oppone con una forza umana tutta occidentale e scavata nel proprio tempo senza cedere a nostalgie o rimpianti che risultano come misure della storia. Due tappe fondamentali nella scrittrice Fallaci sino ad arrivare agli anni Novanta, passando attraverso le storie e la storia e soprattutto nel tanto discusso e non ipocrita “Lettera ad un bambino mai nato” che oggi si presenta come un atto quasi profetico se si pensa che la prima edizione vide la luce nel 1975, che vengono caratterizzati dall’imponente romanzo “Insciallah”, pubblicato nel 1990.

 Il romanzo – saggio nasce all’interno di una “sua spedizione” tra le truppe italiane che erano state inviate nel 1983 a Beirut. Un racconto affascinante tragico, dolorante e contemplante ma anche irruente. “Non di rado infatti sfuggo all’esilio delle scartoffie e non osservato osservo. Ascolto, spio, rubo alla realtà. Poi la correggo, la realtà, la reinvesto, la ricreo, e con l’amletico scudiero ecco il discepolo generale che crede di poter sconfiggere la Morte, ecco il suo disincanto ed estroso consigliere, ecco il suo erudito e bizzarro capo di Stato Maggiore, ecco i suoi ufficiali ora bellicosi e ora mansueti, ecco la moltitudine sfaccettata della sua truppa…” (Da una lettera del Professore, nel testo).

Un filo consistente lega  “Insciallah” con gli scritti successivi. Un Medio Oriente che è sempre più terra di deserti, di scontri, di viaggi nella tragedia e un Occidente che si affaccia sia geograficamente che culturalmente ad un Mediterraneo fatto di tanti altri Mediterranei che si raccontano nelle loro avventure e nei loro ambigui territori: alla ricerca di una cristianità profonda e di un fondamentalismo islamico che approderà alla tragedia dell’11 settembre.

 Cosa sono, in fondo, gli ultimi suoi libri: “La forza della ragione”,  “La rabbia e l’orgoglio” e “L’Apocalisse” che racchiude anche “Oriana Fallaci intervista se stessa”? Sono un superamento culturale sia della storia e identità musulmana sia delle eredità mediterranee. Il tutto nell’orgoglio di un Occidente che dovrebbe però smettere di tessere e ritessere quella  tela metaforica e reale incarnata da Penelope. Ormai Penelope è andata alla guerra. L’orizzonte di sabbia e di deserto, di mare e di acqua e le contraddizioni delle metropoli e di un Occidente sempre più americanizzato sono in costante conflitto.

La Fallaci ci invita ad una scelta. Il Mediterraneo resta un orizzonte nella storia ma anche nelle pretese del futuro, il Medio Oriente è un islamismo che invade e l’Occidente della civiltà moderna  non può che essere nella nostra contemporaneità. Ma c’è una storia che si trasforma in memoria e c’è un uomo che è dentro la vita di Oriana che non smette di parlare come un eroe nella bellezza delle parole, di quelle parole che per restare non possono che essere  passione. La passione della scrittura.

La passione della parola in una scrittrice tra confini. L’Oriente e l’Occidente. E le donne che restano impastate nella sabbia del deserto e nelle piramidi delle vetrate dei grattacieli occidentali. Una storia dalla quale raccogliere un seme.

 

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pubblicato il 5 settembre 2009

Tra la notte del 26 e 27 agosto di 59 anni fa moriva Cesare Pavese

Uno scrittore nell’attesa della cristianità.

E a 60 anni dalla pubblicazione de “La casa in collina”

 

 

di Marilena Cavallo

  

59 anni fa si toglieva la vita, nell’Albergo Roma di Torino, Cesare Pavese. Era la notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950.

Uno scrittore che ha lasciato chiaramente un segno indelebile all’interno del contesto letterario del Novecento non solo dal punto di vista problematico ma anche per gli aspetti linguistici che ha innervato nei processi comunicativi della letteratura moderna. Uno scrittore che ha attraversato la stagione  del neorealismo non focalizzando l’attenzione sulla realtà ma sulle metafore espresse dalla condizione esistenziale della contemporaneità.

Pavese è stato uno scrittore calato fino in fondo nella sua contemporaneità e nel suo presente attingendo però sempre modelli dalla cultura classica e in particolare dai mito greco – romani. La pagina del mito è stata un riferimento fondante nei processi umani calati nella poetica dei simboli. Pavese ha ricostruito i tasselli della storia attraverso la griglia di una visione simbolica in cui il simbolo è parte integrante dell’immaginario. Un immaginario che è figlio non della stessa ma del sogno.

Dalla poesia ai romanzi il percorso di Pavese è stato sempre sia poeticamente che linguisticamente coerente. “La luna e i falò” non deve essere letto soltanto come il romanzo che ha percorso le tragedie della guerra civile ma soprattutto come il romanzo in cui i personaggi sono ben definiti e consolidati dalla consapevolezza di vivere dentro un destino. Mai avventura ma destino. Così come quelli che si rintracciano in “La casa in collina”, pubblicato proprio sessant’anni fa, le cui matrici hanno, tra l’altro, una forte valenza, lirico – religiosa. Un romanzo – cerniera tra stagioni di testimonianza creativa e pensiero critico.

La religiosità in Pavese non sta nella riflessione di una “ragione” o nella intuizione di un processo storico ma nella sua religiosità ci sono gli elementi di un raccordo tra il mistero (che non è ricerca) e il bisogno di preghiera.

Infatti, Pavese, soprattutto negli ultimi anni e dopo “Dialoghi con Leucò” che del 1947, vive in una dimensione quasi metafisica che lo avvicina ad una cultura della spiritualità. Giunge alla religiosità non superando l’immaginario del mito ma attraversandolo completamente. È come se si consumasse il dato di una cultura “pagana” per entrare in una “identità”, chiamiamola così, cristiana. Perché non si può parlare di “fenomeno” religioso in Pavese ma sostanzialmente si dovrà insistere su una visione prettamente cristiana.

In Pavese c’è il “territorio” dell’umanità che viene espresso grazie ai personaggi e questo territorio diventa, con la definizione dei personaggi stessi, un tessuto che presenta una simbologia cristiana. Pavese si toglie la vita in una notte di fine agosto in una città in solitudine, come molti quotidiani di quel tempo hanno cesellato. Sul comodino accanto al letto un solo libro. Non l’ultimo. Ma il suo libro, ovvero “Dialoghi con Leucò”.

Perché si può definire il “suo” libro. Perché dentro questi “Dialoghi” c’è una riscoperta e quindi una rilettura del rapporto tra l’uomo terra e l’uomo mistero, tra l’uomo – umanità e l’uomo – onirico. Quel suo “scendere nel gorgo muti” di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” è la cifra di una esistenza sia omerica che virgiliana che va oltre lo stesso mito perché si affaccia sui lidi della provvidenza e forse della profezia.

Oggi riproporre Pavese non significa soltanto riproporre uno scrittore ma definire una letteratura che è quella non del “nostos” e tanto meno una letteratura dentro le griglie dello storicismo ma una scrittura e una poetica della quotidiana tragedia del vivere pur nella costante attesa di una pascaliana cristianità: un po’ alla De Unamuno, forse alla Kiekegaard e certamente sulla linea di Mircea Elide e di Maria Zambrano.

Il mito che dialoga con il sacro. Ulisse che annuncia il viaggio di Enea e che a sua volta traccia alcuni segni che impegneranno San Paolo. Ebbene, credo che Pavese, ormai, vada letto in modo comparato nell’affascinante viaggio tra letteratura, mistero, mito e sacro. Anche i suoi romanzi, come “Il carcere”, o i racconti, come “Paesi tuoi”, troverebbero una interpretazione che va oltre la storia per restare letteratura dentro la letteratura.

 

 

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pubblicato il 5 settembre 2009

Il 4 settembre di 20 anni fa moriva Georges Simenon

di Marilena Cavallo

 

Il 4 settembre del  1989 (venti anni fa) moriva Georges Simenon. Se c'è un elemento fortemente esistenziale che ha caratterizzato i personaggi di Georges Simenon (dalle opere dedicate al commissario Maigret ai romanzi che condensano un respiro più ampiamente problematico) è certamente la solitudine. Una solitudine che ha sempre offerto una chiave di lettura tutta intrisa di quella malinconia cara ai chansonnier.

      Georges Simenon. Uno scrittore che ha saputo trasmettere le vibrazioni della vita nelle sue diverse sfaccettature: dalla cronaca al sublime. Ebbene sì, ogni suo racconto (ovvero ogni suo raccontare) ha una "leggerezza" epidermica. Il linguaggio ha la pazienza e i toni dei tiepidi autunni o delle albe affogate nella nebbia. Un linguaggio nella pacatezza delle descrizioni e in uno scenario che invita alla meditazione.

      Maigret, un personaggio da romanzo? Una letteratura che aveva un sapore ricco di significati umani. Una letteratura, in fondo, che univa la storia dei personaggi con quelle avventure che raccontavano periferie, quartieri lacerati, città in bianco e nero. Quei racconti sono rimasti come riferimento non solo dal punto di vista letterario e culturale ma soprattutto dal punto di vista cinematografico o televisivo.

      Ma Simenon non è solo Maigret. Una scrittura limpida. Direi scattante, avvolgente, misteriosa, gaudiosa. Una scrittura coronata da una costante cadenza malinconica. Non solo Maigret, il nostro commissario con quel Gino Cerci dal panciotto bonario e dalla pipa che invogliava ad una serenità e ad una pazienza patriarcale. Non solo Maigret con quel passo felpato sotto le note di "un giorno dopo l'altro la vita se ne va" che ci riporta, tra l'altro, la struggente musica di un Luigi Tenco che ha accompagnato le avventure di questo disincantato commissario. Ma Simenon è lo scrittore di "Lettera al mio giudice", di "Lettera a mia madre" di "L'uomo che guardava passare i treni".

      Maigret è un personaggio che resta nell'immaginario popolare e non si cancella soprattutto nella cultura di alcune generazioni che hanno amato il poliziesco, il giallo, l'avventura senza mai smarrire il cuore dell'uomo. In ogni criminale, in ogni omicida, in ogni assassino, in ogni ladro c'è sempre un briciolo di umanità che andrebbe salvaguardata. L'uomo Maigret andava alla ricerca di questa mollica di umanità. Forse anche questo era una lezione impartita dal commissario e dallo scrittore.

      Enigmatico e kafkiano, a volte, il romanzo di Simenon. Oltre Maigret. I personaggi ridisegnano la loro quotidianità anzi si ridisegnano nella quotidianità. Un piccolo spaccato da "L'uomo che guardava passare i treni" del 1938: Popinga continuava a camminare. Quei vagabondaggi per le strade, alla luce dei negozi, in mezzo alla folla che gli passava accanto ignara, erano quasi tutta la sua vita. E le mani, nelle tasche del cappotto, carezzavano meccanicamente lo spazzolino da denti, il pennello e il rasoio". 

      Oltre Maigret, dunque. Si pensi a "Le finestre di fronte" scritto nel 1932. Riferendosi anche a questo romanzo Goffredo Parise scrisse: "Ha un predecessore… profetico: Franz Kafka… Simenon con pochi tratti, come un grande pittore… costruisce scene costumi e nomi e personaggi che paiono coperti dalla cipria bianca della pittura surrealista e metafisica. La sua semplice chiara prosa di umile scrittore di gialli è percorsa dal vento dei Balcani, evoca, con la sola parola Mar Nero, un mare nero, descrive gli uomini a due dimensioni: una di faccia e l'altra di profilo. Ma il profilo è una lama sottile di rasoio geometrico". Delle pennellate che lo hanno reso sempre sorprendente e mai banale. Così come in tutte le inchieste di Maigret ma soprattutto negli "altri" romanzi che lo hanno definito nella storia della letteratura del nostro secolo.

      Era nato a Liegi (Belgio) il 12 febbraio del 1903. Muore a Losanna nel 1989. Il primo libro pubblicato con il suo vero nome risale solo al 1929: "Pietr il lettore". E' questo scritto che mette in moto il personaggio Maigret. Nel 1944 - 1946 viene costretto ad un periodo di esilio per le sue simpatie naziste. Si trasferisce negli Stati Uniti. Importante "Tre camere a Manhattan" del 1946. Una vita impiegata intorno alla parola e alla ricerca di quei personaggi che sono nella vita. Senza metafore letterarie perché le metafore sono, appunto, nella vita.

      "Siamo arrivati fin dove abbiamo potuto. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo voluto l'amore nella sua totalità". Si legge in "Lettera al mio giudice". La passione, l'amore, i sentimenti sono percorsi nella vita della letteratura. "…la grandezza di Simenon si rivela intatta anche nell'affrontare il tema della passione d'amore: i deliri della gelosia, l'accanimento del sospetto, l'alcol che intontisce con provvisori oblii, la paura di dover tornare nel deserto della solitudine e dell'abbandono…". E' Giulio Nascimbeni che scrive.

      Tutto un mondo di straordinaria emozione che affascina e che rende quotidiano il personaggio in una storia che racconta frammenti di quotidiano.

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pubblicato il 24 agosto 2009

Ricordando Franco Cuomo tra le strade di Taranto

a due anni dalla morte

  di Pierfranco Bruni

 

Sono trascorsi due anni dalla scomparsa di Franco Cuomo. Finora non abbiamo tenuto fede all’impegno assunto due anni fa: quello di organizzare un convegno, una giornata di studi e di riflessioni, una meditazione a più voci sull’opera dello scrittore che ha attraversato la storia del templarismo attraverso un vissuto narrato. Nel corso di questi due anni sono stati pubblicati anche alcuni inediti. Libri postumi.

Di recente si è parlato del suo libro (opera teatrale) su “Il caso Matteotti”, 2009. Forse un testo insolito rispetto ai suoi studi e alle sue ricerche ma lo scrittore c’è tutto, l’anima invasa dal ricercatore, anzi dell’indagatore esplode con forza e stile. Ma poi esplode “Il tradimento del Templare” (2008) con la sua caratterizzazione e il suo scavo che è stato preceduto da “Gli ordini cavallereschi, nel mito e nella storia di ogni tempo e paese”, 2008.

Due anni dalla morte. Voglio qui riproporre un ricordo che non smette di accompagnarmi.  Ho un ricordo molto suggestivo e significativo di Franco Cuomo (Napoli, 22 aprile 1938 Roma, 23 luglio 2007). A volte restìo nell’aprirsi completamente al dialogo. Ma c’erano occasioni che con poche parole si aprivano orizzonti. Amava molto la città di Taranto e i colori della Magna Grecia. Più volte ho avuto modo di incontralo.

In una Taranto primaverile e quasi estiva di alcuni anni fa, dopo un incontro svoltosi al Castello Aragonese in un piazzale strapieno di gente che ascoltava e poneva domande sui temi cari a Franco, passeggiando mi disse (e lo ricordo benissimo) con la sua voce lenta e il suo accento con cadenze quasi “medioevali”: “Sai, abbiamo parlato dei Templari, dei viaggio dei Crociati, dei simboli e dei personaggi che hanno saputo rappresentare un mondo e una civiltà ma alla base di tutto si poneva un interrogativo. La letteratura salva dalla quotidianità? Io non credo, per le cose che ho raccontato ed ho scritto, che possa salvare dal quotidiano”.

Discutemmo a lungo di letteratura e di aspetti legati alla a questioni letterarie. Mi parlò con voce lenta dicendomi: “La letteratura cerca di salvare la bellezza. Dame e cavalieri sono nella storia ma senza la bellezza non avrebbero senso. Piuttosto la letteratura permette di capire con un’altra visione, che non è quella storicistica ma è testimonianza spirituale, la storia. Perché, vedi, continuava a ripetermi, la storia senza il mito e la leggenda non ha  un orizzonte. Ciò che ci fa sentire partecipi all’interno dei processi storici è la comprensione della storia come lettura delle civiltà in una tensione che permane nella capacità di vivere le avventure e i destini dei popoli come espressione spirituale. Parlando dei Templari, continuò, non abbiamo parlato della storia dei Templari ma della capacità nostra, oggi, di riuscire a penetrare grazie ai simboli un mondo che non c’è più ma che continua ad essere, comunque, presente. Da questo punto di vista, lo ricordo molto bene quando mi parlava di questo anche perché più volte siamo ritornati su tali argomenti, la bellezza non salva la storia ma ci salva dalla cronaca della storia”.

Mi diceva tutto questo passeggiando, con lunghe soste, sul Lungomare di Taranto. È vero la bellezza ci salva dalla cronaca della storia. Ci siamo incontrati diverse volte. Anche a Roma. Proprio a Roma ebbe la fortuna di conoscerlo. Era stato Francesco Grisi a presentarmelo. Aveva da poco pubblicato “Gunther d'Amalfi, cavaliere templare”. Era, credo il 1989. ma ci sono stati altri momenti importanti.

Era amico di Grisi. Me ne aveva parlato anni prima in occasione del Premio Strega del 1986, anno in cui Grisi arrivò in finale. E insistette molto affinché Franco Cuomo fosse inserito nella cinquina dello Strega del 1990 proprio con il romanzo dedicato a Gunther d’Amalfi. Con Grisi nel Ninfeo di Villa Giulia ci fermammo a commentare non solo il Premio ma si sottolineò sulla necessità di cambiare le modalità dei Premi.

La presentazione dei sui libri dal 1995 al 1999 a Taranto era un appuntamento fisso. Dedicammo anche in onore ai suoi studi una serie di manifestazioni sui Templari e sulla presenza dei Crociati. Presentammo nel 1996 “Il codice Macbeth. Il ritorno di Gunther d'Amalfi”.

E proprio in quell’occasione i nostri rapporti si intensificarono. Nel 1997 parlammo di “Santa Rita degli Impossibili. La storia d'amore e di sangue, di vendetta e di perdono di Rita da Cascia” con una interessante conversazione sulla storia di Santa Rita. Dopo quella presentazione io sentii la necessità (un bisogno vero) di recarmi a Cascia. Il mistero che incontra la storia o viceversa.

Parlando di Santa Rita  Franco mi disse: “Ricordati che, alla fine delle superbie e delle inquietudini,il perdono vince su tutto. Noi sapremo mai perdonare?”. Nello stesso anno presentammo “Le grandi profezie”. E di questo libro ci fu una conversazione privata tra me Grisi e Cuomo. Grisi sosteneva che abbiamo sempre la necessità di credere alle profezie e Cuomo ribatteva che sono, appunto, le profezie che guidano il viaggio.

Importanti furono le nostre conversazioni, i nostri silenzi, le attese. Quando poi nel 1998 discutemmo di “Il romanzo di Carlo Magno. 1, Il predestinato” quel discorso sulla profezia divenne il segno tangibile di una ricerca storica che non può vivere e non può resistere senza il segno della profezia e della speranza. “La storia continua ad avere bisogno del mistero per  realizzarsi come leggenda  e per penetrare gli uomini e le civiltà”. Questo mi disse Franco Cuomo.

Insomma una storia che non  ha bisogno della realtà ma deve entrare nei “sottosuoli” dell’anima. L’ho seguito nel corso del suo attraversamento letterario sino all’ultimo suo romanzo: “Anime perdute. Notturno veneziano con messa nera e fantasmi d'amore” passando tra  “Il tatuaggio”, “I sotterranei del cielo”, “Harun ar-Rashid, il califfo delle Mille e una notte” e altri titoli ancora continuando però a “inseguire” e a non dimenticare il ciclo di Carlo Magno. Io sono rimasto legato, comunque, a due testi che mi hanno aperto una visuale sul concetto di leggenda, di mito e di simbolo.

Mi riferisco a “I semidei” del 1995  “Il signore degli specchi” del 1991. Due percorsi, se così si vogliono definire, che costituiscono un battere nel cuore delle metafore. Una letteratura, quella di Cuomo, che è riuscita sempre a teatralizzare non solo i personaggi ma anche i destini e le avventure. Certo, Cuomo ha raccontato storie ma le storie (o la storia) di Cuomo hanno una dimensione che non si perde tra i rigagnoli della ragione perché continua a raccontarsi come leggenda. E se la storia non diventa anche leggenda per uno scrittore non è altro che una sottoscrizioni di fatti e di cronologie.

      La letteratura per Franco Cuomo era andare oltre la resistenza stessa delle date. C’è un altro libro che tuttora potrebbe rivelazione tracciati di sicura comprensione per capire l’età nella quale viviamo. Si tratta di “Nel nome di Dio” e risale al 1994. Un sottotitolo suggestivo che ci introduce in un’epoca di incanti e incantesimi tra le sponde dell’Occidente ed Oriente: “Roghi, duelli rituali e altre ordalie nell’Occidente medievale cristiano”.

L’Occidente tra i miti e le leggende. È più che mai attuale e resta nel sempre. “Non chiedere mai spiegazioni, mi disse in uno degli ultimi incontri, ma cerca di capire il senso, o la maschera, o il doppio che si vive nel segreto del mistero delle civiltà e dei popoli. Non chiedere giustificazioni. La storia non potrà mai darle. La letteratura potrà aiutarti se riuscirai a  non assentarti da una letteratura che è dentro il fascino del misterioso”. Conserverò nel cuore queste parole.

Uno scrittore che accanto alla recita della parola ha saputo raccontare senza lasciarsi rapire completamente dalla storia. Infatti il suo viaggio resta sempre dentro i segni della profezia come quel volume pubblicato nel 2007 che chiude una stagione “Le grandi profezie”. Si supera la storia con la profezia. Franco Cuomo attraversando il Medioevo ha raccontato le vie della profezia attraverso personaggi e luoghi. Tra i personaggi e i luoghi un impegno. Ritorneremo a parlare di Franco.

 

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pubblicato il 22 agosto 2009

Fernanda Pivano

Da Cesare Pavese a Fabrizio De André

Attraversando il viaggio della letteratura americana

Oltre un ricordo

 

 di Pierfranco Bruni

 

Dalla letteratura americana ai processi letterari che hanno segnato la nostra contemporaneità. Da allieva di Cesare Pavese ad intima amica di Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Fernanda Pivano, scomparsa recentemente, (era nata il 18 luglio del 1917 e morta il 18 agosto scorso), importante personalità della cultura italiana,  ha  ben saputo leggere e interpretare la letteratura italiana e americana attraverso la traduzione di autori e testi che hanno caratterizzato i processi di incontro tra la poesia americana e quella italiana.

Significativo resta l’insegnamento (e il legame) di Cesare Pavese come anche la sua conoscenza e amicizia con un poeta scomparso dieci anni fa, ovvero Fabrizio De André. Una indagatrice che ha saputo offrire un dibattito all’interno delle geografie poetiche che hanno caratterizzato il nostro tempo. I  suoi studi e le traduzioni relative a Jack Kerouac sono un riferimento centrale di quella letteratura che ha siglato i “miti dell’America” attraverso la beat generation. Avevo avuto modo di conoscere Fernanda proprio in occasione di un incontro dedicato a Fabrizio De André. 

Ma Fernanda Pivano va ricordata anche per le sue straordinarie prove narrative tra le quali si sottolinea un romanzo dal titolo ‘La mia Casbah’ che presenta una forte liricità e un attraversamento di codici esistenziali. Un romanzo aperto al diario nella sottolineatura del canto e controcanto.

Fernanda Pivano fu una dei primi studiosi a definire De André un vero poeta del nostro tempo. A lei si devono quelle chiarificazioni tra testo musicale e percorso linguistico ben enucleato in un libro dal titolo: ‘I miei amici cantautori’.

Una studiosa dei fenomeni musicali, degli anni Cinquanta tanto che proprio nel testo appena citato ebbe a scrivere: “Gli anni Cinquanta erano stati per la musica più creativi, innovatori e tecnologiche impegnati di quando sia mai accaduto nella storia: erano nati un po’ come conclusione – e insieme reazione - del movimento futurista e un po’ come sfruttamento dei nuovi mezzi tecnici di riproduzione e registrazione del suono allora disponibili”.

 

Nel di dentro delle sue ricerche che vanno dalla traduzione dell’Antologia di Spoon River alle opere di Hemingway credo che il suo legame con Cesare Pavese sia stato un momento particolare che ha segnato anche il suo approfondimento letterario. Infatti le lettere di Pavese a Fernanda Pivano sono veri e propri tasselli di una letteratura altra rispetto al contesto della fine degli anni Quaranta. Proprio a cominciare da una lettera datata 22 agosto 1940 si evince il legame umano e letterario che univa Cesare e Fernanda.

 

Ma Pavese si spingeva anche oltre. Il 20 ottobre sempre del 1940 annotava: “Ma è vero che F. non conosce l’amore? Certamente non ne conosce l’ultima istanza, ma un suo atteggiamento davanti al problema esiste, e con ciò s’intravede qualche lineamento del suddetto segreto”.

Il 13 febbraio del 1943 da Roma Cesare scriveva a Fernanda: “Fernanda, sono molto infelice. Tuttavia L’accarezzo con riserbo…”. Sempre da Roma il 4 giugno del 1943 Cesare annotava: “Donarsi vuol dire non aver tempo di guardare al passato e quindi non compiangersi”.

 

Alla  data del 2 febbraio 1946 c’è una brevissima lettera nella quale si legge: “Il cordone ombelicale è veramente tagliato, la prefazione e "ha stile" – il giudizio non è soltanto mio. Il maestro non ha più niente da fare. /Come semplice revisore attende il manoscritto col testo per dare l’ultima occhiata. Poi, buona fortuna nei mari della vita”.

Si tratta di una lettera autografa rimasta in possesso di Fernanda Pivano. La prefazione alla quale fa riferimento Pavese è a “Storia di me e dei miei racconti” di Sherwood Anderson. Sono soltanto dei piccoli segni che chiaramente andrebbero approfonditi non soltanto per capire il legame letterario e umano tra la Pivano e Pavese ma anche per capire una temperie penetrando i tessuti di un’epoca qual è stata quella degli anni Quaranta – Cinquanta.

Pavese, dunque, è stato un maestro per la Pivano e proprio partendo dalle lezioni pavesiane ha potuto padroneggiare il rapporto con la canzone. Un rapporto che partiva dalla capacità liriche e dalle intercettazioni linguistiche di poeti e scrittori moderni.

Infatti Fernanda si è confrontata con autori e cantanti come De André, Bob Dylan, come Jim Morrison, come Patti Smith, come Francesco Guccini e molti altri. Partendo dalla parola, dalla poesia, dal linguaggio della liricità è entrata dentro le stanze della musica.

D’altronde il suo vissuto con la letteratura americana e la frequentazione con testi di scrittori d’oltre Oceano hanno permesso di stabilire sempre un dialogo tra le eredità culturali e le contaminazioni che restano vitali nei linguaggi della poesia e della canzone. Restano vitali, comunque, quelle eredità provenienti da Cesare Pavese.

Eredità che hanno matrici in una griglia di simboli che si enucleano nell’analisi dei personaggi effettuata in Ernest Hemingway. Il senso del tempo e il formidabile vissuto del viaggio sono nuclei centrali nella tensione letteraria e umana della Pivano. Un raccordo che è possibile leggere con chiarezza proprio quando Fernanda sottolineava l’importanza della poetica di De André.

 

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pubblicato il 20 luglio 2009

La piazza o le piazze tra la solitudine e le nostalgie

in Cesare Pavese

  di Pierfranco Bruni

 La poesia di Cesare Pavese è costantemente intagliata all’interno di un paesaggio in cui la voce predominante è caratterizzata dai luoghi. Luoghi come realtà geografica luoghi come elemento fisico ma soprattutto luoghi distribuiti tra i giochi dei ricordi e quindi della memoria e l’indefinibile ricostruzione di una metafora fatta di segni onirici e di costruzioni esistenziali.

      Ma ci sono anche dei luoghi che pur essendo una rappresentazione del reale si definiscono nella cancellazione della realtà stessa per manifestarsi come modello estetico tra l’apparenza dell’immaginario e la fissazione della storicità.

      È proprio questo luogo, ovvero luogo per definizione tra estasi e storia, che ci interessa in modo particolare in virtù del fatto che Pavese non è mai uno scrittore realista ma la sua scrittura delinea un essere dell’immagine e un essere del linguaggio completamente fuori dagli schemi di una didattica del neorealismo. Probabilmente uno scrittore dello sguardo. Questo sì. E i luoghi in virtù di ciò sono comunque sempre un disegno ben ricamato nella costruzione della metafora. Ma quali sono questi luoghi in Pavese?

      Il mare e le Langhe sono luoghi ben definiti o meglio si potrebbe dire l’acqua e la terra. La città e il paese costituiscono la penetrazione dell’inconscio tra l’essere della solitudine e lo spazio dell’inconoscibile. E poi la campagna che lega la solitudine al mito e il mito in Pavese si spiega sempre attraverso una griglia simbolica. Un luogo che ritorna spesso, non solo nella poesia ma anche negli altri scritti, è il concetto di strada.

      La strada in Pavese è l’allegoria dell’andare del non fermarsi mai o meglio del percorso o meglio ancora dell’osservare o ancora del guardare cosa accade nella strada cosa accade al di fuori della casa. La strada come attraversamento ed è la strada che conduce alla piazza. C’è da dire che non sono molte le poesia in cui compare la piazza ma è un luogo di una presenza sia fisica che interiore.

      Certamente tra i versi dedicati alla piazza campeggia la dannunziana poesia dal titolo “Passerò per Piazza di Spagna” datata 28 marzo 1950 ed è parte integrante della raccolta “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” pubblicata postuma. È una poesia che fa parte dell’ultimo mazzo dei versi pavesiani e l’intreccio tra lo strascinamento esistenziale e la fotografia  è ben integrato. Ma anche qui in questa poesia dedicata alla piazza non mancano le strade. Per ben quattro volte è citato il termine strada, anzi tre volte al plurale e uno al singolare. Si conferma quello che si diceva prima: le strade buttano nella piazza e le strade fanno la piazza in Pavese.

      Una visione chiaramente geografica-antropologica (si pensi a “Abbozzo di Paesaggio” del marzo 1936 dove si legge: “Sulla piazza la gente non può litigare,/ma s’accolgono tutti con capre e maiali/contro i muri. Da un muro di cinta scrostato/s’erge saldo l’ammasso fiorito di un albero”, oppure a “Jazz melanconico-” del giugno 1929: “Il giardino profondo, sulla piazza,/di oscurità e freschezza”) che penetra il tessuto altamente lirico di Pavese. Anche il titolo diventa un attraversamento. Non si parla della Piazza di Spagna in se ma del passare per Piazza di Spagna ovvero quel “passerò”  non sta ad indicare una forma statica bensì dinamica. Pavese non si ferma in Piazza di Spagna. Qui entra in gioco la componente lirico esistenziale e la dinamicità in questo caso specifico segna ancore di più l’inquieto esistere, l’inquieto essere, l’inquieto uomo-luogo di Pavese.

      Pavese è l’uomo-luogo per eccellenza. È una delle poesie più belle dell’intero corpus pavesiano e risente come già si sottolineava l’influenza marcata del Dannunzio alcionico e del Dannunzio che recita la chimera. Il Dannunzio aulico ma questo non è né un difetto né un vizio è invece la dimostrazione che il Novecento Italiano non potrà mai fare a meno di Dannunzio.

      Dannunzio nella poesia italiana non è un’ombra, è la certezza del rinnovamento ed è quindi linguaggio nuovo nel solco della contemporaneità. Ebbene in Pavese e in questa poesia in particolare la piazza diventa il luogo dentro i luoghi. Si ascoltano i primi cinque versi :

 

   Sarò un cielo chiaro.

   S’apriranno le strade

   sul colle di pini e di pietra.

   Il tumulto delle strade

   non muterà quell’aria ferma.

 

      Il paesaggio dunque non è una rappresentazione figurativa soltanto perché la spinta onirica è abbastanza avvertibile in una cesellatura dove il mosaico che emerge è siglato dalla contestualizzazione della natura. Il cielo, il colle , la pietra. E poi compaiono le strade. Nelle strade c’è tumulto ma questo tumulto non cambierà l’aria-atmosfera che rimane ferma perché la piazza ancora una volta diviene il contenitore dei luoghi e delle sfumature paesaggistiche. Paesaggio che si vede e paesaggio interiore del poeta sono una dichiarazione dell’esistere e dell’essere.

      L’onirico aulismo dannunziano continua così :

 

   I fiori, spruzzati

  di colori alle fontane,

  occhieggeranno come donne

  divertite. Le scale

  le terrazze le rondini

 canteranno nel sole.

 S’aprirà quella strada,

 le pietre canteranno,

 il cuore batterà sussultando

 come l’acqua nelle fontane –

 sarà questa voce

 che salirà le tue scale.

 

      La frequentazione della musicalità porta Pavese ad un felice ascolto della ripetizione non solo della ritmicità ma delle parole che diventano in questo caso parole chiave. Non troviamo soltanto una nuova ripetizione del termine strada ma ricompare anche  il termine pietre e poi si ripete il verbo aprire, prima coniugato nella terza persona plurale nel tempo futuro ora, lasciando il tempo, nella terza persona singolare.

       La metafora più incisiva sembra quella proposta nel verso “le pietre canteranno”. Nel terzo verso la pietra era abbinata al colle quindi in una forma bloccata nell’immaginario in questa fase successiva la pietra acquista voce e il tutto ancora una volta all’interno della piazza.  Nei versi finali che andremo a citare la pietra avrà un suo odore. Così :

 

 Le finestre sapranno

 l’odore della pietra e dell’aria

 mattutina. S’aprirà una porta.

 Il tumulto delle strade

 sarà il tumulto del cuore

 nella luce smarrita.

 

      Si insiste con il lirismo ripetitivo e con l’uso dei vocaboli già menzionati. Se all’inizio “il tumulto delle strade” non concedeva mutazione in quest’ultimi versi c’è una abbinata tra strade e cuore. Le intermittenze proustiane del cuore in Pavese si chiariscono come tumulto e il tumulto delle strade penetrerà il tumulto del cuore e in questo caso si comprende come quella luce o quell’aria che era ferma risulta smarrita.   

      Qui si intaglia la figura della donna pur avendola già citata all’interno della poesia. Qui assume propriamente il tu. L’ultimo verso recita :

 

 Sarai tu – ferma e chiara.

 

      Ecco, dunque, il passaggio pavesiano per Piazza di Spagna che diventa una metafora fondante perché Pavese si serve della piazza per dipanare quel nodo che è il suo essere in bilico tra la vita e la morte. Così non è in una poesia precedente dal titolo “Lavorare stanca” dell’omonima raccolta .

      La poesia in questione, ovvero “Lavorare stanca” risale al 1934 e si nota immediatamente un incastro tra la strada e la piazza. Si parla ancora una volta di un attraversamento e non di un fermarsi. Si conferma, quindi, che la strada e la piazza non sono luoghi della staticità perché, come dice Pavese, per andare via di casa bisogna che si attraversino le strade come in questo verso che è l’incipit della poesia in questione :

 

 Traversare una strada per scappare di casa…

 

      E in questo caso le strade e le piazze sono vuote o peggio ancora deserte. C’è un insistere di questa immagine :

  Non è certo attendendo nella piazza deserta

 ancora :

  Nella notte la piazza ritorna deserta

oppure :

  Non è giusto restare sulla piazza deserta

 

      E prima ancora  si parla di piazza che sono vuote. Ma questa solitudine che si vive nella piazza è legata chiaramente all’attesa. Nonostante che la piazza sia deserta si resta in attesa. Ma per sconfiggere questa solitudine c’è bisogno di girare per le strade. Il tema della solitudine in pavese è ricorrente e per sconfiggerla, come ci dice anche in questa poesia, c’è bisogno della donna. Il deserto della piazza  può essere debellato cercando  “quella donna per strada”, ci dice Pavese, che “ci sarà certamente”.

      Solitudine-donna-strada-piazza. È su queste coordinate che il luogo-uomo Pavese offre una chiave di lettura che sulla da una diretta partecipazione realista per raccogliere i risultati di una antica metafora che si spiega nel mito-rito-simbolo. Ed è forse qui che si gioca la partita del luogo-piazza che in Pavese viene ad essere assorbito con un vero e proprio archetipo.

      La piazza deserta non è ancora la piazza che aulisce di matrice dannunziana ma attraversadola, come più volte è stato detto, ci fa sentire le strade che si aprono in una luce che si smarrisce come si è potuto notare in “Passerò per Piazza di Spagna” . Non si avverte, comunque, in queste due poesie alcun segno tangibile che possa rimandarci ad una visione di natura popolare pur essendo presente nell’interezza dell’opera pavesiana.

      Il fattore antropologico ha una sua valenza soprattutto nella poesia “Lavorare stanca” ma è l’antropologia che recepisce il senso di solitudine che campeggia. Così il luogo- piazza non resta il luogo-natura-paesaggio (come anche in “Gente non convinta” dell’estate 1933 dove si legge: “Questa pioggia che cade per piazze e per strade…”) ma è il luogo-esistenza perché nella piazza vivendo il tumulto, come ci dice Pavese, si cattura il tempo  e la dissolvenza del tempo lungo il tracciato di un destino che vive nel viaggio della vita. Ed essendo un attraversamento per Pavese non può che essere un viaggio in attesa.

      L’attesa per Pavese è oltre ogni realismo. E la piazza resta sempre attesa. L’attesa che si registra in “Città in campagna” del 1933 nella quale si legge: “Le vie fresche di mezza mattina eran piene di portici/e di gente. Gridavano in piazza. Girava il gelato/bianco e rosa: pareva le nuvole sode nel cielo”. Oppure l’attesa che si fa risveglio e cerca di rivelarsi alla piazza: “Donne fosche spalancano imposte alla piazza”. Si tratta di un verso di “Tolleranza” del dicembre 1935. E tutto si vive nello spazio della piazza: “È laggiù che quest’oggi sarà il calore/l’osteria la veglia le voci roche/la fatica. Sarà sulla piazza aperta./Ci saranno quegli occhi che scuotono il sangue”.

      Il suono e il “calore”  della “piazza aperta” si ascoltano lungo i corridoi di un ricordare che riporta echi. Ma anche luci Così in questi versi del “Carrettiere” del dicembre del 1939. ci sono le luci altrove. Quelle luci de “Il ritorno-” del marzo del 1929: “Tante tante persone – quante luci/accendono le piazze - /tante figure lente lente lente/ci han calpestato l’anima”. Ma la piazza aperta è un richiamo “della grande piazza” che si ascolta nei versi del 1927 che preparano i versi di  Lavorare stanca.

      La piazza e le strade non sono un ossimoro ma un intercalare di una continuità di quella tensione esistenziale dentro la geografia della propria anima. Sono le “piazze e le strade” de “L’estate di San Martino” del dicembre 1932 o la solitudine che accomuna strade e piazze: “Nelle strade deserte come piazze, s’accumula un grave silenzio”, da “Poetica”, datata settembre 1935 – 1936.

      La piazza non solo come rievocazione, non solo come cultura della comunicazione e della partecipazione, non solo come consapevolezza della solitudine ma come elemento della dissolvenza della retorica. Pavese vive dentro di sé la metafora della vita e in questa metafora la piazza diventa ethnos.

      Un consolidare lo spazio (in una allegoria che richiama lo “spiazzo”) con il vivere il tempo dentro un luogo. L’essere è il luogo della condivisione. Una vita alla ricerca della condivisione. Forse anche oltre le metafora che imprigionano il quotidiano e diventano mito.

      La piazza nel mito. È così presente la grecità in Pavese tanto che la piazza – spazio è una vera e propria incisione nel cammeo del rito – mito. L’antica agorà è in Pavese.

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pubblicato il 21 giugno 2009

 

La scomparsa del poeta lucano Vito  Riviello

Un incontro con i “maghi dell’inchiostro”

 

di Pierfranco Bruni

 

  

Il tema della terra, dei paesi che recitano la vita nel quotidiano, dei luoghi che si aprono agli spazi – piazza e poi quelle radici che raccontano oltre la storia in un intrecciare di immagini e ironia. Dentro questo misurare la parole con il tempo si avvolge il tracciato poetico di Vito Riviello.

Nato a Potenza nel 1933 e morto a Roma il 18 giugno scorso. Più volte avevo avuto modo di incontralo, negli anni passati, a Roma. E quel suo sguardo, quel suo accento, quel porgersi tra il silenzio e il sussurro restano incisi indimenticabili.

Un poeta che non ha mai creduto alla ufficialità del “fare” poesia ma si è inventato, attraverso le emozioni e i sentieri del magico antropologico e gioioso il linguaggio della poesia. Un linguaggio e una poesia che non hanno mai rinunciato a un gesto di teatralità. Perché la sua parola si è nutrita di teatralità e di un immaginario il cui senso scenico ha dato corpo proprio ad un recitativo che si è “strutturato” in un canto esistenziale.

Il suo primo libro risale al 1955: “Città fra paesi”. Un Sud non melanconico e triste ma forse sarcastico, beffardo, certamente meravigliosamente ironico. Ma in Riviello l’ironico è sempre raffigurazione di un rappresentativo teatrale nel quale gli oggetti, i luoghi, le strutture sono parte integrante di un dare e dire del sentimento.

Così: “Potenza del fiume e Potenza della montagna/siamo una cosa sola/dalla collina alla valle./Ci sono autobus verdi e chiari,/rari sono i muli che passano/e hanno un uomo smarrito sul dorso./Siamo città fra paesi/antica capitale di fontane e di chiese”.

È una poesia che non dimentica le cifre di una terra che è antropologicamente radicata ad una cultura contadina ma di questa non ne fa una icona. Anzi la cultura contadina è un passaggio di dimensioni metaforiche che incidono un solco e tracciano una trama all’interno di quella visione poetica meridionale contemporanea che ha fili stretti che vanno da Rocco Scotellaro a Pio Rasulo. Riviello è come se attraversasse la poetica scotellariana per inserirsi in uno spaccato certamente di poesia e canto meridionali ma riesce a cogliere un orizzonte che è quello della spazialità.

In versi del 1975  dal libro “L’astuzia della realtà” si può cogliere: “Bastava ricorrere ai sogni/per verificarsi sulla piazza/ai grandi vuoti planetari”. Un verso che si apre a ventaglio sulle metafisiche dello spazio – tempo inserendosi in una tradizione che deve avere la forza di ritrovarsi nella innovazione dei linguaggi.

D’altronde la poesia ha la capacità, la forza, la volontà di non confondersi con la restaurazione della tradizione linguistica. Una lezione quella di Riviello che può leggersi anche come un modello di antropologia poetica nella modernità degli incontri di lingue e di culture. Tanto che nel 1999 pubblica un testo dal titolo: “E arrivò il giorno della prassi”.

Una registrazione di una poetica del pensiero ma anche della inventiva. Nello stesso anno, non fare un contrappeso, dà alle stampe anche “La luna nei portoni”. Il poeta resta profondamente legato alla sua Lucania. Una Lucania che non è una geografia soltanto ma un viaggio nell’essere e nel tempo. In quel tempo che non smarrisce l’essere.

“L’ombra è un uomo che passa nella luce/innalza laterizi,/il nemico, non il grido della civetta,/è negli interstizi dialettici/d’una provocazione maledetta” (da “L’astuzia della realtà”). Un poeta che ha sperimentato non solo le forme linguistiche ma si è saputo confrontare con l’universalità delle esistenze.

Da questo punto di vista credo che Riviello si sia distaccato chiaramente dalla problematicità del meridionalismo fatto poetica ed ha proposto uno spaccato fortemente legato non tanto alla aulicità del verso ma ai contenuti del fraseggio. C’è, comunque, in Riviello, il tema del sogno che si mostra spesso ricorrente. “Se dal torbido sogno/mi svegliassi antilope/apprenderei la virtù dei fiori” (da “Dagherrotipo”, 1978).

Questo sogno che si fa pazienza è una trama persistente sin dai primi versi che hanno una connotazione ben precisa. Penso ai versi di “Mia città” (dal libro citato del 1955). Forse è in quella poetica dell’incipit che si ascolta l’amore e il rifugio, la città e la vita, la piazza e l’incontro.

“Mia città di pallidi contrasti/così come il sole si oppone alla luna/per un tramonto campagnolo”. Un profilo poetico che ha matrici profonde. Una poesia retta dalla distinzione nella comicità del popolare.

Riviello è come se avesse trovato in quella poesia popolare duo – trecentesco una chiave di lettura da offrire come modello non solo poetico ma letterario al tardo Novecento. Il beffardo e il giocoso hanno sempre riempito di stili la sua poesia. Come per dire che “In questa casa aperta di cultura/si recita un teatro nero/di linguaggio”.

Teatro come piazza. La piazza come luogo di una geografia mai virtuale ma simbolica. Resta una simbolicità attraversata dai segni del tempo. Forse una metafora. Ma questo teatro che è piazza è l’attraversamento delle vite. La poesia di Riviello, per usare un suo verso, “s’addice ai maghi dell’inchiostro”. 

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pubblicato il 21 giugno 2009

Il calabrese Geppo Tedeschi e il Futurismo

Un poeta “necessario” nella tradizione della innovazione

    di Pierfranco Bruni

 

Il Futurismo di Geppo Tedeschi è interamente attraversato da una diversità di aspetti che andrebbero sezionati in veri e propri momenti, ma ciò che interessa è l’anima con la quale il canto, il grido, il segno vengono coniugati sulla pagina. Non va dimenticato che la sua ricerca è un andare nel profondo. Oggi si caratterizza grazie a un paesaggio epocale che fa storia, che dà volto all’immagine di una civiltà per la quale l’uomo costituisce l’età dell’essere.

Ascoltiamo da Il Golfo di Spezia: “Onde più onde / fermatevi un poco / per ascoltare com’Ave Maria / la nostra futurista poesia! nemica a tutto fiato / dei baluardi, a muffa, / del passato. / poi tornerete a navigare / tra sole tempesta e risacca / per le strade / de l’acqua”. O un passaggio da Idrovolanti in siesta sul Golfo di Napoli (ed è qui una delle caratteristiche essenziali): “Dibattito progresso commozione d’idrovolanti in siesta sulle precise ore 2 del pomeriggio NO Nooo rombano i motori al tavolo da lavoro così non si può concepire il grande Poema GOLFO DI NAPOLI Conviene urge dirigere l’ascesa verso i 2000. Allora solo allora pizzicando 100 grossi motivi di bomba balistite pirite — MARCIA TRIONFALE AIDA si può benissimo decantare questo golfo legionario MEDAGLIA AL VALORE artista futurista fregolismo con la tuba di CASTEL DELL’OVO”.

Questo è soltanto l’inizio (per ragioni di stile lo riportiamo nella sua forma originale) e ci fa capire il gusto e la personalità di Geppo Tedeschi. Il binomio che maggiormente viene fuori è appunto parola-immagine. La parola (siamo in pieno futurismo) si serve dell’immagine. Diviene libera. L’immagine gioca a sua volta con la parola. Le immagini hanno una loro figurazione che si concentra tutta nel dettato poetico che è nella voce del verso.

Ma il poema continua con il gesto della parola e si offre con queste battute che in un certo qual modo spiegano la risposta futurista di Tedeschi: “SCATTANO I MAGNETI Trebbiamo trebbieremo trebbiare con le nostre scintille stella viola rosa minio la foschia notte tempesta. Siamo la luce eterna degli EROI La lampada votivo dello sventa-gliato paesaggio mediterraneo declamante strade ascensione progresso commercio precisano L’ELICHE. Scagliamo frantumiamo glorifichiamo il sorriso operoso tipico napoletanismo chitarra a trentasei corde per le serenate a POSILLIPO. C’innalziamo c’innalzeremo SEMPRE in meandri inesplicabili. Vita morte cielo mare. Così ogni giorno così ogni ora COSI SIA”.

Quale valore può avere questo paesaggio di versi? Abbiamo parlato di gioco. Non si tratta, comunque, di un gioco tout court. È un gioco di Costruzioni, ma è soprattutto un incasellamento di idee. E le idee si fanno parola, si fanno gusto e assumono i risvolti della grandezza.

Nell’Aeropoema citato vi sono i tratti dell’originalità. Una originalità che ci porta a scoprire versanti significativi. Così si esprime Marinetti: “L’originalità degli aeroporti sorella della originalità degli aeropittori aeroscultori aeromusicisti aeroarchitetti, ci porta all’infinitamente grande ed allo stratosferico mentre la poesia dei tecnicismi di altri futurismi non meno ispirati ci porta nell’infinitamente piccolo della biochimia dei commerci e delle metamorfosi industriali di un canneto mutato in seta e di un latte mutato in vestito”. Un segnale preciso che ci indica in che modo Geppo Tedeschi si rivolgeva alla cultura di una stagione fervida di interessi e di attività. Il suo poema dedicato (ne abbiamo già citato un passaggio) a Il Golfo di Spezia resta in questo senso una testimonianza emblematica.

Tedeschi raccoglie la sfida lanciata appunto da Marinetti a tutti i poeti d’Italia. Questo poema è stato declamato, insieme ad altri, il 3 e 4 ottobre del 1933, nel Teatro Civico della Spezia. Tedeschi aveva accolto la sfida di Marinetti, il quale si era espresso in questi termini: “Vi sfido tutti a battermi, se lo potete, il primo ottobre. Il mio Golfo della Spezia nascerà quando mi recherò a settembre nelle sue acque radiose e musicali per nuotare e poetare insieme”.

La sfida non aveva soltanto un valore letterario e poetico. Aveva una sua indicazione civile. Ed è proprio questa indicazione che ha avuto un immenso riscontro. Da qui il discorso diventa più complesso. Si entra nel vero e proprio viaggio letterario di Geppo Tedeschi. Si entra in quella dimensione che è movimento. E il movimento è trasmissione. Tra il movimento e la trasmissione si instaura quella tensione che è tensione armonica. La tensione armonica e il gesto libero nella poesia di Geppo Tedeschi formano un circuito dove la parola si incontra col dettato poetico. Il gesto è nella parola. La parola compie un gesto. Vi è, dunque, una armonia che si stende lungo un tracciato che ha sostanzialmente un peso dovuto sia al tipo di ricerca che all’individuazione di una identità culturale. E questa identità è una identità futurista. Il gesto è un gesto futurista.

Così la parola nella quale si condensano le attività linguistiche di un’arte e di un gusto che restano testimonianze di un uomo e di un’epoca. Testimonianza ma anche esperienze e con le esperienze la capacità di capire il volto di una civiltà nella quale il tempo e la caduta del tempo costituiscono una delle chiavi interpretative. Ma per capire questa civiltà non occorrono grosse interpretazioni e imponenti pretese. La poesia di Geppo Tedeschi è certamente una poesia che ha ritagliato una cornice all’interno di un contesto frastagliato e complesso. Una cornice importante la quale non può certamente essere trascurata sia in una realtà letteraria italiana che regionale. La letteratura calabrese del Novecento deve tener conto della poesia e della presenza di Geppo Tedeschi. Deve tener conto del Futurismo e della sua evoluzione.

F. T. Marinetti nella Prefazione alla I Edizione di Corto Circuiti (1938) scrive: “L’aeropoesia futurista calabrese di Geppo Tedeschi ha già dato a l’Italia molti versi liberi e parole in libertà che perfezionando i principi di sintesi e di dinamismo in questi CORTI CIRCUITI offrono al lettore intelligente e sensibile splendide originalissime fusioni di valvole, fusioni viola-arancione, cioè bruciate nel tragico della vita virilmente spremuta fino ad esplodere con lo splendore solare delle coste calabre sicule africane”.

E’ una osservazione toccante. Lo è per vari motivi. Sul piano letterario esamina alcuni punti focali e li mette a confronto con il gusto del colore. Sul piano umano fa emergere un dato mai trascurato che è quello dell’appartenenza alla terra calabra. Marinetti ci teneva a sottolineare questo aspetto. In Geppo Tedeschi questi due momenti si fonderanno. Basta ricordare i versi raccolti in Ruralismo calabrese (1942) o addirittura Tempo di aquiloni (1963). In queste due raccolte il colore e l’immagine, la proiezione della memoria e la terra dànno vita ad una esplosione musicale intensa e densa di contorni.

Marinetti nella sua Prefazione prosegue: “Talvolta la sua poesia breve e musicalissima, mi fa pensare a certi suonatori ambulanti di fiera e villaggi amanti di strumenti fonici come i guerrieri medievali erano armati di ferro, ardire crudeltà”. Un gioco di contorni ma anche di scene. Un gioco di vedute ma anche di ansie. Un gioco che conosce molto bene la parola e il senso. Un gioco che non si assenta dall’armonico suono. E ancora Marinetti che afferma: “La sua poesia suona sinteticamente e simultaneamente tutta con piedi, ginocchia, pancia, testa, mani e bocca. Per calamitare cosmicamente anime e corpi primaverili la poesia del Futurista Geppo Tedeschi è talvolta paragonabile all’assieme delle tastiere dei grandi organi delle cattedrali modernizzate che io defluisco, con parola nuova, politastiera…”.

“Lo fiutano e scaccando le vetrate diventano cielo musicale e rumorista nel cruscotto di un aeroplano, questa politastiera d’azzurri”.

Siamo vicini al gesto del rito. Prima si sono citati i “guerrieri medievali” ora si è dentro una “politastiera”. Ma le due cose hanno una comunanza, ed è quella della parola detta come segno di una sacralità. Certo in Geppo Tedeschi questo avvicinamento ad una dimensione del sacro è qualcosa di profondo. Lo si avverte nel respiro della parola. Lo si sente nell’affiato del verso. Lo si constata nel paesaggio del poema. Lo si ascolta nella tensione religiosa dei versi raccolti in Tempo di aquiloni. Qui la poesia dal titolo “Non sappiamo più leggere” è un esempio sicuro.

Così recita: “Non sappiamo più leggere / la parola abbraccio. / Abbiamo smarrito! la via! che Tu ài battuto / concludendo in Croce. / Disarma il nostro cuore / e fai che s’apra! ad ali di colomba. / Signore che inalberi / il giorno, / che apri la notte / che accendi le stelle”. Siamo oltre ad una dichiarazione di poesia futurista. Ma è indubbiamente una tappa di arrivo fondamentale nella quale confluiscono stagioni di ricerca e sentimenti.

Ma il suo futurismo resta legato all’età del poema. Ci riferiamo alla prima edizione (che risale al 1932) del Poema Gli affari del primo porto Mediterraneo di Genova, a Il Golfo di Spezia (prima edizione 1933), a Idrovolanti in siesta sul Golfo di Napoli (si tratta di un Aeropoema del 1937), a Corti circuiti (1938), al Poema “Ala” Parole in libertà Lotta tra la serra e il gomitolo, a Il suonivendolo (la cui prima edizione risale al 1939). Al 1940 risalgono I canti con l’acceleratore dove si avverte una tensione linguistica protesa verso un costante rinnovamento. Ma il Futurismo di Tedeschi (d’altronde tutta la poesia futurista) va verso un continuo sviluppo e si apre a continue riprese di rinnovamento. Ma con Ruralismo calabrese del 1942 (aeropoema futurista) il viaggio ha ulteriori sviluppi sia tematici che linguistici. L’immagine di un ritorno alla terra non conosce soste.

La Calabria è calata, con la sua atmosfera e quindi con i suoi colori, nel tempo delle parole. Malinconia e riprese nostalgiche si agitano all’interno di questa ricerca. Vi è un defluire della parola: “Malinconia amaranto, / venata di prime stelle. / Stelle stelle. / Quante stelle. / Amico vento, / pastore cli fronde, / legnaiuolo di monti e pianure, / tira sassi alle rose, / a primavera, / diavolo della polvere, / viandante brontolone, / ricco di fiabe come un paiuolo, / porta a l’Italia bella, / questo fagotto di baci”. La prima edizione è del 1942. Al 1943 appartiene Rosolacci tra il grano. Qui le voci della natura si intrecciano con la luce e i suoni. Ma il chiarore più vivo è un sentire l’infanzia come “arietta d’autunno”. Al 1951 appartiene Canne d’argento. Allo stesso anno, con prefazione di Giuseppe Lipparini, la raccolta Liriche epigrafi-che. Zufoli sul colle è del 1957. Tempo di aquiloni, già citata, è del 1963. Epigrafe porta la data del 1973. In Tempo di aquiloni il dettato poetico si arricchisce maggiormente di brevi immagini che sostengono un quadro ben robusto. Hanno una limpidità notevole. Il messaggio è tutto proteso in avanti. La memoria, il senso del ricordo, il recupero della perdita hanno un fascino coinvolgente.

La tematica futurista si incontra con altre esigenze esistenziali. Il paese viene presentato attraverso chiaroscuri che hanno una sottile liricità.

Sono molto belli e veri questi spaccati: “Paese, di tufo e di pietre! tutto inciso di giorni! desolati. / Mio povero paese / che aspetti, / rassegnato, / che la pietà del tempo, / ti dirupi”. Oppure: “Crepuscolo d’agosto / sognatore. / Ostia di luna, / scampanio di chiese. / In quest’ora. / Solenne e flautata, / brillano i focolari / al mio paese”. Sembra che il profilo dei versi anni Trenta sia mutato, ma sostanzialmente è mutato soltanto il gioco degli incastri. Le immagini formano una ragnatela su una dimensione che assume sembianze mitiche. Il ricordo, il tempo che fugge, il “crepuscolo” del paese (lo si è già detto) sono cose raccolte in una atmosfera mitica, la quale (è qui il suo futurismo) non ha rivolgimenti verso la nenia del passato ma guarda avanti. Ed è questo proiettarsi in avanti che rende viva e nuova la poesia di Geppo Tedeschi.

La distinzione è nel linguaggio. La poesia non sfugge al linguaggio. In queste poesie è subentrata la consapevolezza degli addii. Si ascolta: “Mi riscaldo alla fiamma / dei ricordi”. “Tramontano le stagioni. / Ognuna con il peso / degli addii. / Ma tu non mi tramonti / dal pensiero, / profilo sotto a mistica / distanza. / Mi sei fuggita, ratta / come l’acqua / e come l’acqua / non sei più tornata”. Fra questi versi c’è una poesia dedicata al padre.

Il titolo è appunto “Padre” che in un certo qual modo emblemizza in questa fase del viaggio e raccoglie tracce e significati di un meditare profondo e travagliato. In Geppo Tedeschi il dato meditativo è sempre un travaglio che cuce ferite lontane. La poe-sia recita: “Ti chiamai ieri, a lungo, / dalla proda. / Mi dissero che i morti, / a mezzogiorno, / ànno il sonno leggero / e trasparente. / Ma l’eco, in fretta, / tornò la voce. / Sulla strada, / abbagliata d’alta luce, / nenie, incomplete, / cantava un carraio. / Giovine e bello / palpitava il grano”.

La poesia di Geppo Tedeschi si presenta attraverso uno sviluppo che tocca diverse stagioni. Dagli anni del Futurismo alla poesia di oggi costituisce un viaggio affascinante. Ma la sua poesia non può essere isolata soltanto a un determinato periodo. Abbraccia un’epoca. La si deve cogliere per quello che riesce ad esprimere nella sua totalità. Certo si possono far prevalere dei momenti particolari invece di altri ma non si possono creare delle esclusioni forzate.

Giuseppe Lipparini nella Prefazione a Liriche epigrafiche osserva: “Futurista era, non tanto per ragioni teoriche quanto per l’impianto spontaneo della sua indole meridionale.

“Gli piacevano le belle immagini ampie ed ariose, amava il paesaggio, per la ricchezza dei colori e per quel senso rioposante di lontananze spezzate. E aspirava soprattutto, alla rara virtù della concentrazione poetica.

“Ma anche nel futurismo non gli riusciva di essere eccessivo o stravagante; c’era sempre in lui, forse per una lontana parentela con gli Elleni della Magna Grecia, un senso della misura che gli faceva da freno”.

Siamo al 1951. Molte esperienze sono state già vissute e consumate. Molte idee hanno trovato un loro sviluppo a sé. E Geppo Tedeschi è già in una stagione poetica nuova.

La sua poesia futurista rimane al centro della sua ricerca. I suoi Poemi segnano il momento più alto in un vantaggio che andrà sempre oltre.

Nel suo Futurismo, nel suo andare fra le parole e le azioni, l’anima della sua terra non va mai smarrita. Anzi compare spesso e spesso viene ricordata anche dai suoi critici. Questo segno di appartenenza alle origini (alla sua terra) avrà delle evoluzioni. Costituirà alla fine (ci riferiamo alle poesie ultime) una vera e propria dimensione poe-tica.

Ma il dato importante è che Geppo Tedeschi va riconsiderato per la complessità della sua opera e della sua ricerca. Va riconsiderato perché è un poeta che conta. E un poeta che merita. Ed è un poeta che apre prospettive nuove ad una meditazione più giusta e più vera sul Novecento letterario italiano e calabrese.

Che dire alla fine? E certo, e lo ripetiamo, che Tedeschi va recuperato, collocato nella storia della letteratura contemporanea. E un rappresentante notevole, e lo abbiamo visto, non solo del Futurismo ma della poesia calabrese. Grazie al suo Futurismo si sono create altre aperture e si possono creare ancora diverse interpretazioni critiche.

Ma il suo Futurismo ci conduce ad approfondire pieghe eterogenee che sono all’interno della letteratura calabrese. Scrittori e poeti, che la critica ufficiale non cita, d’ora in poi non possono restare nel dimenticatoio. Fra questi Giuseppe Troccoli, Costabile Guidi, Beatrice Capizzano Verri, Giuseppe Carrieri. Carrieri, infatti, è un altro personaggio che si è dedicato alla ricerca futurista. Molti suoi scritti, i primi, formano una condensazione di motivi che si aprono a quella tensione armonica che abbiamo riscontrato in Geppo Tedeschi. Certo, il Futurismo in Calabria ha una sua storia. Una sua storia ben radicata fatta di innovazioni e proposte. È vero, come sostiene Nicola Silvi, che “Il destino dell’artista meridionale è proprio quello di innovare”. E innovare vuol dire andare oltre.

Non è più pensabile restare nella cerchia degli ormai noti. Bisogna saper distinguere. E distinguere vuol dire anche scegliere. Ma il dato fondamentale è che occorre riscrivere molte pagine di storta della letteratura. Non ci si può più fidare di critiche anchilosate, stantie e ideologizzate. Ci si chiede se la letteratura calabrese avrà un suo futuro. Lo avrà se si riuscirà a superare lo scoglio del già detto. È stato detto o è stato scritto ciò che faceva più comodo, ma è un grave errore dimenticarsi di ciò che il Futurismo ha rappresentato in una terra lacerata culturalmente come è la Calabria.

Ebbene, Geppo Tedeschi, questo poeta nato nel 1907 a Oppido Mamertina e morto a Roma nel 1993, ha dato alla parola una universalità che è difficile riscontrare in altri poeti contemporanei. Ha cantato e ha parlato della sua terra con un candore e un linguaggio vivo, reale e lirico. Non si è mai smarrito in un racconto sterile. Non si è mai abbandonato ad una denuncia senza senso. La poesia non è mai denuncia. È testimonianza soprattutto.

In Geppo Tedeschi la trasmissione diventa testimonianza, perché la vita è testimonianza, perché vivere è testimoniarsi. E la testimonianza di Geppo Tedeschi è viva in un passato che non si dimentica e in un avvenire cha ha bisogno ancora di un passato che ha luci e colori, gesti e significati. La sua forza è nella traducibilità. I valori della sua poesia hanno àncore antiche che non segnano il passo ma si aprono ad un dialogo costante e lucido con la ricerca poetica contemporanea.

 

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pubblicato il 9 giugno 2009

Vincenzo Cardarelli.  Un poeta nello stile della nostalgia

a 50 anni dalla morte.

 di Pierfranco Bruni

Le nostalgie camminano lungo una vita. Un poeta italiano di cui si celebra il cinquantenario della morte il prossimo 15 giugno, Vincenzo Cardarelli, ha raccontato e recitato le nostalgie oltre Proust e dentro l’alcionico sentire la vita come estasi e bellezza. La nostalgia come stile. La nostalgia come prosa d’arte.

      Nel numero 7 (luglio 1959) della rivista “l’osservatore politico letterario”, dedicato a Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), G. Titta Rosa sottolinea l’importanza dello “stile popolare” e il “gusto dell’arte” che vibrano nella poesia e nella prosa di Cardarelli. La nostalgia del tempo e la malinconia dei paesaggi (i cui luoghi non sono, in Cardarelli, soltanto luoghi geografici, bensì luoghi dell’infanzia, della metafora di una memoria che riporta immagini e sensazioni e questi si trasformano in leggeri ricordi portati a spasso dal vento, da quel vento che ha tocchi di antiche civiltà) sono un viaggio che la poesia compie tra i sentieri incantati dei miti.

      Gli Etruschi (i veri antenati di Cardarelli e della sua terra: Tarquinia), l’Etruria, la civiltà del paese, il ritornare al paese e il simbolizzare il paese come una eredità sono elementi di una poetica i cui temi fondamentali sono tutti giocati sul sentimento del ritorno e sulla allegoria del viaggio. Ma è la nostalgia la componente fondamentale non della sua ricerca (in Cardarelli non si parla di ricerca poetica ma di orizzonte poetico e di tensione lirico – sentimentale – onirico) ma dei suoi segni archetipici. 

      L’amore e il tempo, la partenza e l’attesa, il sogno (che non è il sognare soltanto ma è la “frase” della fantasia e del fantasticare nell’isola della creatività che assorbe il vissuto) e il ricordare sono percorsi di un labirinto dentro il quale la poesia si fa dolore – vita – grazia – magia. I suoi “Prologhi”, i suoi “Viaggi nel tempo”, le sue “Favole della Genesi” e poi quel “Sole a picco” riportano con la poetica del viaggio ciò che Titta Rosa ha chiamato “sapienza antica”.

      Tutto ha il sapore delle radici. Il senso dell’appartenenza alla Patria è un radicamento forte. Perché per Cardarelli radici significa appunto radicamento. La storia che si trasforma in memoria è un altro tassello di questo radicamento in una “passeggiata” tra i simboli che lo catturano. Il tema dell’amicizia e dell’identità è un progetto esistenziale ed etico che si raccoglie tra i segni del mito e del rito (si pensi, a tal proposito, alla poesia intitolata: “Camicia nera” da “Poesie disperse”, anche se il linguaggio e i toni sono aridi e poco lirici ma sul piano letterario e linguistico, al di là del contenuto che resta, è una “prova poetica”).

      E poi le parole hanno una bellezza non tanto solare ma piuttosto lunare. La luna, in Cardarelli, è la metafora della luce che ha toni scuri e nella sua luce c’è l’assorbimento del tempo antelucano, del sole che è stato (“saluto nel sol d’estate/la forza dei giorni più uguali”), dei meriggi (quei meriggi estivi?), dei tramonti (quel penetrare l’autunno e l’ottobre?), delle stagioni che salutano (“Benvenuta estate./Alla tua decisa maturità/m’affido”).

      E il sole è nella luna. La luna come melanconia e strappo del tempo lungo i giorni che sembrano coriandoli appesi alle età del vivere. Ma cosa è la poesia per Cardarelli? In una sua sottolineatura ha cesellato: “La mia lirica (attenti alle pause e

alle distanze) non suppone che sintesi. La luce senza colore, esistenza senza attributo, inni senza interiezioni, impassibilità e lontananza, ordini e non figure, ecco quel che vi posso dare”.

      L’essenza nell’intreccio dell’esistenza del dolore e della consapevolezza. Ma anche della meditazione sul viaggio che si fa tempo e sul tempo che è viaggio. In quel suo riscoprire il senso dell’orizzonte delle origini la parola non è una cronaca ma una metafisica che si aggrappa all’anima e la poesia che non si rappresenta mai è soltanto il “racconto” o la recita lieve della testimonianza di una spiritualità nel paesaggio stesso dell’anima. Un paesaggio in cui la nostalgia è veramente uno stile. Nella parola e in quella cifra della memoria che riconcilia nel desiderio di recitare un destino tra i segni del non dimenticato.

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pubblicato il 2 giugno 2009

NANTAS SALVALAGGIO MI HA RACCONTATO LA TARANTO DELL’ODORE DI MARE

Morto ad 86 anni. Uno scrittore raffinato, un giornalista elegante

 

di Pierfranco Bruni

 Da Venezia a Taranto. Era il 1998. Taranto festeggiava la “festa” dei libri con un Salone dedicato alla piccola e media editoria nel Sud. Quasi una settimana per discutere di libri, mercato editoriale e letteratura. Un raccordo che stava prendendo piede intorno a un progetto di cultura. Ospite della manifestazione, per parlare di personaggi, di giornalismi e di linguaggi, Nantas Salvalaggio.  Era nato nel 1923 a Venezia. È morto l’altro ieri a Roma. Uno scrittore raffinato e un giornalista elegante, amico, con il quale abbiamo condiviso un sodalizio umano ma anche letterario.

Tra i maestri della bella parola. Un curioso che sapeva leggere tra le pieghe il sorriso e il dolore. Aveva pubblicato, in quei mesi, un libro, da me recensito sulle pagine del “Corriere”, dal titolo “Ricco e parole” e subito dopo un titolo particolare che recita: “Signora dell’acqua. Splendori e infamie della Repubblica di Venezia”. Ma io ero rimasto legato a un romanzo precedente dal quale leggemmo alcuni passi.

Un romanzo che ancora oggi ha uno splendore linguistico intrecciato ad una storia di vita e di metafore: “Passione d’inverno”, che risale al 1995 e che presentammo, insieme a Francesco Grisi, a Caserta. Taranto, ricordo le sue parole, ha l’odore dell’acqua e del vento e mi riporta a qualcosa che ho già dentro di me. Sì, questa Taranto, ho annotato i suoi incisi in un quaderno dalla copertina nera, ha l’umidità dello scirocco adriatico pur essendo un mare greco, mediterraneo,ionico.

Ci fermammo sul ponte di pietra e poi seduti su un muretto a Piazza Castello mi accennò al suo incontro con Marilyn. La vita che si fa romanzo. E nonostante noi cerchiamo di far diventare tutto romanzo, compresi i nostri amori veri, il tempo ci incide la sua memoria. Fu il primo giornalista italiano a intervistare Marylin.

Mi confidò che Marilyn giunse all’appuntamento in ritardo e con un sorriso smagliante e malinconico gli disse: “Sa, non lo faccio apposta ad arrivare tardi. Il guaio è che non so mai cosa mettermi”. Parlammo. Fino a tarda sera. Conosceva già da alcuni anni Nantas. Quello sguardo attento. Quel passo danzante. E ogni qual volta ci siamo incontrati mi ricordò sempre l’odore di brughiera che aveva respirato passeggiando sul lungomare di Taranto. Un odore che non cancellerò, perché sono gli odori, mi disse in una presentazione del mio libro su Carlo Belli a Palazzo delle Esposizioni di Roma, che mi inebriano e mi tuffano in un immaginario in cui non c’è bisogno di fantasia ma di silenzio. A volte abbiamo tanto bisogno di silenzio ma i ricordi diventano fantasmi e hanno voce e ci infastidiscono turbandoci. Sono stato amico di Nantas. È stata la prima persona che ha letto, ancora in bozze, il mio “Canto di Requiem”, il poemetto dedicato a Giovanni Paolo II e i suoi consigli furono importanti. Poi lo recensì su una testata nazionale. Così anche per un mio libro successivo: “Il mare e la conchiglia”.

Il fascino della sua scrittura ha lasciato solchi come cammei. Sono cammei i suoi ultimi romanzi. Mi riferisco a “Un amore a Venezia” del 2003 e “Ho amato Marilyn” del 2006. Storie che si intrecciano a destini. E destini che non smettono di tracciare vissuto e altri destini nelle ore che avanzano dentro la clessidra dell’età.

Cosa raccontare “… quando senti le fantasie venir meno, al principio dell’ultimo giro, allora scopri che il tempo è il più atroce degli inganni. Ma come, la commedia è già finita? Siamo al calar del sipario e ai titoli di coda? Ma se appena ieri…”. È il Salvalaggio di Marilyn. Il giornalista, il direttore di importanti testate, il “costruttore” di importanti riviste, il commentatore vivono dentro lo scrittore.

Lo scrittore che sembra recitare senza inventare. Lo scrittore che vive dentro i tasti della vita attraverso personaggi e amori. Troppo presto per parlare dei suoi libri. Almeno per me. Non posso in questo momento e forse non voglio. Non devo. Nantas è stato un maestro. Con la sua ironia  ha giocato fino in fondo con la vita. Con quella vita che non smette di farsi romanzo quando il romanzo si lega al raccontare le maglie dei destini. Parlando di Taranto Nantas certamente pensava all’acqua della sua Venezia.

 

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