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EDITORIALI
Letteratura
pag. 3
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato il 4 aprile 2009
Carducci, Pascoli e Croce: che noia!
Io Voglio morire da vivo
di Pierfranco Bruni
Il
Novecento letterario (e poetico in particolare
anche dal punto di vista di una lettura critica)
italiano con i soli Carducci, Pascoli e Croce
sarebbe stato un secolo morto. Ovvero un secolo
consegnato all’Ottocento. O meglio non un secolo
capace di entrare nella vitalità di Giuseppe
Ungaretti che segna linguisticamente la vera
rottura con un Manzoni scolasticizzato e
impoetico ma un’epoca della contemplazione non
miticizzata ma mistificata.
Pascoli e Carducci sono Ottocento con qualche
piccolo barlume di luce non condizionante ma
populista e retrò. Il condizionamento che
traccerà la poesia nuova è il filtraggio
alcionico. Il resto è noia, ipocrisia,
asfissiante accademismo senza arte e fantasia.
L’ironia (l’umorismo pirandelliano e il ridere
sorridendo) dei Futuristi è ben altra cosa. Come
è ben altra cosa il “Marzo ventoso” di uno
straordinario Carlo Micchelstaedter che muore
suicida nel 1910 dopo averci consegnato un
testamento, che uscirà postumo, che risponde
alla filosofia dell’essere come azione.
Bisogna capire fino in fondo il moderno che
entra nel contemporaneo e il contemporaneo che
si spinge sino all’attualità. Le lezioni
scolastiche e accademiche servono ad un
crocianesimo soltanto e puramente teorico. La
poesia è l’arte di superare la contemplazione e
diventare follia.
Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini (che non
amava i futuristi ma aveva posto come premessa
letteraria alla sua storia tascabile della
letteratura un manifesto della tradizione
innovativa), Sem Benelli sono artefici di un
Novecento che si apre alla rivoluzione della
lingua. La poesia è (anche) lingua e il poeta o
lo scrittore usano i linguaggi (non la lingua,
attenzione a non cadere nel trucco crociano di
una estetica della doppiezza o di uno storicismo
ambivalente alla Russo) perché il Novecento è la
transizione di un completo gioco
nell’immaginario simbolico che va da “Mal
giocondo” di Pirandello ai versi di un Giorgio
Caproni con i quali si entra nel XXI secolo
avendo come riferimento la pazzia degli
scapigliati che si aprono alla rivoluzione della
vita.
Carducci e Pascoli non esistono più. Non possono
pi+ù esistere. Non devono più esistere. Per
carità non cerchiamo di salvarli. Insistere su
questi significa essere rimasti bloccati ad un
vocabolario letterario storicistico e non più
vero.
Il linguaggio poetico che
viviamo e che attraversa le corde del nostro
esistere nelle emozioni è ormai la recita di
“Voglio vederti danzare…” di Franco Battiato, di
“Ho visto Nina volare…” di Fabrizio De André, di
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Cesare
Pavese, di “Io ti sento tacere da lontano…” di
Vincenzo Cardarelli, di “Una barba a Salerno…”
di Alfonso Gatto. I quali trovano in due
riferimenti il modello innovante. Ovvero in
Guido Gozzano di “Non amo che le rose che non
colsi” e in “Cade la pioggia triste senza posa…”
ancora di Carlo Michelstaedtr. Modelli che vanno
molto al di là di un sanguidismo retorico o di
un t’amo bove bio che ha uccido il senso della
liricità della fantasia.
Gozzano e Michelstaedtr sono ben
oltre le parole e le intenzioni di Pascoli e
Carducci e sono ben oltre l’imperialismo
dittatoriale storicista ed estetico critico
gogoliano di Croce.
La poesia moderna è chiaramente oltre Croce.
Trova nella visione teorica di Giacomo
Debenedetti l’interprete problematico vero e non
l’intolleranza crociana. Smettiamola di metterci
in cattedra tentando di fare lezioni a dei
liceali. La vera arte è ben altra cosa. Come
quella poesia che tocca l’esistenza vera e non
l’ipocrisia del vivere.
La poesia è carne, è sangue, è malattia, è
dolore, è disperazione, è ironia, è gioco, è
allegria dei naufragi, è la sera che ci rende
belli e mai ridicoli, è l’ironia, il sorriso, il
riso, la teatralità, la tragedia e gli applausi.
Il Novecento senza l’idea futurista non ci
sarebbe stato così come lo abbiamo vissuto e
come continuiamo a viverlo. Ma si deve essere
futuristi dentro per capirlo. Altrimenti
l’ironia non vale il gioco e il gioco non è
impellicciarsi passeggiando tra le vie della
Romagna o della Sicilia o di Roma senatoriale
ma lasciarsi attraversare da un misterioso che
incanta in quell’onirico che è la pazzia del
tempo – spazio nella vita – azione.
L’imbecillità di una pseudo letteratura regna
nel tronfio referenzialismo senza arte, né
teatro, ma con la recita che nessuno ascolta
più.
Senza una rilettura dell’elogio della follia di
Erasmo di Rotterdan si resta ancorati ad un
mondo che non ci appartiene. Io sono così
intriso di contemporaneità perché sono convinto
che il relativo non mi appartiene mentre nella
filosofia dell’essere la parola non è apparenza
ma è completamente sacrificio.
Noi viviamo tra le memorie del sottosuolo. Altri
continuano a vivere nel sottosuolo delle
memorie. Ma la poesia è fatta di quel senso
incantato recitato da un grande della
contemporaneità che risponde al nome di Alberto
Bevilacqua. Il resto, ripeto con i versi di
Franco Califano che è poeta, è soltanto noia. E
io voglio morire da vivo e non vivere da morto e
tanto meno di noia.
Il teatro è nella libertà che fa della
letteratura la vita e non il sentore o
l’ipocrisia della vita. Il resto è veramente
noia. Dante resta una commedia del già visto.
Pavese è il tragico che recita la
contemporaneità. Pirandello conosce i segreti
dell’uno e centomila per vivere il nessuno.
D’Annunzio non smette di intrecciare le sue mani
tra i capelli di Eleonora. Mentre Diego Fabbri
conoscendo il vizio assurdo mette in scena un
nuovo processo a Gesù. I futuristi strapazzano
il moralismo di turno e i moralisti in
letteratura sono i veri non conoscitori
dell’arte che è arte se la pazzia si fa recita.
È questa la vera contemporaneità tra la scena
del moderno e la ribalta dell’attuale. Mi auguro
di non giudicare mai e di lasciarmi aggredire
sempre dalla pazzia. Sia in letteratura che
nella vita.
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pubblicato il 3 aprile 2009
NAVIGANDO COL MITO
ULISSE
E’ RIPARTITO – La poesia di Pierfranco Bruni: il
racconto di un uomo tra mare e destino.
di
Gerardo Picardo
"Siamo
stati due naufraghi appesi alle corde del porto":
così parla alla sua donna, persa e ritrovata, l'eroe
omerico raccontato da Pierfranco Bruni nei versi di
‘Ulisse è ripartito' (Ed. Pensa Multimedia, Lecce,
pp. 73, euro 5).
Nella poesia di questo profondo scrittore calabrese
c'è la storia di un uomo che affrontò il vento a
viso aperto in un viaggio di soste e di ritorni a
uno scoglio attorno a cui il tempo agita onde
ineguali. Ma vi respira anche lo sforzo di
riannodare il filo di una memoria ormai smarrita o
non vissuta, sottraendo il sentimento al peso delle
assenze.
Ulisse è ripartito, ma Penelope non viene. Dopo, per
un pezzo, e' solitudine. Che è poi, scrive nella
nota introduttiva Francesco Camarda, "la speranza
della poesia in genere: ribadire il disagio per
conservarlo a lungo nella memoria". Negli inquieti
versi di Bruni abita la poetica del viaggio ma
soprattutto del vivere. Racconta l'odore della
pioggia, il vociare dei contadini calabresi, la
malinconia che ritma i pensieri custoditi
all'addiaccio insieme alla voglia di ritrovare un
centro e una piazza dove far passeggiare giorni che
lottino a mani nude il dolore.
‘'E che dire delle sue escursioni nelle terre di
mezzo - scrive ancora Camarda - è il mare che Bruni
può ancora attraversare guardandolo con occhi che
gli diventano come quelli di Ulisse; occhi che se
vedono una scogliera a Roseto Capo Spulico gli
riaccendono la memoria di Itaca e il bisogno di
tornarsene a casa''.
Da sempre Bruni gioca con le parole perché sono i
segni e i miti a giocare per primi con lui: ‘'Se c'è
un luogo dove Bruni ci suggerisce di andare e' quel
luogo da cui, in fondo, nessuno di noi si è mai
mosso''. E se la consapevolezza si assume
‘'camminando'', come raccomanda il vecchio F. W.
Nietzsche in ‘Aurora', Bruni raccoglie sulla terra
dei giorni esperienze che sono conoscenza e lotta,
raccontando di amori perduti e ritrovati sulla
sabbia del nostro mare d'inverno.
Il mare stesso diventa nella sua poetica territorio
di viaggio. Accatastiamo allora ‘topoi' e miti in
compagnia del poeta, perché - annota sempre in
queste pagine Katia de Abreu Chulata- ‘'siamo tutti
naviganti noi lettori. E Bruni ci invita a navigare
col mito, noi stessi siamo miti, siamo tutto e
niente, acquisiamo forma compiendo il nostro
viaggio. Il nostro profilo svanisce, invece, quando
chiudiamo la pagina'' e smettiamo di credere
all'innocenza dei sogni, delle barche che cercano il
largo, delle lampare che illuminano pochi metri di
legno a cavallo del mare.
Così, scrive Bruni, ‘'i nostri silenzi restano
appesi sulla grondaia degli anni''. Ulisse è
ripartito con la sua smania di terre e di volti , ma
anche con l'amarezza dei congedi e delle armi
spuntate dopo il combattimento, ‘'naviga nei
naufragi e sa che le solitudini sono lacerazioni''.
La nostalgia cuce albe e tramonti; se potesse avere
voce, ‘'racconterebbe storie di paesi. Ma i viaggi
sono destini che misurano distanze''. E mentre
intorno i crepuscoli si sono arresi alla notte,
‘'anche ora le finzioni si intrecciano con
l'attesa''.
Ha ragione Bruni: al Sud ‘'ci sono destini antichi
che raccontano tristezze. Il vento è nell'ascolto
degli anni''. In questo viaggio, la donna e' isola e
porto, partenza e ritorni: ‘'Sei stata l'alba nel
mio tramonto'', annota il poeta di Carosino
rimarcando il bisogno di un sorriso, di una carne
che resti accanto a lui nelle veglie, anche se ‘'non
ho piu' l'ironia'' e ‘'gli anni hanno preso il
sopravvento. L'orizzonte è un filo che taglia la
luna''. E altrove, raccontando ancora dell'uomo che
sostenne il meraviglioso e mortale canto delle
Sirene, il poeta annota: ‘'Il mare mi ha condotto
sino alle tue nostalgie. Ma non lasciare tracce, non
ti cerchero'. Sei l'aurora che ho dimenticato nelle
sere d'autunno''.
Ora, nell'ascolto del tempo, l'Ulisse che con
astuzia espugno' Troia, è ‘'un personaggio vestito
di vento''. Li raccoglie tutti, i venti. Quelli
dell'attesa e della speranza, quelli dell'ira di
Eolo e dell'invidia degli dei. Sa che deve restare
uomo anche dinanzi al dono di Circe e sa che deve
riprendere il mare pure con una zattera perché ‘'le
lontananze sono il nostro destino''. Forse ci sarà
un altro tempo. Ma ora ‘'siamo destino nelle
solitudini delle attese raccontate''.
Bruni, poeta che racconta amori senza giorni, è ‘'il
custode delle nostalgie in quest'isola abbandonata
da Ulisse e abitata dalle bifore''. L'Ulisse di
Bruni è quello che lotta il destino ma è soprattutto
l'uomo del viaggio che non ha termine. L'astuto
greco ha occhi di mare nelle solitudini di un
orizzonte perduto, ma ‘'non chiedermi perché ho
accettato l'agonia dei silenzi''. Il vento ‘'è un
ascolto di destini. Sotto la pioggia ho giocato con
la tua ombra'' e ‘'non ci siamo arresi ai tramonti
come in quelle sere di silenzi perduti''.
Resta il fuoco acceso di notte dai compagni di lotta
sotto le mura di Ilio, il vino spremuto per
Polifemo, l'ira di Nettuno che rende le acque un
inferno.
E restano pure le spiagge che hanno conosciuto
conquiste e addii. La sabbia si tinge di umano, di
lacrime versate e di abbracci strappati ai porti. I
giorni della memoria si annunciano anche per Ulisse,
camminano sugli scogli, scompigliano gli otri delle
sicurezze. Ancora una volta, forse, resta una donna
a cullare la speranza dei giorni: lei che conosce il
segreto del sale ha ‘'occhi di mare e di vento. Non
ti lasciare aggredire dalla paure, i giochi della
vita sono infiniti''. ‘'Come sempre hai tra le mani
le rughe del destino. Ma non ne conosci i segni'',
dice un verso che traccia il cammino al lettore.
Quanto a lui, Ulisse-Bruni, si definisce, e lo è,
‘'un viandante della nostalgia''. Anche per il
poeta, infatti, come per l'uomo che un giorno
rifiutò l'Olimpo per morire come tutti i suoi
guerrieri, la sera non farà sconti. E' scritto nelle
mappe di viaggio. Ma ‘'anche i naufragi si
specchiano nella luna. Le mie parole hanno lasciato
il vento''. Domani si toglierà l'ancora per cercare
ancora una terra dove ‘'il destino ha lunghe ali di
memoria''
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pubblicato il 29 marzo 2009
SAN PAOLO TRA DAMASCO E MALTA
di Pierfranco Bruni
Damasco
e Malta costituiscono luoghi riferimento per San
Paolo. La conversione–chiamata e
porto–naufragio.
Dimensioni dell’esistere e dell’essere ma
soprattutto testimonianza di una spiritualità che ha
richiami all’interno di un viaggio che nel primo
caso ha obiettivi “speculativi” in cui dalla
intolleranza si passa alla capacità della
comprensione e dell’ascolto.
Damasco è il luogo del passaggio da una visione
materiale ad una completamente spirituale e
immateriale e il passaggio si avverte nel porsi in
ascolto dell’altro. La chiamata, in fondo, diventa
un porsi in ascolto di. Ma è anche un non rifiutare
il “senso” dell’ascolto. E il tutto avviene nella
completa iniziale indecifrabilità che si trasforma
immediatamente, appunto, nella consapevolezza
dell’ascolto.
Malta è la tappa intermedia e per questo diventa
metaforicamente luogo – porto ma soprattutto luogo
in attesa di. Ovvero resta l’attraversamento del
viaggio che definisce una prospettiva. Damasco
sembra l’inaspettato e forse in una prima lettura è
l’inaspettato segno profetico. Malta è il
proseguimento che condurrà oltre il mare. Malta è
l’isola ed è quindi il mare, o meglio è il viaggiare
tra le acque. Mentre Damasco è il deserto e il
viaggiare è conoscere la sabbia, la terra.
Terra e acqua sono le due interpretazioni del
viaggio paolino che definisce il luogo fondante che
è il Mediterraneo in una testimonianza che è fatta
di orizzonte. A Damasco comincia una missione. A
Malta la missione è profezia nella evangelizzazione.
Certo nel deserto Paolo non è ancora il Fondatore di
comunità e il suo compito è ben altro.
La voce di Cristo diventa la rottura del tempo e
dello spazio. A Malta, invece, si vive la continuità
del tempo e dello spazio. Il Mediterraneo ha anche
un altro scenario in quanto l’Occidente è già una
realtà ben definita che ha ben assorbito la
tradizione e la cultura di un Oriente che sembra
lontano ma che vive proprio dentro quella continuità
che è non solo testimonianza ma processo cristiano.
A Damasco c’è sostanzialmente una tensione
esistenziale ma a Malta la tensione è vissuta nella
fede. A Malta Paolo ha già il trasporto di
Gerusalemme e di Atene mentre si avvia a completarsi
nella compiutezza di Roma. Da Damasco a Malta c’è
quel camminamento che lega Gerusalemme, Atene e
Roma. È come se l’Oriente entrasse dentro
l’Occidente in una territorializzazione dell’anima
che si fa tradizione ma è anche la rivelazione che
sia l’Oriente che l’Occidente non possono fare a
meno l’uno dell’altro e si completano.
Malta, in fondo, diventa il luogo della
completazione non solo geografica ma testamentaria e
il concetto di deserto – mare completa anche il
sentire del viaggio come trasparenza di un camminare
sia al di fuori che nel di dentro. Appunto il
Mediterraneo diventa una teologia del viaggio.
Scrive Jacques Guillet in “Paolo, l’apostolo delle
genti” (2004): “Il Mediterraneo intero diventava il
centro di un impero immenso, che si estendeva
dall’Atlantico al Mar Rosso, che i suoi abitanti
potevano senza millanteria qualificare come
mondiale. Era la fine delle guerre tra città, delle
invasioni provenienti dall’esterno. Erano i mari e
le strade aperti per circolare, per commerciare, per
comunicare”.
In questo Mediterraneo Paolo portava la sua parola e
la portava comunicando sia attraverso le Lettere sia
negli incontri. A Damasco, dunque, comincia quella
“iniziazione” che si definisce come realtà di un
viaggio in un mosaico che si fa attesa. A Malta
l’attesa è carisma perché il cristianesimo, già di
per sé, è profezia. Il progetto di Paolo è
costantemente un attraversare il tempo nel viaggio
dell’esistere.
Un esistere che è storia ma anche misterioso che si
intreccia nella tradizione. Certo, Damasco è il
punto di partenza ma si arriva a Damasco dopo la
lapidazione di Stefano. Da Stefano alla strada per
Damasco Paolo non brucia il tempo ma continua a
vivere il tempo.
Da Damasco in poi il viaggio può considerarsi un
vero e proprio mosaico. Malta è uno degli ultimi
tasselli. Dopo Malta e dopo aver lasciato il mare
(le acque) è nuovamente la strada che fa da
scenario. Il viaggio iniziato su una strada si
interrompe lungo una strada. Ma continua nelle
coscienze e nel tempo della fede.
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pubblicato il 23 marzo 2009
Santo Domingo tra Giovanni Paolo II e i versi di
Dante.
Un viaggio nel fascino dell’indefinibile
di Pierfranco Bruni
I
viaggi sono incontri e la vita si vive tra gli
incontri. Forse parlarsi è un dovere. O un diritto.
Ma è solo la capacità di comunicare o forse il segno
di un affetto che va oltre ogni barriera culturale.
Parlarsi con la poesia. Con i versi dei poeti
italiani che recitano l’amore e le contraddizioni,
il senso del tempo e la tragica resistenza degli
incontri. Certo che la poesia è linguaggio
universale. Altrimenti che senso avrebbero i nostri
viaggi tra città e luoghi che sembrano insondabili.
Sono stato a Santo Domingo, nella Repubblica
Domenicana, in visita istituzionale e per i “soliti”
incontri che permettono comunque di creare legami e
di capire il rapporto tra la lingua italiano e le
lingue, tra la cultura italiana e le culture altre.
Un fascino dell’esotico e di una estate che non
smette di essere mai mare, sabbia, palme, piante di
banane e musica. Echi che lasciano un segno anche
quando si è lontani. La musica scava il vento tra
gli Oceani e i profumi andalusi.
La musica delle donne che ballano scalze sulla
sabbia o su un tappeto di bicchieri e riportano alla
erosione delle monotonie perché qui la donna è
bellezza ed eros. Un fascino che cattura. Hanno
bisogno di capire e noi abbiamo bisogno di
osservare, di entrare in un mondo che ci sembra di
conoscere ma così non è. Quanta italianità tra le
strade di Santo Domingo. Sembrano vie familiari.
Sarà certamente per i viaggi antichi ma soprattutto
per la straordinaria presenza di Cristofaro Colombo.
Cristobar…
Qui Cristoforo è stato di “casa”. Non si tratta di
una metafora. Ma la casa c’è veramente. Quel
Cristoforo che amava Isabella. D’altronde la lingua
che si parla è una calda parola spagnola. Non poteva
essere diversamente. L’accoglienza è stata di una
manifestazione d’affetto eccezionale.
L’Italia, ospite d’onore, ovvero la cultura
italiana. Abbiamo parlato di lingua e linguaggi ed
io soprattutto di letteratura italiana del
Novecento: da Giovanni Verga a Giuseppe Prezzolini.
Verga è molto amato. Ma non è il Verga
scolasticizzato. È quello che di “Tigre reale”, è
quello degli amori perduto e perdenti. Così
Prezzolini… Il Prezzolini di “Dio è un rischio” che
pone interrogativi e non deposita alcuna risposta.
Ma Santo Domingo è mare. È il mare del sogno. È la
città dei casinò e non dei casini. È la città della
festa. La festa dei giorni. I giorni che si fanno
festa.
Qui veramente la notte è una festa mobile che
direbbe il caro Ernest. E la festa te la senti
addosso per l’intera giornata come ti senti dentro
la musica o come ti porti negli occhi le donne che
danzano a suono di merengue o di salsa. Che
meraviglia quella ragazza con riccioli tra i capelli
e una gonna da zingare che volteggiava su un tappeto
di bicchieri al ritmo di una passionalità
inebriante. Meraviglioso e meraviglioso il sorriso
della gente pur in una non ricchezza mai ostentata.
Belli gli occhi di quella donna che ti tirava nel
gioco del ballo e dovevi ballare perché tutto è
parte del gioco delle notti di quella città. Con le
luci che sono riflessi.
E la cultura italiana? Sì, che giornate intese al
Salone del Libro. Una conferenza dietro l’altra e
con studenti che vogliono sapere e chiedono,
interrogano e non smettono di offrire poesia. Amano
la poesia. Soprattutto la poesia d’amore. Accanto a
Lorca, a Neruda, a Cervantes, a Becher e a quelli
propri della loro terra non ci sono soltanto Dante e
Petrarca ma Collodi, Pirandello e addirittura
Isabella Morra. Che ci fa Isabella Morra a Santo
Domingo? Anche negli alberghi è sempre festa.
Una studentessa giovane mi ha chiesto: “Come si fa a
diventare poeta?”. Abbiamo letto anche le poesie di
Giovanni Paolo II ed io ho tenuto conferenza
“particolare” sulla funzione poetica del verso
woitiliano con una riflessione sulle immagini della
Cappella Sistina scattate nelle parole che non solo
recitano ma anche raccontano. Ed è una festa nel
Corso centrale di Santo Domingo. Il caldo e l’estate
non conoscono pause. Le piazze sono indefinibili. Le
piazze restano dentro l’anima nel canto che ha gocce
di rugiada.
La piazza con Cristoforo Colombo si apre ai negozi
di corallo e ai mercatini dove il sigaro dominicano
sfida quello cubano. Nell’aria si respira tabacco e
odori di frutta. Esotica. Nei ristoranti le fettine
di banana fritta o arrostita ha un sapore dolciastro
e piacevole ma noi abbiamo cercato spesso ristoranti
con cucina italiana. Che provinciali… E’ un paese
cattolico. Non ci sono dubbi tanto che ricordano con
amore l’opera e la figura di Giovanni Paolo II.
D’altronde il primo viaggio all’estero che fece il
Pontefice fu proprio Santo Domingo e ci sono le
testimonianze, i segni, i simboli. I domenicani sono
orgogliosi di quel Papa e nella principale ancora
campeggiano le scritte che rimandano al passaggio di
Giovanni Paolo II.
Ho tanti ricordi dei giorni trascorsi in quella
terra che mi ha molto colpito e mi ha lasciato dei
tracciati indelebili. Il giorno prima della
partenza, in una casa nobiliare, anzi in una villa
elegantissima, si svolge un ricevimento in nostro
onore. Ambasciatori, consoli, istituzioni. Una
serata dove la musica era diventata assordante. Ad
un certo punto della nottata irrompono una
quindicina di ballerine vestite tutte di piume
colorate e con delle maschere che rimandavano a
delle divinità.
Che spettacolo… Fummo completamente presi alla
sprovvista. Ci chiesero di recitare dei versi di un
poeta italiano. Dovevamo improvvisare. Ognuno di noi
si improvvisò attore ricordando e declamando poesia.
Io subito ripescai alcune versi di una poesia di
Cardarelli.
Furono delle scene indimenticabili. Ogni ballerina –
danzante si avvicinò agli attori improvvisati. Si
tolse la maschera e con un sottile filo di corda la
pose sul nostro viso legandola dietro la testa. Le
ballerine – danzanti rimasero senza più maschera
mentre noi eravamo diventati delle divinità. Fu un
gioco affascinante e fummo tirati al centro della
villa con il battito di una musica e di un canto
latino – americano. Che strazio di gioia e di
emozione. L’emozione continua ancora oggi soltanto a
pensarci.
La notte finì e ci colse il giorno. Non capimmo più
nulla. Dovevamo ripartire per l’Europa, per
l’Italia. Ci attendeva un fuso orario di sei ore.
Arrivai a Parigi completamente stravolto. Quanta
cultura italiana nella Repubblica di Santo Domingo,
in quell’isola dominicana dove le parole di
Cristofaro Colombo e della cultura genovese e
genovese – spagnola resta un nucleo importante. Non
mi sono meravigliato poi tanto quanto tra i ritmi e
le note delle canzoni cantate dai giovani al Salone
del Libro c’erano anche i testi di Fabrizio De
André. Genovese, mediterraneo, Alvaro Mutis…
C’è stata una promessa strappata all’ultimo momento:
quella di ritornare a Santo Domingo per un seminario
proprio sui testi di Fabrizio De André. Certo che lo
farò. La musica è poesia e la poesia si fa musica.
Mi sono ritrovato nella valigia anelli di corallo e
collane. Non solo un corallo rosso, rosa o verde ma
un corallo splendente nero. Un corallo che cambia
colore con la luce della luna e con i riflessi del
mare. E poi la danza è un ritmo che non ha spazio e
neppure tempo perché continua nel volteggiare del
vento tra gli echi e le nostalgie.
La poesia non è fatta solo di parole ma anche di
sguardi. Così mi ha detto un ragazzo che con
attenzione ha seguito una delle mie conferenze. È
proprio vero. Guardandolo negli occhi gli ho
recitato: “Io l’ho veduta già vestita a verde,/sì
fatta ch’ella avrebbe messo in petra/l’amor ch’io
porto pur a la sua ombra:/ond’io l’ho chesta in un
bel prato d’erba,/innamorata com’anco fu la donna,/e
chiuso intorno d’altissimi colli”. Dante. Il Dante
che da noi viene giudicato minore. Il Dante che non
è metafisico ma si gioca l’anima tra gli spigoli
delle Rime. Mi ha guardato in silenzio e mi ha
chiesto: “pur favur me regala cheste parole?”. Con
la dolcezza e con gli occhi grandi.
Ho capito in quel momento come la universalità della
poesia non conosce frontiere o confini e va verso
orizzonti. Che bel viaggio! Un viaggio interminabile
tra le parole di Giovanni Paolo II che insistono tra
i miei ricordi e l’amore in Rime di Dante. L’amore
che si fa fede e la fede che è carità. L’amore degli
incontri nelle sere di Santo Domingo. Ho puntato al
casinò. Ma non ho vinto. La poesia è nell’amore e
l’amore ha gli occhi della nostalgia. Santo Domingo
resta una festa tra i libri raccontati e i libri
proposti.
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pubblicato il 23 marzo 2009
RICORDANDO IL POETA GIUSEPPE BONAVIRI
scomparso il 21 marzo 2009
di Pierfranco Bruni
Ho
un ricordo molto bello di Giuseppe Bonaviri,
da me studiato molti anni fa e inserito, di recente,
in due antologie della poesia italiana del Novecento
tradotte in lingua spagnola, la prima, e indirizzata
al Salone del Libro di Santo Domingo e una antologia
in lingua albanese (la seconda) con le finalità di
diffondere la letteratura italiana nei Paesi esteri
e soprattutto per realizzare un rapporto tra la
poesia italiana e le culture di lingua spagnola e
albanese.
Bonaviri, che era nato nel 1924, resta una pietra
miliare in quei processi lirici il cui intreccio
tra cultura adriatica e mediterranea realizza un
dato centrale in una visione di lingue che hanno
creato dei legami importanti con le realtà etniche.
Bonaviri, che veniva dalla Sicilia, ha portato con
sé un humus profondamente legato ad un etnhos che
ha saputo amalgamare parola, tradizione e cultura
popolare.
Trovandomi, per una conferenza sulle eredità etniche
dell’Italia, all’Università di Tunisi, nel corso del
mio discorrere, mi fu chiesto, improvvisamente, di
parlare proprio di Giuseppe Bonaviri. La richiesta
mi colse di sorpresa anche perché non rientrava nei
miei programmi ma, comunque, intavolammo una bella
discussione sia con i docenti sia con gli studenti
che erano di lingua francese, tunisina e italiana.
Perché mi chiesero di soffermarmi su Bonaviri?
Perché Bonaviri era molto amato in quella Università
ed era studiato da una docente che costantemente
leggeva, durante le lezioni, i versi di Bonaviri.
Proprio in quella occasione scoprii degli elementi
non soltanto letterari negli scritti di Bonaviri ma
anche degli aspetti ben precisi che avevano
connotati antropologici. E su questo intavolammo un
vero e proprio discorso. Lessi e commentammo insieme
una poesia che porta il titolo: “Valencia”. Ma
certamente Bonaviri è uno scrittore e un poeta che
ha attraversato una linea letteraria che è quella
prettamente contornata da un immaginario
profondamente mediterraneo e i suoi personaggi, che
raccontano non solo nella realtà ma anche nella
metafora, disegnano un preciso tracciato che è
quello di una definizione dell’avventura che i
personaggi stessi vivono e il senso del destino che
cammina sempre dentro un processo che esula la
dimensione puramente culturale per farsi esistenza.
C’è in un suo scritto del 1998, “L’infinito lunare”,
un percorso che tocca le corde dell’anima sia per lo
scenario sia per una atmosfera ben disegnata in una
visione in cui la metafora della parola supera ogni
ostacolo legato a un realismo mai interpretato
nell’opera di Bonaviri. Dalla Sicilia a Frosinone.
Un siciliano che era ben consapevole di quell’isola
che è sempre stata il nodo – snodo della sua
malinconia che traspare lungo le parole annunciate,
sottolineate, pronunciate a parole lente.
Ebbene, a Tunisi parlammo di Giuseppe Bonaviri
poeta. Come ne parlai a Scutari, a Tetova, a Santo
Domingo. Ma gli studenti tunisini sprizzavano gioia
quando comincia a leggere: “Sui sassi secchi del tuo
fiume/la sera si è spenta in lampeggiamenti./In
cielo lenta, spaurita e fùmida/la luna s’alza”.
Siamo in pieno Novecento e quelle “Notti
sull’altura” del 1971 sono il percorso di una vita
come la misura di un dialogo mai interrotto nei suoi
scritti tra spazio e tempo che troviamo in un suo
libro del 1976 e ristampato nel 1999 dal titolo:
“L’enorme tempo”. Ma tutto diventa “O corpo
sospiroso” del 1982 oppure si vive spesso in quell’
“incominciamento” (1983) che porta le rughe nelle
parole e il linguaggio è una attesa nella
indefinibilità del quotidiano.
Giuseppe Bonaviri, morto il 21 marzo scorso resta un
riferimento poetico che ha inciso in quel passaggio
tra una letteratura segnata dallo storicismo e una
letteratura che ben ha saputo giocarsi la partita
all’interno di una eredità metaforica.
Bonaviri, passando attraverso la metafora, ha
fatto della sua letteratura una visione magica. E
magico è il suo linguaggio a cominciare da uno dei
suoi primi libri che risale al 1954: “Il santo della
stradalunga” sino ad un tocco di vera alchimia che
si trova in “I cavalli lunari” del 2004.
Uno scrittore che passeggiando tra le strade
della nostalgia ha recitato e raccontato il
“sensibile” di una vita nel tocco di una memoria che
è dentro la vita stessa sempre nel segno della
tradizione.
Nella foto: Lo scrittore
Bonaviri
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pubblicato il 21 marzo 2009
Indro Montanelli nel centenario della
nascita.
La sensibilità umana
del Letterato nel romanzo "Il generale Della Rovere
di
Micol Bruni
Indro
Montanelli nel centenario della nascita. Non solo il
giornalista ma anche lo scrittore, il letterato, i
suoi romanzi. Indro Montanelli nato in provincia di
Firenze a Fucecchio il 22 aprile 1909. Morto a
Milano il 22 luglio del 2001.
"Vorrei mettere ordine nei miei pensieri, vorrei
vedere più chiaramente in me, in te, in noi. Vorrei
riepilogare tutta questa cosa assurda. Volevo farlo
con te. Ti aspettavo per farlo. Ma poi tu mi
soffocasti coi baci le parole in bocca. Oh, giorni
inutili e divini. Quanto ritorneranno?" (Indro
Montanelli).
L'intreccio tra storia e sentimenti, in letteratura,
diventa, in alcuni scrittori, una ragnatela fitta di
significati esistenziali. In questi significati si
amalgamano la realtà (la cronaca, ovvero) presente e
quella che si è depositata nella memoria. il passato
che ritorna e ricostruisce avvenimenti, fatti,
dimensioni umane.
Sembra, il brano citato. Un "pezzo" di un romanzo
d'amore, forse di passioni, forse ancora di scontri
e riappacificazioni oniriche ed erotiche. Nulla di
tutto questo. O meglio c'è anche questo ma non è
questo il punto centrale della "costruzione"
narrante.
Si tratta di un brano come si diceva di Indro
Montanelli. Il grande giornalista che viene
ricordato chiaramente come un maestro del
giornalismo italiano ma ha scritto, tra l'altro,
libri di narrativa che in una storia della
letteratura vanno certamente tenuti in
considerazione.
Ci sono due romanzi che si aprono ad una prospettiva
di natura narrativa che dovrebbe permetterci una
verifica proprio in merito a quel rapporto giocato
tra letteratura e storia. Storia di testimonianze,
di vissuto ma anche storia di personaggi.
Mi riferisco a Qui non riposano (pubblicato
per la prima volta nel 1945 in Svizzera, dal quale è
tratto il brano citato all'inizio) e Il generale
della Rovere. Due romanzi in cui è vivo il
trasporto della storia (del fascino degli
avvenimenti che la storia trascrive, decodifica,
definisce) nella letteratura. Un dato abbastanza
importante in un protagonista della scrittura qual è
stato Indro Montanelli.
Il giornalismo gli serve per capire fino in fondo la
realtà della storia e da qui si parte per dare una
struttura narrante ai fatti. A quei fatti che
diventano, in questo caso preciso, dimensione umana
e per restare tali la letteratura è uno strumento
fondamentale. Perché Montanelli non si ferma (resto
nel campo letterario) a decifrare fatti e
circostanze ma delinea, attraverso i fatti stessi,
il destino dei personaggi.
Si pensi, appunto al generale Della Rovere. Si
pensi, appunto, alla sua ricerca sui documenti che
trovano una base importante nel raccontare le
vicende di Qui non riposano. Questo però non
lo allontana dal giocare con un linguaggio, come
d'altronde i veri scrittori sanno fare, intriso di
immediate realtà e di infuocata ironia. Ma
Montanelli, anche in narrativa, non gira intorno ai
problemi, non usa la metafora come modello precipuo
per un percorso letterario. Anzi di metafora non se
ne parla proprio. Proprio nell'incipit del primo
capitolo di Qui non riposano si legge: "Io
non sono mai stato fascista. Io non sono mai stato
antifascista. Io sono soltanto il barone Eduardo
Candura, napoletano. E', secondo questi due soli
attributi - barone e napoletano - che chiederò al
buon Dio di essere giudicato. Agli uomini non posso
chiedere nulla, visto che già mi hanno contestato e
rifiutato il diritto di tirare a campare".
Parte da qui, al di là, della storia che si mette in
scena, una visione in cui il gioco delle parti (tra
personaggio e io narrante) è tirato da un unico
regista - attore.
Non c'è meraviglia. Tutto ha una sua
parcellizzazione ma lo scrittore conosce molto bene
i confini dello scrittore e i limiti del
giornalista. Si caratterizza per la precisazione dei
personaggi, i quali costituiscono il punto
nevralgico del momento narrativo. Montanelli si
poneva la questione della letteratura e del
letterato.
Ci credeva in questa funzione. Raccontare è un po'
come vivere. A volte ci permette di rivivere. Altre
volte ci permette di sistemare. Altre volte ancora
ci permette di focalizzare il tempo presente.
In Premessa a XX Battaglione eritreo
(trattasi del suo secondo libro) si raccoglie questo
inciso: "Sono letterato. E, a parte il brutto e il
meschino di questa parola, il mio mestiere mi
innamora… Rubo al sonno la mezz'ora di sosta per
tornire la frase, per polire la parola e renderla
densa; mi trascino dietro, fra il bagaglio ridotto
al minimo per esigenza di guerra, un manoscritto
ingombrante. E tutto sono pronto a sacrificare
fuorché questo. Dirò di più: sono in Africa anche
per ragioni letterarie: non a cercare 'colore', ma a
cercarvi una coscienza di uomo: Necessaria: a tutti,
ma specialmente a un artista".
Ebbene, Montanelli il problema letterario se lo
pone. E se lo pone da giornalista e da scrittore. O
meglio se lo pone da letterato. La letteratura, in
altri termini, ci permette di "cercare" anche "una
coscienza di uomo". Avere consapevolezza di ciò in
un legame tra realtà e definizione di un linguaggio
che sia in grado di non consumarsi. La letteratura
sta proprio qui: nel non permettere alla scrittura
di consumarsi, di non permettere alla scrittura di
cadere nell'oblio, di non permettere che possa
diventare monotonia.
Tutto ciò Montanelli lo aveva ben capito e lo teneva
in forte considerazione. Il generale Della Rovere,
dal quale è stato tratto un film da Roberto
Rossellini nel 1959, è appunto un romanzo in cui si
intrecciano esperienze, conoscenza del linguaggio e
sensibilità umana. Non per caso i personaggi sono,
nel bene e nel male, una legittimazione di un fare
letteratura attraverso l'acquisizione degli
avvenimenti che provengono dalla cronaca e della
realtà ma entrano nella storia.
D'altronde lo stesso autore in una nota
dell'edizione del 1959 puntualizzava riferendosi a
questo scritto e a quel rapporto menzionato tra
storia e letteratura: "…non pretende di essere
assolutamente vero, sebbene abbia per protagonista
un personaggio realmente esistito". E ancora di più
precisa: "L'ho scritto cioè come una storia, non
come una pagina di Storia".
Lo scrittore è qui. E tutto questo senza cedere ad
una alcuna rappresentazione d'ambiente. Ci sarebbero
altri testi da citare compresi quelli teatrali ma
quelli qui sottolineati danno una dimensione
considerevole e straordinaria per molti aspetti di
un Montanelli che va oltre il giornalismo e che va
oltre la storia. La letteratura e il letterato sono
riferimenti che non passano.
Nella foto: Indro Montanelli
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pubblicato il 18 marzo 2009
Nel centenario della nascita di Carlo Bernari
di Pierfranco Bruni
Carlo
Bernari, nato a Napoli il 13 ottobre 1909 e morto a
Roma il 22 ottobre 2002, è uno scrittore meridionale
che ha raccontato, attraverso i suoi scritti e i
suoi testi narrativi, il passaggio da una narrativa
realista ad un modello di scritture in cui la
griglia simbolica ha cercato di impossessarsi del
gioco delle metafore. Ma il suo impegno letterario
resta legato ad un romanzo che ha inciso un solco
nel contesto letterario del Novecento.
Mi riferisco a
“Tre operai”. Un romanzo scritto tra il 1982 – 29 e
che traccia in termini storici anche qui un
passaggio epocale nel quale sono coinvolte alcune
città tra le quali Taranto, Napoli, Crotone.
Infatti, i tre personaggi centrali si raccontano
proprio grazie ad un vissuto in queste città in un
contesto economico e storico che vedeva il mondo
operistico vivere una fase di trasformazione e le
città assumevano delle sembianze in cui la
trasformazione dal mondo contadino al mondo operaio
è ben evidente. Un paesaggio realistico all’interno
di un processo storico che poneva la “questione
meridionale” al di fuori degli schemi di una
dimensione prettamente contadina.
Il sud è socialmente
marcato sia per le visioni geografiche sia per la
costruzione dei personaggi sia per come le tematiche
vengono affrontate in quanto si ripropone una antica
questione che è quella meridionale ma nonostante ciò
rimane sempre un romanzo e va considerato come tale
anche dal punto di vista critico e interpretativo in
una visione direttamente letteraria.
Il personaggio femminile di
nome Anna diventa l’asse intorno al quale si smuove
il sentimento della femminilità, della maternità e
della responsabilità. C’è, comunque. Alla base un
dato ispirativi che pone all’attenzione il destino
di un personaggio che non si fa elemento
contemplativo ma risulta come chiave di lettura tra
la storia che si fa elemento etico e la fantasia che
è lo sprigionamento di un intreccio estetico –
popolare. La prima edizione di questo romanzo vede
la luce nel 1934 da Rizzoli e successivamente da
Mondatori nel ’51 e nel ’65.
C’è da dire,
comunque, che Bernari non è solo in questo romanzo
(il suo vero cognome era Bernard) ma anche in altri
testi narrativi come “Quasi un secolo” del 1940 ,
“Prologo alla tenebre” del 1947, “Speranzella” del
1949, “Siamo tutti bambini” del 1951, “Vesuvio e
pane” dell’anno successivo, “Domani e poi domani”
del 1957, “Amore amaro” dell’anno successivo nel ’58
e poi non possono essere dimenticati testi come
“Bibbia napoletana” del 1961, “Era l’anno del sole
quieto” del 1964 sino a “Le radiosi giornate” del
1969.
Bernari non è stato soltanto
un narratore perché ha tracciato delle linee anche
dal punto di vista saggistico e il saggio apparso su
“Paragone” n. 182 del febbraio del 1966 dal titolo
“Mann e noi” rappresenta una chiave di lettura ad
intreccio tra la tragicità manniana decadente e una
sovrapposizione meta - realista. Significativo resta
anche il saggio su Corrado Alvaro risalente al 1957
nel quale Bernari fa un’analisi dei luoghi e delle
case alvariane.
Il Bernari che
resta e che oggi potrebbe avere una singolarità
tematico – sentimentale è quello che ha saputo
intrecciare sul registro psicologico il vissuto di
un amore. Tra i romanzi citati il titolo “Domani e
poi domani” resta una di quelle pagine indissolubili
tanto da misurare la scrittura sul quadrante di una
partitura musicale e la storia di un amoroso
racconto è un pentagramma recitato sul ritmo
dell’amore – amante.
Si racconta la storia di
Nicola per Virginia, una venticinquenne bellissima
che cercava un amore ma nello stesso tempo una
figura paterna alla quale afferrarsi . Tra i due c’è
di mezzo la cifra del tempo. Un tempo indefinibile
che segna la storia di questo amore sulla griglia
degli abbandoni. In questo romanzo ci sono immagini
di una bellezza travolgente e di paesaggi che
restano sentieri dell’anima ma il distacco alla fine
sigla il disegno di un’avventura che è parte
integrante della vita sia di Nicola che di Virginia.
Il titolo stesso di questo romanzo diventa una
metafora. Ma nella complessità dell’opera letteraria
di Bernari il raccontare stesso senza la metafora
diventa artificioso e nonostante il suo realismo
iniziale l’ironia forse con un pizzico marottiano è
un gioco consistente. D’altronde come epigrafe al
romanzo “Domani e poi domani” Bernari impone una
frase del Macbeth di Shakespeare che dà il titolo al
romanzo stesso: “…Domani, e poi domani e poi domani.
Striscia da un giorno all’altro ogni domani, fino a
raggiungere l’ultima sillaba del termine
prescritto…”.
Forse in questa ironia è il Bernari che
traccia una testimonianza forte all’interno di un
rapporto tra linguaggio e personaggio. Credo che sia
proprio qui che si giochi il significato di una
letteratura che ha un respiro fortemente europeo. La
“provincia” non è una realtà geografica ma è un
sentiero del pensare che si sviluppa in un modello
che pone all’attenzione non più il rappresentativo o
il documentario ma una tensione che è esistenziale e
metaforica.
Nella
foto: ritratto di Carlo Bernari dell'artista Alberto
Sughi
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pubblicato il 1° marzo 2009
Il Futurismo e la sua anima
filosofica
di
Pierfranco Bruni
Ma
certo che il Futurismo è stato un movimento
rivoluzionario. Rivoluzione come fantasia e come
misterioso che si incarna nel presente che va oltre.
Filippo Tommaso Marinetti ha incantato con il suo
rivoluzionario sentire e agire la cultura italiana a
cominciare dai Manifesti. Il Marinetti che scriveva:
“Noi crediamo alla possibilità di un numero
incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo
senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono le
ali” suggeriva di non smettere di sognare. Il sogno
è nel Futurismo. Lo dice bene Giordano Bruni Guerri
nel suo libro dal titolo: “Filippo Tommaso
Marinetti” (Mondadori), il cui sottotitolo è una
precisa dichiarazione che troviamo nel tracciato dei
Manifesti. Ovvero: “Invenzioni, avventure e
passioni”. Marinetti trova nelle passioni il
rivoluzionario.
Pensare, in virtù di ciò, che il Futurismo non
abbia una sua filosofia credo che sia errato in
quanto ci sono elementi, che non solo annunciano le
tesi esposte nel primo Manifesto futurista del 1909
ma preparano alla nascita di quella rivista che poi
ha dato le basi teoriche al Futurismo. Mi riferisco
alla rivista “Poesia” uscita nel 1904 e che vede il
suo consolidarsi negli anni successivi.
La filosofia di cui si parla non sta soltanto
nel progetto estetico o nel progetto antimaterico ma
consiste nella visualizzazione di una rottura con la
tradizione, che significa rottura di schemi ma
altresì recupero di una eredità, che sostanzialmente
vive come presente.
Per il Futurismo il presente non viene dal
passato ma si cementifica nella capacità di
anticipare il futuro, di prevenirlo e di
profetizzarlo. Da questo punto di vista è un
movimento, che blocca la sua idea sul concetto di
spazio non eludendo però il tempo ma per tempo non
si identifica l’insieme dei passati ma è piuttosto
quello che costantemente si annuncia. Forse anche
per questo non c’è disputa tra la funzione del
passato è quella del futuro perché tutto si
definisce in quel concetto vivificante che è la
psicologia della velocità.
Il Futurismo non si misura con le cose ma con
le azioni, che vengono prodotte proprio dalla
filosofia nella cancellazione del tempo per
dimensionarsi nello spazio. È lo spazio, infatti,
che diventa attore e da questo punto di vista i
comportamenti dei futuristi a volte sono più dei
Manifesti stessi perché l’improvvisazione è la
“regola” di una teatralità, che si mette in scena ma
che si mette anche in discussione.
Chiedersi se c’è un filo rosso tra i Manifesti
e l’opera dei futuristi e il comportamento degli
artisti potrebbe entrare nella norma della
discussione. È naturale che questo filo rosso, in
termini critici, si può rintracciare ma è anche
naturale che gli artisti futuristi siano sempre,
immediatamente, più in là nel ciò che i Manifesti
promulgano.
Questo non significa che i futuristi non si
attengono alle “regole” dei Manifesti ma significa
un’altra cosa: si portano dentro quella filosofia
del presente superato in un’area profetica di
costante interventismo e pur mai venendo meno alle
tesi stesse dei Manifesti sperimentano operando.
La vera filosofia è l’assenza del tempo
passato in virtù di un interventismo sul presente
mai però disdegnando quel concetto di tradizione che
non sta nei comportamenti ma nella rottura degli
schemi precostituiti proprio nella temperie del
primissimo Novecento.
I futuristi e in primis Marinetti tendono a
sottolineare che ci sono alcuni concetti chiave dai
quali non si può prescindere e questi concetti
chiave sono rappresentati da quattro parole che
vengono scritte con la prima lettera maiuscola e
sono : “Divinità”, “Uguaglianza”, “Giustizia”,
“Libertà”. Minimamente non è da pensare ad una
visione illuminista o post illuminista anzi tutto il
contrario. Perché il concetto di divinità diventa la
vera e proprio anima filosofica in un contesto in
cui il subbuglio esistenziale stava diventando
un’apatia spirituale.
È naturale che il concetto di patria è la
sintesi dell’anima filosofica e viene fuori
tranquillamente con l’adesione dei futuristi alla
Prima Guerra Mondiale. I futuristi sono
interventisti perché nel loro essere artista c’è la
dinamicità e la vitalità, che incarnano le quattro
maiuscole prima citate.
Il percorso che il Futurismo ha tracciato sia
in Italia sia attraverso una relazionalità con altri
paesi sia ai diversi futurismi, che ogni regione
l’Italia ha incorporato, sono l’espressione più
emblematica di un modello di libertà i cui linguaggi
poetici e pittorici sono il marchio caratteriale.
Molte volte il pensare futurista o l’essere
futurista non coincide con la creatività futurista
ed è qui che il gioco si intreccia con la fantasia,
con il vissuto e con il programma dei Manifesti.
Essere futurista in Puglia o essere futurista
in Calabria o essere futurista a Milano non cambia
l’anima filosofica perché il suo tracciato è sempre
quello della dinamicità e della rottura del mosaico,
che non può essere ricostruito come tempo della
continuità. In fondo il Futurismo non ha continuità
e non spreca le proprie energie nella continuità.
Proprio per questo nasce come movimento nazionale
nel quale confluiscono le varie istanze regionali e
nei vari territori ciò che diventa fondante è il
pensiero che si trasforma in un agire.
La dinamicità in fondo diventa teatralità
perché il futurista ama la piazza perché è il
protagonista della conduzione nella recita e il
teatro nella loro recita è, appunto, scendere nelle
strade per creare un modello di partecipazione.
Vivono il luogo non come il di dentro ma come non
luogo il di dentro e scoprono una forma
antropologica del fare letteratura e del fare arte
attraverso la gestualità e, quindi, attraverso il
colore. Ciò lo si nota proprio ripercorrendo le
varie esperienze che il Futurismo ha lasciato e le
realtà dove ha operato.
Da questo punto di vista la recita ha sempre
bisogno degli applausi e non c’è distinzione tra il
Nord e il Sud. Annota Marinetti in Firenze
biondazzura sposerebbe futurista morigerato: “O
fiorentini avete il merito di aver dato a me e ai
miei amici futuristi per la prima volta ciò che non
avemmo mai il gusto degli applausi”. E non c’è
distinzione tra Firenze e Reggio Calabria tra Roma e
la Puglia. La scena è unica e il teatro è una
recita, come si diceva, che non smette la sua
improvvisazione ma anche la sua provvisorietà. La
provvisorietà per i futuristi non è male, diventa
celebrazione perché ogni teatralizzazione è festa.
Perché chiedersi se il Futurismo ha un senso o
ha avuto un senso? Quando il pubblico applaude
l’importante non è che lo spettacolo sia riuscito o
meno, ciò che si deve cogliere è l’ardore e
l’entusiasmo dell’atto creativo. Certo il Futurismo
resta non ciò che abbiamo vissuto ma tutto ciò che
il futuro vive nel presente. Potrebbe sembrare un
gioco di parole ma si potrebbe pensare oggi alla
modernità senza ascoltare le voci di Marinetti o
senza fantasticare con i sogni di Boccioni e poi di
Balla, Carrà, Sironi? Non credo che sia possibile.
Noi viviamo la modernità perché il Futurismo
ha distrutto la storia, ha anticipato il tempo e
ricostruito lo spazio in una “logica” che è fuori
dal sapere ma che continua a vivere dentro un
sentire folgorato dalla profanazione del cimiteriale
e divinamente innescato in una sorprendente ironia,
che non si serve dell’importanza del capire ma si
serve del naturalmente non naturale, che è in quella
plasticità dinamica, mai in disuso, è sempre
consequenziale e profetica.
Da qui allora comincia un viaggio senza
diritti o rovesci. Può piacere o meno. Ma la non
storia, non tempo e lo spazio sublimale sono nel
volo inesplicabile, indecifrabile come il vento,
incatturabile come la velocità di un Futurismo senza
il quale la letteratura e l’arte, in questo
quotidiano che è il futuro, non ci sarebbero, come
ci sono in questo impraticabile momento, che è già
svolazzante oltre o aldilà di noi.
Dunque, c’è un’anima filosofica nel Futurismo?
Ma certo che esiste e insiste ritrovandoci tra i
coriandoli di un carnevale che avanza nel successivo
di questo mio dire. Forse è una pazzia, ma Marinetti
non è soltanto nella nostra contemporaneità, è il
moderno con il quale possiamo dialogare nonostante
la pazzia fattasi piazza.
Se dovessi scegliere, e di scegliere
sceglierò, ed ho già scelto, mi lascerei turlupinare
da un Marinetti e non dalla ragione sedentaria o
“satanica” di un Pascoli o di un Carducci. L’utopia
ha bisogno di applausi e come disse Ezra Pound noi
gioiamo affinché gli applausi durino nei secoli.
Rivoluzione dunque? Marinetti resta rivoluzionario
sino alla fine.
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pubblicato il 18 gennaio 2009
SAN PAOLO E LA LETTERATURA CRISTIANA
La Confessione come biografia di una verità
di Pierfranco Bruni
La
letteratura cristiana trova nelle Lettere di San
Paolo non soltanto un percorso teologico ma una
definizione del concetto di “confessione” che esula
da quello propriamente letterario di “conversione”.
Al di là della questione stessa teologica c’è una
indicazione che si argomenta attraverso un dire
letterario che si muove intorno a concetti chiave
che rientrano nella visione di una poetica del
mistero e del viaggio. Da questo punto di vista non
ci sono dubbi nel sostenere che Paolo lega il
concetto di viaggio con quello della “conversione”.
Ma non si tratta della “sua” conversione o della sua
chiamata.
Paolo è il viaggiatore che cerca di convertire sulla
scia non solo del cristianesimo ma su quella della
voce della cristianità che è quella direttamente
proveniente da Cristo. Convertire genti e popoli. Lo
si legge anche nei Vangeli Apocrifi riferendosi a
Gesù. Paolo ha un compito che è quello di
“provvedere” alla conversione alla parola di Cristo
popoli e genti. In questo popoli e genti c’è la
cultura, oltre che la fede, dell’antropologia
dell’umanesimo al cui centro però non c’è l’uomo in
sé, troppo umanesimo alla nicciana maniera sarebbe,
ma c’è il mistero che si collega alla grazia e alla
carità.
Il tempo di Paolo non è nel tempo di Gesù e non è
neppure il tempo di Gesù. Ma resta inevitabilmente
un tempo improcrastinabile. Improcrastinabile perché
c’è la storia che si diffonde dentro la memoria e il
tempo successivamente definito da Agostino è lo
spazio che cuce il limite della mortalità del corpo
con l’immortalità dell’anima. È un tempo che non
conosce evasioni perché si concentra tutto nelle
Lettere di Paolo e il filo conduttore non sta nella
“predicazione” o nei messaggi che hanno la loro
precipua importanza ma nel suggerimento, a volte
velato a volte scoperto, della manifestazione del
convertire. Ma Paolo è stato un convertito? Paolo è
stato il chiamato di Gesù ed ha vissuto nel di
dentro il dono della grazia che ha raccontato con la
sua testimonianza lungo i viaggi.
Il tema del viaggio, dunque, non ha una geografia
soltanto territoriale e fisica. Ha una dimensione
dell’esistere che diventa sacralità della presenza,
appunto, nel tempo. Il modello che proietta Paolo
nel tempo è quello del cambiamento. Un cambiamento
per amore. La visione di Platone è ben penetrante
proprio nel momento in cui vita e verità si fanno
coincidere.
Maria Zambrano in un suo scritto dal titolo: “La
confessione come genere letterario” propone,
riflettendo su Platone, questa osservazione: “…è
Platone e non Aristotele ad averci insegnato che tra
la vita e la verità c’è stato un intermediario: è
l’amore, l’amore veramente tale, che ordina la vita
e la conduce verso la verità”. Le Lettere di Paolo
possono anche considerarsi come delle confessioni,
certamente oltre la lezione agostiniana stessa,
nelle quali i popoli non solo degli interlocutori ma
sono i portatori di culture che si sforzano di
comprendere linguaggi che sembrano non appartenere
loro. E Paolo parla loro con la parola che assume il
linguaggio originario ed è come “costruisse” una
metafora poetica ma la poesia, soprattutto quella
che viene dal mistero, ha un linguaggio chiaramente
sacro. Con Paolo comincia veramente la prima lezione
di una letteratura cristiana alta. Al mito non
sostituisce il sacro. Attenzione, perché Paolo non
compie sostituzioni e non ha alcun interesse. Pone
accanto alla decodificazioni mitica del tempo quella
del sacro.
Così mito e sacro si incontrano intorno ad un tema
forte che è quello del viaggio – viaggiare. Con
Paolo entriamo nella “modernità” del linguaggio. Con
Mosè siamo ancora ad un cifra biblica antica che non
si apre a prospettive di immagini e di linguaggi che
toccheranno l’inquieto dell’uomo e del cuore. Con
Paolo, invece, c’è l’assorbimento dell’inquietudine
che entra dentro la geografia del viaggio moderno
che è tuttora chiave di lettura nella nostra
quotidianità. Ecco perché Paolo che è stato
“chiamato” sembra sostituire al termine di
conversione quello di confessione.
Agostino andrà ancora più avanti perché con la
confessione si apre alla “città di Dio”. Ma senza
l’autonomia di Paolo nei confronti dell’Antico
Testamento e senza il racconto di Luca negli Atti
degli Apostoli non avremmo capito il valore
dell’intreccio tra conversione e confessione. Paolo
nelle Lettere si confessa e si testimonia cercando
di rendere testimonianza di un tempo reale, oltre
che di un tempo sacro, e mai di un tempo virtuale.
Sempre la Zambrano nel testo citato cesella:
“Tuttavia la Confessione che è confessione
dell’interiorità dell’uomo, manifesta per parte sua
la ricerca di una realtà completa”. Da Paolo a
Sant’Agostino c’è un Tempo indefinibile che diventa
tempo sacro perché si esce completamente dal mito e
si entra in una vera e propria metafisica oltre
qualsiasi ragione.
Uno dei romanzi moderni che ha saputo raccogliere
questa lezione è il “documento spirituale” di
Dostoevskij. I personaggi di Dostoevskij si muovono
intorno ad una confessione completa che tocca
l’anima e il cuore e parimenti lasciano segni
attraverso la parola che ci fa linguaggio onirico. È
pur vero che Sant’Agostino, dopo la sua confessione,
non si immerge nella felicità presentita, nel
Paradiso sognato. L’attende il lavoro, la vera
azione: la vocazione. Perché ha già trovato i suoi
simili, li ha trovati dentro di sé” (Maria
Zambrano). Nel tema del viaggio paolino campeggia
quello della “carità”.
In fondo “la carità crede tutto” dice San Paolo
nella Lettera ai Corinzi e Sant’Agostino riprende
questo concetto e lo proietta all’interno della
letteratura che caratterizzerà la poesia del Due –
Trecento. Ogni poesia è confessione ma non quella
che ascolteremo tra gli echi romantici o decadenti
ma una confessione che tocca le corde dell’estasi. E
perché Paolo è dentro la coscienza letteraria della
modernità? Perché, in fondo, è riuscito a tramandare
il messaggio della confessione e della
testimonianza.
La sua letteratura non è soltanto teologia della
parola cristiana ma è teologia della parola
dell’esistere non solo dentro il tempo ma accanto al
tempo e i suoi viaggi tra le storie del Mediterraneo
superano la profezia dell’attesa e si fanno,
appunto, capacità della provvidenza a raccontare il
mistero. Non so se il sacro si possa caratterizzare
per un suo ordine. Non so neppure se per amare Paolo
necessita rispettare delle regole. Ma io riesco a
vivere Paolo non al di fuori di me ma dentro le mie
incertezze che cercano di diventare verità o di
trasformarsi in verità. Consapevole che l’amore non
è solo destino dentro di noi ma grazia.
Il naufragio del suo ultimo viaggio, quello che lo
condurrà a Roma, è un naufragio reale ma è anche
l’inizio di un rapporto tra sacro e vita. Paolo può
essere letto oltre la teologia cristiana. Forse no.
O forse Paolo è cristianità comunque. Gli Atti degli
Apostoli lo raccontano.
Il pellegrinaggio è il pellegrinaggio di un popolo
che va oltre le onde del dubbio. Pur nel dubbio la
cristianità di Paolo è il disegno di un camminamento
che solca i labirinti della buona battaglia che
tutti cerchiamo di vivere. Con Paolo, comunque, il
Mediterraneo entra nella geografia del presente e il
Mediterraneo è una cultura della tradizione nelle
religiosi che si fanno fede. Solo nella fede si
rompe lo steccato tra conversione e confessione.
Paolo ha vissuto la conversione come chiamata (o
viceversa) ma si è stabilito, in termini letterari
cristiani, nella confessione. La sua confessione è
la biografia di una verità. |
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