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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 

pubblicato il 10 Novembre 2013

Dal D’Annunzio in trincea e fratello maggiore di Ungaretti al Vate sciamanico e Orientale nell’originale saggio di Pierfranco Bruni e Neria De Giovanni: “D’Annunzio. Io ho quel che ho donato”

 di Marilena Cavallo

 

 Parto dalla seconda parte del saggio che Pierfranco Bruni e Neria De Giovanni dedicano a Gabriele D’Annunzio per i 150 anni dalla nascita. Un libro compatto e articolato che passa in rassegna un D’Annunzio “particolare” e vitale in una chiave di lettura in cui l’estetica e il sublime  restano fondamentale.

La seconda parte del saggio dal titolo “Io ho quel che ho donato” (pubblicato dalla Casa editrice Nemapress – Roma – Alghero) è scritta da Neria De Giovanni, una critica letteraria che ha dedicato numerosi scritti alla letteratura italiana ed è una attenta specialista di Grazia Deledda, entra, con la sua consueta profondità, nella poesia di D’Annunzio scavando tra le parole e dando alla Parola il senso non solo estetico, ma anche storico.

D’Annunzio viene contestualizzato nel suo tempo – epoca con l’analisi dei testi in una vera e propria interpretazione delle “Laudi” segnando un percorso che va dal 1903 al 1918. Il mare, la terra e gli eroi. Le città del silenzio. L’Oltremare con le Canzoni. Il mondo latino con i versi – canzoni della guerra latina.

Uso un linguaggio discorsivo perché Neria De Giovanni sembra accompagnarci per mano, e ci accompagna, lungo i sentieri della parola. La parola, appunto, diventa il centro di un processo che rende D’Annunzio protagonista nel cuore delle lingue. Ma il capitolo sul legame della “trincea” ha una straordinaria bellezza perché D’Annunzio e Ungaretti sembrano dialogare.

La trincea è una metafora ma anche una geografia di uno spazio che diventa tempo sino a concludere: “D’Annunzio contemporaneamente seppe far evolvere la sua dotta e profonda cultura storico-letteraria fino ad arrivare a risultati che vanno verso una più aperta modernità come le strisce paratattiche de Il nottur­no la prosa poetica de ‘I Cento e cento giorni di Gabriele D’Annunzio tentato di morire’.

Ungaretti, dal canto suo, inaugurerà la stagione chiamata del­l’”ermetismo” con la disgregazione dei metri tradizionali e il trionfo di quella parola poetica, riverginata da uno spazio bianco che era insieme silenzio e ritmo”.

La prima parte è scritta da Pierfranco Bruni, scrittore, poeta e autore di numerosi saggi sulle letterature del mediterraneo e specialista di Cesare Pavese, e introduce  sia alla poetica di D’Annunzio sia alla “vita spericolata”, per usare un linguaggio caro a Vasco Rossi, del Vate.

Bruni  mobilita il suo esistere per raccontarci il D’Annunzio tragico, e lo fa attraversando storicamente gli anni della guerra, artisticamente giocando con Wilde e Edvard Munch. Si conferma ancora come l’interprete della presenza tragica nella letteratura del Novecento non trascurando il destino degli amori dannunziani, e in prima istanza campeggia la figura di Eleonora Duse.

Bruni legge il suo romanzo del 1900 “Il fuoco” con una nicciana visione che lo riporta al “Trionfo della morte”. Ma la forte originalità di questo  D’Annunzio letto da Bruni consiste nella simbologia degli oggetti.

Infatti c’è un capitolo in cui si parla del D’Annunzio che è costantemente in contatto con il mondo sciamanico e chiosa oggetti presenti al Vittoriale come la tartaruga, l’aquila, i cavalli, il Budda. Sono segni non empirici, ma vengono considerati segnali precisi di una metafisica dell’esistere in una cultura radicata tra Oriente ed Occidente.

C’è al limitare della sua parte un capitolo fortemente poetico in cui si parla di  “tende verdognole” e analizza le “Novelle della Pescara”, dando a questo testo una lettura marcatamente metaforica.

Ma a Bruni interessano due elementi: il tragico e l’alchimia sciamanica che sono punti di riferimento, secondo l’autore, nel mondo letterario e magico di D’Annunzio. Bruni si pone una domanda: “Come è possibile andare oltre Gabriele D’Annunzio in un secolo, breve o corto, come il Novecento? D’Annunzio è ancora un protagonista in un Novecento letterario che non si è ancora chiuso e non si è ancora “normalizzato” nella storia della “modernacontemponea” epoca che viviamo”.

Il lavoro di Bruni e De Giovanni si chiude con il contributo, un tassello importante e di alto valore scientifico, di studiosi di diverse università straniere che ci fanno capire come D’Annunzio è stato letto e viene, tuttora, considerato in realtà come gli Stati Uniti d’America, l’Albania, la Franca, la Romania, l’Australia, la Catalogna. Si trovano scritti di  Emanuela Forgetta per la Catalogna, Stefan Damian per la Romania, Arjan Kallco per l’Albania, Andrea Guiati per gli Stati Uniti d’America, André Ughetto per la Francia, Valentina Piredda per l’Australia.

Un saggio che farà discutere. Consapevoli di ciò gli stessi autori, nella Premessa al saggio, sottolineano: “Inoltre in questo anniversario sono stati approfonditi spesso percorsi letterari già studiatissimi: il D’Annunzio ‘decadente’, il romanziere, il rapporto con la ideologia fascista, la poesia dell’Alcione. Il nostro studio invece segue percorsi diversi, cerca nelle pieghe della sterminata opera dannunziana, zone ancora poco esplorate o lette in maniera distorta, ideologicamente preconcetta”.

 

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pubblicato il 4 Novembre 2013

Il canto nelle piazze.

Perché la poesia abita la piazza del mondo attraversando la musica

Una nuova edizione con traduzione in Francia del saggio dedicato alla poesia e alle piazze con Dvd

 di Marilena Cavallo

  

 

Il canto nelle piazze

Stringe di silenzi le parole

E se le parole non dovessero bastare

C’è sempre un silenzio in più

Che permette al silenzio

Di non tacere”.

 

Sono versi ritrovati tra i fogli che avevamo “scartato” quando scrivemmo e pubblicammo il saggio del 2008 dal titolo: “La poesia, la piazza, le parole. Incontrarsi senza darsi appuntamento” edito da Pellegrini. Ora il testo vede una nuova edizione e una traduzione in Francia dedicata alla poesia italiana del Novecento, con l’aggiunta di un Dvd sulle piazze e sui poeti..

Nel corso di questi anni cosa è la parola nel viaggio? Abbiamo avuto modo di presentare, in  più occasioni, questo libro relazionandoci con studenti italiani ed esteri. Ma la domanda resta.

I poeti sono viaggiatori?

 La poesia è viaggio. I poeti sono viaggiatori.

La metafora e il sentimento del viaggio animano i loro versi.

Si viaggia in un luogo… In se stessi… In un non luogo…

Per le vie di un paese, che diviene luogo dell’anima…

Nel canto triestino di Umberto Saba tra l’andirivieni della gente lungo le vie del porto, proprio lì “dove son merci ed uomini il detrito/di un gran porto di mare,/ io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà.” La fantasmagoria (carrellata) di tipi umani  sfila davanti ai suoi occhi, per l’occasionalità di un’abitudine quotidiana:“Spesso per tornare a casa prendo un’oscura via di città vecchia”.

E, così, Trieste, “Città vecchia”, è specchio di un’umanità smarrita, è metaforicamente piazza del mondo, che può riconoscersi “qui prostituta e marinaio, il vecchio/che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega/ del friggitorie,/ la tumultuante giovane impazzita/ d’amore,/ sono tutte creature della vita/ e del dolore…”.

Le vie, le strade e le piazze si snodano in un itinerario interiore “qui…sento…il mio pensiero farsi/ più puro dove più turpe è la via”.

La piazza si fa mondo.

La metafora del luogo entra nella letteratura perché in essa si recupera l’incertezza dello smarrimento in una dimensione non del rifugiarsi nel luogo ma ritrovare il luogo e quindi lacerare così anche il sentimento della distanza. Ritornare è¬ come dice Luzi,  “ricostruire un universo perduto”.

Il poeta è un vagare e la poesia una geografia del tempo e dell’essere.

Il sentimento suggestiona ed  evoca immagini e luoghi…

E’ la poesia che immortala, sfuma e cristallizza neìla dimensione e nella durata del mito… la piazza si fa mito…sussurra un canto orfico “chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi marini e dove il mito si cova?”            

Il poeta visionario Dino Campana trasfigura con luci, suoni, voci, linee e colori in “quell’esplosione di gioia barocca” che ride nella piazza del “Crepuscolo mediterraneo”.

La piazza, baciata dal “dio d’oro del crepuscolo”, inscena “nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea”.

La piazza mediterranea è cornice delle contraddizioni della storia.

E’ la piazza dei superbi, ma statici, palazzi con “angioli paffuti e bianchi”…

E’ la piazza delle “perfide fanciulle brune mediterranee, brunite d’ombra e di luce”.

      Come dimenticare i ragazzi di Piazza Majakovskij, nel cuore di Mosca la Piazza diviene il “faro”, majak in russo significa proprio faro, “le letture in piazza come un faro attiravano e richiamavano tutte le cose migliori e originali che c’erano allora nel paese”, queste le parole entusiaste di Bukovskij, protagonista con Ginzburg, con Galanskov e altri di quell’evento.

E’ il 19 luglio del 1959 quando durante l’inaugurazione del monumento di Vladimir Majakovskij, dopo i poeti ufficiali prendono la parola i giovani e proclamarono le loro poesie; è un vero successo, vince la poesia, e diviene attesissima protagonista delle serate successive, programmate con regolarità.

Tra i tanti versi che vengono letti, i più amati proprio quelli di Jurij Galanskov, giovane studente universitario, amante della poesia, inneggiante alla piazza libera da ogni pregiudizio nel suo “Manifesto umano”:

 

“Uscirò sulla piazza

e conficcherò all’orecchio della città

un grido disperato.

Non voglio più il vostro pane

Impastato di lacrime”

 

Nel 1961 si pone fine con la forza alle riunioni del “faro” e la piazza diviene teatro di vere e proprie battaglie in una atmosfera sempre più incandescente; vince la milizia, tutto è soppresso, ma la piazza di Majakovskij lascia una incredibile eredità!

I giovani hanno consapevolezza del loro compito civile e la piazza li ha nutriti di versi, ha ridestato la forza morale della vera libertà interiore, da qui la scelta di riprendere le auto-edizioni clandestine del samizdat, con l’intento nuovo di distribuire le copie, riprodotte anche manualmente.

 

Come non custodire la memoria di tutto ciò?

Sulla scia del ricordo di piazze, tintesi del rosso della soppressione il refrain di una canzone italiana “TieniAmente”, dall’album “Oltre” di Claudio Baglioni, omaggio ai giovani studenti disarmati, falciati a Piazza Tian’anmen.

Il testo è composto unicamente dal ripetersi e riproporsi con tonalità differenti dello stesso motivo “TieniAmente”, la piazza del memento.

Sono tre i caratteri cinesi, che compongono il nome del celebre monumento di Pechino, ormai simbolo nazionale della tessa Cina, e indicano rispettivamente “cielo”, “pace”, “porta”, espressione tradotta con “Porta della pace celeste”.

 

Il canto di questa piazza ha attraversato il mondo: dai Roger Waters (ex leader dei Pink Floyd) nel brano "watching tv" incluso nell'album "Amused to Death" del 1992 racconta la storia di una studentessa uccisa nella strage di piazza tienanmen.Il video del pezzo,inoltre,mostra le immagini reali della protesta e della repressione. All'ultimo album dei System of a Down (Hypnotize) nella canzone Hypnotize c'è un chiaro riferimento ai giovani protestanti. Altra canzone basata su quest'avvenimento è, appunto, Tien an men dei CCCP Fedeli alla linea, contenuta nell'album Live in Punkow.

 

Un riferimento a questi fatti c'è anche nella canzone "Il vento" dei Litfiba contenuta nell'album "Pirata" proprio del 1989. Nel video della canzone "Caos AD" dei brasiliani Sepultura sono visibili alcune scene della protesta.

E’ nell’armonia del battuto musicale che della piazza si continua a fare memoria.

E’ nel canto poetico che la vita delle piazze continua a brulicare di emozioni.

Quante le piazze da non dimenticare…

La poesia resta l’anima di questo immenso e incompiuto viaggio...

Ci sono le piazze del mondo. Sono le piazze reali, dell’anima, del tempo...

 

 

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 pubblicato il 31 Ottobre 2013

Non ti consegno parole ma il viaggio nella notte che ha riflessi sul mare nella nostra danza araba…

di Pierfranco Bruni

 

Camminiamo lenti lungo la linea della brughiera.

La brughiera è come se avesse una linea che invade i confini di un orizzonte di ombre.

Ieri sera sono andato via molto triste.

Credimi. Da tanto non toccavo il giocare della tristezza nei miei occhi. Anche tu eri triste. Abbastanza. Ma nulla può toccarci. Nulla può invadere il campo nei nostri sentieri incantati. Sei magia nella mia vita.

Era sceso un velo di tristezza in entrambi. Eppure avevamo fatto l’amore soltanto da poco.

La nostra stanza sul mare sembrava un’assenza: era come se non avesse avuto mai il mare. Ma tu c’eri. Io più di te.

Mi appartieni come mi appartengono le voci che danzano tra i fantasmi dei miei pensieri.

Uno scrittore deve cercare di dialogare sempre con i propri fantasmi. Nel momento in cui i fantasmi si allontanano il suo scrivere si dilata e diventa semplicemente malinconia.

Ti ho raccontato, mentre cercavo un tuo sguardo vero, la storia della mia vita. In brevi battute mi sono donato completamente alla tua anima.

Sei fantastica quando facciamo l’amore. Ogni piega del tuo corpo entra nelle mie pieghe. Ogni tuo bacio io lo vivo come un bacio per sempre.

Quando facciamo l’amore ogni gesto è poesia. L’amore è come la poesia. O sono veri o non sono. L’ho letto questo pensiero in un romanzo di tanti anni fa. O forse l’ho scritto addirittura in un mio romanzo.

 

È bello poter avere la consapevolezza di confondere i propri romanzi con i romanzi di quegli scrittori che hanno fatto la tua, la mia vita.

Non c’è limite. La letteratura è dentro la mia vita come la mia vita è dentro la mia vita.

Non mi dire ora che cerco di mischiare le carte.

Tu sei bellezza. Non sono io a dirlo. Ad affermarlo sono i miei occhi che ti cercano.

Amore mio bello. Se coltivo ancora le rose, quelle poche rimaste, nel mio giardino è perché mio padre mi ha tramandato un messaggio: non sciupare mai la bellezza, non trascurare mai ciò che ami per un salto di vanità, non oscurarti mai per un silenzio che ti hanno offerto, non smettere mai di essere te stesso anche se la tristezza ti potrebbe vincere, ma cerca l’amore e con l’amore regala una carezza di pazienza a chi ti sta accanto, non sciupare mai la bellezza che porti nel cuore.

 

Io cerco sempre di restare fedele alle parole di mio padre.

Non saprei vivere senza la fedeltà a mio padre.

Continuo a cercarti anche ora che sono solo. Solo ma sono con te.

Mi hai consegnato un messaggio straziante, amore mio, ieri sera. L’ho colto tutto.

Ho ripensato per tutta la notte alla nostra stanza sul mare. Per la prima volta non mi hai detto: non si va via senza salutare il nostro mare. Ti amo.

Se ti scrivo non è perché ho bisogno di confessartelo o di liberarmi di uno stato d’ansia. Tu sai che io non ho mai creduto alla mediazione psicoanalitica. La “cognizione del dolore” te la porti dentro e la cacci via solo con te stesso. Il “male oscuro” lo sconfigge se hai la forza di guardarti nello specchio. Non è perché sartrianamente l’altro non mi offre fiducia o penso che non ci sia. Io tanto credo in me e in te che il resto è il nulla.

 

La mia anima è l’attesa che chiede alla speranza di farsi specchio e intermittenza. Sto usando concetti di psicoanalisi. È vero. Ma Freud mi fa ridere. Io sono un pavesiano, come ben sai, fottuto.

Chi non si salva da sé non lo salva nessuno. Accetto anche il gesto ultimo. Ma bisogna toccare il fondo per vivere la risalita, ma non entrerò mai nel teatro delle comparse e delle scene mute che restano in ascolto per tirarti fuori le ferite o per tirarti dalle ferite. Su questo non accetto neppure il confronto.

La mia via è la via dell’anima. La dissolvenza la vinco con la tua magia, l’alchimia degli sguardi, la stregoneria del tuo corpo.

Sei stupenda quando facciamo l’amore… quando le tue labbra custodiscono il destino dei miei destini…

 

Ecco. Ripenso ai versi di un poeta arabo – Andaluso di nome Ibn Zaydun:

“O raggio d’una stella che viaggia nella notte:

raggiungi il tuo palazzo, e là fatti coppiere,

perché d’amore beva chi solo d’amore ha sete”.

Tu, mio raggio di stella non mi restare triste e parlami. Non uccidere la nobiltà del silenzio con il tuo tacere muto. Amami con la libertà della tua anima.

Ho scritto per te il cantico di Asmà, che è preziosa come la luna mentre vive il disincanto del sogno affinché il sogno possa durare nella vita.

Tutto questo ha un senso?

Ma sì che ha un senso… ascolta.

 

C’era una volta una principessa che si era fermata su uno scoglio e aspettava che le onde raggiungessero i suoi piedi. Ma il mare aveva la calma dell’ozio.

La principessa di nome  Rosa del Deserto aspettò l’alba. Era una principessa araba, il cui destino si racconta come mille e una notte ancora.

Un bel giorno le onde persero la calma negli orizzonti e l’ozio nei confini.

Venne un forte vento e una voce da lontano cantava una preghiera musaulmana.

Le onde intrecciarono i capelli della principessa e l’acqua navigò nei suoi occhi.

Non perse mai la pazienza Rosa del deserto.

 

Accolse le onde e parlò loro dicendo: “Per anni ho aspettato. Per notti lunghe ho atteso. È bastata che la sabbia spingesse il vento e non il vento la sabbia per essere travolta dal mare. Per essere baciata dalla verità delle onde.

Le onde portano la verità e si riprendono le finzioni.

Le tempeste hanno sempre un senso.

Ho ascoltato il mio cuore e la mia anima è diventata la casa delle emozioni.

Così ho compreso che l’amore che porto per il principe Seta Blu è un amore tempestoso ma è amore, è verità, è salvezza. Io ho bisogno di questo amore”.

 

C’era una volta… Ma sempre ci sarà se riusciremo ad ascoltare ciò che il volteggiare delle tende nella stanza affacciata sul mare potrà dirci.

Io cerco di ascoltare.

Non perdere la tua bellezza amore mio.

Non perdere la tua magia amore mio.

Non perdere ciò che ti ho donato, ciò che dono, ciò che sei.

Camminiamo lenti mentre i miei passi diventano leggeri e il tuo sguardo cede verso il basso.

Non ti offro lusinghe.

 

Nulla potrà allontanarci se il tuo amore è tempestoso mare tra le mie mani.

Nulla potrà separarci se la mia allegria incontrerà sempre la passione del tuo sorriso.

Ora posso anche fermarmi e specchiarmi tra i riflessi di una vetrina…

Vedi c’è una maglia che vorresti indossare e che tanto ti piace…Ma tu non accetti questo regalo. Non ha importanza. Sarà per un’altra sera.

Gli incontri sono mistero e gli appuntamenti sono il desiderio nel destino. Ma dove vado se ti sei persa tra le strade del mio cuore…Dove vai se io mi sono smarrito tra le curve della tua anima…

Sei grandezza quando il tuo corpo su di me ha la passione dell’amore infinito…

Tu mi conosci.

 

Tu che mi conosci resta sul mio corpo e prenditi l’anima. Tu prenditi il cuore e lascia che le mie mani restino marea sulla tua pelle.

Vado via e ti segno i versi del maestro dei dervisci danzanti, Jalal al-din Muhammad, ovvero Rumi che recitano:

“Lo so, questo mio sguardo che tuo malgrado saccheggia

La tua bellezza, tu ben vuoi punirlo. Non farlo.

Fermati, amore, non puoi profferire parola, non farlo.

Sei la stella che getta scompiglio nei cieli…”.

Devo aggiungere altro?

 

Non ti consegno parole. Ti consegno amore, amore mio. Non ti consegno parole, ma un viaggio nella notte nella quale io e te siamo la stella e il raggio.

Ti ricordi quando quella sera ti ho detto: vorrei addormentarmi sul tuo seno e tra i tuoi capelli sotto le lontananze delle luci e dei colori dei fari che hanno riflessi sul mare…

Un viaggio nella notte nella nostra danza araba…

 

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 pubblicato il 31 Ottobre 2013

La poesia di Giovanni Paolo II.

La vita, la fede, la misericordia

 

di Marilena Cavallo

 

    “Luogo del mio passare-/così legato al luogo della nascita…/Nei volti dei passanti v’è il disegno di Dio,/ed il suo abisso scorre dietro la vita quotidiana.-…”. Sono versi di Giovanni Paolo II (1920 – 2005). Un Papa poeta, il cui tracciato nella storia dell’uomo, delle civiltà e dei popoli resta indelebile. Il sacro e la parola. Non una linea ma un cerchio. Si ritorna. La poesia è un ritornare. Dalle albe ai crepuscoli. Dai tramonti all’ora antelucana. Ed è sempre un viaggio nell’attesa che cerca l’attesa.

      La poesia di Giovanni Paolo II (autore di opere teatrali oltre che di testi poetici e interventi teorici sul teatro) è mistero e rivelazione. Un dialogare costante con quel linguaggio che non ha mai trascurato il colloquio con l’uomo ma che intrecciava il disegno umano con quello evangelico. Una poesia nel misterioso del tempo che si allunga tra le ali dello spazio. Pur nella cristianità dell’uomo nella poesia di Giovanni Paolo II si avverte un non voler trascurare l’incontro tra il tempo e lo spazio.

      Nei versi del 1952 dal titolo: “Pensiero – strano spazio” si avverte la profondità di questa visione. Una visione – dimensione in cui i segni e il sacro non sono solo modelli pastorali ed evangelici ma anche marcatamente culturali. Una poesia in cui le visioni (o la visione) sono simboli.

      Si ascolta: “Se soffre per mancanza di visione – deve allora aprirsi la strada fra i segni/fino a ciò che gravita dentro e che matura come frutto nella parola./E’ questo il peso che in sé avvertì Giacobbe/quando in lui caddero stelle stanche come gli occhi del suo gregge?”.

      C’è un tracciato indelebile nella poesia di Giovanni Paolo II che potrebbe riassumersi attraverso alcune sottolineature. Un tema dominante resta indubbiamente quello della luce oltre il deserto. Una testimonianza spirituale e poetica che può essere riassunta in sei riferimenti. Ovvero: il silenzio e il mistero, la preghiera e la speranza, la meditazione e l’uomo, l’inquietudine e il viaggio, la contemplazione e la morte, la Redenzione e il Cristo. La sua poesia (ha scritto e pubblicato diversi testi) è una forte componente del misterioso che attraversa la parola. Un linguaggio in cui metafora e realtà primeggiano ma al centro si focalizzano sempre l’amore, la morte, la carità, il dolore.

      Restano emblematiche le poesie del 1939 e in modo particolare gli struggenti versi dedicati alla madre dal titolo: “Sulla tua bianca tomba”. Il ricordo della madre, l’immagine di Cracovia, i luoghi della sua infanzia si intrecciano con un canto che richiama costantemente una silenziosa contemplazione. Una contemplazione che  anche letterariamente si agita in una metafisica dell’anima che è segno tangibile di un raccordo tra parola e offerta d’amore.

      Versi suggestivi: “Sulla tua bianca tomba/sbocciano i fiori bianchi della vita./Oh quanti anni sono già spariti/senza di te – quanti anni?//Sulla tua bianca tomba/ormai chiusa da anni/qualcosa sembra sollevarsi:/inesplicabile come la morte.//Sulla tua bianca tomba,/Madre, amore mio spento,/del mio amore filiale/una prece://A lei dona l’eterno riposo”.

      La morte come rivelazione e la rivelazione, nella parola e nella poesia, è un sollievo misterioso e come tale indefinibile. Si pensi ai versi del “Canto del Dio nascosto”. L’uomo Karol nella storia di un pontificato. La poesia ha il pregio di raccordare anche questi aspetti in una temperie in cui la letteratura potrebbe farsi miracolo proprio attraverso il mistero della parola. Metafore che hanno un valore poetico espressivo singolare: “…era il Mare che stava dentro di me/spandendo intorno tanto silenzio tanta freschezza”.

      In fondo la poesia è mistero che chiede alla contemplazione di farsi vita. Nella poesia di Karol Wojtyla questi aspetti sono predominanti. Una poesia dai toni incisivi con un verseggiare che a volte diventa rarefatto e a volte il dato prosastico prende il sopravvento. Ma si tratta di un poesia fatta di immagini e la sua tensione lirica è sempre un colloquiare. Il colloquio sta ad indicare che l’altro c’è sempre e che si ha sempre bisogno dell’altro pur nella consapevolezza di un io che supera ogni orgoglio.

      La poesia nel misterioso diventa preghiera. “Questi occhi stanchi sono il segno/che le acque oscure della notte fluirono in parole di preghiera/(carestia, carestia di anime)./Ora la luce del pozzo vibra profonda nelle lacrime/scosse – penseranno i passanti – da una ventata di sogni” (da “Canto dello splendore dell’acqua” del 1950).

      Sempre in questa raccolta il poeta insiste sulla necessità di scavare nella parola. In quella parola che ha colpito poeti profondamente laici ma marcatamente cristiani come Giuseppe Ungaretti. In Giovanni Paolo II la parola è sempre un richiamo, soprattutto quando sono semplici. Così: “Erano semplici le parole. Mi camminavano accanto come/agnelli ad un richiamo”. La parola è contestualmente portatrice di meditazione e di preghiera. La parola è la luce che supera il deserto. E l’attesa che vive dentro la parola è sempre “un’attesa di stelle”. E nell’attesa non può che definirsi la nostalgia della memoria che diventa un luogo sacro come in “La madre” del 1950.  

      Così nei ritagli e nelle pieghe delle parole: “Il mio spazio scorre nella memoria. Non svanisce/il silenzio di viuzze lontane,fermo nell’aria come vetro/che nelle pure iridi si sbriciola in luce e zaffiro –…”. La preghiera è una essenza che vive nel tempo, oltre la storia. Una parola, dunque, che ci riporta a San Francesco d’Assisi e in molte occasioni ci richiama quel Jacopone da Todi che ha segnato un percorso indelebile della poesia religiosa.

 

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pubblicato il 27 Ottobre 2013

La lingua e la collocazione della letteratura italiana?

La scuola, agenzia educativa e della conoscenza, ha un ruolo importante: ma basta con le antologie a moduli.

La lingua del parlante e dello scrivente oggi?

 di Pierfranco Bruni

 

Bisognerà dare un ruolo consistente alla lingua italiana soprattutto partendo dalla letteratura del Novecento. È in essa che si sono moltiplicate le forme e le metodologie di linguaggio che hanno guidato la storia della lingua nella modernità, attraversando epoche ed opere già con San Francesco d’Assisi sino ad Angelo Poliziano, dal Rinascimento alle ‘etichette’ illuministiche, che hanno cercato di formulare un inciso rivoluzionario, ma che hanno consegnato la lingua stessa a Manzoni, e da questo alle avanguardie di Pascoli e D’Annunzio, filtrando notevolmente il Futurismo sino alla lingua post realista, alla quale la letteratura si è agganciata e alla quale soprattutto il cinema si è aggrappata.

 

Dopo gli anni Sessanta si è verificata una vere e propria modifica dei canoni e se si vuole di un vocabolario. Dagli anni Sessanta ad oggi la lingua ha assunto precise chiavi di lettura.

Quella codificata da una norma dei vocabolari che hanno assorbito i cambiamenti anche sintattici e le forme dialettali, oltre alla assunzione di comparazioni con la lingua inglese, lingua che in molti termini ha preso il sopravvento, ma che è la lingua italiana ufficiale.

Quella correntemente parlata che, se pur in una forma corretta, ha innesti modulari rispetto a quella scritta perché ha tagli favoriti da un linguaggio piuttosto discorsivo.

 

Quella cosiddetta “bastarda” che è dovuta all’intreccio tra una scrittura giornalistica, televisiva, telematica con ulteriori innesti che sono distanti dalla tradizione degli anni Settanta.

C’è una quarta chiave di lettura, non inclusa in un discorso ufficiale ma insiste, che è quella che proviene dai testi delle canzoni.

I giovani usano come forme direzionali della comunicazione l’incrocio delle due ultime chiavi per confrontarsi, per dialogare, per definire un qualcosa e anche per definirsi.

Io addirittura aggiungerei ancora una quinta chiave che è quella portata dalla presenza delle lingue degli immigrati. Non sarebbe da sottovalutare considerato il fatto che sono detentori di un loro linguaggio comunicante ma sono anche depositari di una loro lingua. Non sempre il loro linguaggio comunicante, che potrebbe essere inteso come una caratterizzante formula dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi tunisini ed eritrei, è fedele alla lingua della loro Nazione. Anzi non lo è quasi mai.

 

Tutti questi aspetti riguardano l’importanza di dare un senso storico alla tutela della lingua italiana. È naturale che non c’è più una lingua ufficiale tradizionale. La tradizione nelle lingue è un fatto soltanto di consapevolezza di eredità, di ricostruzione identitaria, di analisi dei processi sia letterari sia storici stessi sia prettamente linguistici, ma si scende in una dimensione che è antropologica.

Discutere di una lingua corretta, oggi, significa ripristinare delle griglie che però, dobbiamo essere consapevoli, non corrispondono alla realtà dei parlanti e degli scriventi.

Il parlante già di per sé, pur mantenendo fede, alla consueta formula della grammatica e della sintassi, usa sempre un vocabolario innovativo: innovativo, oggi, è anche il ripescaggio di termini obsoleti, ovvero una parola usata da Tommaseo è innovativa ma anche “arcaica”.

Lo scrivente, che dovrebbe usare la lingua come estetica e correttezza dell’ufficialità e dell’esempio, potrebbe essere lo scrittore. Dante e Manzoni sono esempi  e testimonianze che rispecchiano un tempo linguistico che non c’è più.

 

Noi parliamo, in questo nostro tempo, il linguaggio di Andrea Cammilleri, che ha una interpretazione prettamente etno-antropologica (ne parlo in senso non negativo: attenzione), il linguaggio di Carlo Emilio Gadda con le varie sfaccettature, anche sul piano della punteggiatura, (lo dico senza voler entrare nella rivoluzione linguistica futurista che ha stravolto la lingua italiana: si può accettare o meno ma è così), il linguaggio di Alberto Bevilacqua con delle sfaccettature anche discutibili, ma che io accolgo con piacere, il linguaggio di una scrittura puramente giornalistica trasportata come una nuova impostazione narrante in testi che si fanno passare per narrativa, il linguaggio attento di Pasolini che soltanto ora trova una sua interessante ottimizzazione.

 

Sono solo pochi esempi. Si pensi a Luigi Meneghello o a Lucio Mastronardi o ad Alberto Moravia o alla poesia di Giorgio Caproni. Noi viviamo in questa età e non tra Dante e l’Illuminismo o tra il Romanticismo e Ada Negri.

Poi c’è la presenza degli scrittori stranieri che, se pur tradotti, vengono ben recepiti sul piano della sintassi ma soprattutto su quello della punteggiatura. Uno scrittore tra i tanti: Garcia Màrquez. Il  romanzo che gli ha dato la notorietà vira qualsiasi forma di punteggiatura e quella standardizzazione di concetti ha influito notevolmente nella lingua letteraria contemporanea.

Il fatto, invece, è un altro. Il vocabolario ha un suo compito specifico che instrada verso una direzione ben definita. Il linguaggio è ben altra cosa. Non si può imporre allo scrittore, pensate al poeta contemporaneo, di impostarsi secondo i canoni del vocabolario della lingua. Sarebbe un omicidio ma sarebbe anche un suicidio della stessa lingua.

 

Bisognerebbe una buona volta convincersi che la tradizione del dibattito delle lingue, sviluppatosi intorno al De Vulgare e anche prima, non interessa e non tocca la comunicazione della letteratura dei nostri giorni e tanto meno i “lucchetti” parlanti dei nostri figli e delle piccole macchine parlanti che usiamo tutti per comunicare. E se Dante non interessa, è storia e deve restare tale, non interessa neppure il rapporto linguistico tra Manzoni sino a Carducci e a un certo Pascoli.

Dobbiamo convincerci che la lingua italiana è completamente mutata rispetto agli anni Cinquanta del ‘900. E’ mutata rispetto agli anni  ’70 – ’90. Chi si ricorderà la lingua usata nei volantini delle Brigate Rosse negli anni Settanta si renderà conto la tipologia sintattica (non parlo delle minacce o dei codici terroristici ma della grammatica o di altre scorrettezze morfologiche) che si innervava nella nostra società. In che termini linguistici, mi sono spesso chiesto, comunicavano le Brigate Rosse con l’attento e forbito Aldo Moro?

 

I cambiamenti delle società cambiano anche la lingua. I cantautori degli anni Sessanta capirono questa trasformazione e a loro si deve molto nell’aver mantenuto fede ad un codice sostanzialmente in linea con la tradizione. La cinematografia è andata su un altro versante.

Bisogna affrontare tale questione e credo che una scuola dentro i mutamenti delle società dovrebbe avere un ruolo predominante. Ma molte volte dipende dai docenti e soprattutto dai testi adottati. Un altro problema dolente.

Le antologie scolastiche a moduli sono completamente non convincenti perché svianti. Sono costruiti in modo che non possono essere compresi senza l’interpretazione attenta del docente. Che senso hanno i percorsi modulari in una antologia letteraria? Io non ho neppure intenzione di affrontarlo questo discorso perché son ostile a questa interpretazione che permette soltanto una cosa: la distruzione dei parametri letterari dello scrittore e l’incomprensione vera di uno scrittore o di un poeta. È come se lo scrittore avesse scritto per essere inserito in un modulo.

 

Ma dai, fa ridere questo sistema ed è anche doloroso sia per lo scrittore che per la storia della letteratura che adotta un’impalcatura di altro genere. Anche qui è questione di lingua. Lo scrittore e il poeta non pensano mai di essere strumento della critica, lo si vuole capire o no, e tanto meno pensano se un domani verranno collocati in un determinato blocco.

Pensate agli orrori commessi su Cesare Pavese. Ancora è un modulo neorealista, se lo si fa entrare in un modulo, quando egli stesso ha scritto di non essere realista o neo, e di non essere considerato tale.

 

Insomma, ci troviamo di fronte ad una ristrutturazione sia della lingua e attraverso la lingua ad una ristrutturazione della letteratura. Si avrà il coraggio, la forza, la consapevolezza, la preparazione di mettere in discussione un apparato del genere?

Noi cercheremo di fare la nostra parte. Chiediamo alla scuola di fare la sua parte. Ai docenti di non attraversare le antologie, ma di leggere gli scrittori e i poeti direttamente e agli antologizzanti di rivedere le loro posizioni di ogni genere o di ogni struttura.

 

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pubblicato il 18 Ottobre 2013

Asmà e Shadi romanzo in versi di Pierfranco Bruni

nel passaggio dal samsara agli archetipi dell'amore

 

di Anna Sturino

  

Breve, istantaneo, intenso. Lento, ricorrente, eterno. Tutto e il contrario di tutto si addice all'amore, sostanza e forma, atto, potenza e speranza della nostra vita, il vero significato che siamo in grado di attribuirle.

È l'amore il protagonista di "Asmà e Shadi", ("Asmà e Shadi. Preziosa come la luna nel disincanto del sogno", Pellegrini editore, 2013)  per presentare il quale null'altro si dovrebbe usare che un'altra poesia, perché poesia è, elevatissima, proprio perché si libra oltre la concretezza dei due protagonisti che nel loro scambio continuo di sguardi, brividi e silenzi disegnano la storia che ciascuno di noi ha vissuto (o forse si è augurato di vivere), compreso un epilogo che si vorrebbe evitare con ogni forza, ma talvolta è possibile.

 

"Se preziosa sei stata

Ora non più

nel giardino delle lune cadute".

 

Agli struggenti, eppure semplici, versi di Manuz Zarateo, Pierfranco Bruni affida l'esordio del suo afflato poetico, lasciato in particolare libertà a seguire Asmà e Shadi che da protagonisti della storia, gradualmente divengono comparse dinanzi all'avanzare del loro amore, che occupa, quasi ingombra la scena, come un prepotente primo attore che non lascia spazio a null'altro, una volta alzato il sipario della vita, un palcoscenico in cui tutti siamo chiamati a recitare la nostra parte, scegliendo di rischiare nel rivestire il ruolo primario, ovvero di lasciarsi esistere sullo sfondo, nell'ombra grigia e nebbiosa della vita senza amore.

Non è certamente casuale la scelta di ambientare questo amore tra i profumi e i suoni dell'Oriente, se ha un senso ambientare l'Amore, circoscriverlo se non un tempo, almeno in uno spazio riconoscibile ai nostri stereotipi culturali, in grado di evocare immagini e reminescenze sfocate, eppure precise.

Oriente, culla della nostra cultura, del nostro linguaggio, delle nostre categorie mentali e semiotiche. Per quanto ormai distante nel tempo e soffocato dallo spesso substrato della nostra articolata filosofia, il mondo orientale suscita in noi un fascino al quale ci è difficile sottrarci, proprio come non riusciamo a pensare di privarci della nostra identità profonda.

 

L'Oriente è il palcoscenico privilegiato ed insieme primordiale su cui, da un tempo antecedente alla nostra cognizione di tempo, si eleva l'interrogarsi dell'uomo sul perché del mondo e della vita, sui grandi temi etici, religiosi, esistenziali: quegli stessi che concepiscono la conoscenza in ragione della salvezza e della liberazione dell'uomo dai vincoli terreni, quella che consiste nel passaggio dal samsara¸ la vita ingannevole e imperfetta di questo mondo, a quello del nirvana, la Realtà vera, basica, assoluta, quella della sapienza originaria, pura, fondante.

Questo è lo sfondo, intatto, senza tempo, in cui pure Asmà e Shadi diventano archetipi degli amanti di ogni tempo e di ogni luogo, indifferenti allo spazio e al tempo, liberi da ogni vincolo umano, eppure così fragili e carnali, eterei, eppure caldi e appassionati.

Una eraclitea sintesi degli opposti che, attraverso l'amore, rievoca e ridisegna la legge sottesa al mondo che risiede nel rapporto di interdipendenza tra due contrari, che in quanto tali, lottano tra loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l'uno dell'altra, poiché l'uno esiste in virtù dell'altra.

Ciascuno dei due può essere definito solo per opposizione, prima, e per sintesi, poi. Non esisterebbe Shadi, se non dapprima contrapposto e poi fuso in Asmà, sua antitesi, mancanza e completamento.

Nello scorrere dei versi, Asmà prende gradualmente corpo e definizione solo in rapporto a Shadi, e viceversa: da individualità opposte, antitetiche per antonomasia, progressivamente le due entità corporee e spirituali si fondono fino a sancire il passaggio dallo statico "essere" al dinamico "divenire", dall'essere non al dover, ma al poter essere, responsabili ed appagati da una scelta continua che si espone anche al rischio del non essere, ma proprio in questo perpetuo volere trova la sua essenza.

Ritroviamo lo Yin e lo Yang del pensiero cinese, i due emblemi di ciascuna coppia di opposti che interagendo e dando vita al nuovo, generano ogni Realtà e danno il vero accesso all'eternità, attraverso la loro sintesi: la realtà diventa "consenso delle parti", armonia dei contrari, ordine consonante.

É quasi scontato il ripensare alle pagine del platonico "Simposio", allorché Eros non viene descritto da Socrate come un dio, poiché rappresenta un desiderio di raggiungere la bellezza per effetto, evidentemente, di una mancanza.

Eros non é per questo perfetto come un dio, ma un daimon, né divino, né umano o meglio, né solo divino, né solo umano, che aspira in continua tensione a realizzare il bene, ovvero l'assoluto, unico, perfetto, eterno e immutabile.

E torna in mente la famosissima narrazione di Aristofane che esprime la sua idea di amore, raccontando il mito delle metà con cui ci illumina sul potere di Eros che, a dispetto del fatto di non essere un dio, è in realtà il più importante amico degli uomini, l'unico in grado di soccorrerli e farli guarire dai mali dell'esistenza, soprattutto l'unico a cui possiamo chiedere felicità.

Asmà e Shadi, allora, non solo individui, ma archetipi di umanità che è sempre diversa, ma sempre identica a se stessa, quando ama che è lo stesso che dire "quando sperimenta la felicità".

Asmà e Shadi che sono pronti all'itinerario magico della relazione, al viaggio che in realtà è una partenza solo quando sono realmente consapevoli di se stessi: Asmà che, si è già spogliata di fronte allo specchio della verità, donando a Shadi la propria coscienza femminile.

 

"Tu mi conosci

e sai la mia storia, le mie nuvole, la mia nebbia".

 

 

Dal canto suo, Shadi è l'uomo che eroicamente ha liberato la sua anima, scendendo agli inferi del proprio inconscio, facendo i conti con le proprie paure, i propri errori, toccando il fondo per riemergere, pronto a fondersi con l'eroina.

 

"Restami nell'incantesimo

Preziosa come la luna

Nel cuore dei deserti che ho camminato

Senza cercarti

Ma come destino ritrovato […]

Il sogno non teme il tempo

Nel tremore del disincanto".

 

I due amanti, le due metà che instancabilmente si cercano, dopo aver trovato se stessi preparano la sublime armonia e perfezione della propria unione, l'unica possibilità di dare scopo alla propria esistenza, la meta divina dell'autorealizzazione, il platonico androgino, l'ermetico Rebis che emerge compositum de compositiis.

Anche Asmà e Shadi, proprio in quanto archetipi dell'uomo e della donna, sottostanno alle regole e agli ostacoli dell'amore che, per essere vero e completo, presuppone che gli amantes pervengano all'incontro avendo percorso fino allo stesso grado di maturazione e integrazione lo sviluppo della propria individualità.

Solo questa isocronia di percorsi garantisce che Asmà e Shadi, l'Io e il Tu, siano perfettamente trasparenti l'uno all'altra, in cui l'uno conosce l'altra senza parole, in una fusione integrale eterna e divina.

 

"Ma sei amore, amore mio

Nell'orizzonte di pioggia

Nel colore di terre al sole.

Mai ti perderò

Concedimi il tuo silenzio nel mio silenzio".

 

Asmà e Shadi archetipi che rappresentano l'uomo e la donna ideali, ma anche reali, l'uomo e la donna che non sempre giungono all'incontro con lo stesso patrimonio derivante dal confronto con la parte oscura di sé.

E allora quello stesso silenzio che evoca l'amore vero è profondo, quello che non ha bisogno di parole, che è immediato, senza mediatori, né mediazioni, tangibile, istantaneo, diventa macigno di incomunicabilità.

Esseri veri, Asmà e Shadi, anche nella sofferenza della disillusione, nella scoperta che illusorio può essere l'incontro, se a dettarlo è solo la passione e non la consapevolezza di sé.

 

"Se tu mi parli

Ed io non ti ascolto

Non chiedermi

Perché il mio sorriso

Ha il sale del silenzio

Domandati soltanto

Se a scioglierti i capelli

È stato il vento

Della mia sera

O l'inganno del deserto.

Non mi ascoltare

Se non mi senti

Amore mio".

 

Nessuno di noi può davvero leggere questi versi senza sentire un nodo alla gola, un'emozione pervasiva e dolente, la stessa sensazione di impotenza provata davanti ad una perdita definitiva, quasi come se volessimo prendere le mani della persona amata tra le nostre e le avvertissimo scivolose, incapaci di trattenerla. E del resto, perché trattenerla?

 

 

Pierfranco Bruni con Anna Sturino

 

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pubblicato il 28 marzo 2013

“Versi della Crocifissione” di Nazhim Kalim Dakota Abshu.

Un raccontare inedito tra Giuda, Pilato, Barabba, Pietro, Gesù e Maria di Magdala

 

di Pierfranco Bruni

  

La Croce prepara la Resurrezione. Nel segno di un camminare tra i luoghi e nomi della fede. Forse è proprio nei momenti in cui ho bisogno di superare la foresta del dubbio e il riparo dalle tempeste è semplicemente una tenda che, cercando tra le mie carte sparse, nei cartigli dimenticati, direbbe D’Annunzio, che trovo o ritrovo o mi vengono incontro i versi inediti di un poeta che oramai è parte integrante non solo dei miei studi mediterranei ma della mia stessa esistenza.

Questo poeta mi accompagna e mi segue. Sono io, il più delle volte, a non seguirlo, a non approfondirlo, a depositarlo nelle mie tante cartelle sparse tra le stanze dei miei libri e dei miei studi. Nazhim Kalim Dakota Abshu (Tunisi 1900 Nizza 1955). Un poeta pellegrino e viandante tra le città e i luoghi di una profonda religiosità. Il poeta della conversione. O meglio il poeta del Mediterraneo degli incontri religiosi e culturali.

Ho pubblicato tanto, comunque, su questo poeta tunisino, di cultura e religione musulmana e convertitosi al cristianesimo, ma non abbastanza per renderlo comprensibile e proiettarlo in questo nostro tempo di incertezze e di bisogni di certezze. 1900. 1955. un poeta che nell’età piuttosto matura mi ha “formato”, i cui versi li ho incontrati per un semplice segno del destino o del divino.

Su questo poeta ho “confezionato” conferenze lungo le sponde del Mediterraneo e tra le città dell’Occidente. Un poeta sempre sospeso tra l’Oriente e l’Occidente. Uno dei suoi temi dominanti è stato l’incontro con Cristo e soprattutto con la Croce.

Lasciando Tunisi e il suo mondo musulmano ha incontrato il Cristo della Croce ma soprattutto il Cristo prima della Croce con il suo vocabolario di personaggi, di figure, di luoghi che costiutuiscono una rappresentazione di una geografia reale ma anche di una geografia profondamente radicata alla fede. Queste poesie compongono un paesaggio, letterariamente lirico, ma spiritualmente dentro un messaggio che è quello del perdono del Cristo in Croce.

I versi, tra i frammenti in mio possesso, hanno un loro titolo ben definito: “Versi per la crocifissione”. Il Giuda del tradimento diventa il Giuda perdonato. Il Pilato del lavaggio delle mani è il Pilato che continua a far scorrere acqua tra le dita, il Barabba osannato dalla folla è il Barabba che comprende come si è giunti alla sua salvezza, il Pietro del canto del gallo si porta nei suoi viaggi il costante rimorso di aver rinnegato e il Cristo di Abshu resta il pellegrino della salvezza.

È un poeta, Abushu, che si presenta con le sue metafore. Lo stesso suo nome è un legame di nomi che hanno richiami metaforici. Questi versi si legano, potrebbero essere considerati una appendice della plaquette pubblicata, dal Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, da me curata, alcuni anni fa intitolata “La Croce”. Ma hanno delle aggiunte metafisiche in più. Degli scavi profondamente spirituali perché Abshu tocca i “protagonisti” dell’avventura cristiana e li fa parlare in prima persona.

È  come se il poeta raccogliesse la loro testimonianza attraverso il loro linguaggio ma anche attraverso la loro versione e visione che va da Giuda, appunto, a Pietro e il Gesù che parla in prima persona ha un suo fascino straordinario perché l’incastro è tra la parola e lo sguardo. Il volto di Gesù nello sguardo della parola ha un misterioso cammino. Il mistero si lega alla speranza e questa alla salvezza.

Nazhim Kalim Dakota Abshu resta il poeta del mio camminare tra le vie dei pellegrinaggi in un incontro in cui l’amore ha sempre un senso. Resta fondamentalmente il poeta della rivelante essenza tra lo sradicamento dell’Occidente e la profondità spirituale di un Oriente dentro il quale riconosco l’incontro tra Gerusalemme, la Mecca e il Tibet.

Ma in Abhsu questo viaggiare alla ricerca di Cristo ha come punto di riferimento la fede e l’amore. La Crocifissione, dunque. Ma ci sono altri versi inediti che recitano il tempo della Resurrezione nel vissuto della Passione. Versi che hanno la profondità della vita e il suono della vita dentro il cammino della Rivelazione. Il testo di Maria di Magdala ha una sua arcana metafisica che intreccia il pensiero alla ricerca delle verità.

 

Inediti

“Versi della Crocifissione” di Nazhim Kalim Dakota Abshu

 

Giuda

 

Sono ancora a misurare

la corda che ha sospeso la mia esistenza,

nel pianto del mio bacio,

a te

mio Gesù,

che hai ridato l’amore

a Maria di Magdala

e la vita, tra le vie della terra,

a Lazzaro.

Il mio sangue

si è confuso con il tuo sangue

ma i sacerdoti del tempio

hanno rivenduto il campo dell’impiccagione;

sempre per trenta denari.

Ti ho chiesto perdono

e  mi hai offerto la tua misericordia

con il tuo sguardo.

Io ti ho tradito con un bacio;

tu mi hai perdonato con uno sguardo.

 

  

Pilato

 

Avrei potuto non chiedere l’acqua

e lasciarla scivolare tra le dita,

ma sfidare, per il tuo sguardo,

la piazza,

difendendo i rivoli di sangue

sul viso rigato

dai tradimenti.

C’è stata una voce

che mi ha condotto

a quell’atto istrionico;

e con un solo gesto

ti ho allontanato,

mio Cristo.

 

 

Barabba

 

Se tu non ci fossi stato

avrei scontato la mia condanna,

come Zolota,

nella morte dei senza tempo,

nella Giudea dei Romani;

sei giunto

per la mia salvezza;

salvandomi

hai mutato la barbarie in luce

dentro di me

e nel mio popolo;

ma la folla,

gridando il mio nome,

ha condannato

il figlio di Dio,

e la storia

ha scavato

fossi nei deserti,

ma l’acqua

era rimasta

imprigionata

tra le mani di Pilato.

 

 

Pietro

 

Tre volte il canto del gallo

e tre volte,

Gesù mio,

ho rinnegato,

come tu

mi aveva preannunciato.

Non sono degno

della pietra

sulla quale dovrò costruire la tua parola;

ma dovrò riscattare la mia colpa

e il mio rimorso

con il cammino

che condurrà i miei passi

nella città delle catacombe;

nel tuo nome

la mia parola

ha la pietà del perdono,

che non merito;

ma ti onorerò

nell’agorà della speranza

con i segni

della tua croce.

 

 

Gesù

 

In Verità,

e sempre in Verità,

dal deserto,

come custode,

ho bussato

alle porte della Grazia

per giungere,

nel dono di Dio,

al giorno del sonno di Getsemani;

con le spine sul mio capo

ho toccato la terra del Calvario;

e i chiodi sulla Croce

non hanno stillato

il dolore

nell’urlo del Cielo.

Tutto si è compiuto,

ma non è stato il tradimento di Giuda

a consegnarmi

alla Croce;

senza la Croce,

io non sarei con voi,

con il mio sguardo,

a recitare

il pellegrinaggio della Salvezza.

 

 

Maria di Magdala

 

Hai chiesto di scagliare la prima pietra,

ma tutti hanno piegato il capo,

e con lo sguardo da alchimista sacro,

hai fissato il mio volto

lacerato dal pianto

e rigato di sangue.

Mi hai chiamato “donna”,

ed io ho seguito il tuo cammino

sino ad accompagnarti

nelle ore del Calvario

e lungo la via della crocifissione.

Con Maria, tua madre,

ho urlato il tuo nome

e nel tuo nome

la pietà

che tu ci hai consegnato.

Tutto era già scritto?

Ho sofferto e pregato,

e sulla Croce,

tu con la corona di spine sulla fronde,

ho cercato di parlati

con la misericordia

del tuo amore immenso

nel mio amore infinito per te.

Ho più volte

allungato e stretto le braccia,

come se stringessi il tuo cuore

e i tuoi occhi

nel mio cuore

nei miei occhi

e i tuoi occhi,

nelle tenebre dell’alba e della notte

non hanno mai perso la luce.

Ti ho ritrovato

lungo la via della Resurrezione

e mi hai parlato

con la dolcezza della pace

ed ho ancora gridato il tuo nome:

Cristo Gesù Signore è risorto.

Io Maria di Magdala,

ti sono stata devota

e a te solo

ho consegnato

il mio amore.

 

 

Nella foto: Pierfranco Bruni dopo una sua conferenza su Nazhim Kalim Dakota Abshu a Santo Domingo

 

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pubblicato il 31 marzo 2013

L’affascinante viaggio del silenzio dello sciamano nel recente

“Come un volo d’aquila” di Pierfranco Bruni

 

di Angiolina Nantas

 

 Il poeta e lo scrittore si incontrano attraverso un linguaggio che ha una forte dimensione magico – onirica e la parola, nel suo raccontare, incide vistosamente negli scavi dell’esistenza.

Nel recente libro (una importante plaquette che porta l’autore su una strada affascinante, non nuova per lo stesso autore, ricca di simboli e di visioni in cui il mistero domina) di Pierfranco Bruni dal titolo “Come un volo d’aquila” (Nemapress editore, pp. 56, euro 10) si respira non solo l’alchimia di un paesaggio in cui si misura un raccordo tra culture e modelli religiosi ma si vive una atmosfera dove ogni traccia di realtà e di realismo viene completamente allontanata.

 

È come se Pierfranco Bruni si giocasse la sua partita in un colloqui stretto con uno sciamano. Due racconti, 21 poesie, due “preghiere” di Aquila di Mare e Aquila di Vento, nelle quali la lezione sciamanica è fortemente visibile, un  Preludio e un Epilogo dentro i quali la testimonianza buddista è vistosamente presente) per un viaggio in cui la figura dello sciamano riporta la voce del padre.

 

Il padre che non c’è più è il riferimento non tanto di un dolore che strazia ma di un tempo smarrito, o meglio di un tempo che ha perso le lancette dell’orologio per farsi spazio sempre fuori dagli schemi della storia. Compaiono i simboli e sono elementi chiarificatori del viaggio di Pierfranco Bruni. Dall’aquila stessa alla tartarughe con le tredici lune, dalla luna all’insistere sul concetto di pazienza. Molto forte è la frase del Dalai Lama che Bruni pone interpretazione del suo viaggio, ovvero la pazienza che ci allontana dalla disperazione.

 

Il sottotitolo potrebbe leggersi come un ulteriore titolo perché se l’aquila è un simbolo della cultura indiana sciamanica ancora di più lo è il guerriero che rimanda ad una lettura prevalentemente castanediana, (Carlos Castaneda) alla quale Bruni ha dedicato molti studi e molte riflessioni soprattutto negli ultimi anni inserendolo in un percorso che va da Eliade alla Zambrano, da Jung al suo caro Pavese, da Zolla a Papini, da Coomaraswamw ad Horia. Dunque, il sottotitolo: “Mio padre mi diceva di amare con la passione del guerriero”.

 

Titolo e sottotitolo sono dentro questo viaggio sciamanico di Bruni e le due “preghiere”, astutamente o abusivamente li abbiamo definite tali, sono la traccia singolare di un personaggio, qual è Pierfranco Bruni, che propone l’interfaccia del poeta e dello scrittore.

Le 21 poesie hanno una simbologia. Parlando con Bruni abbiamo cercato di capire i segni che si trasmettono in questa plaquette. Perché 21 poesie? Perché il 21 è il giorno della morte del padre e anteponendo i numeri, ovvero 12, è il mese in cui il padre si è messo in viaggio verso ciò che gli sciamani definiscono silenzio, volando, in solitudine, come l’aquila.

 

Comunque tutta la plaquette è ricca di simbologie e anche elementi rituali. Come le tartarughe e le tredici lune. Ritorna il suo mondo orientale, soprattutto quando nel secondo racconto sottolinea le radici del padre. Ma il padre può essere un pretesto per una manifestazione esistenziale e archetipica che va oltre la letteratura stessa?

Il padre c’è. L’assenza del padre è ben visibile. Ma tutto può diventare pretesto all’interno di un processo in cui scrittura e pensiero sono diventati elementi plastici di un raccontare, attraverso il mito e la metafisica, un uomo dentro il dolore, la pazienza, la preghiera, il distacco, la lontananza.

 

La figura dello sciamano è ormai una costante in Bruni ma ci sono i richiami ad un incrocio tra il mondo cristiano che si ferma alla Croce e il mondo islamico in cui la ritualità delle danze è sì quella degli Indiani ma anche quella dei sufi nella circolarità del volo.

Un Bruni altro rispetto ai precedenti scritti? C’è una continuità. Ciò lo si avverte subito. Non una rottura con il passato. Ma si avverte una coerenza in un progetto che è quello dell’antistoricità e dell’antirealismo della letteratura e della prevalenza dei simboli, degli archetipi, dei miti. Non bisogna dimenticare che nel 2004 Bruni pubblicando una antologia delle sue poesie (1974 – 2004) la si intitolava “Fuoco di lune”. Un titolo fortemente intriso di archetipi nell’incontro tra esistenze occidentali e orientali.

 

“Come un volo d’aquila” è un testo importante. E resterà un modello significativo nella bibliografia di Pierfranco Bruni. Il guerriero – poeta e scrittore è un guerriero di luce dentro quelle forme di una alchimia che non cerca spiegazioni ma vive completamente tra le pagine del mistero.

Bruni pone nel retro copertina dei versi di Aquila di Vento nei quali è inciso: “Lo sciamano mi ha parlato/ed io mi sono posto in ascolto/della sorgente dell’orizzonte”. Simboli, archetipi, alchimie dentro il dolore e la magia della vita.

 

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