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EDITORIALI
Letteratura
pag. 5
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato il 23 ottobre 2009
Oriana Fallaci nell’Ottantesimo della nascita
e a tre anni dalla morte.
Una scrittrice sui confini dei Mediterranei
di Pierfranco
Bruni
Ottant’anni fa
nasceva Oriani Fallaci,
nel 1929. Moriva il 15 settembre di tre anni fa,
2006. Non solo una giornalista ma una scrittrice che
ha penetrato i sentieri delle parole attraversando
luoghi e vivendo avventure e destini. Non può che
stare con orgoglio e senza pregiudizi nella storia
della letteratura italiana del Novecento.
Una scrittrice che
ha saputo raccontare la nostra contemporaneità tra
le tragedie della modernità. Passare per le parole e
giungere al limitare degli orizzonti. Quegli
orizzonti, che per la Fallaci, segnano il confine
tra l’Occidente e il Mediterraneo.
Il deserto, forse
l’esilio e le donne che sembrano impastate da
intreccio che recita rivoluzione e senso di una
assenza. Passate le parole restano le immagini e le
immagini fanno la storia, la storia di una visione
della vita e dello spazio nel quale si abita la
nostra esistenza. Ma forse più della rivoluzione può
la consapevolezza di vivere dentro una temperie
fatta di scontri, di guerre, di viaggi tra il mare,
il deserto, le sabbie, le frontiere, le trincee e
gli amori spezzati proprio nel momento in cui si
affollano le comprensioni o le interpretazioni dei
destini.
Una storia. Certo,
quella di Oriana Fallaci che non ha mai conosciuto
rinunce ma è stata dentro quegli orizzonti tra
Occidente e Oriente. Una metà di un Mediterraneo che
è dentro in ognuno di noi.
Una giornalista
che è entrata nella letteratura. Anzi una scrittrice
che ha “fisicamente” e letterariamente “cucinato” il
linguaggio giornalistico con quello di una scrittura
rapida, in cui il narrato, il vissuto, il sofferto,
il visto si è trasformato nelle lunghe sfide che
hanno abbracciato la vita trasformandola in un
destino proprio sul filo della letteratura. Anche le
sue interviste hanno raccontato, anche le sue
interviste hanno fatto storia, anche le sue
interviste sono il narrato di un pezzo di esistenza
non solo di Oriana Fallaci ma di un contesto che è
quello di una civiltà che si è giocata la propria
eredità ed identità tra i rossi tramonti abbruniti
degli spari tra le trincee dove gli uomini muoiono
veramente e i popoli si sradicano e la ricerca di
una affermazione di umanità.
L’Occidente con
gli Stati Uniti d’America sono stati il perno di una
formazione culturale dentro la quale la
controrivoluzionaria Fallaci ha definito la sua non
stanzialità e il suo nomadismo legati ad un bisogno
di sapere e di conoscere. Nel 1969 pubblica la sua
esperienza di un anno di guerra in Vietnam in un
libro dal titolo: “Niente è così sia”. Ma sono gli
anni di una contestazione non solo studentesca ma
esistenziale. La Fallaci, come Pasolini, guarda con
sospetto i figli di papà che inneggiano a Che
Guevara e crede ben poco alla risoluzione di quelle
piazze occupate in Italia o in Francia. Sembra tutto
ben poca cosa rispetto a ciò che avviene in India,
in Pakistan, in Sud America, in Medio Oriente.
C’è un Occidente,
in quegli anni, che esplora con l’Apollo 12 la luna
e un Medio Oriente in costante conflitto. La Fallaci
non vuole restare soltanto una testimone dei fatti
che raccontano sempre mosaici di vita. Il suo
rapporto con Alekos Panagulis, conosciuto, in
Grecia, il 21 agosto del 1973 è uno dei tasselli
importanti, straordinari, unici sia per il suo
cammino letterario sia soprattutto per quello
intimo, sentimentale, esistenziale. L’incontro tra i
due avviene proprio nel giorno in cui Panagulis esce
dal carcere. Un incontro che diventa una unione di
passione e di condivisioni. Il loro rapporto dura
soltanto tre anni, perché Panagulis muore in un
misterioso incidente stradale il 1 maggio del 1976.
Una storia,
dunque, che racconta la Grecia dei colonnelli e la
vita di Un uomo.
Il suo romanzo
del 1979 ha per titolo, appunto, “Un uomo”. La
stessa Fallaci parlando di questo libro, in una
intervista, dirà: “Un libro sulla solitudine
dell’individuo che rifiuta d’essere catalogato,
schematizzato, incasellato dalle mode, dalle
ideologie, dalle società, dal Potere. Un libro sulla
tragedia del poeta che non vuol essere e non è un
uomo – massa, strumento di coloro che comandano, di
coloro che promettono, di coloro che spaventano…”.
Un romanzo nella grecità profonda e moderna come era
stato il suo primo romanzo del 1962 dal titolo:
“Penelope alla guerra”, nel quale si racconta la
storia di una donna che non vuole attendere il suo
Ulisse e si metaforizza in una Penelope che viaggia
e lascia le mura di Itaca per penetrare il senso di
una identità in una ricerca verso le libertà come
valore di una consapevolezza.
Anche qui si
registra uno scontro diretto con le eredità
mediterranee alle quali la Fallaci si oppone con una
forza umana tutta occidentale e scavata nel proprio
tempo senza cedere a nostalgie o rimpianti che
risultano come misure della storia. Due tappe
fondamentali nella scrittrice Fallaci sino ad
arrivare agli anni Novanta, passando attraverso le
storie e la storia e soprattutto nel tanto discusso
e non ipocrita “Lettera ad un bambino mai nato” che
oggi si presenta come un atto quasi profetico se si
pensa che la prima edizione vide la luce nel 1975,
che vengono caratterizzati dall’imponente romanzo
“Insciallah”, pubblicato nel 1990.
Il romanzo –
saggio nasce all’interno di una “sua spedizione” tra
le truppe italiane che erano state inviate nel 1983
a Beirut. Un racconto affascinante tragico,
dolorante e contemplante ma anche irruente. “Non di
rado infatti sfuggo all’esilio delle scartoffie e
non osservato osservo. Ascolto, spio, rubo alla
realtà. Poi la correggo, la realtà, la reinvesto, la
ricreo, e con l’amletico scudiero ecco il discepolo
generale che crede di poter sconfiggere la Morte,
ecco il suo disincanto ed estroso consigliere, ecco
il suo erudito e bizzarro capo di Stato Maggiore,
ecco i suoi ufficiali ora bellicosi e ora mansueti,
ecco la moltitudine sfaccettata della sua truppa…”
(Da una lettera del Professore, nel testo).
Un filo
consistente lega “Insciallah” con gli scritti
successivi. Un Medio Oriente che è sempre più terra
di deserti, di scontri, di viaggi nella tragedia e
un Occidente che si affaccia sia geograficamente che
culturalmente ad un Mediterraneo fatto di tanti
altri Mediterranei che si raccontano nelle loro
avventure e nei loro ambigui territori: alla ricerca
di una cristianità profonda e di un fondamentalismo
islamico che approderà alla tragedia dell’11
settembre.
Cosa sono, in
fondo, gli ultimi suoi libri: “La forza della
ragione”, “La rabbia e l’orgoglio” e “L’Apocalisse”
che racchiude anche “Oriana Fallaci intervista se
stessa”? Sono un superamento culturale sia della
storia e identità musulmana sia delle eredità
mediterranee. Il tutto nell’orgoglio di un Occidente
che dovrebbe però smettere di tessere e ritessere
quella tela metaforica e reale incarnata da
Penelope. Ormai Penelope è andata alla guerra.
L’orizzonte di sabbia e di deserto, di mare e di
acqua e le contraddizioni delle metropoli e di un
Occidente sempre più americanizzato sono in costante
conflitto.
La Fallaci ci
invita ad una scelta. Il Mediterraneo resta un
orizzonte nella storia ma anche nelle pretese del
futuro, il Medio Oriente è un islamismo che invade e
l’Occidente della civiltà moderna non può che
essere nella nostra contemporaneità. Ma c’è una
storia che si trasforma in memoria e c’è un uomo che
è dentro la vita di Oriana che non smette di parlare
come un eroe nella bellezza delle parole, di quelle
parole che per restare non possono che essere
passione. La passione della scrittura.
La passione della
parola in una scrittrice tra confini. L’Oriente e
l’Occidente. E le donne che restano impastate nella
sabbia del deserto e nelle piramidi delle vetrate
dei grattacieli occidentali. Una storia dalla quale
raccogliere un seme.
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pubblicato il 5 settembre 2009
Tra la notte del 26 e 27 agosto di 59 anni fa
moriva Cesare Pavese
Uno scrittore nell’attesa della cristianità.
E a 60 anni dalla pubblicazione de “La casa in
collina”
di Marilena Cavallo
59
anni fa si toglieva la vita, nell’Albergo Roma di
Torino, Cesare Pavese. Era la notte tra il 26
e il 27 agosto del 1950.
Uno scrittore che ha lasciato chiaramente un segno
indelebile all’interno del contesto letterario del
Novecento non solo dal punto di vista problematico
ma anche per gli aspetti linguistici che ha
innervato nei processi comunicativi della
letteratura moderna. Uno scrittore che ha
attraversato la stagione del neorealismo non
focalizzando l’attenzione sulla realtà ma sulle
metafore espresse dalla condizione esistenziale
della contemporaneità.
Pavese è stato uno scrittore calato fino in fondo
nella sua contemporaneità e nel suo presente
attingendo però sempre modelli dalla cultura
classica e in particolare dai mito greco – romani.
La pagina del mito è stata un riferimento fondante
nei processi umani calati nella poetica dei simboli.
Pavese ha ricostruito i tasselli della storia
attraverso la griglia di una visione simbolica in
cui il simbolo è parte integrante dell’immaginario.
Un immaginario che è figlio non della stessa ma del
sogno.
Dalla poesia ai romanzi il percorso di Pavese è
stato sempre sia poeticamente che linguisticamente
coerente. “La luna e i falò” non deve essere letto
soltanto come il romanzo che ha percorso le tragedie
della guerra civile ma soprattutto come il romanzo
in cui i personaggi sono ben definiti e consolidati
dalla consapevolezza di vivere dentro un destino.
Mai avventura ma destino. Così come quelli che si
rintracciano in “La casa in collina”, pubblicato
proprio sessant’anni fa, le cui matrici hanno, tra
l’altro, una forte valenza, lirico – religiosa. Un
romanzo – cerniera tra stagioni di testimonianza
creativa e pensiero critico.
La religiosità in Pavese non sta nella riflessione
di una “ragione” o nella intuizione di un processo
storico ma nella sua religiosità ci sono gli
elementi di un raccordo tra il mistero (che non è
ricerca) e il bisogno di preghiera.
Infatti, Pavese, soprattutto negli ultimi anni e
dopo “Dialoghi con Leucò” che del 1947, vive in una
dimensione quasi metafisica che lo avvicina ad una
cultura della spiritualità. Giunge alla religiosità
non superando l’immaginario del mito ma
attraversandolo completamente. È come se si
consumasse il dato di una cultura “pagana” per
entrare in una “identità”, chiamiamola così,
cristiana. Perché non si può parlare di “fenomeno”
religioso in Pavese ma sostanzialmente si dovrà
insistere su una visione prettamente cristiana.
In Pavese c’è il “territorio” dell’umanità che viene
espresso grazie ai personaggi e questo territorio
diventa, con la definizione dei personaggi stessi,
un tessuto che presenta una simbologia cristiana.
Pavese si toglie la vita in una notte di fine agosto
in una città in solitudine, come molti quotidiani di
quel tempo hanno cesellato. Sul comodino accanto al
letto un solo libro. Non l’ultimo. Ma il suo libro,
ovvero “Dialoghi con Leucò”.
Perché si può definire il “suo” libro. Perché dentro
questi “Dialoghi” c’è una riscoperta e quindi una
rilettura del rapporto tra l’uomo terra e l’uomo
mistero, tra l’uomo – umanità e l’uomo – onirico.
Quel suo “scendere nel gorgo muti” di “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi” è la cifra di una
esistenza sia omerica che virgiliana che va oltre lo
stesso mito perché si affaccia sui lidi della
provvidenza e forse della profezia.
Oggi riproporre Pavese non significa soltanto
riproporre uno scrittore ma definire una letteratura
che è quella non del “nostos” e tanto meno una
letteratura dentro le griglie dello storicismo ma
una scrittura e una poetica della quotidiana
tragedia del vivere pur nella costante attesa di una
pascaliana cristianità: un po’ alla De Unamuno,
forse alla Kiekegaard e certamente sulla linea di
Mircea Elide e di Maria Zambrano.
Il mito che dialoga con il sacro. Ulisse che
annuncia il viaggio di Enea e che a sua volta
traccia alcuni segni che impegneranno San Paolo.
Ebbene, credo che Pavese, ormai, vada letto in modo
comparato nell’affascinante viaggio tra letteratura,
mistero, mito e sacro. Anche i suoi romanzi, come
“Il carcere”, o i racconti, come “Paesi tuoi”,
troverebbero una interpretazione che va oltre la
storia per restare letteratura dentro la
letteratura.
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pubblicato il 5 settembre 2009
Il 4 settembre di 20 anni fa moriva
Georges Simenon
di Marilena Cavallo
Il
4 settembre del 1989 (venti anni fa) moriva
Georges Simenon. Se c'è un elemento fortemente
esistenziale che ha caratterizzato i personaggi di
Georges Simenon (dalle opere dedicate al commissario
Maigret ai romanzi che condensano un respiro più
ampiamente problematico) è certamente la solitudine.
Una solitudine che ha sempre offerto una chiave di
lettura tutta intrisa di quella malinconia cara ai
chansonnier.
Georges Simenon. Uno scrittore che ha saputo
trasmettere le vibrazioni della vita nelle sue
diverse sfaccettature: dalla cronaca al sublime.
Ebbene sì, ogni suo racconto (ovvero ogni suo
raccontare) ha una "leggerezza" epidermica. Il
linguaggio ha la pazienza e i toni dei tiepidi
autunni o delle albe affogate nella nebbia. Un
linguaggio nella pacatezza delle descrizioni e in
uno scenario che invita alla meditazione.
Maigret, un personaggio da romanzo? Una
letteratura che aveva un sapore ricco di significati
umani. Una letteratura, in fondo, che univa la
storia dei personaggi con quelle avventure che
raccontavano periferie, quartieri lacerati, città in
bianco e nero. Quei racconti sono rimasti come
riferimento non solo dal punto di vista letterario e
culturale ma soprattutto dal punto di vista
cinematografico o televisivo.
Ma Simenon non è solo Maigret. Una scrittura
limpida. Direi scattante, avvolgente, misteriosa,
gaudiosa. Una scrittura coronata da una costante
cadenza malinconica. Non solo Maigret, il nostro
commissario con quel Gino Cerci dal panciotto
bonario e dalla pipa che invogliava ad una serenità
e ad una pazienza patriarcale. Non solo Maigret con
quel passo felpato sotto le note di "un giorno dopo
l'altro la vita se ne va" che ci riporta, tra
l'altro, la struggente musica di un Luigi Tenco che
ha accompagnato le avventure di questo disincantato
commissario. Ma Simenon è lo scrittore di "Lettera
al mio giudice", di "Lettera a mia madre" di "L'uomo
che guardava passare i treni".
Maigret è un personaggio che resta
nell'immaginario popolare e non si cancella
soprattutto nella cultura di alcune generazioni che
hanno amato il poliziesco, il giallo, l'avventura
senza mai smarrire il cuore dell'uomo. In ogni
criminale, in ogni omicida, in ogni assassino, in
ogni ladro c'è sempre un briciolo di umanità che
andrebbe salvaguardata. L'uomo Maigret andava alla
ricerca di questa mollica di umanità. Forse anche
questo era una lezione impartita dal commissario e
dallo scrittore.
Enigmatico e kafkiano, a volte, il romanzo di
Simenon. Oltre Maigret. I personaggi ridisegnano la
loro quotidianità anzi si ridisegnano nella
quotidianità. Un piccolo spaccato da "L'uomo che
guardava passare i treni" del 1938: Popinga
continuava a camminare. Quei vagabondaggi per le
strade, alla luce dei negozi, in mezzo alla folla
che gli passava accanto ignara, erano quasi tutta la
sua vita. E le mani, nelle tasche del cappotto,
carezzavano meccanicamente lo spazzolino da denti,
il pennello e il rasoio".
Oltre Maigret, dunque. Si pensi a "Le finestre
di fronte" scritto nel 1932. Riferendosi anche a
questo romanzo Goffredo Parise scrisse: "Ha un
predecessore… profetico: Franz Kafka… Simenon con
pochi tratti, come un grande pittore… costruisce
scene costumi e nomi e personaggi che paiono coperti
dalla cipria bianca della pittura surrealista e
metafisica. La sua semplice chiara prosa di umile
scrittore di gialli è percorsa dal vento dei
Balcani, evoca, con la sola parola Mar Nero, un mare
nero, descrive gli uomini a due dimensioni: una di
faccia e l'altra di profilo. Ma il profilo è una
lama sottile di rasoio geometrico". Delle pennellate
che lo hanno reso sempre sorprendente e mai banale.
Così come in tutte le inchieste di Maigret ma
soprattutto negli "altri" romanzi che lo hanno
definito nella storia della letteratura del nostro
secolo.
Era nato a Liegi (Belgio) il 12 febbraio del
1903. Muore a Losanna nel 1989. Il primo libro
pubblicato con il suo vero nome risale solo al 1929:
"Pietr il lettore". E' questo scritto che mette in
moto il personaggio Maigret. Nel 1944 - 1946 viene
costretto ad un periodo di esilio per le sue
simpatie naziste. Si trasferisce negli Stati Uniti.
Importante "Tre camere a Manhattan" del 1946. Una
vita impiegata intorno alla parola e alla ricerca di
quei personaggi che sono nella vita. Senza metafore
letterarie perché le metafore sono, appunto, nella
vita.
"Siamo arrivati fin dove abbiamo potuto.
Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo
voluto l'amore nella sua totalità". Si legge in
"Lettera al mio giudice". La passione, l'amore, i
sentimenti sono percorsi nella vita della
letteratura. "…la grandezza di Simenon si rivela
intatta anche nell'affrontare il tema della passione
d'amore: i deliri della gelosia, l'accanimento del
sospetto, l'alcol che intontisce con provvisori
oblii, la paura di dover tornare nel deserto della
solitudine e dell'abbandono…". E' Giulio Nascimbeni
che scrive.
Tutto un mondo di straordinaria emozione che
affascina e che rende quotidiano il personaggio in
una storia che racconta frammenti di quotidiano.
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pubblicato il 24 agosto 2009
Ricordando Franco Cuomo tra le strade
di Taranto
a due anni dalla morte
di Pierfranco Bruni
Sono
trascorsi due anni dalla scomparsa di Franco Cuomo.
Finora non abbiamo tenuto fede all’impegno assunto
due anni fa: quello di organizzare un convegno, una
giornata di studi e di riflessioni, una meditazione
a più voci sull’opera dello scrittore che ha
attraversato la storia del templarismo attraverso un
vissuto narrato. Nel corso di questi due anni sono
stati pubblicati anche alcuni inediti. Libri
postumi.
Di recente si è parlato del suo libro (opera
teatrale) su “Il caso Matteotti”, 2009. Forse un
testo insolito rispetto ai suoi studi e alle sue
ricerche ma lo scrittore c’è tutto, l’anima invasa
dal ricercatore, anzi dell’indagatore esplode con
forza e stile. Ma poi esplode “Il tradimento del
Templare” (2008) con la sua caratterizzazione e il
suo scavo che è stato preceduto da “Gli
ordini cavallereschi, nel mito e nella storia di
ogni tempo e paese”, 2008.
Due anni dalla morte. Voglio qui riproporre un
ricordo che non smette di accompagnarmi. Ho un
ricordo molto suggestivo e significativo di Franco
Cuomo (Napoli,
22
aprile
1938 –
Roma,
23
luglio
2007). A volte restìo nell’aprirsi
completamente al dialogo. Ma c’erano occasioni che
con poche parole si aprivano orizzonti. Amava molto
la città di Taranto e i colori della Magna Grecia.
Più volte ho avuto modo di incontralo.
In una Taranto primaverile e quasi estiva di alcuni
anni fa, dopo un incontro svoltosi al Castello
Aragonese in un piazzale strapieno di gente che
ascoltava e poneva domande sui temi cari a Franco,
passeggiando mi disse (e lo ricordo benissimo) con
la sua voce lenta e il suo accento con cadenze quasi
“medioevali”: “Sai, abbiamo parlato dei Templari,
dei viaggio dei Crociati, dei simboli e dei
personaggi che hanno saputo rappresentare un mondo e
una civiltà ma alla base di tutto si poneva un
interrogativo. La letteratura salva dalla
quotidianità? Io non credo, per le cose che ho
raccontato ed ho scritto, che possa salvare dal
quotidiano”.
Discutemmo a lungo di letteratura e di aspetti
legati alla a questioni letterarie. Mi parlò con
voce lenta dicendomi: “La letteratura cerca di
salvare la bellezza. Dame e cavalieri sono nella
storia ma senza la bellezza non avrebbero senso.
Piuttosto la letteratura permette di capire con
un’altra visione, che non è quella storicistica ma è
testimonianza spirituale, la storia. Perché, vedi,
continuava a ripetermi, la storia senza il mito e la
leggenda non ha un orizzonte. Ciò che ci fa sentire
partecipi all’interno dei processi storici è la
comprensione della storia come lettura delle civiltà
in una tensione che permane nella capacità di vivere
le avventure e i destini dei popoli come espressione
spirituale. Parlando dei Templari, continuò, non
abbiamo parlato della storia dei Templari ma della
capacità nostra, oggi, di riuscire a penetrare
grazie ai simboli un mondo che non c’è più ma che
continua ad essere, comunque, presente. Da questo
punto di vista, lo ricordo molto bene quando mi
parlava di questo anche perché più volte siamo
ritornati su tali argomenti, la bellezza non salva
la storia ma ci salva dalla cronaca della storia”.
Mi diceva tutto questo passeggiando, con lunghe
soste, sul Lungomare di Taranto. È vero la bellezza
ci salva dalla cronaca della storia. Ci siamo
incontrati diverse volte. Anche a Roma. Proprio a
Roma ebbe la fortuna di conoscerlo. Era stato
Francesco Grisi a presentarmelo. Aveva da poco
pubblicato “Gunther d'Amalfi, cavaliere templare”.
Era, credo il 1989. ma ci sono stati altri momenti
importanti.
Era amico di Grisi. Me ne aveva parlato anni prima
in occasione del Premio Strega del 1986, anno in cui
Grisi arrivò in finale. E insistette molto affinché
Franco Cuomo fosse inserito nella cinquina dello
Strega del 1990 proprio con il romanzo dedicato a
Gunther d’Amalfi. Con Grisi nel Ninfeo di Villa
Giulia ci fermammo a commentare non solo il Premio
ma si sottolineò sulla necessità di cambiare le
modalità dei Premi.
La presentazione dei sui libri dal 1995 al 1999 a
Taranto era un appuntamento fisso. Dedicammo anche
in onore ai suoi studi una serie di manifestazioni
sui Templari e sulla presenza dei Crociati.
Presentammo nel 1996 “Il codice Macbeth. Il ritorno
di Gunther d'Amalfi”.
E proprio in quell’occasione i nostri rapporti si
intensificarono. Nel 1997 parlammo di “Santa Rita
degli Impossibili. La storia d'amore e di sangue, di
vendetta e di perdono di Rita da Cascia” con una
interessante conversazione sulla storia di Santa
Rita. Dopo quella presentazione io sentii la
necessità (un bisogno vero) di recarmi a Cascia. Il
mistero che incontra la storia o viceversa.
Parlando di Santa Rita Franco mi disse: “Ricordati
che, alla fine delle superbie e delle
inquietudini,il perdono vince su tutto. Noi sapremo
mai perdonare?”. Nello stesso anno presentammo “Le
grandi profezie”. E di questo libro ci fu una
conversazione privata tra me Grisi e Cuomo. Grisi
sosteneva che abbiamo sempre la necessità di credere
alle profezie e Cuomo ribatteva che sono, appunto,
le profezie che guidano il viaggio.
Importanti furono le nostre conversazioni, i nostri
silenzi, le attese. Quando poi nel 1998 discutemmo
di “Il romanzo di Carlo Magno. 1, Il predestinato”
quel discorso sulla profezia divenne il segno
tangibile di una ricerca storica che non può vivere
e non può resistere senza il segno della profezia e
della speranza. “La storia continua ad avere bisogno
del mistero per realizzarsi come leggenda e per
penetrare gli uomini e le civiltà”. Questo mi disse
Franco Cuomo.
Insomma una storia che non ha bisogno della realtà
ma deve entrare nei “sottosuoli” dell’anima. L’ho
seguito nel corso del suo attraversamento letterario
sino all’ultimo suo romanzo: “Anime perdute.
Notturno veneziano con messa nera e fantasmi
d'amore” passando tra “Il tatuaggio”, “I
sotterranei del cielo”, “Harun ar-Rashid, il califfo
delle Mille e una notte” e altri titoli ancora
continuando però a “inseguire” e a non dimenticare
il ciclo di Carlo Magno. Io sono rimasto legato,
comunque, a due testi che mi hanno aperto una
visuale sul concetto di leggenda, di mito e di
simbolo.
Mi riferisco a “I semidei” del 1995 “Il signore
degli specchi” del 1991. Due percorsi, se così si
vogliono definire, che costituiscono un battere nel
cuore delle metafore. Una letteratura, quella di
Cuomo, che è riuscita sempre a teatralizzare non
solo i personaggi ma anche i destini e le avventure.
Certo, Cuomo ha raccontato storie ma le storie (o la
storia) di Cuomo hanno una dimensione che non si
perde tra i rigagnoli della ragione perché continua
a raccontarsi come leggenda. E se la storia non
diventa anche leggenda per uno scrittore non è altro
che una sottoscrizioni di fatti e di cronologie.
La letteratura per Franco Cuomo era andare
oltre la resistenza stessa delle date. C’è un altro
libro che tuttora potrebbe rivelazione tracciati di
sicura comprensione per capire l’età nella quale
viviamo. Si tratta di “Nel nome di Dio” e risale al
1994. Un sottotitolo suggestivo che ci introduce in
un’epoca di incanti e incantesimi tra le sponde
dell’Occidente ed Oriente: “Roghi, duelli rituali e
altre ordalie nell’Occidente medievale cristiano”.
L’Occidente tra i miti e le leggende. È più che mai
attuale e resta nel sempre. “Non chiedere mai
spiegazioni, mi disse in uno degli ultimi incontri,
ma cerca di capire il senso, o la maschera, o il
doppio che si vive nel segreto del mistero delle
civiltà e dei popoli. Non chiedere giustificazioni.
La storia non potrà mai darle. La letteratura potrà
aiutarti se riuscirai a non assentarti da una
letteratura che è dentro il fascino del misterioso”.
Conserverò nel cuore queste parole.
Uno scrittore che accanto alla recita della parola
ha saputo raccontare senza lasciarsi rapire
completamente dalla storia. Infatti il suo viaggio
resta sempre dentro i segni della profezia come quel
volume pubblicato nel 2007 che chiude una stagione
“Le grandi profezie”. Si supera la storia con la
profezia. Franco Cuomo attraversando il Medioevo ha
raccontato le vie della profezia attraverso
personaggi e luoghi. Tra i personaggi e i luoghi un
impegno. Ritorneremo a parlare di Franco.
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pubblicato il 22 agosto 2009
Fernanda Pivano
Da Cesare Pavese a Fabrizio De André
Attraversando il viaggio della
letteratura americana
Oltre un ricordo
di Pierfranco Bruni
Dalla
letteratura americana ai processi letterari che
hanno segnato la nostra contemporaneità. Da allieva
di Cesare Pavese ad intima amica di Fabrizio De
André e Dori Ghezzi. Fernanda Pivano, scomparsa
recentemente, (era nata il 18 luglio del 1917 e
morta il 18 agosto scorso), importante personalità
della cultura italiana, ha ben saputo leggere e
interpretare la letteratura italiana e americana
attraverso la traduzione di autori e testi che hanno
caratterizzato i processi di incontro tra la poesia
americana e quella italiana.
Significativo resta l’insegnamento (e il legame) di
Cesare Pavese come anche la sua conoscenza e
amicizia con un poeta scomparso dieci anni fa,
ovvero Fabrizio De André. Una indagatrice che ha
saputo offrire un dibattito all’interno delle
geografie poetiche che hanno caratterizzato il
nostro tempo. I suoi studi e le traduzioni relative
a Jack Kerouac sono un riferimento centrale di
quella letteratura che ha siglato i “miti
dell’America” attraverso la beat generation. Avevo
avuto modo di conoscere Fernanda proprio in
occasione di un incontro dedicato a Fabrizio De
André.
Ma Fernanda Pivano va ricordata anche per le sue
straordinarie prove narrative tra le quali si
sottolinea un romanzo dal titolo ‘La mia Casbah’ che
presenta una forte liricità e un attraversamento di
codici esistenziali. Un romanzo aperto al diario
nella sottolineatura del canto e controcanto.
Fernanda Pivano fu una dei primi studiosi a definire
De André un vero poeta del nostro tempo. A lei si
devono quelle chiarificazioni tra testo musicale e
percorso linguistico ben enucleato in un libro dal
titolo: ‘I miei amici cantautori’.
Una studiosa dei fenomeni musicali, degli anni
Cinquanta tanto che proprio nel testo appena citato
ebbe a scrivere: “Gli anni Cinquanta erano stati per
la musica più creativi, innovatori e tecnologiche
impegnati di quando sia mai accaduto nella storia:
erano nati un po’ come conclusione – e insieme
reazione - del movimento futurista e un po’ come
sfruttamento dei nuovi mezzi tecnici di riproduzione
e registrazione del suono allora disponibili”.
Nel di dentro delle sue ricerche che vanno dalla
traduzione dell’Antologia di Spoon River alle
opere di Hemingway credo che il suo legame con
Cesare Pavese sia stato un momento particolare che
ha segnato anche il suo approfondimento letterario.
Infatti le lettere di Pavese a Fernanda Pivano sono
veri e propri tasselli di una letteratura altra
rispetto al contesto della fine degli anni Quaranta.
Proprio a cominciare da una lettera datata 22 agosto
1940 si evince il legame umano e letterario che
univa Cesare e Fernanda.
Ma Pavese si spingeva anche oltre. Il 20 ottobre
sempre del 1940 annotava: “Ma è vero che F. non
conosce l’amore? Certamente non ne conosce l’ultima
istanza, ma un suo atteggiamento davanti al problema
esiste, e con ciò s’intravede qualche lineamento del
suddetto segreto”.
Il 13 febbraio del 1943 da Roma Cesare scriveva a
Fernanda: “Fernanda, sono molto infelice. Tuttavia
L’accarezzo con riserbo…”. Sempre da Roma il 4
giugno del 1943 Cesare annotava: “Donarsi vuol dire
non aver tempo di guardare al passato e quindi non
compiangersi”.
Alla data del 2 febbraio 1946 c’è una brevissima
lettera nella quale si legge: “Il cordone ombelicale
è veramente tagliato, la prefazione e "ha stile" –
il giudizio non è soltanto mio. Il maestro non ha
più niente da fare. /Come semplice revisore attende
il manoscritto col testo per dare l’ultima occhiata.
Poi, buona fortuna nei mari della vita”.
Si tratta di una lettera autografa rimasta in
possesso di Fernanda Pivano. La prefazione alla
quale fa riferimento Pavese è a “Storia di me e dei
miei racconti” di Sherwood Anderson. Sono soltanto
dei piccoli segni che chiaramente andrebbero
approfonditi non soltanto per capire il legame
letterario e umano tra la Pivano e Pavese ma anche
per capire una temperie penetrando i tessuti di
un’epoca qual è stata quella degli anni Quaranta –
Cinquanta.
Pavese, dunque, è stato un maestro per la Pivano e
proprio partendo dalle lezioni pavesiane ha potuto
padroneggiare il rapporto con la canzone. Un
rapporto che partiva dalla capacità liriche e dalle
intercettazioni linguistiche di poeti e scrittori
moderni.
Infatti Fernanda si è confrontata con autori e
cantanti come De André, Bob Dylan, come Jim
Morrison, come Patti Smith, come Francesco Guccini e
molti altri. Partendo dalla parola, dalla poesia,
dal linguaggio della liricità è entrata dentro le
stanze della musica.
D’altronde il suo vissuto con la letteratura
americana e la frequentazione con testi di scrittori
d’oltre Oceano hanno permesso di stabilire sempre un
dialogo tra le eredità culturali e le contaminazioni
che restano vitali nei linguaggi della poesia e
della canzone. Restano vitali, comunque, quelle
eredità provenienti da Cesare Pavese.
Eredità che hanno matrici in una griglia di simboli
che si enucleano nell’analisi dei personaggi
effettuata in Ernest Hemingway. Il senso del tempo e
il formidabile vissuto del viaggio sono nuclei
centrali nella tensione letteraria e umana della
Pivano. Un raccordo che è possibile leggere con
chiarezza proprio quando Fernanda sottolineava
l’importanza della poetica di De André.
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pubblicato il 20 luglio 2009
La piazza o le piazze tra la solitudine e le
nostalgie
in Cesare Pavese
di
Pierfranco Bruni
La poesia di Cesare Pavese è costantemente
intagliata all’interno di un paesaggio in cui la
voce predominante è caratterizzata dai luoghi.
Luoghi come realtà geografica luoghi come elemento
fisico ma soprattutto luoghi distribuiti tra i
giochi dei ricordi e quindi della memoria e
l’indefinibile ricostruzione di una metafora fatta
di segni onirici e di costruzioni esistenziali.
Ma ci sono anche dei luoghi che pur essendo
una rappresentazione del reale si definiscono nella
cancellazione della realtà stessa per manifestarsi
come modello estetico tra l’apparenza
dell’immaginario e la fissazione della storicità.
È proprio questo luogo, ovvero luogo per
definizione tra estasi e storia, che ci interessa in
modo particolare in virtù del fatto che Pavese non è
mai uno scrittore realista ma la sua scrittura
delinea un essere dell’immagine e un essere del
linguaggio completamente fuori dagli schemi di una
didattica del neorealismo. Probabilmente uno
scrittore dello sguardo. Questo sì. E i luoghi in
virtù di ciò sono comunque sempre un disegno ben
ricamato nella costruzione della metafora. Ma quali
sono questi luoghi in Pavese?
Il mare e le Langhe sono luoghi ben definiti o
meglio si potrebbe dire l’acqua e la terra. La città
e il paese costituiscono la penetrazione
dell’inconscio tra l’essere della solitudine e lo
spazio dell’inconoscibile. E poi la campagna che
lega la solitudine al mito e il mito in Pavese si
spiega sempre attraverso una griglia simbolica. Un
luogo che ritorna spesso, non solo nella poesia ma
anche negli altri scritti, è il concetto di strada.
La strada in Pavese è l’allegoria dell’andare
del non fermarsi mai o meglio del percorso o meglio
ancora dell’osservare o ancora del guardare cosa
accade nella strada cosa accade al di fuori della
casa. La strada come attraversamento ed è la strada
che conduce alla piazza. C’è da dire che non sono
molte le poesia in cui compare la piazza ma è un
luogo di una presenza sia fisica che interiore.
Certamente tra i versi dedicati alla piazza
campeggia la dannunziana poesia dal titolo “Passerò
per Piazza di Spagna” datata 28 marzo 1950 ed è
parte integrante della raccolta “Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi” pubblicata postuma. È una poesia
che fa parte dell’ultimo mazzo dei versi pavesiani e
l’intreccio tra lo strascinamento esistenziale e la
fotografia è ben integrato. Ma anche qui in questa
poesia dedicata alla piazza non mancano le strade.
Per ben quattro volte è citato il termine strada,
anzi tre volte al plurale e uno al singolare. Si
conferma quello che si diceva prima: le strade
buttano nella piazza e le strade fanno la piazza in
Pavese.
Una visione chiaramente
geografica-antropologica (si pensi a “Abbozzo di
Paesaggio” del marzo 1936 dove si legge: “Sulla
piazza la gente non può litigare,/ma s’accolgono
tutti con capre e maiali/contro i muri. Da un muro
di cinta scrostato/s’erge saldo l’ammasso fiorito di
un albero”, oppure a “Jazz melanconico-” del giugno
1929: “Il giardino profondo, sulla piazza,/di
oscurità e freschezza”) che penetra il tessuto
altamente lirico di Pavese. Anche il titolo diventa
un attraversamento. Non si parla della Piazza di
Spagna in se ma del passare per Piazza di Spagna
ovvero quel “passerò” non sta ad indicare una forma
statica bensì dinamica. Pavese non si ferma in
Piazza di Spagna. Qui entra in gioco la componente
lirico esistenziale e la dinamicità in questo caso
specifico segna ancore di più l’inquieto esistere,
l’inquieto essere, l’inquieto uomo-luogo di Pavese.
Pavese è l’uomo-luogo per eccellenza. È una
delle poesie più belle dell’intero corpus pavesiano
e risente come già si sottolineava l’influenza
marcata del Dannunzio alcionico e del Dannunzio che
recita la chimera. Il Dannunzio aulico ma questo non
è né un difetto né un vizio è invece la
dimostrazione che il Novecento Italiano non potrà
mai fare a meno di Dannunzio.
Dannunzio nella poesia italiana non è
un’ombra, è la certezza del rinnovamento ed è quindi
linguaggio nuovo nel solco della contemporaneità.
Ebbene in Pavese e in questa poesia in particolare
la piazza diventa il luogo dentro i luoghi. Si
ascoltano i primi cinque versi :
Sarò un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
Il paesaggio dunque non è una rappresentazione
figurativa soltanto perché la spinta onirica è
abbastanza avvertibile in una cesellatura dove il
mosaico che emerge è siglato dalla
contestualizzazione della natura. Il cielo,
il colle , la pietra. E poi compaiono
le strade. Nelle strade c’è tumulto ma questo
tumulto non cambierà l’aria-atmosfera che rimane
ferma perché la piazza ancora una volta diviene il
contenitore dei luoghi e delle sfumature
paesaggistiche. Paesaggio che si vede e paesaggio
interiore del poeta sono una dichiarazione
dell’esistere e dell’essere.
L’onirico aulismo dannunziano continua così :
I fiori, spruzzati
di colori alle fontane,
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa voce
che salirà le tue scale.
La frequentazione della musicalità porta
Pavese ad un felice ascolto della ripetizione non
solo della ritmicità ma delle parole che diventano
in questo caso parole chiave. Non troviamo soltanto
una nuova ripetizione del termine strada ma
ricompare anche il termine pietre e poi si
ripete il verbo aprire, prima coniugato nella
terza persona plurale nel tempo futuro ora,
lasciando il tempo, nella terza persona singolare.
La metafora più incisiva sembra quella proposta nel
verso “le pietre canteranno”. Nel terzo verso la
pietra era abbinata al colle quindi in una forma
bloccata nell’immaginario in questa fase successiva
la pietra acquista voce e il tutto ancora una volta
all’interno della piazza. Nei versi finali che
andremo a citare la pietra avrà un suo odore. Così :
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Si insiste con il lirismo ripetitivo e con
l’uso dei vocaboli già menzionati. Se all’inizio “il
tumulto delle strade” non concedeva mutazione in
quest’ultimi versi c’è una abbinata tra strade e
cuore. Le intermittenze proustiane del cuore in
Pavese si chiariscono come tumulto e il tumulto
delle strade penetrerà il tumulto del cuore e in
questo caso si comprende come quella luce o
quell’aria che era ferma risulta smarrita.
Qui si intaglia la figura della donna pur
avendola già citata all’interno della poesia. Qui
assume propriamente il tu. L’ultimo verso recita :
Sarai tu – ferma e chiara.
Ecco, dunque, il passaggio pavesiano per
Piazza di Spagna che diventa una metafora fondante
perché Pavese si serve della piazza per dipanare
quel nodo che è il suo essere in bilico tra la vita
e la morte. Così non è in una poesia precedente dal
titolo “Lavorare stanca” dell’omonima raccolta .
La poesia in questione, ovvero “Lavorare
stanca” risale al 1934 e si nota immediatamente un
incastro tra la strada e la piazza. Si parla ancora
una volta di un attraversamento e non di un
fermarsi. Si conferma, quindi, che la strada e la
piazza non sono luoghi della staticità perché, come
dice Pavese, per andare via di casa bisogna che si
attraversino le strade come in questo verso che è
l’incipit della poesia in questione :
Traversare una strada per scappare di
casa…
E in questo caso le strade e le piazze sono
vuote o peggio ancora deserte. C’è un insistere di
questa immagine :
Non è certo attendendo nella piazza
deserta
ancora
:
Nella
notte la piazza ritorna deserta
oppure :
Non è giusto restare sulla piazza deserta
E prima ancora si parla di piazza che sono
vuote. Ma questa solitudine che si vive nella piazza
è legata chiaramente all’attesa. Nonostante che la
piazza sia deserta si resta in attesa. Ma per
sconfiggere questa solitudine c’è bisogno di girare
per le strade. Il tema della solitudine in pavese è
ricorrente e per sconfiggerla, come ci dice anche in
questa poesia, c’è bisogno della donna. Il deserto
della piazza può essere debellato cercando “quella
donna per strada”, ci dice Pavese, che “ci sarà
certamente”.
Solitudine-donna-strada-piazza. È su queste
coordinate che il luogo-uomo Pavese offre una chiave
di lettura che sulla da una diretta partecipazione
realista per raccogliere i risultati di una antica
metafora che si spiega nel mito-rito-simbolo. Ed è
forse qui che si gioca la partita del luogo-piazza
che in Pavese viene ad essere assorbito con un vero
e proprio archetipo.
La piazza deserta non è ancora la piazza che
aulisce di matrice dannunziana ma attraversadola,
come più volte è stato detto, ci fa sentire le
strade che si aprono in una luce che si smarrisce
come si è potuto notare in “Passerò per Piazza di
Spagna” . Non si avverte, comunque, in queste due
poesie alcun segno tangibile che possa rimandarci ad
una visione di natura popolare pur essendo presente
nell’interezza dell’opera pavesiana.
Il fattore antropologico ha una sua valenza
soprattutto nella poesia “Lavorare stanca” ma è
l’antropologia che recepisce il senso di solitudine
che campeggia. Così il luogo- piazza non resta il
luogo-natura-paesaggio (come anche in “Gente non
convinta” dell’estate 1933 dove si legge: “Questa
pioggia che cade per piazze e per strade…”) ma è il
luogo-esistenza perché nella piazza vivendo il
tumulto, come ci dice Pavese, si cattura il tempo e
la dissolvenza del tempo lungo il tracciato di un
destino che vive nel viaggio della vita. Ed essendo
un attraversamento per Pavese non può che essere un
viaggio in attesa.
L’attesa per Pavese è oltre ogni realismo. E
la piazza resta sempre attesa. L’attesa che si
registra in “Città in campagna” del 1933 nella quale
si legge: “Le vie fresche di mezza mattina eran
piene di portici/e di gente. Gridavano in piazza.
Girava il gelato/bianco e rosa: pareva le nuvole
sode nel cielo”. Oppure l’attesa che si fa risveglio
e cerca di rivelarsi alla piazza: “Donne fosche
spalancano imposte alla piazza”. Si tratta di un
verso di “Tolleranza” del dicembre 1935. E tutto si
vive nello spazio della piazza: “È laggiù che
quest’oggi sarà il calore/l’osteria la veglia le
voci roche/la fatica. Sarà sulla piazza aperta./Ci
saranno quegli occhi che scuotono il sangue”.
Il suono e il “calore” della “piazza aperta”
si ascoltano lungo i corridoi di un ricordare che
riporta echi. Ma anche luci Così in questi versi del
“Carrettiere” del dicembre del 1939. ci sono le luci
altrove. Quelle luci de “Il ritorno-” del marzo del
1929: “Tante tante persone – quante luci/accendono
le piazze - /tante figure lente lente lente/ci han
calpestato l’anima”. Ma la piazza aperta è un
richiamo “della grande piazza” che si ascolta nei
versi del 1927 che preparano i versi di Lavorare
stanca.
La piazza e le strade non sono un ossimoro ma
un intercalare di una continuità di quella tensione
esistenziale dentro la geografia della propria
anima. Sono le “piazze e le strade” de “L’estate di
San Martino” del dicembre 1932 o la solitudine che
accomuna strade e piazze: “Nelle strade deserte come
piazze, s’accumula un grave silenzio”, da “Poetica”,
datata settembre 1935 – 1936.
La piazza non solo come rievocazione, non solo
come cultura della comunicazione e della
partecipazione, non solo come consapevolezza della
solitudine ma come elemento della dissolvenza della
retorica. Pavese vive dentro di sé la metafora della
vita e in questa metafora la piazza diventa ethnos.
Un consolidare lo spazio (in una allegoria che
richiama lo “spiazzo”) con il vivere il tempo dentro
un luogo. L’essere è il luogo della condivisione.
Una vita alla ricerca della condivisione. Forse
anche oltre le metafora che imprigionano il
quotidiano e diventano mito.
La piazza nel mito. È così presente la grecità
in Pavese tanto che la piazza – spazio è una vera e
propria incisione nel cammeo del rito – mito.
L’antica agorà è in Pavese.
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pubblicato il 21 giugno 2009
La scomparsa del poeta lucano Vito Riviello
Un incontro con i “maghi dell’inchiostro”
di Pierfranco Bruni
Il
tema della terra, dei paesi che recitano la vita nel
quotidiano, dei luoghi che si aprono agli spazi –
piazza e poi quelle radici che raccontano oltre la
storia in un intrecciare di immagini e ironia.
Dentro questo misurare la parole con il tempo si
avvolge il tracciato poetico di Vito Riviello.
Nato a Potenza nel 1933 e morto a Roma il 18 giugno
scorso. Più volte avevo avuto modo di incontralo,
negli anni passati, a Roma. E quel suo sguardo, quel
suo accento, quel porgersi tra il silenzio e il
sussurro restano incisi indimenticabili.
Un poeta che non ha mai creduto alla ufficialità del
“fare” poesia ma si è inventato, attraverso le
emozioni e i sentieri del magico antropologico e
gioioso il linguaggio della poesia. Un linguaggio e
una poesia che non hanno mai rinunciato a un gesto
di teatralità. Perché la sua parola si è nutrita di
teatralità e di un immaginario il cui senso scenico
ha dato corpo proprio ad un recitativo che si è
“strutturato” in un canto esistenziale.
Il suo primo libro risale al 1955: “Città fra
paesi”. Un Sud non melanconico e triste ma forse
sarcastico, beffardo, certamente meravigliosamente
ironico. Ma in Riviello l’ironico è sempre
raffigurazione di un rappresentativo teatrale nel
quale gli oggetti, i luoghi, le strutture sono parte
integrante di un dare e dire del sentimento.
Così: “Potenza del fiume e Potenza della
montagna/siamo una cosa sola/dalla collina alla
valle./Ci sono autobus verdi e chiari,/rari sono i
muli che passano/e hanno un uomo smarrito sul
dorso./Siamo città fra paesi/antica capitale di
fontane e di chiese”.
È una poesia che non dimentica le cifre di una terra
che è antropologicamente radicata ad una cultura
contadina ma di questa non ne fa una icona. Anzi la
cultura contadina è un passaggio di dimensioni
metaforiche che incidono un solco e tracciano una
trama all’interno di quella visione poetica
meridionale contemporanea che ha fili stretti che
vanno da Rocco Scotellaro a Pio Rasulo. Riviello è
come se attraversasse la poetica scotellariana per
inserirsi in uno spaccato certamente di poesia e
canto meridionali ma riesce a cogliere un orizzonte
che è quello della spazialità.
In versi del 1975 dal libro “L’astuzia della
realtà” si può cogliere: “Bastava ricorrere ai
sogni/per verificarsi sulla piazza/ai grandi vuoti
planetari”. Un verso che si apre a ventaglio sulle
metafisiche dello spazio – tempo inserendosi in una
tradizione che deve avere la forza di ritrovarsi
nella innovazione dei linguaggi.
D’altronde la poesia ha la capacità, la forza, la
volontà di non confondersi con la restaurazione
della tradizione linguistica. Una lezione quella di
Riviello che può leggersi anche come un modello di
antropologia poetica nella modernità degli incontri
di lingue e di culture. Tanto che nel 1999 pubblica
un testo dal titolo: “E arrivò il giorno della
prassi”.
Una registrazione di una poetica del pensiero ma
anche della inventiva. Nello stesso anno, non fare
un contrappeso, dà alle stampe anche “La luna nei
portoni”. Il poeta resta profondamente legato alla
sua Lucania. Una Lucania che non è una geografia
soltanto ma un viaggio nell’essere e nel tempo. In
quel tempo che non smarrisce l’essere.
“L’ombra è un uomo che passa nella luce/innalza
laterizi,/il nemico, non il grido della civetta,/è
negli interstizi dialettici/d’una provocazione
maledetta” (da “L’astuzia della realtà”). Un poeta
che ha sperimentato non solo le forme linguistiche
ma si è saputo confrontare con l’universalità delle
esistenze.
Da questo punto di vista credo che Riviello si sia
distaccato chiaramente dalla problematicità del
meridionalismo fatto poetica ed ha proposto uno
spaccato fortemente legato non tanto alla aulicità
del verso ma ai contenuti del fraseggio. C’è,
comunque, in Riviello, il tema del sogno che si
mostra spesso ricorrente. “Se dal torbido sogno/mi
svegliassi antilope/apprenderei la virtù dei fiori”
(da “Dagherrotipo”, 1978).
Questo sogno che si fa pazienza è una trama
persistente sin dai primi versi che hanno una
connotazione ben precisa. Penso ai versi di “Mia
città” (dal libro citato del 1955). Forse è in
quella poetica dell’incipit che si ascolta l’amore e
il rifugio, la città e la vita, la piazza e
l’incontro.
“Mia città di pallidi contrasti/così come il sole si
oppone alla luna/per un tramonto campagnolo”. Un
profilo poetico che ha matrici profonde. Una poesia
retta dalla distinzione nella comicità del popolare.
Riviello è come se avesse trovato in quella poesia
popolare duo – trecentesco una chiave di lettura da
offrire come modello non solo poetico ma letterario
al tardo Novecento. Il beffardo e il giocoso hanno
sempre riempito di stili la sua poesia. Come per
dire che “In questa casa aperta di cultura/si recita
un teatro nero/di linguaggio”.
Teatro come piazza. La piazza come luogo di una
geografia mai virtuale ma simbolica. Resta una
simbolicità attraversata dai segni del tempo. Forse
una metafora. Ma questo teatro che è piazza è
l’attraversamento delle vite. La poesia di Riviello,
per usare un suo verso, “s’addice ai maghi
dell’inchiostro”. |
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pubblicato il 21 giugno 2009
Il calabrese Geppo Tedeschi e il
Futurismo
Un poeta “necessario” nella
tradizione della innovazione
di
Pierfranco Bruni
Il
Futurismo di Geppo Tedeschi è interamente
attraversato da una diversità di aspetti che
andrebbero sezionati in veri e propri momenti, ma
ciò che interessa è l’anima con la quale il
canto, il grido, il segno vengono coniugati sulla
pagina. Non va dimenticato che la sua ricerca è un
andare nel profondo. Oggi si caratterizza grazie a
un paesaggio epocale che fa storia, che dà volto
all’immagine di una civiltà per la quale l’uomo
costituisce l’età dell’essere.
Ascoltiamo da Il Golfo di Spezia: “Onde più
onde / fermatevi un poco / per ascoltare
com’Ave Maria / la nostra futurista poesia! nemica a
tutto fiato / dei baluardi, a muffa, / del passato.
/ poi tornerete a navigare / tra sole tempesta e
risacca / per le strade / de l’acqua”. O un
passaggio da Idrovolanti in siesta sul Golfo di
Napoli (ed è qui una delle caratteristiche
essenziali): “Dibattito progresso commozione
d’idrovolanti in siesta sulle precise ore 2 del
pomeriggio NO Nooo rombano i motori al tavolo da
lavoro così non si può concepire il grande Poema
GOLFO DI NAPOLI Conviene urge dirigere l’ascesa
verso i 2000. Allora solo allora pizzicando 100
grossi motivi di bomba balistite pirite — MARCIA
TRIONFALE AIDA si può benissimo decantare questo
golfo legionario MEDAGLIA AL VALORE artista
futurista fregolismo con la tuba di CASTEL
DELL’OVO”.
Questo
è soltanto l’inizio (per ragioni di stile lo
riportiamo nella sua forma originale) e ci fa capire
il gusto e la personalità di Geppo Tedeschi. Il
binomio che maggiormente viene fuori è appunto
parola-immagine. La parola (siamo in pieno
futurismo) si serve dell’immagine. Diviene libera.
L’immagine gioca a sua volta con la parola. Le
immagini hanno una loro figurazione che si concentra
tutta nel dettato poetico che è nella voce del
verso.
Ma il
poema continua con il gesto della parola e si offre
con queste battute che in un certo qual modo
spiegano la risposta futurista di Tedeschi:
“SCATTANO I MAGNETI Trebbiamo trebbieremo trebbiare
con le nostre scintille stella viola rosa minio la
foschia notte tempesta. Siamo la luce eterna degli
EROI La lampada votivo dello sventa-gliato paesaggio
mediterraneo declamante strade ascensione progresso
commercio precisano L’ELICHE. Scagliamo frantumiamo
glorifichiamo il sorriso operoso tipico
napoletanismo chitarra a trentasei corde per le
serenate a POSILLIPO. C’innalziamo c’innalzeremo
SEMPRE in meandri inesplicabili. Vita morte cielo
mare. Così ogni giorno così ogni ora COSI SIA”.
Quale
valore può avere questo paesaggio di versi? Abbiamo
parlato di gioco. Non si tratta, comunque, di un
gioco tout court. È un gioco di Costruzioni,
ma è soprattutto un incasellamento di idee. E le
idee si fanno parola, si fanno gusto e assumono i
risvolti della grandezza.
Nell’Aeropoema
citato vi sono i tratti dell’originalità. Una
originalità che ci porta a scoprire versanti
significativi. Così si esprime Marinetti:
“L’originalità degli aeroporti sorella della
originalità degli aeropittori aeroscultori
aeromusicisti aeroarchitetti, ci porta
all’infinitamente grande ed allo stratosferico
mentre la poesia dei tecnicismi di altri futurismi
non meno ispirati ci porta nell’infinitamente
piccolo della biochimia dei commerci e delle
metamorfosi industriali di un canneto mutato in seta
e di un latte mutato in vestito”. Un segnale preciso
che ci indica in che modo Geppo Tedeschi si
rivolgeva alla cultura di una stagione fervida di
interessi e di attività. Il suo poema dedicato (ne
abbiamo già citato un passaggio) a Il Golfo di
Spezia resta in questo senso una testimonianza
emblematica.
Tedeschi raccoglie la sfida lanciata appunto da
Marinetti a tutti i poeti d’Italia. Questo poema è
stato declamato, insieme ad altri, il 3 e 4 ottobre
del 1933, nel Teatro Civico della Spezia. Tedeschi
aveva accolto la sfida di Marinetti, il quale si era
espresso in questi termini: “Vi sfido tutti a
battermi, se lo potete, il primo ottobre. Il mio
Golfo della Spezia nascerà quando mi recherò a
settembre nelle sue acque radiose e musicali per
nuotare e poetare insieme”.
La
sfida non aveva soltanto un valore letterario e
poetico. Aveva una sua indicazione civile. Ed è
proprio questa indicazione che ha avuto un immenso
riscontro. Da qui il discorso diventa più complesso.
Si entra nel vero e proprio viaggio letterario di
Geppo Tedeschi. Si entra in quella dimensione che è
movimento. E il movimento è trasmissione. Tra il
movimento e la trasmissione si instaura quella
tensione che è tensione armonica. La tensione
armonica e il gesto libero nella poesia di Geppo
Tedeschi formano un circuito dove la parola
si incontra col dettato poetico. Il gesto è nella
parola. La parola compie un gesto. Vi è, dunque, una
armonia che si stende lungo un tracciato che ha
sostanzialmente un peso dovuto sia al tipo di
ricerca che all’individuazione di una identità
culturale. E questa identità è una identità
futurista. Il gesto è un gesto futurista.
Così la
parola nella quale si condensano le attività
linguistiche di un’arte e di un gusto che restano
testimonianze di un uomo e di un’epoca.
Testimonianza ma anche esperienze e con le
esperienze la capacità di capire il volto di una
civiltà nella quale il tempo e la caduta del tempo
costituiscono una delle chiavi interpretative. Ma
per capire questa civiltà non occorrono grosse
interpretazioni e imponenti pretese. La poesia di
Geppo Tedeschi è certamente una poesia che ha
ritagliato una cornice all’interno di un contesto
frastagliato e complesso. Una cornice importante la
quale non può certamente essere trascurata sia in
una realtà letteraria italiana che regionale. La
letteratura calabrese del Novecento deve tener conto
della poesia e della presenza di Geppo Tedeschi.
Deve tener conto del Futurismo e della sua
evoluzione.
F. T.
Marinetti nella Prefazione alla I Edizione di
Corto Circuiti (1938) scrive: “L’aeropoesia
futurista calabrese di Geppo Tedeschi ha già dato a
l’Italia molti versi liberi e parole in libertà che
perfezionando i principi di sintesi e di dinamismo
in questi CORTI CIRCUITI offrono al lettore
intelligente e sensibile splendide originalissime
fusioni di valvole, fusioni viola-arancione, cioè
bruciate nel tragico della vita virilmente spremuta
fino ad esplodere con lo splendore solare delle
coste calabre sicule africane”.
E’ una
osservazione toccante. Lo è per vari motivi. Sul
piano letterario esamina alcuni punti focali e li
mette a confronto con il gusto del colore. Sul piano
umano fa emergere un dato mai trascurato che è
quello dell’appartenenza alla terra calabra.
Marinetti ci teneva a sottolineare questo aspetto.
In Geppo Tedeschi questi due momenti si
fonderanno. Basta ricordare i versi raccolti in
Ruralismo calabrese (1942) o addirittura
Tempo di aquiloni (1963). In queste due raccolte
il colore e l’immagine, la proiezione della memoria
e la terra dànno vita ad una esplosione musicale
intensa e densa di contorni.
Marinetti nella sua Prefazione prosegue:
“Talvolta la sua poesia breve e musicalissima, mi fa
pensare a certi suonatori ambulanti di fiera e
villaggi amanti di strumenti fonici come i guerrieri
medievali erano armati di ferro, ardire crudeltà”.
Un gioco di contorni ma anche di scene. Un gioco di
vedute ma anche di ansie. Un gioco che conosce molto
bene la parola e il senso. Un gioco che non si
assenta dall’armonico suono. E ancora Marinetti che
afferma: “La sua poesia suona sinteticamente e
simultaneamente tutta con piedi, ginocchia, pancia,
testa, mani e bocca. Per calamitare cosmicamente
anime e corpi primaverili la poesia del Futurista
Geppo Tedeschi è talvolta paragonabile all’assieme
delle tastiere dei grandi organi delle cattedrali
modernizzate che io defluisco, con parola nuova,
politastiera…”.
“Lo
fiutano e scaccando le vetrate diventano cielo
musicale e rumorista nel cruscotto di un aeroplano,
questa politastiera d’azzurri”.
Siamo
vicini al gesto del rito. Prima si sono citati i
“guerrieri medievali” ora si è dentro una
“politastiera”. Ma le due cose hanno una comunanza,
ed è quella della parola detta come segno di una
sacralità. Certo in Geppo Tedeschi questo
avvicinamento ad una dimensione del sacro è qualcosa
di profondo. Lo si avverte nel respiro della parola.
Lo si sente nell’affiato del verso. Lo si constata
nel paesaggio del poema. Lo si ascolta nella
tensione religiosa dei versi raccolti in Tempo di
aquiloni. Qui la poesia dal titolo “Non sappiamo
più leggere” è un esempio sicuro.
Così
recita: “Non sappiamo più leggere / la parola
abbraccio. / Abbiamo smarrito! la via! che Tu
ài battuto / concludendo in Croce. /
Disarma il nostro cuore / e fai che s’apra!
ad ali di colomba. / Signore che inalberi /
il giorno, / che apri la notte / che
accendi le stelle”. Siamo oltre ad una dichiarazione
di poesia futurista. Ma è indubbiamente una tappa di
arrivo fondamentale nella quale confluiscono
stagioni di ricerca e sentimenti.
Ma il
suo futurismo resta legato all’età del poema.
Ci riferiamo alla prima edizione (che risale al
1932) del Poema Gli affari del primo porto
Mediterraneo di Genova, a Il Golfo di Spezia
(prima edizione 1933), a Idrovolanti in
siesta sul Golfo di Napoli (si tratta di un
Aeropoema del 1937), a Corti circuiti (1938),
al Poema “Ala” Parole in libertà Lotta tra la
serra e il gomitolo, a Il suonivendolo
(la cui prima edizione risale al 1939). Al 1940
risalgono I canti con l’acceleratore dove si
avverte una tensione linguistica protesa verso un
costante rinnovamento. Ma il Futurismo di Tedeschi
(d’altronde tutta la poesia futurista) va verso un
continuo sviluppo e si apre a continue riprese di
rinnovamento. Ma con Ruralismo calabrese del
1942 (aeropoema futurista) il viaggio ha
ulteriori sviluppi sia tematici che linguistici.
L’immagine di un ritorno alla terra non conosce
soste.
La
Calabria è calata, con la sua atmosfera e quindi con
i suoi colori, nel tempo delle parole. Malinconia e
riprese nostalgiche si agitano all’interno di questa
ricerca. Vi è un defluire della parola: “Malinconia
amaranto, / venata di prime stelle. / Stelle stelle.
/ Quante stelle. / Amico vento, /
pastore cli fronde, / legnaiuolo di monti e
pianure, / tira sassi alle rose, / a
primavera, / diavolo della polvere, / viandante
brontolone, / ricco di fiabe come un paiuolo,
/ porta a l’Italia bella, / questo fagotto di
baci”. La prima edizione è del 1942. Al 1943
appartiene Rosolacci tra il grano. Qui le
voci della natura si intrecciano con la luce e i
suoni. Ma il chiarore più vivo è un sentire
l’infanzia come “arietta d’autunno”. Al 1951
appartiene Canne d’argento. Allo stesso anno,
con prefazione di Giuseppe Lipparini, la raccolta
Liriche epigrafi-che. Zufoli sul colle è del
1957. Tempo di aquiloni, già citata, è del
1963. Epigrafe porta la data del 1973. In
Tempo di aquiloni il dettato poetico si
arricchisce maggiormente di brevi immagini che
sostengono un quadro ben robusto. Hanno una
limpidità notevole. Il messaggio è tutto proteso in
avanti. La memoria, il senso del ricordo, il
recupero della perdita hanno un fascino
coinvolgente.
La
tematica futurista si incontra con altre esigenze
esistenziali. Il paese viene presentato attraverso
chiaroscuri che hanno una sottile liricità.
Sono
molto belli e veri questi spaccati: “Paese, di tufo
e di pietre! tutto inciso di giorni! desolati. /
Mio povero paese / che aspetti, /
rassegnato, / che la pietà del tempo, /
ti dirupi”. Oppure: “Crepuscolo d’agosto /
sognatore. / Ostia di luna, /
scampanio di chiese. / In quest’ora. /
Solenne e flautata, / brillano i focolari /
al mio paese”. Sembra che il profilo dei versi anni
Trenta sia mutato, ma sostanzialmente è mutato
soltanto il gioco degli incastri. Le immagini
formano una ragnatela su una dimensione che assume
sembianze mitiche. Il ricordo, il tempo che fugge,
il “crepuscolo” del paese (lo si è già detto) sono
cose raccolte in una atmosfera mitica, la quale (è
qui il suo futurismo) non ha rivolgimenti verso la
nenia del passato ma guarda avanti. Ed è questo
proiettarsi in avanti che rende viva e nuova la
poesia di Geppo Tedeschi.
La
distinzione è nel linguaggio. La poesia non sfugge
al linguaggio. In queste poesie è subentrata la
consapevolezza degli addii. Si ascolta: “Mi riscaldo
alla fiamma / dei ricordi”. “Tramontano le
stagioni. / Ognuna con il peso / degli addii.
/ Ma tu non mi tramonti / dal pensiero, /
profilo sotto a mistica / distanza. / Mi sei
fuggita, ratta / come l’acqua / e come l’acqua / non
sei più tornata”. Fra questi versi c’è una poesia
dedicata al padre.
Il
titolo è appunto “Padre” che in un certo qual modo
emblemizza in questa fase del viaggio e raccoglie
tracce e significati di un meditare profondo e
travagliato. In Geppo Tedeschi il dato meditativo è
sempre un travaglio che cuce ferite lontane. La
poe-sia recita: “Ti chiamai ieri, a lungo, /
dalla proda. / Mi dissero che i morti, / a
mezzogiorno, / ànno il sonno leggero / e
trasparente. / Ma l’eco, in fretta, / tornò
la voce. / Sulla strada, / abbagliata d’alta luce, /
nenie, incomplete, / cantava un carraio. /
Giovine e bello / palpitava il grano”.
La
poesia di Geppo Tedeschi si presenta attraverso uno
sviluppo che tocca diverse stagioni. Dagli anni del
Futurismo alla poesia di oggi costituisce un viaggio
affascinante. Ma la sua poesia non può essere
isolata soltanto a un determinato periodo. Abbraccia
un’epoca. La si deve cogliere per quello che riesce
ad esprimere nella sua totalità. Certo si possono
far prevalere dei momenti particolari invece di
altri ma non si possono creare delle esclusioni
forzate.
Giuseppe Lipparini nella Prefazione a
Liriche epigrafiche osserva: “Futurista era, non
tanto per ragioni teoriche quanto per l’impianto
spontaneo della sua indole meridionale.
“Gli
piacevano le belle immagini ampie ed ariose, amava
il paesaggio, per la ricchezza dei colori e per quel
senso rioposante di lontananze spezzate. E aspirava
soprattutto, alla rara virtù della concentrazione
poetica.
“Ma
anche nel futurismo non gli riusciva di essere
eccessivo o stravagante; c’era sempre in lui, forse
per una lontana parentela con gli Elleni della Magna
Grecia, un senso della misura che gli faceva da
freno”.
Siamo
al 1951. Molte esperienze sono state già vissute e
consumate. Molte idee hanno trovato un loro sviluppo
a sé. E Geppo Tedeschi è già in una stagione poetica
nuova.
La sua
poesia futurista rimane al centro della sua ricerca.
I suoi Poemi segnano il momento più alto in un
vantaggio che andrà sempre oltre.
Nel suo
Futurismo, nel suo andare fra le parole e le azioni,
l’anima della sua terra non va mai smarrita. Anzi
compare spesso e spesso viene ricordata anche dai
suoi critici. Questo segno di appartenenza alle
origini (alla sua terra) avrà delle evoluzioni.
Costituirà alla fine (ci riferiamo alle poesie
ultime) una vera e propria dimensione poe-tica.
Ma il
dato importante è che Geppo Tedeschi va
riconsiderato per la complessità della sua opera e
della sua ricerca. Va riconsiderato perché è un
poeta che conta. E un poeta che merita. Ed è un
poeta che apre prospettive nuove ad una meditazione
più giusta e più vera sul Novecento letterario
italiano e calabrese.
Che
dire alla fine? E certo, e lo ripetiamo, che
Tedeschi va recuperato, collocato nella storia della
letteratura contemporanea. E un rappresentante
notevole, e lo abbiamo visto, non solo del Futurismo
ma della poesia calabrese. Grazie al suo Futurismo
si sono create altre aperture e si possono creare
ancora diverse interpretazioni critiche.
Ma il
suo Futurismo ci conduce ad approfondire pieghe
eterogenee che sono all’interno della letteratura
calabrese. Scrittori e poeti, che la critica
ufficiale non cita, d’ora in poi non possono restare
nel dimenticatoio. Fra questi Giuseppe Troccoli,
Costabile Guidi, Beatrice Capizzano Verri, Giuseppe
Carrieri. Carrieri, infatti, è un altro personaggio
che si è dedicato alla ricerca futurista. Molti suoi
scritti, i primi, formano una condensazione di
motivi che si aprono a quella tensione armonica che
abbiamo riscontrato in Geppo Tedeschi. Certo, il
Futurismo in Calabria ha una sua storia. Una sua
storia ben radicata fatta di innovazioni e proposte.
È vero, come sostiene Nicola Silvi, che “Il destino
dell’artista meridionale è proprio quello di
innovare”. E innovare vuol dire andare oltre.
Non è
più pensabile restare nella cerchia degli ormai
noti. Bisogna saper distinguere. E distinguere
vuol dire anche scegliere. Ma il dato fondamentale è
che occorre riscrivere molte pagine di storta della
letteratura. Non ci si può più fidare di critiche
anchilosate, stantie e ideologizzate. Ci si chiede
se la letteratura calabrese avrà un suo futuro. Lo
avrà se si riuscirà a superare lo scoglio del già
detto. È stato detto o è stato scritto ciò che
faceva più comodo, ma è un grave errore
dimenticarsi di ciò che il Futurismo ha
rappresentato in una terra lacerata culturalmente
come è la Calabria.
Ebbene,
Geppo Tedeschi, questo poeta nato nel 1907 a Oppido
Mamertina e morto a Roma nel 1993, ha dato alla
parola una universalità che è difficile riscontrare
in altri poeti contemporanei. Ha cantato e ha
parlato della sua terra con un candore e un
linguaggio vivo, reale e lirico. Non si è mai
smarrito in un racconto sterile. Non si è mai
abbandonato ad una denuncia senza senso. La poesia
non è mai denuncia. È testimonianza soprattutto.
In
Geppo Tedeschi la trasmissione diventa
testimonianza, perché la vita è testimonianza,
perché vivere è testimoniarsi. E la testimonianza di
Geppo Tedeschi è viva in un passato che non si
dimentica e in un avvenire cha ha bisogno ancora di
un passato che ha luci e colori, gesti e
significati. La sua forza è nella traducibilità. I
valori della sua poesia hanno àncore antiche che non
segnano il passo ma si aprono ad un dialogo costante
e lucido con la ricerca poetica contemporanea.
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pubblicato il 9 giugno 2009
Vincenzo Cardarelli. Un poeta nello
stile della nostalgia
a 50 anni dalla morte.
di
Pierfranco Bruni
Le
nostalgie camminano lungo una vita. Un poeta
italiano di cui si celebra il cinquantenario della
morte il prossimo 15 giugno, Vincenzo Cardarelli, ha
raccontato e recitato le nostalgie oltre Proust e
dentro l’alcionico sentire la vita come estasi e
bellezza. La nostalgia come stile. La nostalgia come
prosa d’arte.
Nel numero 7 (luglio 1959) della rivista
“l’osservatore politico letterario”, dedicato a
Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), G. Titta Rosa
sottolinea l’importanza dello “stile popolare” e il
“gusto dell’arte” che vibrano nella poesia e nella
prosa di Cardarelli. La nostalgia del tempo e la
malinconia dei paesaggi (i cui luoghi non sono, in
Cardarelli, soltanto luoghi geografici, bensì luoghi
dell’infanzia, della metafora di una memoria che
riporta immagini e sensazioni e questi si
trasformano in leggeri ricordi portati a spasso dal
vento, da quel vento che ha tocchi di antiche
civiltà) sono un viaggio che la poesia compie tra i
sentieri incantati dei miti.
Gli Etruschi (i veri antenati di Cardarelli e della
sua terra: Tarquinia), l’Etruria, la civiltà del
paese, il ritornare al paese e il simbolizzare il
paese come una eredità sono elementi di una poetica
i cui temi fondamentali sono tutti giocati sul
sentimento del ritorno e sulla allegoria del
viaggio. Ma è la nostalgia la componente
fondamentale non della sua ricerca (in Cardarelli
non si parla di ricerca poetica ma di orizzonte
poetico e di tensione lirico – sentimentale –
onirico) ma dei suoi segni archetipici.
L’amore e il tempo, la partenza e l’attesa, il sogno
(che non è il sognare soltanto ma è la “frase” della
fantasia e del fantasticare nell’isola della
creatività che assorbe il vissuto) e il ricordare
sono percorsi di un labirinto dentro il quale la
poesia si fa dolore – vita – grazia – magia. I suoi
“Prologhi”, i suoi “Viaggi nel tempo”,
le sue “Favole della Genesi” e poi quel “Sole
a picco” riportano con la poetica del viaggio
ciò che Titta Rosa ha chiamato “sapienza antica”.
Tutto ha il sapore delle radici. Il senso
dell’appartenenza alla Patria è un radicamento
forte. Perché per Cardarelli radici significa
appunto radicamento. La storia che si trasforma in
memoria è un altro tassello di questo radicamento in
una “passeggiata” tra i simboli che lo catturano. Il
tema dell’amicizia e dell’identità è un progetto
esistenziale ed etico che si raccoglie tra i segni
del mito e del rito (si pensi, a tal proposito, alla
poesia intitolata: “Camicia nera” da “Poesie
disperse”, anche se il linguaggio e i toni sono
aridi e poco lirici ma sul piano letterario e
linguistico, al di là del contenuto che resta, è una
“prova poetica”).
E
poi le parole hanno una bellezza non tanto solare ma
piuttosto lunare. La luna, in Cardarelli, è la
metafora della luce che ha toni scuri e nella sua
luce c’è l’assorbimento del tempo antelucano, del
sole che è stato (“saluto nel sol d’estate/la forza
dei giorni più uguali”), dei meriggi (quei meriggi
estivi?), dei tramonti (quel penetrare l’autunno e
l’ottobre?), delle stagioni che salutano (“Benvenuta
estate./Alla tua decisa maturità/m’affido”).
E
il sole è nella luna. La luna come melanconia e
strappo del tempo lungo i giorni che sembrano
coriandoli appesi alle età del vivere. Ma cosa è la
poesia per Cardarelli? In una sua sottolineatura ha
cesellato: “La mia lirica (attenti alle pause e
alle
distanze) non suppone che sintesi. La luce senza
colore, esistenza senza attributo, inni senza
interiezioni, impassibilità e lontananza, ordini e
non figure, ecco quel che vi posso dare”.
L’essenza nell’intreccio dell’esistenza del dolore e
della consapevolezza. Ma anche della meditazione sul
viaggio che si fa tempo e sul tempo che è viaggio.
In quel suo riscoprire il senso dell’orizzonte delle
origini la parola non è una cronaca ma una
metafisica che si aggrappa all’anima e la poesia che
non si rappresenta mai è soltanto il “racconto” o la
recita lieve della testimonianza di una spiritualità
nel paesaggio stesso dell’anima. Un paesaggio in cui
la nostalgia è veramente uno stile. Nella parola e
in quella cifra della memoria che riconcilia nel
desiderio di recitare un destino tra i segni del non
dimenticato.
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pubblicato il 2 giugno 2009
NANTAS SALVALAGGIO MI HA RACCONTATO
LA TARANTO DELL’ODORE DI MARE
Morto ad 86 anni. Uno scrittore
raffinato, un giornalista elegante
di
Pierfranco Bruni
Da
Venezia a Taranto. Era il 1998. Taranto festeggiava
la “festa” dei libri con un Salone dedicato alla
piccola e media editoria nel Sud. Quasi una
settimana per discutere di libri, mercato editoriale
e letteratura. Un raccordo che stava prendendo piede
intorno a un progetto di cultura. Ospite della
manifestazione, per parlare di personaggi, di
giornalismi e di linguaggi, Nantas Salvalaggio.
Era nato nel 1923 a Venezia. È morto l’altro
ieri a Roma. Uno scrittore raffinato e un
giornalista elegante, amico, con il quale abbiamo
condiviso un sodalizio umano ma anche letterario.
Tra
i maestri della bella parola. Un curioso che
sapeva leggere tra le pieghe il sorriso e il dolore.
Aveva pubblicato, in quei mesi, un libro, da me
recensito sulle pagine del “Corriere”, dal titolo
“Ricco e parole” e subito dopo un titolo particolare
che recita: “Signora dell’acqua. Splendori e infamie
della Repubblica di Venezia”. Ma io ero rimasto
legato a un romanzo precedente dal quale leggemmo
alcuni passi.
Un
romanzo che ancora oggi ha uno splendore linguistico
intrecciato ad una storia di vita e di metafore:
“Passione d’inverno”, che risale al 1995 e che
presentammo, insieme a Francesco Grisi, a Caserta.
Taranto, ricordo le sue parole, ha l’odore
dell’acqua e del vento e mi riporta a qualcosa che
ho già dentro di me. Sì, questa Taranto, ho annotato
i suoi incisi in un quaderno dalla copertina nera,
ha l’umidità dello scirocco adriatico pur essendo un
mare greco, mediterraneo,ionico.
Ci
fermammo sul ponte di pietra e poi seduti su un
muretto a Piazza Castello mi accennò al suo incontro
con Marilyn. La vita che si fa romanzo. E nonostante
noi cerchiamo di far diventare tutto romanzo,
compresi i nostri amori veri, il tempo ci incide la
sua memoria. Fu il primo giornalista italiano a
intervistare Marylin.
Mi
confidò che Marilyn giunse all’appuntamento in
ritardo e con un sorriso smagliante e malinconico
gli disse: “Sa, non lo faccio apposta ad arrivare
tardi. Il guaio è che non so mai cosa mettermi”.
Parlammo. Fino a tarda sera. Conosceva già da alcuni
anni Nantas. Quello sguardo attento. Quel passo
danzante. E ogni qual volta ci siamo incontrati mi
ricordò sempre l’odore di brughiera che aveva
respirato passeggiando sul lungomare di Taranto. Un
odore che non cancellerò, perché sono gli odori, mi
disse in una presentazione del mio libro su Carlo
Belli a Palazzo delle Esposizioni di Roma, che mi
inebriano e mi tuffano in un immaginario in cui non
c’è bisogno di fantasia ma di silenzio. A volte
abbiamo tanto bisogno di silenzio ma i ricordi
diventano fantasmi e hanno voce e ci infastidiscono
turbandoci. Sono stato amico di Nantas. È stata la
prima persona che ha letto, ancora in bozze, il mio
“Canto di Requiem”, il poemetto dedicato a Giovanni
Paolo II e i suoi consigli furono importanti. Poi lo
recensì su una testata nazionale. Così anche per un
mio libro successivo: “Il mare e la conchiglia”.
Il
fascino della sua scrittura ha lasciato solchi come
cammei. Sono cammei i suoi ultimi romanzi. Mi
riferisco a “Un amore a Venezia” del 2003 e “Ho
amato Marilyn” del 2006. Storie che si intrecciano a
destini. E destini che non smettono di tracciare
vissuto e altri destini nelle ore che avanzano
dentro la clessidra dell’età.
Cosa
raccontare “… quando senti le fantasie venir meno,
al principio dell’ultimo giro, allora scopri che il
tempo è il più atroce degli inganni. Ma come, la
commedia è già finita? Siamo al calar del sipario e
ai titoli di coda? Ma se appena ieri…”. È il
Salvalaggio di Marilyn. Il giornalista, il direttore
di importanti testate, il “costruttore” di
importanti riviste, il commentatore vivono dentro lo
scrittore.
Lo
scrittore che sembra recitare senza inventare. Lo
scrittore che vive dentro i tasti della vita
attraverso personaggi e amori. Troppo presto per
parlare dei suoi libri. Almeno per me. Non posso in
questo momento e forse non voglio. Non devo. Nantas
è stato un maestro. Con la sua ironia ha giocato
fino in fondo con la vita. Con quella vita che non
smette di farsi romanzo quando il romanzo si lega al
raccontare le maglie dei destini. Parlando di
Taranto Nantas certamente pensava all’acqua della
sua Venezia.
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