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EDITORIALI 

Letteratura  pag. 3


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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea


 
pubblicato il 4 aprile 2009

Carducci, Pascoli e Croce: che noia!

Io Voglio morire da vivo

 

di Pierfranco Bruni

 

 Il Novecento letterario (e poetico in particolare anche dal punto di vista di una lettura critica) italiano con i soli Carducci, Pascoli e Croce sarebbe stato un secolo morto. Ovvero un secolo consegnato all’Ottocento. O meglio non un secolo capace di entrare nella vitalità di Giuseppe Ungaretti che segna linguisticamente la vera rottura con un Manzoni scolasticizzato e impoetico ma un’epoca della  contemplazione non miticizzata ma mistificata.

Pascoli e Carducci sono Ottocento con qualche piccolo barlume di luce non condizionante ma populista e retrò. Il condizionamento che traccerà la poesia nuova è il filtraggio alcionico. Il resto è noia, ipocrisia, asfissiante accademismo senza arte e fantasia.

L’ironia (l’umorismo pirandelliano e il ridere sorridendo) dei Futuristi è ben altra cosa. Come è ben altra cosa il “Marzo ventoso” di uno straordinario Carlo Micchelstaedter che muore suicida nel 1910 dopo averci consegnato un testamento, che uscirà postumo, che risponde alla filosofia dell’essere come azione.

 

Bisogna capire fino in fondo il moderno che entra nel contemporaneo e il contemporaneo che si spinge sino all’attualità. Le lezioni scolastiche e accademiche servono ad un crocianesimo soltanto e puramente teorico. La poesia è l’arte di superare la contemplazione e diventare follia.

 

Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini (che non amava i futuristi ma aveva posto come premessa letteraria alla sua storia tascabile della letteratura un manifesto  della tradizione innovativa), Sem Benelli sono artefici di un Novecento che si apre alla rivoluzione della lingua. La poesia è (anche) lingua e il poeta o lo scrittore usano i linguaggi (non la lingua, attenzione a non cadere nel trucco crociano di una estetica della doppiezza o di uno storicismo ambivalente alla Russo) perché il Novecento è la transizione di un completo gioco nell’immaginario simbolico che va da “Mal giocondo” di Pirandello ai versi di un Giorgio Caproni con i quali si entra nel XXI secolo avendo come riferimento la pazzia degli scapigliati che si aprono alla rivoluzione della vita.

Carducci e Pascoli non esistono più. Non possono pi+ù esistere. Non devono più esistere. Per carità non cerchiamo di salvarli. Insistere su questi significa essere rimasti bloccati ad un vocabolario letterario storicistico e non più vero.

Il linguaggio poetico che viviamo e che attraversa le corde del nostro esistere nelle emozioni è ormai la recita di “Voglio vederti danzare…” di Franco Battiato, di “Ho visto Nina volare…” di Fabrizio De André, di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Cesare Pavese, di “Io ti sento tacere da lontano…” di Vincenzo Cardarelli, di “Una barba a Salerno…” di Alfonso Gatto. I quali trovano in due riferimenti il modello innovante. Ovvero in Guido Gozzano di “Non amo che le rose che non colsi” e in “Cade la pioggia triste senza posa…” ancora di Carlo Michelstaedtr. Modelli che vanno molto al di là di un sanguidismo retorico o di un t’amo bove bio che ha uccido il senso della liricità della fantasia.

 

Gozzano e Michelstaedtr  sono ben oltre le parole e le intenzioni di Pascoli e Carducci e sono ben oltre l’imperialismo dittatoriale storicista ed estetico critico gogoliano di Croce.

La poesia moderna è chiaramente oltre Croce. Trova nella visione teorica di Giacomo Debenedetti l’interprete problematico vero e non l’intolleranza crociana. Smettiamola di metterci in cattedra tentando di fare lezioni a dei liceali. La vera arte è ben altra cosa. Come quella poesia che tocca l’esistenza vera e non l’ipocrisia del vivere.

 

La poesia è carne, è sangue, è malattia, è dolore, è disperazione, è ironia, è gioco, è allegria dei naufragi, è la sera che ci rende belli e mai ridicoli, è l’ironia, il sorriso, il riso, la teatralità, la tragedia e gli applausi.

Il Novecento senza l’idea futurista non ci sarebbe stato così come lo abbiamo vissuto e come continuiamo a viverlo. Ma si deve essere futuristi dentro per capirlo. Altrimenti l’ironia non vale il gioco e il gioco non è impellicciarsi passeggiando tra le vie della Romagna o della Sicilia o di Roma senatoriale ma  lasciarsi attraversare da un misterioso che incanta in quell’onirico che è la pazzia del tempo – spazio nella vita – azione. L’imbecillità di una pseudo letteratura regna nel tronfio referenzialismo senza arte, né teatro, ma con la recita che nessuno ascolta più.

 

Senza una rilettura dell’elogio della follia di Erasmo di Rotterdan si resta ancorati ad un mondo che non ci appartiene. Io sono così intriso di contemporaneità perché sono convinto che il relativo non mi appartiene mentre nella filosofia dell’essere la parola non è apparenza ma è completamente sacrificio.

Noi viviamo tra le memorie del sottosuolo. Altri continuano a vivere nel sottosuolo delle memorie. Ma la poesia è fatta di quel senso incantato recitato da un grande della contemporaneità che risponde al nome di Alberto Bevilacqua. Il resto, ripeto con i versi di Franco Califano che è poeta, è soltanto noia. E io voglio morire da vivo e non vivere da morto e tanto meno di noia.

 

Il teatro  è nella libertà che fa della letteratura la vita e non il sentore o l’ipocrisia della vita. Il resto è veramente noia. Dante resta una commedia del già visto. Pavese è il tragico che recita la contemporaneità. Pirandello conosce i segreti dell’uno e centomila per vivere il nessuno. D’Annunzio non smette di intrecciare le sue mani tra i capelli di Eleonora. Mentre Diego Fabbri conoscendo il vizio assurdo mette in scena un nuovo processo a Gesù.  I futuristi strapazzano il moralismo di turno e i moralisti in letteratura sono i veri non conoscitori dell’arte che è arte se la pazzia si fa recita.

È questa la vera contemporaneità  tra la scena del moderno e la ribalta dell’attuale. Mi auguro di non giudicare mai e di lasciarmi aggredire sempre dalla pazzia. Sia in letteratura che nella vita.

 

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pubblicato il 3 aprile 2009

NAVIGANDO COL MITO

 ULISSE E’ RIPARTITO – La poesia di Pierfranco Bruni: il racconto di un uomo tra mare e destino.

 di Gerardo Picardo

"Siamo stati due naufraghi appesi alle corde del porto": così parla alla sua donna, persa e ritrovata, l'eroe omerico raccontato da Pierfranco Bruni nei versi di ‘Ulisse è ripartito' (Ed. Pensa Multimedia, Lecce, pp. 73, euro 5).

Nella poesia di questo profondo scrittore calabrese c'è la storia di un uomo che affrontò il vento a viso aperto in un viaggio di soste e di ritorni a uno scoglio attorno a cui il tempo agita onde ineguali. Ma vi respira anche lo sforzo di riannodare il filo di una memoria ormai smarrita o non vissuta, sottraendo il sentimento al peso delle assenze.

Ulisse è ripartito, ma Penelope non viene. Dopo, per un pezzo, e' solitudine. Che è poi, scrive nella nota introduttiva Francesco Camarda, "la speranza della poesia in genere: ribadire il disagio per conservarlo a lungo nella memoria". Negli inquieti versi di Bruni abita la poetica del viaggio ma soprattutto del vivere. Racconta l'odore della pioggia, il vociare dei contadini calabresi, la malinconia che ritma i pensieri custoditi all'addiaccio insieme alla voglia di ritrovare un centro e una piazza dove far passeggiare giorni che lottino a mani nude il dolore.

‘'E che dire delle sue escursioni nelle terre di mezzo - scrive ancora Camarda - è il mare che Bruni può ancora attraversare guardandolo con occhi che gli diventano come quelli di Ulisse; occhi che se vedono una scogliera a Roseto Capo Spulico gli riaccendono la memoria di Itaca e il bisogno di tornarsene a casa''.

Da sempre Bruni gioca con le parole perché sono i segni e i miti a giocare per primi con lui: ‘'Se c'è un luogo dove Bruni ci suggerisce di andare e' quel luogo da cui, in fondo, nessuno di noi si è mai mosso''. E se la consapevolezza si assume ‘'camminando'', come raccomanda il vecchio F. W. Nietzsche in ‘Aurora', Bruni raccoglie sulla terra dei giorni esperienze che sono conoscenza e lotta, raccontando di amori perduti e ritrovati sulla sabbia del nostro mare d'inverno.

Il mare stesso diventa nella sua poetica territorio di viaggio. Accatastiamo allora ‘topoi' e miti in compagnia del poeta, perché - annota sempre in queste pagine Katia de Abreu Chulata- ‘'siamo tutti naviganti noi lettori. E Bruni ci invita a navigare col mito, noi stessi siamo miti, siamo tutto e niente, acquisiamo forma compiendo il nostro viaggio. Il nostro profilo svanisce, invece, quando chiudiamo la pagina'' e smettiamo di credere all'innocenza dei sogni, delle barche che cercano il largo, delle lampare che illuminano pochi metri di legno a cavallo del mare.

Così, scrive Bruni, ‘'i nostri silenzi restano appesi sulla grondaia degli anni''. Ulisse è ripartito con la sua smania di terre e di volti , ma anche con l'amarezza dei congedi e delle armi spuntate dopo il combattimento, ‘'naviga nei naufragi e sa che le solitudini sono lacerazioni''. La nostalgia cuce albe e tramonti; se potesse avere voce, ‘'racconterebbe storie di paesi. Ma i viaggi sono destini che misurano distanze''. E mentre intorno i crepuscoli si sono arresi alla notte, ‘'anche ora le finzioni si intrecciano con l'attesa''.

Ha ragione Bruni: al Sud ‘'ci sono destini antichi che raccontano tristezze. Il vento è nell'ascolto degli anni''. In questo viaggio, la donna e' isola e porto, partenza e ritorni: ‘'Sei stata l'alba nel mio tramonto'', annota il poeta di Carosino rimarcando il bisogno di un sorriso, di una carne che resti accanto a lui nelle veglie, anche se ‘'non ho piu' l'ironia'' e ‘'gli anni hanno preso il sopravvento. L'orizzonte è un filo che taglia la luna''. E altrove, raccontando ancora dell'uomo che sostenne il meraviglioso e mortale canto delle Sirene, il poeta annota: ‘'Il mare mi ha condotto sino alle tue nostalgie. Ma non lasciare tracce, non ti cerchero'. Sei l'aurora che ho dimenticato nelle sere d'autunno''.

Ora, nell'ascolto del tempo, l'Ulisse che con astuzia espugno' Troia, è ‘'un personaggio vestito di vento''. Li raccoglie tutti, i venti. Quelli dell'attesa e della speranza, quelli dell'ira di Eolo e dell'invidia degli dei. Sa che deve restare uomo anche dinanzi al dono di Circe e sa che deve riprendere il mare pure con una zattera perché ‘'le lontananze sono il nostro destino''. Forse ci sarà un altro tempo. Ma ora ‘'siamo destino nelle solitudini delle attese raccontate''.

Bruni, poeta che racconta amori senza giorni, è ‘'il custode delle nostalgie in quest'isola abbandonata da Ulisse e abitata dalle bifore''. L'Ulisse di Bruni è quello che lotta il destino ma è soprattutto l'uomo del viaggio che non ha termine. L'astuto greco ha occhi di mare nelle solitudini di un orizzonte perduto, ma ‘'non chiedermi perché ho accettato l'agonia dei silenzi''. Il vento ‘'è un ascolto di destini. Sotto la pioggia ho giocato con la tua ombra'' e ‘'non ci siamo arresi ai tramonti come in quelle sere di silenzi perduti''.

Resta il fuoco acceso di notte dai compagni di lotta sotto le mura di Ilio, il vino spremuto per Polifemo, l'ira di Nettuno che rende le acque un inferno.

E restano pure le spiagge che hanno conosciuto conquiste e addii. La sabbia si tinge di umano, di lacrime versate e di abbracci strappati ai porti. I giorni della memoria si annunciano anche per Ulisse, camminano sugli scogli, scompigliano gli otri delle sicurezze. Ancora una volta, forse, resta una donna a cullare la speranza dei giorni: lei che conosce il segreto del sale ha ‘'occhi di mare e di vento. Non ti lasciare aggredire dalla paure, i giochi della vita sono infiniti''. ‘'Come sempre hai tra le mani le rughe del destino. Ma non ne conosci i segni'', dice un verso che traccia il cammino al lettore.

Quanto a lui, Ulisse-Bruni, si definisce, e lo è, ‘'un viandante della nostalgia''. Anche per il poeta, infatti, come per l'uomo che un giorno rifiutò l'Olimpo per morire come tutti i suoi guerrieri, la sera non farà sconti. E' scritto nelle mappe di viaggio. Ma ‘'anche i naufragi si specchiano nella luna. Le mie parole hanno lasciato il vento''. Domani si toglierà l'ancora per cercare ancora una terra dove ‘'il destino ha lunghe ali di memoria''

 

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pubblicato il 29 marzo 2009

SAN PAOLO TRA DAMASCO E MALTA

  

di Pierfranco Bruni

 

Damasco e Malta costituiscono luoghi riferimento per San Paolo. La conversione–chiamata e porto–naufragio.

Dimensioni dell’esistere e dell’essere ma soprattutto testimonianza di una spiritualità che ha richiami all’interno di un viaggio che nel primo caso ha obiettivi “speculativi” in cui dalla intolleranza si passa alla capacità della comprensione e dell’ascolto.

Damasco è il luogo del passaggio da una visione materiale ad una completamente spirituale e immateriale e il passaggio si avverte nel porsi in ascolto dell’altro. La chiamata, in fondo, diventa un porsi in ascolto di. Ma è anche un non rifiutare il “senso” dell’ascolto. E il tutto avviene nella completa iniziale indecifrabilità che si trasforma immediatamente, appunto, nella consapevolezza dell’ascolto.

Malta è la tappa intermedia e per questo diventa metaforicamente luogo – porto ma soprattutto luogo in attesa di. Ovvero resta l’attraversamento del viaggio che definisce una prospettiva. Damasco sembra l’inaspettato e forse in una prima lettura è l’inaspettato segno profetico. Malta è il proseguimento che condurrà oltre il mare. Malta è l’isola ed è quindi il mare, o meglio è il viaggiare tra le acque. Mentre Damasco è il deserto e il viaggiare è conoscere la sabbia, la terra.

 

Terra e acqua sono le due interpretazioni del viaggio paolino che definisce il luogo fondante che è il Mediterraneo in una testimonianza che è fatta di orizzonte. A Damasco comincia una missione. A Malta la missione è profezia nella evangelizzazione. Certo nel deserto Paolo non è ancora il Fondatore di comunità e il suo compito è ben altro.

La voce di Cristo diventa la rottura del tempo e dello spazio. A Malta, invece, si vive la continuità del tempo e dello spazio. Il Mediterraneo ha anche un altro scenario in quanto l’Occidente è già una realtà ben definita che ha ben assorbito la tradizione e la cultura di un Oriente che sembra lontano ma che vive proprio dentro quella continuità che è non solo testimonianza ma processo cristiano.

 

A Damasco c’è sostanzialmente una tensione esistenziale ma a Malta la tensione è vissuta nella fede. A Malta Paolo ha già il trasporto di Gerusalemme e di Atene mentre si avvia a completarsi nella compiutezza di Roma. Da Damasco a Malta c’è quel camminamento che lega Gerusalemme, Atene e Roma. È come se l’Oriente entrasse dentro l’Occidente in una territorializzazione dell’anima che si fa tradizione ma è anche la rivelazione che sia l’Oriente che l’Occidente non possono fare a meno l’uno dell’altro e si completano.

Malta, in fondo, diventa il luogo della completazione non solo geografica ma testamentaria e il concetto di deserto – mare completa anche il sentire del viaggio come trasparenza di un camminare sia al di fuori che nel di dentro. Appunto il Mediterraneo diventa una teologia del viaggio.

 

Scrive Jacques Guillet in “Paolo, l’apostolo delle genti” (2004): “Il Mediterraneo intero diventava il centro di un impero immenso, che si estendeva dall’Atlantico al Mar Rosso, che i suoi abitanti potevano senza millanteria qualificare come mondiale. Era la fine delle guerre tra città, delle invasioni provenienti dall’esterno. Erano i mari e le strade aperti per circolare, per commerciare, per comunicare”.

In questo Mediterraneo Paolo portava la sua parola e la portava comunicando sia attraverso le Lettere sia negli incontri. A Damasco, dunque, comincia quella “iniziazione” che si definisce come realtà di un viaggio in un mosaico che si fa attesa. A Malta l’attesa è carisma perché il cristianesimo, già di per sé, è profezia. Il progetto di Paolo è costantemente un attraversare il tempo nel viaggio dell’esistere.

 

Un esistere che è storia ma anche misterioso che si intreccia nella tradizione. Certo, Damasco è il punto di partenza ma si arriva a Damasco dopo la lapidazione di Stefano. Da Stefano alla strada per Damasco Paolo non brucia il tempo ma continua a vivere il tempo.

Da Damasco in poi il viaggio può considerarsi un vero e proprio mosaico. Malta è uno degli ultimi tasselli. Dopo Malta e dopo aver lasciato il mare (le acque) è nuovamente la strada che fa da scenario. Il viaggio iniziato su una strada si interrompe lungo una strada. Ma continua nelle coscienze e nel tempo della fede.

 

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pubblicato il 23 marzo 2009

 

Santo Domingo tra Giovanni Paolo II e i versi di Dante.

Un viaggio nel fascino dell’indefinibile

 

di Pierfranco Bruni

 

I viaggi sono incontri e la vita si vive tra gli incontri. Forse parlarsi è un dovere. O un diritto. Ma è solo la capacità di comunicare o forse il segno di un affetto che va oltre ogni barriera culturale. Parlarsi con la poesia. Con i versi dei poeti italiani che recitano l’amore e le contraddizioni, il senso del tempo e la tragica resistenza degli incontri. Certo che la poesia è linguaggio universale. Altrimenti che senso avrebbero i nostri viaggi tra città e luoghi che sembrano insondabili.

 

Sono stato a Santo Domingo, nella Repubblica Domenicana, in visita istituzionale e per i “soliti” incontri che permettono comunque di creare legami e di capire il rapporto tra la lingua italiano e le  lingue, tra la cultura italiana  e le culture altre. Un fascino dell’esotico e di una estate che non smette di essere mai mare, sabbia, palme, piante di banane e musica. Echi che lasciano un segno anche quando si è lontani. La musica scava il vento tra gli Oceani e i profumi andalusi.

 

La musica delle donne che ballano scalze sulla sabbia o su un tappeto di bicchieri e riportano alla erosione delle monotonie perché qui la donna è bellezza ed eros. Un fascino che cattura. Hanno bisogno di capire e noi abbiamo bisogno di osservare, di entrare in un mondo che ci sembra di conoscere ma così non è. Quanta italianità tra le strade di Santo Domingo. Sembrano vie familiari. Sarà certamente per i viaggi antichi ma soprattutto per la straordinaria presenza di Cristofaro Colombo. Cristobar…

Qui Cristoforo è stato di “casa”. Non si tratta di una metafora. Ma la casa c’è veramente. Quel Cristoforo che amava Isabella. D’altronde la lingua che si parla è una calda parola spagnola. Non poteva essere diversamente. L’accoglienza è stata di una manifestazione d’affetto eccezionale.

 

L’Italia, ospite d’onore, ovvero la cultura italiana. Abbiamo parlato di lingua e linguaggi ed io soprattutto di letteratura italiana del Novecento: da Giovanni Verga a Giuseppe Prezzolini. Verga è molto amato. Ma non è il Verga scolasticizzato. È quello che di “Tigre reale”, è quello degli amori perduto e perdenti. Così Prezzolini… Il Prezzolini di “Dio è un rischio” che pone interrogativi e non deposita alcuna risposta. Ma Santo Domingo è mare. È il mare del sogno. È la città dei casinò e non dei casini. È la città della festa. La festa dei giorni. I giorni che si fanno festa.

 

Qui veramente la notte è una festa mobile che direbbe il caro Ernest. E la festa te la senti addosso per l’intera giornata come ti senti dentro la musica o come ti porti negli occhi le donne che danzano a suono di merengue o di salsa. Che meraviglia quella ragazza con riccioli tra i capelli e una gonna da zingare che volteggiava su un tappeto di bicchieri al ritmo di una passionalità inebriante. Meraviglioso e meraviglioso il sorriso della gente pur in una non ricchezza mai ostentata. Belli gli occhi di quella donna che ti tirava nel gioco del ballo e dovevi ballare perché tutto è  parte del gioco delle notti di quella città. Con le luci che sono riflessi.

 

E la cultura italiana? Sì, che giornate intese al Salone del Libro. Una conferenza dietro l’altra e con studenti che vogliono sapere e chiedono, interrogano e non smettono di offrire poesia. Amano la poesia. Soprattutto la poesia d’amore. Accanto a Lorca, a Neruda, a Cervantes, a Becher e a quelli propri della loro terra non ci sono soltanto Dante e Petrarca ma Collodi, Pirandello e addirittura Isabella Morra. Che ci fa Isabella Morra a Santo Domingo? Anche negli alberghi è sempre festa.

 

Una studentessa giovane mi ha chiesto: “Come si fa a diventare poeta?”. Abbiamo letto anche le poesie di Giovanni Paolo II ed io ho tenuto conferenza “particolare” sulla funzione poetica del verso woitiliano con una riflessione sulle immagini della Cappella Sistina scattate nelle parole che non solo recitano ma anche raccontano. Ed è una festa nel Corso centrale di Santo Domingo. Il caldo e l’estate non conoscono pause. Le piazze sono indefinibili. Le piazze restano dentro l’anima nel canto che ha gocce di rugiada.

 

La piazza con Cristoforo Colombo si apre ai negozi di corallo e ai mercatini dove il sigaro dominicano sfida quello cubano. Nell’aria si respira tabacco e odori di frutta. Esotica. Nei ristoranti le fettine di banana fritta o arrostita ha un sapore dolciastro e piacevole ma noi abbiamo cercato spesso ristoranti con cucina italiana. Che provinciali…  E’ un paese cattolico. Non ci sono dubbi tanto che ricordano con amore l’opera e la figura di Giovanni Paolo II. D’altronde il primo viaggio all’estero che fece il Pontefice fu proprio Santo Domingo e ci sono le testimonianze, i segni, i simboli. I domenicani sono orgogliosi di quel Papa e nella principale ancora campeggiano le scritte che rimandano al passaggio di Giovanni Paolo II.

 

Ho tanti ricordi dei giorni trascorsi in quella terra che mi ha molto colpito e mi ha lasciato dei tracciati indelebili. Il giorno prima della partenza, in una casa nobiliare, anzi in una villa elegantissima, si svolge un ricevimento in nostro onore. Ambasciatori, consoli, istituzioni. Una serata dove la musica era diventata assordante. Ad un certo punto della nottata irrompono una quindicina di ballerine vestite tutte di piume colorate e con delle maschere che rimandavano a delle divinità.

Che spettacolo… Fummo completamente presi alla sprovvista. Ci chiesero di recitare dei versi di un poeta italiano. Dovevamo improvvisare. Ognuno di noi si improvvisò attore ricordando e declamando poesia. Io subito ripescai alcune versi di una poesia di Cardarelli.

 

Furono delle scene indimenticabili. Ogni ballerina – danzante si avvicinò agli attori improvvisati. Si tolse la maschera e con un sottile filo di corda la pose sul nostro viso legandola dietro la testa. Le ballerine – danzanti rimasero senza più maschera mentre noi eravamo diventati delle divinità. Fu un gioco affascinante e fummo tirati al centro della villa con il battito di una musica e di un canto latino – americano. Che strazio di gioia e di emozione. L’emozione continua ancora oggi soltanto a pensarci.

 

La notte finì e ci colse il giorno. Non capimmo più nulla. Dovevamo ripartire per l’Europa, per l’Italia. Ci attendeva un fuso orario di sei ore. Arrivai a Parigi completamente stravolto. Quanta cultura italiana nella Repubblica di Santo Domingo, in quell’isola dominicana dove le parole di Cristofaro Colombo e della cultura genovese e genovese – spagnola resta un nucleo importante. Non mi sono meravigliato poi tanto quanto tra i ritmi e le note delle canzoni cantate dai giovani al Salone del Libro c’erano anche i testi di Fabrizio De André. Genovese, mediterraneo, Alvaro Mutis

 

C’è stata una promessa strappata all’ultimo momento: quella di ritornare a Santo Domingo per un seminario proprio sui testi di Fabrizio De André. Certo che lo farò. La musica è poesia e la poesia si fa musica. Mi sono ritrovato nella valigia anelli di corallo e collane. Non solo un corallo rosso, rosa o verde ma un corallo splendente nero. Un corallo che cambia colore con la luce della luna e con i riflessi del mare. E poi la danza è un ritmo che non ha spazio e neppure tempo perché continua nel volteggiare del vento tra gli echi e le nostalgie.

 

La poesia non è fatta solo di parole ma anche di sguardi. Così mi ha detto un ragazzo che con attenzione ha seguito una delle mie conferenze. È proprio vero. Guardandolo negli occhi gli ho recitato: “Io l’ho veduta già vestita a verde,/sì fatta ch’ella avrebbe messo in petra/l’amor ch’io porto pur a la sua ombra:/ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba,/innamorata com’anco fu la donna,/e chiuso intorno d’altissimi colli”. Dante. Il Dante che da noi viene giudicato minore. Il Dante che non è metafisico ma si gioca l’anima tra gli spigoli delle Rime. Mi ha guardato in silenzio e mi ha chiesto: “pur favur me regala cheste parole?”. Con la dolcezza e con gli occhi grandi.

 

Ho capito in quel momento come la universalità della poesia non conosce frontiere o confini e va verso orizzonti. Che bel viaggio! Un viaggio interminabile tra le parole di Giovanni Paolo II che insistono tra i miei ricordi e l’amore in Rime di Dante. L’amore che si fa fede e la fede che è carità. L’amore degli incontri nelle sere di Santo Domingo. Ho puntato al casinò. Ma non ho vinto. La poesia è nell’amore e l’amore ha gli occhi della nostalgia. Santo Domingo resta una festa tra i libri raccontati e i libri proposti.

 

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pubblicato il 23 marzo 2009

 

RICORDANDO IL POETA GIUSEPPE BONAVIRI

scomparso il 21 marzo 2009

 

di Pierfranco Bruni

 

Ho un ricordo molto bello di Giuseppe Bonaviri, da me studiato molti anni fa e inserito, di recente, in due antologie della poesia italiana del Novecento tradotte in lingua spagnola, la prima, e indirizzata al Salone del Libro di Santo Domingo e una antologia in lingua albanese (la seconda) con le finalità di diffondere la letteratura italiana nei Paesi esteri e soprattutto per realizzare un  rapporto tra la poesia italiana e le culture di lingua spagnola e albanese.

Bonaviri, che era nato nel 1924, resta una pietra miliare in quei processi lirici  il cui intreccio tra cultura adriatica e mediterranea realizza un dato centrale in una visione di lingue che hanno creato dei legami importanti con le realtà etniche. Bonaviri, che veniva dalla Sicilia, ha portato con sé un humus profondamente legato ad un etnhos  che ha saputo amalgamare parola, tradizione e cultura popolare.

 

Trovandomi, per una conferenza sulle eredità etniche dell’Italia, all’Università di Tunisi, nel corso del mio discorrere, mi fu chiesto, improvvisamente, di  parlare proprio di Giuseppe Bonaviri. La richiesta mi colse di sorpresa anche perché non rientrava nei miei programmi ma, comunque, intavolammo una bella discussione sia con i docenti sia con gli studenti che erano di lingua francese, tunisina e italiana. Perché mi chiesero di soffermarmi su Bonaviri? Perché Bonaviri era molto amato in quella Università ed era studiato da una docente che costantemente leggeva, durante le lezioni, i versi di Bonaviri.

 

Proprio in quella occasione scoprii degli elementi non soltanto letterari negli scritti di Bonaviri ma anche degli aspetti ben precisi che avevano connotati antropologici. E su questo intavolammo un vero e proprio discorso. Lessi e commentammo insieme una poesia che porta il titolo: “Valencia”. Ma certamente Bonaviri è uno scrittore e un poeta che ha attraversato una linea letteraria che è quella prettamente contornata da un immaginario profondamente mediterraneo e i suoi personaggi, che raccontano non solo nella realtà ma anche nella metafora, disegnano un preciso tracciato che è quello di una definizione dell’avventura che i personaggi stessi vivono e il senso del destino che cammina sempre dentro un processo che esula la dimensione puramente culturale per farsi esistenza.

 

C’è in un suo scritto del 1998, “L’infinito lunare”, un percorso che tocca le corde dell’anima sia per lo scenario sia per una atmosfera ben disegnata in una visione in cui la metafora della parola supera ogni ostacolo legato a un realismo mai interpretato nell’opera di Bonaviri. Dalla Sicilia a Frosinone. Un siciliano che era ben consapevole di quell’isola che è sempre stata il  nodo – snodo della sua malinconia che traspare lungo le parole annunciate, sottolineate, pronunciate a parole lente.

Ebbene, a Tunisi parlammo di Giuseppe Bonaviri poeta. Come ne parlai a Scutari, a Tetova, a Santo Domingo. Ma gli studenti tunisini sprizzavano gioia quando comincia a leggere: “Sui sassi secchi del tuo fiume/la sera si è spenta in lampeggiamenti./In cielo lenta, spaurita e fùmida/la luna s’alza”.

 

Siamo in pieno Novecento e quelle “Notti sull’altura” del 1971 sono il percorso di una vita come la misura di un dialogo mai interrotto nei suoi scritti tra spazio e tempo che troviamo in un suo libro del  1976 e ristampato nel 1999 dal titolo: “L’enorme tempo”. Ma tutto diventa “O corpo sospiroso” del 1982 oppure si vive spesso in quell’ “incominciamento” (1983) che porta le rughe nelle parole e il linguaggio è una attesa nella indefinibilità del quotidiano.

Giuseppe Bonaviri, morto il 21 marzo scorso resta un riferimento poetico che ha inciso in quel passaggio tra una letteratura segnata dallo storicismo  e una letteratura che ben ha saputo giocarsi la partita all’interno di una eredità metaforica.

 

      Bonaviri, passando attraverso la metafora, ha fatto della sua letteratura una visione magica. E magico è il suo linguaggio a cominciare da uno dei suoi primi libri che risale al 1954: “Il santo della stradalunga” sino ad un tocco di vera alchimia che si trova in “I cavalli lunari” del 2004.

      Uno scrittore che  passeggiando tra le strade della nostalgia ha recitato e raccontato il “sensibile” di una vita nel tocco di una memoria che è dentro la vita stessa sempre nel segno della tradizione.

 

Nella foto: Lo scrittore Bonaviri

 

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pubblicato il 21 marzo 2009

 

Indro Montanelli nel centenario della nascita.

La sensibilità umana del Letterato nel romanzo "Il generale Della Rovere 

 

di Micol Bruni

 

Indro Montanelli nel centenario della nascita. Non solo il giornalista ma anche lo scrittore, il letterato, i suoi romanzi. Indro Montanelli nato in provincia di Firenze a Fucecchio il 22 aprile 1909. Morto a Milano il 22 luglio del 2001.

      "Vorrei mettere ordine nei miei pensieri, vorrei vedere più chiaramente in me, in te, in noi. Vorrei riepilogare tutta questa cosa assurda. Volevo farlo con te. Ti aspettavo per farlo. Ma poi tu mi soffocasti coi baci le parole in bocca. Oh, giorni inutili e divini. Quanto ritorneranno?" (Indro Montanelli).

      L'intreccio tra storia e sentimenti, in letteratura, diventa, in alcuni scrittori, una ragnatela fitta di significati esistenziali. In questi significati si amalgamano la realtà (la cronaca, ovvero) presente e quella che si è depositata nella memoria. il passato che ritorna e ricostruisce avvenimenti, fatti, dimensioni umane.

      Sembra, il brano citato. Un "pezzo" di un romanzo d'amore, forse di passioni, forse ancora di scontri e riappacificazioni oniriche ed erotiche. Nulla di tutto questo. O meglio c'è anche questo ma non è questo il punto centrale della "costruzione" narrante.

      Si tratta di un brano come si diceva di Indro Montanelli. Il grande giornalista che viene ricordato chiaramente come un maestro del giornalismo italiano ma ha scritto, tra l'altro, libri di narrativa che in una storia della letteratura vanno certamente tenuti in considerazione.

      Ci sono due romanzi che si aprono ad una prospettiva di natura narrativa che dovrebbe permetterci una verifica proprio in merito a quel rapporto giocato tra letteratura e storia. Storia di testimonianze, di vissuto ma anche storia di personaggi.

 

      Mi riferisco a Qui non riposano (pubblicato per la prima volta nel 1945 in Svizzera, dal quale è tratto il brano citato all'inizio) e Il generale della Rovere. Due romanzi in cui è vivo il trasporto della storia (del fascino degli avvenimenti che la storia trascrive, decodifica, definisce) nella letteratura. Un dato abbastanza importante in un protagonista della scrittura qual è stato Indro Montanelli.

      Il giornalismo gli serve per capire fino in fondo la realtà della storia e da qui si parte per dare una struttura narrante ai fatti. A quei fatti che diventano, in questo caso preciso, dimensione umana e per restare tali la letteratura è uno strumento fondamentale. Perché Montanelli non si ferma (resto nel campo letterario) a decifrare fatti e circostanze ma delinea, attraverso i fatti stessi, il destino dei personaggi.

 

      Si pensi, appunto al generale Della Rovere. Si pensi, appunto, alla sua ricerca sui documenti che trovano una base importante nel raccontare le vicende di Qui non riposano. Questo però non lo allontana dal giocare con un linguaggio, come d'altronde i veri scrittori sanno fare, intriso di immediate realtà e di infuocata ironia. Ma Montanelli, anche in narrativa, non gira intorno ai problemi, non usa la metafora come modello precipuo per un percorso letterario. Anzi di metafora non se ne parla proprio. Proprio nell'incipit del primo capitolo di Qui non riposano si legge: "Io non sono mai stato fascista. Io non sono mai stato antifascista. Io sono soltanto il barone Eduardo Candura, napoletano. E', secondo questi due soli attributi - barone e napoletano - che chiederò al buon Dio di essere giudicato. Agli uomini non posso chiedere nulla, visto che già mi hanno contestato e rifiutato il diritto di tirare a campare".

 

      Parte da qui, al di là, della storia che si mette in scena, una visione in cui il gioco delle parti (tra personaggio e io narrante) è tirato da un unico regista - attore.

      Non c'è meraviglia. Tutto ha una sua parcellizzazione ma lo scrittore conosce molto bene i confini dello scrittore e i limiti del giornalista. Si caratterizza per la precisazione dei personaggi, i quali costituiscono il punto nevralgico del momento narrativo. Montanelli si poneva la questione della letteratura e del letterato.

      Ci credeva in questa funzione. Raccontare è un po' come vivere. A volte ci permette di rivivere. Altre volte ci permette di sistemare. Altre volte ancora ci permette di focalizzare il tempo presente.

 

      In Premessa a XX Battaglione eritreo (trattasi del suo secondo libro) si raccoglie questo inciso: "Sono letterato. E, a parte il brutto e il meschino di questa parola, il mio mestiere mi innamora… Rubo al sonno la mezz'ora di sosta per tornire la frase, per polire la parola e renderla densa; mi trascino dietro, fra il bagaglio ridotto al minimo per esigenza di guerra, un manoscritto ingombrante. E tutto sono pronto a sacrificare fuorché questo. Dirò di più: sono in Africa anche per ragioni letterarie: non a cercare 'colore', ma a cercarvi una coscienza di uomo: Necessaria: a tutti, ma specialmente a un artista".

 

      Ebbene, Montanelli il problema letterario se lo pone. E se lo pone da giornalista e da scrittore. O meglio se lo pone da letterato. La letteratura, in altri termini, ci permette di "cercare" anche "una coscienza di uomo".  Avere consapevolezza di ciò in un legame tra realtà e definizione di un linguaggio che sia in grado di non consumarsi. La letteratura sta proprio qui: nel non permettere alla scrittura di consumarsi, di non permettere alla scrittura di cadere nell'oblio, di non permettere che possa diventare monotonia.

 

      Tutto ciò Montanelli lo aveva ben capito e lo teneva in forte considerazione. Il generale Della Rovere, dal quale è stato tratto un film da Roberto Rossellini nel 1959, è appunto un romanzo in cui si intrecciano esperienze, conoscenza del linguaggio e sensibilità umana. Non per caso i personaggi sono, nel bene e nel male, una legittimazione di un fare letteratura attraverso  l'acquisizione degli avvenimenti che provengono dalla cronaca e della realtà ma entrano nella storia.

      D'altronde lo stesso autore in una nota dell'edizione del 1959 puntualizzava riferendosi a questo scritto e a quel rapporto menzionato tra storia e letteratura: "…non pretende di essere assolutamente vero, sebbene abbia per protagonista un personaggio realmente esistito". E ancora di più precisa: "L'ho scritto cioè come una storia, non come una pagina di Storia". 

 

      Lo scrittore è qui. E tutto questo senza cedere ad una alcuna rappresentazione d'ambiente. Ci sarebbero altri testi da citare compresi quelli teatrali ma quelli qui sottolineati danno una dimensione considerevole e straordinaria per molti aspetti di un Montanelli che va oltre il giornalismo e che va oltre la storia. La letteratura e il letterato sono riferimenti che non passano.

Nella foto: Indro Montanelli

 

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pubblicato il 18 marzo 2009

 

Nel centenario della nascita di Carlo Bernari

 

 di Pierfranco Bruni

 

 Carlo Bernari, nato a Napoli il 13 ottobre 1909 e morto a Roma il 22 ottobre 2002, è uno scrittore meridionale che ha raccontato, attraverso i suoi scritti e i suoi testi narrativi, il passaggio da una narrativa realista ad un modello di scritture in cui la griglia simbolica ha cercato di impossessarsi del gioco delle metafore. Ma il suo impegno letterario resta legato ad un romanzo che ha inciso un solco nel contesto letterario del Novecento.

      Mi riferisco a “Tre operai”. Un romanzo scritto tra il 1982 – 29 e che traccia in termini storici anche qui un passaggio epocale nel quale sono coinvolte alcune città tra le quali Taranto, Napoli, Crotone. Infatti, i tre personaggi centrali si raccontano proprio grazie ad un vissuto in queste città in un contesto economico e storico che vedeva il mondo operistico vivere una fase di trasformazione e le città assumevano delle sembianze in cui la trasformazione dal mondo contadino al mondo operaio è ben evidente. Un paesaggio realistico all’interno di un processo storico che poneva la “questione meridionale” al di fuori degli schemi di una dimensione prettamente contadina.

      Il sud è socialmente marcato sia per le visioni geografiche sia per la costruzione dei personaggi sia per come le tematiche vengono affrontate in quanto si ripropone una antica questione che è quella meridionale ma nonostante ciò rimane sempre un romanzo e va considerato come tale anche dal punto di vista critico e interpretativo in una visione direttamente letteraria.

      Il personaggio femminile di nome Anna diventa l’asse intorno al quale si smuove il sentimento della femminilità, della maternità e della responsabilità. C’è, comunque. Alla base un dato ispirativi che pone all’attenzione il destino di un personaggio che non si fa elemento contemplativo ma risulta come chiave di lettura tra la storia che si fa elemento etico e la fantasia che è lo sprigionamento di un intreccio estetico – popolare. La prima edizione di questo romanzo vede la luce nel 1934 da Rizzoli e successivamente da Mondatori nel ’51 e nel ’65.

     C’è da dire, comunque, che Bernari non è solo in questo romanzo (il suo vero cognome era Bernard) ma anche in altri testi narrativi come “Quasi un secolo” del 1940 , “Prologo alla tenebre” del 1947, “Speranzella” del 1949, “Siamo tutti bambini” del 1951, “Vesuvio e pane” dell’anno successivo, “Domani e poi domani” del 1957, “Amore amaro” dell’anno successivo nel ’58 e poi non possono essere dimenticati testi come “Bibbia napoletana” del 1961, “Era l’anno del sole quieto” del 1964 sino a “Le radiosi giornate” del 1969.

      Bernari non è stato soltanto un narratore  perché ha tracciato delle linee anche dal punto di vista saggistico e il saggio apparso su “Paragone” n. 182 del febbraio del 1966 dal titolo “Mann e noi” rappresenta una chiave di lettura ad intreccio tra la tragicità manniana decadente e una sovrapposizione meta - realista. Significativo resta anche il saggio su Corrado Alvaro risalente al 1957 nel quale Bernari fa un’analisi dei luoghi e delle case alvariane.

 

      Il Bernari che resta e che oggi  potrebbe avere una singolarità tematico – sentimentale è quello che ha saputo intrecciare sul registro psicologico il vissuto di un amore. Tra i romanzi citati il titolo “Domani e poi domani” resta una di quelle pagine indissolubili tanto da misurare la scrittura sul quadrante di una partitura musicale e la storia di un amoroso racconto è un pentagramma recitato sul ritmo dell’amore – amante.

      Si racconta la storia di Nicola per Virginia, una venticinquenne bellissima che cercava un amore ma nello stesso tempo una figura paterna alla quale afferrarsi . Tra i due c’è di mezzo la cifra del tempo. Un tempo indefinibile che segna la storia di questo amore sulla griglia degli abbandoni. In questo romanzo ci sono immagini di una bellezza travolgente e di paesaggi che restano sentieri dell’anima ma il distacco alla fine sigla il disegno di un’avventura che è parte integrante della vita sia di Nicola che di Virginia.

      Il titolo stesso di questo romanzo diventa una metafora. Ma nella complessità dell’opera letteraria di Bernari il raccontare stesso senza la metafora diventa artificioso e nonostante il suo realismo iniziale l’ironia forse con un pizzico marottiano è un gioco consistente. D’altronde come epigrafe al romanzo “Domani e poi domani” Bernari impone una frase del Macbeth di Shakespeare che dà il titolo al romanzo stesso: “…Domani, e poi domani e poi domani. Striscia da un giorno all’altro ogni domani, fino a raggiungere l’ultima sillaba del termine prescritto…”.

      Forse in questa ironia è il Bernari che traccia una testimonianza forte all’interno di un rapporto tra linguaggio e personaggio. Credo che sia proprio qui che si giochi il significato di una letteratura che ha un respiro fortemente europeo. La “provincia” non è una realtà geografica ma è un sentiero del pensare che si sviluppa in un modello che pone all’attenzione non più il rappresentativo o il documentario ma una tensione che è esistenziale e metaforica.

 Nella foto: ritratto di Carlo Bernari dell'artista Alberto Sughi

 

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pubblicato il 1° marzo 2009

Il Futurismo e la sua anima filosofica

 

di Pierfranco Bruni

 

       Ma certo che il Futurismo è stato un movimento rivoluzionario. Rivoluzione come fantasia e come misterioso che si incarna nel presente che va oltre.

Filippo Tommaso Marinetti ha incantato con il suo rivoluzionario sentire e agire la cultura italiana a cominciare dai Manifesti. Il Marinetti che scriveva: “Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono le ali” suggeriva di non smettere di sognare. Il sogno è nel Futurismo. Lo dice bene Giordano Bruni Guerri nel suo libro dal titolo: “Filippo Tommaso Marinetti” (Mondadori), il cui sottotitolo è una precisa dichiarazione che troviamo nel tracciato dei Manifesti. Ovvero: “Invenzioni, avventure e passioni”. Marinetti trova nelle passioni il rivoluzionario. 

      Pensare, in virtù di ciò, che il Futurismo non abbia una sua filosofia credo che sia errato in quanto ci sono elementi, che non solo annunciano le tesi esposte nel primo Manifesto futurista del 1909 ma preparano alla nascita di quella rivista che poi ha dato le basi teoriche al Futurismo. Mi riferisco alla rivista “Poesia” uscita nel 1904 e che vede il suo consolidarsi negli anni successivi.

 

      La filosofia di cui si parla non sta soltanto nel progetto estetico o nel progetto antimaterico ma consiste nella visualizzazione di una rottura con la tradizione, che significa rottura di schemi ma altresì recupero di una eredità, che sostanzialmente vive come presente.

      Per il Futurismo il presente non viene dal passato ma si cementifica nella capacità di anticipare il futuro, di prevenirlo e di profetizzarlo. Da questo punto di vista è un movimento, che blocca la sua idea sul concetto di spazio non eludendo però il tempo ma per tempo non si identifica l’insieme dei passati ma è piuttosto quello che costantemente si annuncia. Forse anche per questo non c’è disputa tra la funzione del passato è quella del futuro perché tutto si definisce in quel concetto vivificante che è la psicologia della velocità.

 

      Il Futurismo non si misura con le cose ma con le azioni, che vengono prodotte proprio dalla filosofia nella cancellazione del tempo per dimensionarsi nello spazio. È lo spazio, infatti, che diventa attore e da questo punto di vista i comportamenti dei futuristi a volte sono più dei Manifesti stessi perché l’improvvisazione è la “regola” di una teatralità, che si mette in scena ma che si mette anche in discussione.

      Chiedersi se c’è un filo rosso tra i Manifesti e l’opera dei futuristi e il comportamento degli artisti potrebbe entrare nella norma della discussione. È naturale che questo filo rosso, in termini critici, si può rintracciare ma è anche naturale che gli artisti futuristi siano sempre, immediatamente, più in là nel ciò che i Manifesti promulgano.

 

      Questo non significa che i futuristi non si attengono alle “regole” dei Manifesti ma significa un’altra cosa: si portano dentro quella filosofia del presente superato in un’area profetica di costante interventismo e pur mai venendo meno alle tesi stesse dei Manifesti sperimentano operando.

      La vera filosofia è l’assenza del tempo passato in virtù di un interventismo sul presente mai però disdegnando quel concetto di tradizione che non sta nei comportamenti ma nella rottura degli schemi precostituiti proprio nella temperie del primissimo Novecento.

      I futuristi e in primis Marinetti tendono a sottolineare che ci sono alcuni concetti chiave dai quali non si può prescindere e questi concetti chiave sono rappresentati da quattro parole che vengono scritte  con la prima lettera maiuscola e sono : “Divinità”, “Uguaglianza”, “Giustizia”, “Libertà”. Minimamente non è da pensare ad una visione illuminista o post illuminista anzi tutto il contrario. Perché il concetto di divinità diventa la vera e proprio anima filosofica in un contesto in cui il subbuglio esistenziale stava diventando un’apatia spirituale.

 

      È naturale che il concetto di patria è la sintesi dell’anima filosofica e viene fuori tranquillamente con l’adesione dei futuristi alla Prima Guerra Mondiale. I futuristi sono interventisti perché nel loro essere artista c’è la dinamicità e la vitalità, che incarnano le quattro maiuscole prima citate.

      Il percorso che il Futurismo ha tracciato sia in Italia sia attraverso una relazionalità con altri paesi sia ai diversi futurismi, che ogni regione l’Italia ha incorporato, sono l’espressione più emblematica di un modello di libertà i cui linguaggi poetici e pittorici sono il marchio caratteriale. Molte volte il pensare futurista o l’essere futurista non coincide con la creatività futurista ed è qui che il gioco si intreccia con la fantasia, con il vissuto e con il programma dei Manifesti.

      Essere futurista in Puglia o essere futurista in Calabria o essere futurista a Milano non cambia l’anima filosofica perché il suo tracciato è sempre quello della dinamicità e della rottura del mosaico, che non può essere ricostruito come tempo della continuità. In fondo il Futurismo non ha continuità e non spreca le proprie energie nella continuità. Proprio per questo nasce come movimento nazionale nel quale confluiscono le varie istanze regionali e nei vari territori ciò che diventa fondante è il pensiero che si trasforma in un agire.

 

      La dinamicità in fondo diventa teatralità perché il futurista ama la piazza perché è il protagonista della conduzione nella recita e il teatro nella loro recita è, appunto, scendere nelle strade per creare un modello di partecipazione. Vivono il luogo non come il di dentro ma come non luogo il di dentro e scoprono una forma antropologica del fare letteratura e del fare arte attraverso la gestualità e, quindi, attraverso il colore. Ciò lo si nota proprio ripercorrendo le varie esperienze che il Futurismo ha lasciato e le realtà dove ha operato.

      Da questo punto di vista la recita ha sempre bisogno degli applausi e non c’è distinzione tra il Nord e il Sud. Annota Marinetti in Firenze biondazzura sposerebbe futurista morigerato: “O fiorentini avete il merito di aver dato a me e ai miei amici futuristi per la prima volta ciò che non avemmo mai il gusto degli applausi”. E non c’è distinzione tra Firenze e Reggio Calabria tra Roma e la Puglia. La scena è unica e il teatro è una recita, come si diceva, che non smette la sua improvvisazione ma anche la sua provvisorietà. La provvisorietà per i futuristi non è male, diventa celebrazione perché ogni teatralizzazione è festa.

 

      Perché chiedersi se il Futurismo ha un senso o ha avuto un senso? Quando il pubblico applaude l’importante non è che lo spettacolo sia riuscito o meno, ciò che si deve cogliere è l’ardore e l’entusiasmo dell’atto creativo. Certo il Futurismo resta non ciò che abbiamo vissuto ma tutto ciò che il futuro vive nel presente. Potrebbe sembrare un gioco di parole ma si potrebbe pensare oggi alla modernità senza ascoltare le voci di Marinetti o senza fantasticare con i sogni di Boccioni e poi di Balla, Carrà, Sironi? Non credo che sia possibile.

      Noi viviamo la modernità perché il Futurismo ha distrutto la storia, ha anticipato il tempo e ricostruito lo spazio in una “logica” che è fuori dal sapere ma che continua a vivere dentro un sentire folgorato dalla profanazione del cimiteriale e divinamente innescato in una sorprendente ironia, che non si serve dell’importanza del capire ma si serve del naturalmente non naturale, che è in quella plasticità dinamica, mai in disuso, è sempre consequenziale e profetica.

      Da qui allora comincia un viaggio senza diritti o rovesci. Può piacere o meno. Ma la non storia, non tempo e lo spazio sublimale sono nel volo inesplicabile, indecifrabile come il vento, incatturabile come la velocità di un Futurismo senza il quale la letteratura e l’arte, in questo quotidiano che è il futuro, non ci sarebbero, come ci sono in questo impraticabile momento, che è già svolazzante oltre o aldilà di noi.

 

      Dunque, c’è un’anima filosofica nel Futurismo? Ma certo che esiste e insiste ritrovandoci tra i coriandoli di un carnevale che avanza nel successivo di questo mio dire. Forse è una pazzia, ma Marinetti non è soltanto nella nostra contemporaneità, è il moderno con il quale possiamo dialogare nonostante la pazzia fattasi piazza.

      Se dovessi scegliere, e di scegliere sceglierò, ed ho già scelto, mi lascerei turlupinare da un Marinetti e non dalla ragione sedentaria o “satanica” di un Pascoli o di un Carducci. L’utopia ha bisogno di applausi e come disse Ezra Pound noi gioiamo affinché gli applausi durino nei secoli. Rivoluzione dunque? Marinetti resta rivoluzionario sino alla fine.

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pubblicato il 18 gennaio 2009

 

SAN PAOLO E LA LETTERATURA CRISTIANA

La Confessione come biografia di una verità

 

di Pierfranco Bruni

 

  La letteratura cristiana trova nelle Lettere di San Paolo non soltanto un percorso teologico ma una definizione del concetto di “confessione” che esula da quello propriamente letterario di “conversione”. Al di là della questione stessa teologica c’è una indicazione che si argomenta attraverso un dire letterario che si muove intorno a concetti chiave che rientrano nella visione di una poetica del mistero e del viaggio. Da questo punto di vista non ci sono dubbi nel sostenere che Paolo lega il concetto di viaggio con quello della “conversione”. Ma non si tratta della “sua” conversione o della sua chiamata.

Paolo è il viaggiatore che cerca di convertire sulla scia non solo del cristianesimo ma su quella della voce della cristianità che è quella direttamente proveniente da Cristo. Convertire genti e popoli. Lo si legge anche nei Vangeli Apocrifi riferendosi a  Gesù. Paolo ha un compito che è quello di “provvedere” alla conversione alla parola di Cristo popoli e genti. In questo popoli e genti c’è la cultura, oltre che la fede, dell’antropologia dell’umanesimo al cui centro però non c’è l’uomo in sé, troppo umanesimo alla nicciana maniera sarebbe, ma c’è il mistero che si collega alla grazia e alla carità.

 

Il tempo di Paolo non è nel tempo di Gesù e non è neppure il tempo di Gesù. Ma resta inevitabilmente un tempo improcrastinabile. Improcrastinabile perché c’è la storia che si diffonde dentro la memoria e il tempo successivamente definito da Agostino è lo spazio che cuce il limite della mortalità del corpo con l’immortalità dell’anima. È un tempo che non conosce evasioni perché si concentra tutto nelle Lettere di Paolo e il filo conduttore non sta nella “predicazione” o nei messaggi che hanno la loro precipua importanza  ma nel suggerimento, a volte velato a volte scoperto, della manifestazione del convertire. Ma Paolo è stato un convertito? Paolo è stato il chiamato di Gesù ed ha vissuto nel di dentro il dono della grazia che ha raccontato con la sua testimonianza lungo i viaggi.

Il tema del viaggio, dunque, non ha una geografia soltanto territoriale e fisica. Ha una dimensione dell’esistere che diventa sacralità della presenza, appunto, nel tempo. Il modello che proietta Paolo nel tempo è quello del cambiamento. Un cambiamento per amore. La visione di Platone è ben penetrante proprio nel momento in cui vita e verità si fanno coincidere.

 

Maria Zambrano in un suo scritto dal titolo: “La confessione come genere letterario” propone, riflettendo su Platone, questa osservazione: “…è Platone e non Aristotele ad averci insegnato che tra la vita e la verità c’è stato un intermediario: è l’amore, l’amore veramente tale, che ordina la vita e la conduce verso la verità”. Le Lettere di Paolo possono anche considerarsi come delle confessioni, certamente oltre la lezione agostiniana stessa, nelle quali i popoli non solo degli interlocutori ma sono i portatori di culture che si sforzano di comprendere linguaggi che sembrano non appartenere loro. E Paolo parla loro con la parola che assume il linguaggio originario ed è come “costruisse” una metafora poetica ma la poesia, soprattutto quella che viene dal mistero, ha un linguaggio chiaramente sacro. Con Paolo comincia veramente la prima lezione di una letteratura cristiana alta. Al mito non sostituisce il sacro. Attenzione, perché Paolo non compie sostituzioni e non ha alcun interesse. Pone accanto alla decodificazioni mitica del tempo quella del sacro.

 

Così mito e sacro si incontrano intorno ad un tema forte che è quello del viaggio – viaggiare. Con Paolo entriamo nella “modernità” del linguaggio. Con Mosè siamo ancora ad un cifra biblica antica che non si apre a prospettive di immagini e di linguaggi che toccheranno l’inquieto dell’uomo e del cuore. Con Paolo, invece, c’è l’assorbimento dell’inquietudine che entra dentro la geografia del viaggio moderno che è tuttora chiave di lettura nella nostra quotidianità. Ecco perché Paolo che è stato “chiamato” sembra sostituire al termine di conversione quello di confessione.

Agostino andrà ancora più avanti perché con la confessione si apre alla “città di Dio”. Ma senza l’autonomia di Paolo nei confronti dell’Antico Testamento e senza il racconto di Luca negli Atti degli Apostoli non avremmo capito il valore dell’intreccio tra conversione e confessione. Paolo nelle Lettere si confessa e si testimonia cercando di rendere testimonianza di un tempo reale, oltre che di un tempo sacro, e mai di un tempo virtuale.

 

Sempre la Zambrano nel testo citato cesella: “Tuttavia la Confessione che è confessione dell’interiorità dell’uomo, manifesta per parte sua la ricerca di una realtà completa”. Da Paolo a Sant’Agostino c’è un Tempo indefinibile che diventa tempo sacro perché si esce completamente dal mito e si entra in una vera e propria metafisica oltre qualsiasi ragione.

Uno dei romanzi moderni che ha saputo raccogliere questa lezione è il “documento spirituale” di Dostoevskij. I personaggi di Dostoevskij si muovono intorno ad una confessione completa che tocca l’anima e il cuore e parimenti lasciano segni attraverso la parola che ci fa linguaggio onirico. È pur vero che Sant’Agostino, dopo la sua confessione, non si immerge nella felicità presentita, nel Paradiso sognato. L’attende il lavoro, la vera azione: la vocazione. Perché ha già trovato i suoi simili, li ha trovati dentro di sé” (Maria Zambrano). Nel tema del viaggio paolino campeggia quello della “carità”.

 

In fondo “la carità crede tutto” dice San Paolo nella Lettera ai Corinzi e Sant’Agostino riprende questo concetto e lo proietta all’interno della letteratura che caratterizzerà la poesia del Due – Trecento. Ogni poesia è confessione ma non quella che ascolteremo tra gli echi romantici o decadenti ma una confessione che tocca le corde dell’estasi. E perché Paolo è dentro la coscienza letteraria della modernità? Perché, in fondo, è riuscito a tramandare il messaggio della confessione e della testimonianza.

La sua letteratura non è soltanto teologia della parola cristiana ma è teologia della parola dell’esistere non solo dentro il tempo ma accanto al tempo e i suoi viaggi tra le storie del Mediterraneo superano la profezia dell’attesa e si fanno, appunto, capacità della provvidenza a raccontare il mistero. Non so se il sacro si possa caratterizzare per un suo ordine. Non so neppure se per amare Paolo necessita rispettare delle regole. Ma io riesco a vivere Paolo non al di fuori di me ma dentro le mie incertezze che cercano di diventare verità o di trasformarsi in verità. Consapevole che l’amore non è solo destino dentro di noi ma grazia.

 

Il naufragio del suo ultimo viaggio, quello che lo condurrà a Roma, è un naufragio reale ma è anche l’inizio di un rapporto tra sacro e vita. Paolo può essere letto oltre la teologia cristiana. Forse no. O forse Paolo è cristianità comunque. Gli Atti degli Apostoli lo raccontano.

Il pellegrinaggio è il pellegrinaggio di un popolo che va oltre le onde del dubbio. Pur nel dubbio la cristianità di Paolo è il disegno di un camminamento che solca i labirinti della buona battaglia che tutti cerchiamo di vivere. Con Paolo, comunque, il Mediterraneo entra nella geografia del presente e il Mediterraneo è una cultura della tradizione nelle religiosi che si fanno fede. Solo nella fede si rompe lo steccato tra conversione e confessione.

Paolo ha vissuto la conversione come chiamata (o viceversa) ma si è stabilito, in termini letterari cristiani, nella confessione. La sua confessione è la biografia di una verità.

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