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EDITORIALI
Letteratura
pag. 10
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato il 10 Novembre 2013
Dal D’Annunzio in trincea e fratello
maggiore di Ungaretti al Vate sciamanico e Orientale
nell’originale saggio di Pierfranco Bruni e Neria De
Giovanni: “D’Annunzio. Io ho quel che ho donato”
di
Marilena Cavallo
Parto
dalla seconda parte del saggio che Pierfranco Bruni
e Neria De Giovanni dedicano a Gabriele D’Annunzio
per i 150 anni dalla nascita. Un libro compatto e
articolato che passa in rassegna un D’Annunzio
“particolare” e vitale in una chiave di lettura in
cui l’estetica e il sublime restano fondamentale.
La
seconda parte del saggio dal titolo “Io ho quel
che ho donato” (pubblicato dalla Casa editrice
Nemapress – Roma – Alghero) è scritta da Neria De
Giovanni, una critica letteraria che ha dedicato
numerosi scritti alla letteratura italiana ed è una
attenta specialista di Grazia Deledda, entra, con la
sua consueta profondità, nella poesia di D’Annunzio
scavando tra le parole e dando alla Parola il senso
non solo estetico, ma anche storico.
D’Annunzio viene contestualizzato nel suo tempo –
epoca con l’analisi dei testi in una vera e propria
interpretazione delle “Laudi” segnando un percorso
che va dal 1903 al 1918. Il mare, la terra e gli
eroi. Le città del silenzio. L’Oltremare con le
Canzoni. Il mondo latino con i versi – canzoni della
guerra latina.
Uso
un linguaggio discorsivo perché Neria De Giovanni
sembra accompagnarci per mano, e ci accompagna,
lungo i sentieri della parola. La parola, appunto,
diventa il centro di un processo che rende
D’Annunzio protagonista nel cuore delle lingue. Ma
il capitolo sul legame della “trincea” ha una
straordinaria bellezza perché D’Annunzio e Ungaretti
sembrano dialogare.
La
trincea è una metafora ma anche una geografia di uno
spazio che diventa tempo sino a concludere:
“D’Annunzio contemporaneamente seppe far evolvere la
sua dotta e profonda cultura storico-letteraria fino
ad arrivare a risultati che vanno verso una più
aperta modernità come le strisce paratattiche de
Il notturno la prosa poetica de ‘I Cento e
cento giorni di Gabriele D’Annunzio tentato di
morire’.
Ungaretti, dal canto suo, inaugurerà la stagione
chiamata dell’”ermetismo” con la disgregazione dei
metri tradizionali e il trionfo di quella parola
poetica, riverginata da uno spazio bianco che era
insieme silenzio e ritmo”.
La prima parte è
scritta da Pierfranco Bruni, scrittore, poeta e
autore di numerosi saggi sulle letterature del
mediterraneo e specialista di Cesare Pavese, e
introduce sia alla poetica di D’Annunzio sia alla
“vita spericolata”, per usare un linguaggio caro a
Vasco Rossi, del Vate.
Bruni mobilita il
suo esistere per raccontarci il D’Annunzio tragico,
e lo fa attraversando storicamente gli anni della
guerra, artisticamente giocando con Wilde e
Edvard Munch.
Si conferma ancora come l’interprete della presenza
tragica nella letteratura del Novecento non
trascurando il destino degli amori dannunziani, e in
prima istanza campeggia la figura di Eleonora Duse.
Bruni legge il suo romanzo del
1900 “Il fuoco” con una nicciana visione che lo
riporta al “Trionfo della morte”. Ma la forte
originalità di questo D’Annunzio letto da Bruni
consiste nella simbologia degli oggetti.
Infatti c’è un capitolo in cui
si parla del D’Annunzio che è costantemente in
contatto con il mondo sciamanico e chiosa oggetti
presenti al Vittoriale come la tartaruga, l’aquila,
i cavalli, il Budda. Sono segni non empirici, ma
vengono considerati segnali precisi di una
metafisica dell’esistere in una cultura radicata tra
Oriente ed Occidente.
C’è al limitare della sua
parte un capitolo fortemente poetico in cui si parla
di “tende verdognole” e analizza le “Novelle della
Pescara”, dando a questo testo una lettura
marcatamente metaforica.
Ma a Bruni interessano due
elementi: il tragico e l’alchimia sciamanica che
sono punti di riferimento, secondo l’autore, nel
mondo letterario e magico di D’Annunzio. Bruni si
pone una domanda: “Come
è possibile andare oltre Gabriele D’Annunzio in un
secolo, breve o corto, come il Novecento? D’Annunzio
è ancora un protagonista in un Novecento letterario
che non si è ancora chiuso e non si è ancora
“normalizzato” nella storia della
“modernacontemponea” epoca che viviamo”.
Il lavoro di Bruni
e De Giovanni si chiude con il contributo, un
tassello importante e di alto valore scientifico, di
studiosi di diverse università straniere che ci
fanno capire come D’Annunzio è stato letto e viene,
tuttora, considerato in realtà come gli Stati Uniti
d’America, l’Albania, la Franca, la Romania,
l’Australia, la Catalogna. Si trovano scritti di
Emanuela
Forgetta per la Catalogna, Stefan Damian per la
Romania, Arjan Kallco per l’Albania, Andrea Guiati
per gli Stati Uniti d’America, André Ughetto per la
Francia, Valentina Piredda per l’Australia.
Un saggio che farà
discutere. Consapevoli di ciò gli stessi autori,
nella Premessa al saggio, sottolineano: “Inoltre
in questo anniversario sono stati approfonditi
spesso percorsi letterari già studiatissimi: il
D’Annunzio ‘decadente’, il romanziere, il rapporto
con la ideologia fascista, la poesia dell’Alcione.
Il nostro studio invece segue percorsi diversi,
cerca nelle pieghe della sterminata opera
dannunziana, zone ancora poco esplorate o lette in
maniera distorta, ideologicamente preconcetta”.
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pubblicato il 4 Novembre 2013
Il canto nelle
piazze.
Perché la poesia
abita la piazza del mondo attraversando la musica
Una
nuova edizione con traduzione in Francia del saggio
dedicato alla poesia e alle piazze con Dvd
di
Marilena Cavallo
“Il
canto nelle piazze
Stringe di
silenzi le parole
E se le parole
non dovessero bastare
C’è sempre un
silenzio in più
Che permette al
silenzio
Di non tacere”.
Sono versi
ritrovati tra i fogli che avevamo “scartato” quando
scrivemmo e pubblicammo il saggio del 2008 dal
titolo: “La poesia, la piazza, le parole.
Incontrarsi senza darsi appuntamento” edito da
Pellegrini. Ora il testo vede una nuova edizione e
una traduzione in Francia dedicata alla poesia
italiana del Novecento, con l’aggiunta di un Dvd
sulle piazze e sui poeti..
Nel corso di questi
anni cosa è la parola nel viaggio? Abbiamo avuto
modo di presentare, in più occasioni, questo
libro relazionandoci con studenti italiani ed
esteri. Ma la domanda resta.
I poeti sono
viaggiatori?
La poesia è
viaggio. I poeti sono viaggiatori.
La metafora e il
sentimento del viaggio animano i loro versi.
Si viaggia in un
luogo… In se stessi… In un non luogo…
Per le vie di un
paese, che diviene luogo dell’anima…
Nel canto triestino
di Umberto Saba tra l’andirivieni della gente lungo
le vie del porto, proprio lì “dove son merci ed
uomini il detrito/di un gran porto di mare,/ io
ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà.” La
fantasmagoria (carrellata) di tipi umani sfila
davanti ai suoi occhi, per l’occasionalità di
un’abitudine quotidiana:“Spesso per tornare a casa
prendo un’oscura via di città vecchia”.
E, così, Trieste,
“Città vecchia”, è specchio di un’umanità smarrita,
è metaforicamente piazza del mondo, che può
riconoscersi “qui prostituta e marinaio, il
vecchio/che bestemmia, la femmina che bega, il
dragone che siede alla bottega/ del friggitorie,/ la
tumultuante giovane impazzita/ d’amore,/ sono tutte
creature della vita/ e del dolore…”.
Le vie, le strade e
le piazze si snodano in un itinerario interiore
“qui…sento…il mio pensiero farsi/ più puro dove più
turpe è la via”.
La piazza si fa
mondo.
La metafora del
luogo entra nella letteratura perché in essa si
recupera l’incertezza dello smarrimento in una
dimensione non del rifugiarsi nel luogo ma ritrovare
il luogo e quindi lacerare così anche il sentimento
della distanza. Ritornare è¬ come dice Luzi,
“ricostruire un universo perduto”.
Il poeta è un
vagare e la poesia una geografia del tempo e
dell’essere.
Il sentimento
suggestiona ed evoca immagini e luoghi…
E’ la poesia che
immortala, sfuma e cristallizza neìla dimensione e
nella durata del mito… la piazza si fa mito…sussurra
un canto orfico “chi può dirsi felice che non vide
le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di
palazzi marini e dove il mito si cova?”
Il poeta visionario
Dino Campana trasfigura con luci, suoni, voci, linee
e colori in “quell’esplosione di gioia barocca” che
ride nella piazza del “Crepuscolo mediterraneo”.
La piazza, baciata
dal “dio d’oro del crepuscolo”, inscena “nel cielo
più vasta più ardente del sole notturna estate
mediterranea”.
La piazza
mediterranea è cornice delle contraddizioni della
storia.
E’ la piazza dei
superbi, ma statici, palazzi con “angioli paffuti e
bianchi”…
E’ la piazza delle
“perfide fanciulle brune mediterranee, brunite
d’ombra e di luce”.
Come dimenticare i ragazzi di Piazza Majakovskij,
nel cuore di Mosca la Piazza diviene il “faro”,
majak
in russo significa proprio faro, “le letture in
piazza come un faro attiravano e richiamavano tutte
le cose migliori e originali che c’erano allora nel
paese”, queste le parole entusiaste di Bukovskij,
protagonista con Ginzburg, con Galanskov e altri di
quell’evento.
E’ il 19 luglio del
1959 quando durante l’inaugurazione del monumento di
Vladimir Majakovskij, dopo i poeti ufficiali
prendono la parola i giovani e proclamarono le loro
poesie; è un vero successo, vince la poesia, e
diviene attesissima protagonista delle serate
successive, programmate con regolarità.
Tra i tanti versi
che vengono letti, i più amati proprio quelli di
Jurij Galanskov, giovane studente universitario,
amante della poesia, inneggiante alla piazza libera
da ogni pregiudizio nel suo “Manifesto umano”:
“Uscirò sulla
piazza
e conficcherò
all’orecchio della città
un grido disperato.
Non voglio più il
vostro pane
Impastato di
lacrime”
Nel 1961 si pone
fine con la forza alle riunioni del “faro” e la
piazza diviene teatro di vere e proprie battaglie in
una atmosfera sempre più incandescente; vince la
milizia, tutto è soppresso, ma la piazza di
Majakovskij lascia una incredibile eredità!
I giovani hanno
consapevolezza del loro compito civile e la piazza
li ha nutriti di versi, ha ridestato la forza morale
della vera libertà interiore, da qui la scelta di
riprendere le auto-edizioni clandestine del
samizdat, con l’intento nuovo di distribuire le
copie, riprodotte anche manualmente.
Come non custodire
la memoria di tutto ciò?
Sulla scia del
ricordo di piazze, tintesi del rosso della
soppressione il refrain di una canzone italiana
“TieniAmente”, dall’album “Oltre” di Claudio
Baglioni, omaggio ai giovani studenti disarmati,
falciati a Piazza Tian’anmen.
Il testo è composto
unicamente dal ripetersi e riproporsi con tonalità
differenti dello stesso motivo “TieniAmente”, la
piazza del memento.
Sono tre i
caratteri cinesi, che compongono il nome del celebre
monumento di Pechino, ormai simbolo nazionale della
tessa Cina, e indicano rispettivamente “cielo”,
“pace”, “porta”, espressione tradotta con “Porta
della pace celeste”.
Il canto di questa piazza ha
attraversato il mondo: dai
Roger Waters (ex
leader dei
Pink Floyd) nel
brano "watching tv" incluso nell'album "Amused
to Death" del 1992
racconta la storia di una studentessa uccisa nella
strage di piazza tienanmen.Il video del
pezzo,inoltre,mostra le immagini reali della
protesta e della repressione. All'ultimo album dei
System of a Down
(Hypnotize)
nella canzone Hypnotize c'è un chiaro
riferimento ai giovani protestanti. Altra canzone
basata su quest'avvenimento è, appunto, Tien an
men dei
CCCP Fedeli alla linea,
contenuta nell'album Live in Punkow.
Un riferimento a questi fatti
c'è anche nella canzone "Il vento" dei
Litfiba contenuta
nell'album "Pirata" proprio del 1989. Nel video
della canzone "Caos AD" dei brasiliani
Sepultura sono
visibili alcune scene della protesta.
E’ nell’armonia del
battuto musicale che della piazza si continua a fare
memoria.
E’ nel canto
poetico che la vita delle piazze continua a
brulicare di emozioni.
Quante le piazze da
non dimenticare…
La poesia resta
l’anima di questo immenso e incompiuto viaggio...
Ci sono le piazze
del mondo. Sono le piazze reali, dell’anima, del
tempo...
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pubblicato
il 31 Ottobre 2013
Non ti consegno parole ma il viaggio nella notte che
ha riflessi sul mare nella nostra danza araba…
di Pierfranco Bruni
Camminiamo
lenti lungo la linea della brughiera.
La brughiera è come
se avesse una linea che invade i confini di un
orizzonte di ombre.
Ieri sera sono
andato via molto triste.
Credimi. Da tanto
non toccavo il giocare della tristezza nei miei
occhi. Anche tu eri triste. Abbastanza. Ma nulla può
toccarci. Nulla può invadere il campo nei nostri
sentieri incantati. Sei magia nella mia vita.
Era sceso un velo
di tristezza in entrambi. Eppure avevamo fatto
l’amore soltanto da poco.
La nostra stanza
sul mare sembrava un’assenza: era come se non avesse
avuto mai il mare. Ma tu c’eri. Io più di te.
Mi appartieni come
mi appartengono le voci che danzano tra i fantasmi
dei miei pensieri.
Uno scrittore deve
cercare di dialogare sempre con i propri fantasmi.
Nel momento in cui i fantasmi si allontanano il suo
scrivere si dilata e diventa semplicemente
malinconia.
Ti ho raccontato,
mentre cercavo un tuo sguardo vero, la storia della
mia vita. In brevi battute mi sono donato
completamente alla tua anima.
Sei fantastica
quando facciamo l’amore. Ogni piega del tuo corpo
entra nelle mie pieghe. Ogni tuo bacio io lo vivo
come un bacio per sempre.
Quando facciamo
l’amore ogni gesto è poesia. L’amore è come la
poesia. O sono veri o non sono. L’ho letto questo
pensiero in un romanzo di tanti anni fa. O forse
l’ho scritto addirittura in un mio romanzo.
È bello poter avere
la consapevolezza di confondere i propri romanzi con
i romanzi di quegli scrittori che hanno fatto la
tua, la mia vita.
Non c’è limite. La
letteratura è dentro la mia vita come la mia vita è
dentro la mia vita.
Non mi dire ora che
cerco di mischiare le carte.
Tu sei bellezza.
Non sono io a dirlo. Ad affermarlo sono i miei occhi
che ti cercano.
Amore mio bello. Se
coltivo ancora le rose, quelle poche rimaste, nel
mio giardino è perché mio padre mi ha tramandato un
messaggio: non sciupare mai la bellezza, non
trascurare mai ciò che ami per un salto di vanità,
non oscurarti mai per un silenzio che ti hanno
offerto, non smettere mai di essere te stesso anche
se la tristezza ti potrebbe vincere, ma cerca
l’amore e con l’amore regala una carezza di pazienza
a chi ti sta accanto, non sciupare mai la bellezza
che porti nel cuore.
Io cerco sempre di
restare fedele alle parole di mio padre.
Non saprei vivere
senza la fedeltà a mio padre.
Continuo a cercarti
anche ora che sono solo. Solo ma sono con te.
Mi hai consegnato
un messaggio straziante, amore mio, ieri sera. L’ho
colto tutto.
Ho ripensato per
tutta la notte alla nostra stanza sul mare. Per la
prima volta non mi hai detto: non si va via senza
salutare il nostro mare. Ti amo.
Se ti scrivo non è
perché ho bisogno di confessartelo o di liberarmi di
uno stato d’ansia. Tu sai che io non ho mai creduto
alla mediazione psicoanalitica. La “cognizione del
dolore” te la porti dentro e la cacci via solo con
te stesso. Il “male oscuro” lo sconfigge se hai la
forza di guardarti nello specchio. Non è perché
sartrianamente l’altro non mi offre fiducia o penso
che non ci sia. Io tanto credo in me e in te che il
resto è il nulla.
La mia anima è
l’attesa che chiede alla speranza di farsi specchio
e intermittenza. Sto usando concetti di
psicoanalisi. È vero. Ma Freud mi fa ridere. Io sono
un pavesiano, come ben sai, fottuto.
Chi non si salva da
sé non lo salva nessuno. Accetto anche il gesto
ultimo. Ma bisogna toccare il fondo per vivere la
risalita, ma non entrerò mai nel teatro delle
comparse e delle scene mute che restano in ascolto
per tirarti fuori le ferite o per tirarti dalle
ferite. Su questo non accetto neppure il confronto.
La mia via è la via
dell’anima. La dissolvenza la vinco con la tua
magia, l’alchimia degli sguardi, la stregoneria del
tuo corpo.
Sei stupenda quando
facciamo l’amore… quando le tue labbra custodiscono
il destino dei miei destini…
Ecco. Ripenso ai
versi di un poeta arabo – Andaluso di nome Ibn
Zaydun:
“O raggio d’una
stella che viaggia nella notte:
raggiungi il tuo
palazzo, e là fatti coppiere,
perché d’amore beva
chi solo d’amore ha sete”.
Tu, mio raggio di
stella non mi restare triste e parlami. Non uccidere
la nobiltà del silenzio con il tuo tacere muto.
Amami con la libertà della tua anima.
Ho scritto per te
il cantico di Asmà, che è preziosa come la luna
mentre vive il disincanto del sogno affinché il
sogno possa durare nella vita.
Tutto questo ha un
senso?
Ma sì che ha un
senso… ascolta.
C’era una volta una
principessa che si era fermata su uno scoglio e
aspettava che le onde raggiungessero i suoi piedi.
Ma il mare aveva la calma dell’ozio.
La principessa di
nome Rosa del Deserto aspettò l’alba. Era una
principessa araba, il cui destino si racconta come
mille e una notte ancora.
Un bel giorno le
onde persero la calma negli orizzonti e l’ozio nei
confini.
Venne un forte
vento e una voce da lontano cantava una preghiera
musaulmana.
Le onde
intrecciarono i capelli della principessa e l’acqua
navigò nei suoi occhi.
Non perse mai la
pazienza Rosa del deserto.
Accolse le onde e
parlò loro dicendo: “Per anni ho aspettato. Per
notti lunghe ho atteso. È bastata che la sabbia
spingesse il vento e non il vento la sabbia per
essere travolta dal mare. Per essere baciata dalla
verità delle onde.
Le onde portano la
verità e si riprendono le finzioni.
Le tempeste hanno
sempre un senso.
Ho ascoltato il mio
cuore e la mia anima è diventata la casa delle
emozioni.
Così ho compreso
che l’amore che porto per il principe Seta Blu è un
amore tempestoso ma è amore, è verità, è salvezza.
Io ho bisogno di questo amore”.
C’era una volta… Ma
sempre ci sarà se riusciremo ad ascoltare ciò che il
volteggiare delle tende nella stanza affacciata sul
mare potrà dirci.
Io cerco di
ascoltare.
Non perdere la tua
bellezza amore mio.
Non perdere la tua
magia amore mio.
Non perdere ciò che
ti ho donato, ciò che dono, ciò che sei.
Camminiamo lenti
mentre i miei passi diventano leggeri e il tuo
sguardo cede verso il basso.
Non ti offro
lusinghe.
Nulla potrà
allontanarci se il tuo amore è tempestoso mare tra
le mie mani.
Nulla potrà
separarci se la mia allegria incontrerà sempre la
passione del tuo sorriso.
Ora posso anche
fermarmi e specchiarmi tra i riflessi di una
vetrina…
Vedi c’è una maglia
che vorresti indossare e che tanto ti piace…Ma tu
non accetti questo regalo. Non ha importanza. Sarà
per un’altra sera.
Gli incontri sono
mistero e gli appuntamenti sono il desiderio nel
destino. Ma dove vado se ti sei persa tra le strade
del mio cuore…Dove vai se io mi sono smarrito tra le
curve della tua anima…
Sei grandezza
quando il tuo corpo su di me ha la passione
dell’amore infinito…
Tu mi conosci.
Tu che mi conosci
resta sul mio corpo e prenditi l’anima. Tu prenditi
il cuore e lascia che le mie mani restino marea
sulla tua pelle.
Vado via e ti segno
i versi del maestro dei dervisci danzanti, Jalal
al-din Muhammad, ovvero Rumi che recitano:
“Lo so, questo mio
sguardo che tuo malgrado saccheggia
La tua bellezza, tu
ben vuoi punirlo. Non farlo.
Fermati, amore, non
puoi profferire parola, non farlo.
Sei la stella che
getta scompiglio nei cieli…”.
Devo aggiungere
altro?
Non ti consegno
parole. Ti consegno amore, amore mio. Non ti
consegno parole, ma un viaggio nella notte nella
quale io e te siamo la stella e il raggio.
Ti ricordi quando
quella sera ti ho detto: vorrei addormentarmi sul
tuo seno e tra i tuoi capelli sotto le lontananze
delle luci e dei colori dei fari che hanno riflessi
sul mare…
Un viaggio nella
notte nella nostra danza araba…
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pubblicato
il 31 Ottobre 2013
La
poesia di Giovanni Paolo II.
La
vita, la fede, la misericordia
di Marilena Cavallo
“Luogo del mio passare-/così legato al luogo della
nascita…/Nei volti dei passanti v’è il disegno di
Dio,/ed il suo abisso scorre dietro la vita
quotidiana.-…”. Sono versi di Giovanni Paolo II
(1920 – 2005). Un Papa poeta, il cui tracciato nella
storia dell’uomo, delle civiltà e dei popoli resta
indelebile. Il sacro e la parola. Non una linea ma
un cerchio. Si ritorna. La poesia è un ritornare.
Dalle albe ai crepuscoli. Dai tramonti all’ora
antelucana. Ed è sempre un viaggio nell’attesa che
cerca l’attesa.
La poesia di
Giovanni Paolo II (autore di opere teatrali oltre
che di testi poetici e interventi teorici sul
teatro) è mistero e rivelazione. Un dialogare
costante con quel linguaggio che non ha mai
trascurato il colloquio con l’uomo ma che
intrecciava il disegno umano con quello evangelico.
Una poesia nel misterioso del tempo che si allunga
tra le ali dello spazio. Pur nella cristianità
dell’uomo nella poesia di Giovanni Paolo II si
avverte un non voler trascurare l’incontro tra il
tempo e lo spazio.
Nei versi del
1952 dal titolo: “Pensiero – strano spazio” si
avverte la profondità di questa visione. Una visione
– dimensione in cui i segni e il sacro non sono solo
modelli pastorali ed evangelici ma anche
marcatamente culturali. Una poesia in cui le visioni
(o la visione) sono simboli.
Si ascolta:
“Se soffre per mancanza di visione – deve allora
aprirsi la strada fra i segni/fino a ciò che gravita
dentro e che matura come frutto nella parola./E’
questo il peso che in sé avvertì Giacobbe/quando in
lui caddero stelle stanche come gli occhi del suo
gregge?”.
C’è un
tracciato indelebile nella poesia di Giovanni Paolo
II che potrebbe riassumersi attraverso alcune
sottolineature. Un tema dominante resta
indubbiamente quello della luce oltre il deserto.
Una testimonianza spirituale e poetica che può
essere riassunta in sei riferimenti. Ovvero: il
silenzio e il mistero, la preghiera e la speranza,
la meditazione e l’uomo, l’inquietudine e il
viaggio, la contemplazione e la morte, la Redenzione
e il Cristo. La sua poesia (ha scritto e pubblicato
diversi testi) è una forte componente del misterioso
che attraversa la parola. Un linguaggio in cui
metafora e realtà primeggiano ma al centro si
focalizzano sempre l’amore, la morte, la carità, il
dolore.
Restano
emblematiche le poesie del 1939 e in modo
particolare gli struggenti versi dedicati alla madre
dal titolo: “Sulla tua bianca tomba”. Il ricordo
della madre, l’immagine di Cracovia, i luoghi della
sua infanzia si intrecciano con un canto che
richiama costantemente una silenziosa
contemplazione. Una contemplazione che anche
letterariamente si agita in una metafisica
dell’anima che è segno tangibile di un raccordo tra
parola e offerta d’amore.
Versi
suggestivi: “Sulla tua bianca tomba/sbocciano i
fiori bianchi della vita./Oh quanti anni sono già
spariti/senza di te – quanti anni?//Sulla tua bianca
tomba/ormai chiusa da anni/qualcosa sembra
sollevarsi:/inesplicabile come la morte.//Sulla tua
bianca tomba,/Madre, amore mio spento,/del mio amore
filiale/una prece://A lei dona l’eterno riposo”.
La morte come
rivelazione e la rivelazione, nella parola e nella
poesia, è un sollievo misterioso e come tale
indefinibile. Si pensi ai versi del “Canto del Dio
nascosto”. L’uomo Karol nella storia di un
pontificato. La poesia ha il pregio di raccordare
anche questi aspetti in una temperie in cui la
letteratura potrebbe farsi miracolo proprio
attraverso il mistero della parola. Metafore che
hanno un valore poetico espressivo singolare: “…era
il Mare che stava dentro di me/spandendo intorno
tanto silenzio tanta freschezza”.
In fondo la
poesia è mistero che chiede alla contemplazione di
farsi vita. Nella poesia di Karol Wojtyla questi
aspetti sono predominanti. Una poesia dai toni
incisivi con un verseggiare che a volte diventa
rarefatto e a volte il dato prosastico prende il
sopravvento. Ma si tratta di un poesia fatta di
immagini e la sua tensione lirica è sempre un
colloquiare. Il colloquio sta ad indicare che
l’altro c’è sempre e che si ha sempre bisogno
dell’altro pur nella consapevolezza di un io che
supera ogni orgoglio.
La poesia nel
misterioso diventa preghiera. “Questi occhi stanchi
sono il segno/che le acque oscure della notte
fluirono in parole di preghiera/(carestia, carestia
di anime)./Ora la luce del pozzo vibra profonda
nelle lacrime/scosse – penseranno i passanti – da
una ventata di sogni” (da “Canto dello splendore
dell’acqua” del 1950).
Sempre in
questa raccolta il poeta insiste sulla necessità di
scavare nella parola. In quella parola che ha
colpito poeti profondamente laici ma marcatamente
cristiani come Giuseppe Ungaretti. In Giovanni Paolo
II la parola è sempre un richiamo, soprattutto
quando sono semplici. Così: “Erano semplici le
parole. Mi camminavano accanto come/agnelli ad un
richiamo”. La parola è contestualmente portatrice di
meditazione e di preghiera. La parola è la luce che
supera il deserto. E l’attesa che vive dentro la
parola è sempre “un’attesa di stelle”. E nell’attesa
non può che definirsi la nostalgia della memoria che
diventa un luogo sacro come in “La madre” del
1950.
Così nei
ritagli e nelle pieghe delle parole: “Il mio spazio
scorre nella memoria. Non svanisce/il silenzio di
viuzze lontane,fermo nell’aria come vetro/che nelle
pure iridi si sbriciola in luce e zaffiro –…”. La
preghiera è una essenza che vive nel tempo, oltre la
storia. Una parola, dunque, che ci riporta a San
Francesco d’Assisi e in molte occasioni ci richiama
quel Jacopone da Todi che ha segnato un percorso
indelebile della poesia religiosa.
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pubblicato il 27 Ottobre 2013
La
lingua e la collocazione della letteratura italiana?
La
scuola, agenzia educativa e della conoscenza, ha un
ruolo importante: ma basta con le antologie a
moduli.
La
lingua del parlante e dello scrivente oggi?
di Pierfranco
Bruni
Bisognerà
dare un ruolo consistente alla lingua italiana
soprattutto partendo dalla letteratura del
Novecento. È in essa che si sono moltiplicate le
forme e le metodologie di linguaggio che hanno
guidato la storia della lingua nella modernità,
attraversando epoche ed opere già con San Francesco
d’Assisi sino ad Angelo Poliziano, dal Rinascimento
alle ‘etichette’ illuministiche, che hanno cercato
di formulare un inciso rivoluzionario, ma che hanno
consegnato la lingua stessa a Manzoni, e da questo
alle avanguardie di Pascoli e D’Annunzio, filtrando
notevolmente il Futurismo sino alla lingua post
realista, alla quale la letteratura si è agganciata
e alla quale soprattutto il cinema si è aggrappata.
Dopo gli anni
Sessanta si è verificata una vere e propria modifica
dei canoni e se si vuole di un vocabolario. Dagli
anni Sessanta ad oggi la lingua ha assunto precise
chiavi di lettura.
Quella codificata
da una norma dei vocabolari che hanno assorbito i
cambiamenti anche sintattici e le forme dialettali,
oltre alla assunzione di comparazioni con la lingua
inglese, lingua che in molti termini ha preso il
sopravvento, ma che è la lingua italiana ufficiale.
Quella
correntemente parlata che, se pur in una forma
corretta, ha innesti modulari rispetto a quella
scritta perché ha tagli favoriti da un linguaggio
piuttosto discorsivo.
Quella cosiddetta
“bastarda” che è dovuta all’intreccio tra una
scrittura giornalistica, televisiva, telematica con
ulteriori innesti che sono distanti dalla tradizione
degli anni Settanta.
C’è una quarta
chiave di lettura, non inclusa in un discorso
ufficiale ma insiste, che è quella che proviene dai
testi delle canzoni.
I giovani usano
come forme direzionali della comunicazione
l’incrocio delle due ultime chiavi per confrontarsi,
per dialogare, per definire un qualcosa e anche per
definirsi.
Io addirittura
aggiungerei ancora una quinta chiave che è quella
portata dalla presenza delle lingue degli immigrati.
Non sarebbe da sottovalutare considerato il fatto
che sono detentori di un loro linguaggio comunicante
ma sono anche depositari di una loro lingua. Non
sempre il loro linguaggio comunicante, che potrebbe
essere inteso come una caratterizzante formula
dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi
tunisini ed eritrei, è fedele alla lingua della loro
Nazione. Anzi non lo è quasi mai.
Tutti questi
aspetti riguardano l’importanza di dare un senso
storico alla tutela della lingua italiana. È
naturale che non c’è più una lingua ufficiale
tradizionale. La tradizione nelle lingue è un fatto
soltanto di consapevolezza di eredità, di
ricostruzione identitaria, di analisi dei processi
sia letterari sia storici stessi sia prettamente
linguistici, ma si scende in una dimensione che è
antropologica.
Discutere di una
lingua corretta, oggi, significa ripristinare delle
griglie che però, dobbiamo essere consapevoli, non
corrispondono alla realtà dei parlanti e degli
scriventi.
Il parlante già di
per sé, pur mantenendo fede, alla consueta formula
della grammatica e della sintassi, usa sempre un
vocabolario innovativo: innovativo, oggi, è anche il
ripescaggio di termini obsoleti, ovvero una parola
usata da Tommaseo è innovativa ma anche “arcaica”.
Lo scrivente, che
dovrebbe usare la lingua come estetica e correttezza
dell’ufficialità e dell’esempio, potrebbe essere lo
scrittore. Dante e Manzoni sono esempi e
testimonianze che rispecchiano un tempo linguistico
che non c’è più.
Noi parliamo, in
questo nostro tempo, il linguaggio di Andrea
Cammilleri, che ha una interpretazione prettamente
etno-antropologica (ne parlo in senso non negativo:
attenzione), il linguaggio di Carlo Emilio Gadda con
le varie sfaccettature, anche sul piano della
punteggiatura, (lo dico senza voler entrare nella
rivoluzione linguistica futurista che ha stravolto
la lingua italiana: si può accettare o meno ma è
così), il linguaggio di Alberto Bevilacqua con delle
sfaccettature anche discutibili, ma che io accolgo
con piacere, il linguaggio di una scrittura
puramente giornalistica trasportata come una nuova
impostazione narrante in testi che si fanno passare
per narrativa, il linguaggio attento di Pasolini che
soltanto ora trova una sua interessante
ottimizzazione.
Sono solo pochi
esempi. Si pensi a Luigi Meneghello o a Lucio
Mastronardi o ad Alberto Moravia o alla poesia di
Giorgio Caproni. Noi viviamo in questa età e non tra
Dante e l’Illuminismo o tra il Romanticismo e Ada
Negri.
Poi c’è la presenza
degli scrittori stranieri che, se pur tradotti,
vengono ben recepiti sul piano della sintassi ma
soprattutto su quello della punteggiatura. Uno
scrittore tra i tanti: Garcia Màrquez. Il romanzo
che gli ha dato la notorietà vira qualsiasi forma di
punteggiatura e quella standardizzazione di concetti
ha influito notevolmente nella lingua letteraria
contemporanea.
Il fatto, invece, è
un altro. Il vocabolario ha un suo compito specifico
che instrada verso una direzione ben definita. Il
linguaggio è ben altra cosa. Non si può imporre allo
scrittore, pensate al poeta contemporaneo, di
impostarsi secondo i canoni del vocabolario della
lingua. Sarebbe un omicidio ma sarebbe anche un
suicidio della stessa lingua.
Bisognerebbe una
buona volta convincersi che la tradizione del
dibattito delle lingue, sviluppatosi intorno al
De Vulgare e anche prima, non interessa e non
tocca la comunicazione della letteratura dei nostri
giorni e tanto meno i “lucchetti” parlanti dei
nostri figli e delle piccole macchine parlanti che
usiamo tutti per comunicare. E se Dante non
interessa, è storia e deve restare tale, non
interessa neppure il rapporto linguistico tra
Manzoni sino a Carducci e a un certo Pascoli.
Dobbiamo
convincerci che la lingua italiana è completamente
mutata rispetto agli anni Cinquanta del ‘900. E’
mutata rispetto agli anni ’70 – ’90. Chi si
ricorderà la lingua usata nei volantini delle
Brigate Rosse negli anni Settanta si renderà conto
la tipologia sintattica (non parlo delle minacce o
dei codici terroristici ma della grammatica o di
altre scorrettezze morfologiche) che si innervava
nella nostra società. In che termini linguistici, mi
sono spesso chiesto, comunicavano le Brigate Rosse
con l’attento e forbito Aldo Moro?
I cambiamenti delle
società cambiano anche la lingua. I cantautori degli
anni Sessanta capirono questa trasformazione e a
loro si deve molto nell’aver mantenuto fede ad un
codice sostanzialmente in linea con la tradizione.
La cinematografia è andata su un altro versante.
Bisogna affrontare
tale questione e credo che una scuola dentro i
mutamenti delle società dovrebbe avere un ruolo
predominante. Ma molte volte dipende dai docenti e
soprattutto dai testi adottati. Un altro problema
dolente.
Le antologie
scolastiche a moduli sono completamente non
convincenti perché svianti. Sono costruiti in modo
che non possono essere compresi senza
l’interpretazione attenta del docente. Che senso
hanno i percorsi modulari in una antologia
letteraria? Io non ho neppure intenzione di
affrontarlo questo discorso perché son ostile a
questa interpretazione che permette soltanto una
cosa: la distruzione dei parametri letterari dello
scrittore e l’incomprensione vera di uno scrittore o
di un poeta. È come se lo scrittore avesse scritto
per essere inserito in un modulo.
Ma dai, fa ridere
questo sistema ed è anche doloroso sia per lo
scrittore che per la storia della letteratura che
adotta un’impalcatura di altro genere. Anche qui è
questione di lingua. Lo scrittore e il poeta non
pensano mai di essere strumento della critica, lo si
vuole capire o no, e tanto meno pensano se un domani
verranno collocati in un determinato blocco.
Pensate agli orrori
commessi su Cesare Pavese. Ancora è un modulo
neorealista, se lo si fa entrare in un modulo,
quando egli stesso ha scritto di non essere realista
o neo, e di non essere considerato tale.
Insomma, ci
troviamo di fronte ad una ristrutturazione sia della
lingua e attraverso la lingua ad una
ristrutturazione della letteratura. Si avrà il
coraggio, la forza, la consapevolezza, la
preparazione di mettere in discussione un apparato
del genere?
Noi cercheremo di
fare la nostra parte. Chiediamo alla scuola di fare
la sua parte. Ai docenti di non attraversare le
antologie, ma di leggere gli scrittori e i poeti
direttamente e agli antologizzanti di rivedere le
loro posizioni di ogni genere o di ogni struttura.
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pubblicato il 18 Ottobre 2013
Asmà e Shadi romanzo in versi di
Pierfranco Bruni
nel passaggio dal samsara agli
archetipi dell'amore
di
Anna Sturino
Breve,
istantaneo, intenso. Lento, ricorrente, eterno.
Tutto e il contrario di tutto si addice all'amore,
sostanza e forma, atto, potenza e speranza della
nostra vita, il vero significato che siamo in grado
di attribuirle.
È
l'amore il protagonista di "Asmà e Shadi", ("Asmà e
Shadi. Preziosa come la luna nel disincanto del
sogno", Pellegrini editore, 2013) per presentare il
quale null'altro si dovrebbe usare che un'altra
poesia, perché poesia è, elevatissima, proprio
perché si libra oltre la concretezza dei due
protagonisti che nel loro scambio continuo di
sguardi, brividi e silenzi disegnano la storia che
ciascuno di noi ha vissuto (o forse si è augurato di
vivere), compreso un epilogo che si vorrebbe evitare
con ogni forza, ma talvolta è possibile.
"Se
preziosa sei stata
Ora non più
nel giardino delle lune cadute".
Agli struggenti, eppure semplici, versi di Manuz
Zarateo, Pierfranco Bruni affida l'esordio del suo
afflato poetico, lasciato in particolare libertà a
seguire Asmà e Shadi che da protagonisti della
storia, gradualmente divengono comparse dinanzi
all'avanzare del loro amore, che occupa, quasi
ingombra la scena, come un prepotente primo attore
che non lascia spazio a null'altro, una volta alzato
il sipario della vita, un palcoscenico in cui tutti
siamo chiamati a recitare la nostra parte,
scegliendo di rischiare nel rivestire il ruolo
primario, ovvero di lasciarsi esistere sullo sfondo,
nell'ombra grigia e nebbiosa della vita senza amore.
Non è certamente casuale la scelta di ambientare
questo amore tra i profumi e i suoni dell'Oriente,
se ha un senso ambientare l'Amore, circoscriverlo se
non un tempo, almeno in uno spazio riconoscibile ai
nostri stereotipi culturali, in grado di evocare
immagini e reminescenze sfocate, eppure precise.
Oriente, culla della nostra cultura, del nostro
linguaggio, delle nostre categorie mentali e
semiotiche. Per quanto ormai distante nel tempo e
soffocato dallo spesso substrato della nostra
articolata filosofia, il mondo orientale suscita in
noi un fascino al quale ci è difficile sottrarci,
proprio come non riusciamo a pensare di privarci
della nostra identità profonda.
L'Oriente è il palcoscenico privilegiato ed insieme
primordiale su cui, da un tempo antecedente alla
nostra cognizione di tempo, si eleva l'interrogarsi
dell'uomo sul perché del mondo e della vita, sui
grandi temi etici, religiosi, esistenziali: quegli
stessi che concepiscono la conoscenza in ragione
della salvezza e della liberazione dell'uomo dai
vincoli terreni, quella che consiste nel passaggio
dal samsara¸ la vita ingannevole e imperfetta
di questo mondo, a quello del nirvana, la
Realtà vera, basica, assoluta, quella della sapienza
originaria, pura, fondante.
Questo è lo sfondo, intatto, senza tempo, in cui
pure Asmà e Shadi diventano archetipi degli amanti
di ogni tempo e di ogni luogo, indifferenti allo
spazio e al tempo, liberi da ogni vincolo umano,
eppure così fragili e carnali, eterei, eppure caldi
e appassionati.
Una eraclitea sintesi degli opposti che, attraverso
l'amore, rievoca e ridisegna la legge sottesa al
mondo che risiede nel rapporto di interdipendenza
tra due contrari, che in quanto tali, lottano tra
loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno
l'uno dell'altra, poiché l'uno esiste in virtù
dell'altra.
Ciascuno dei due può essere definito solo per
opposizione, prima, e per sintesi, poi. Non
esisterebbe Shadi, se non dapprima contrapposto e
poi fuso in Asmà, sua antitesi, mancanza e
completamento.
Nello scorrere dei versi, Asmà prende gradualmente
corpo e definizione solo in rapporto a Shadi, e
viceversa: da individualità opposte, antitetiche per
antonomasia, progressivamente le due entità corporee
e spirituali si fondono fino a sancire il passaggio
dallo statico "essere" al dinamico "divenire",
dall'essere non al dover, ma al poter essere,
responsabili ed appagati da una scelta continua che
si espone anche al rischio del non essere, ma
proprio in questo perpetuo volere trova la sua
essenza.
Ritroviamo lo Yin e lo Yang del pensiero cinese, i
due emblemi di ciascuna coppia di opposti che
interagendo e dando vita al nuovo, generano ogni
Realtà e danno il vero accesso all'eternità,
attraverso la loro sintesi: la realtà diventa
"consenso delle parti", armonia dei contrari, ordine
consonante.
É
quasi scontato il ripensare alle pagine del
platonico "Simposio", allorché Eros non viene
descritto da Socrate come un dio, poiché rappresenta
un desiderio di raggiungere la bellezza per effetto,
evidentemente, di una mancanza.
Eros non é per questo perfetto come un dio, ma un
daimon, né divino, né umano o meglio, né solo
divino, né solo umano, che aspira in continua
tensione a realizzare il bene, ovvero l'assoluto,
unico, perfetto, eterno e immutabile.
E
torna in mente la famosissima narrazione di
Aristofane che esprime la sua idea di amore,
raccontando il mito delle metà con cui ci illumina
sul potere di Eros che, a dispetto del fatto di non
essere un dio, è in realtà il più importante amico
degli uomini, l'unico in grado di soccorrerli e
farli guarire dai mali dell'esistenza, soprattutto
l'unico a cui possiamo chiedere felicità.
Asmà e Shadi, allora, non solo individui, ma
archetipi di umanità che è sempre diversa, ma sempre
identica a se stessa, quando ama che è lo stesso che
dire "quando sperimenta la felicità".
Asmà e Shadi che sono pronti all'itinerario magico
della relazione, al viaggio che in realtà è una
partenza solo quando sono realmente consapevoli di
se stessi: Asmà che, si è già spogliata di fronte
allo specchio della verità, donando a Shadi la
propria coscienza femminile.
"Tu mi conosci
e
sai la mia storia, le mie nuvole, la mia nebbia".
Dal canto suo, Shadi è l'uomo che eroicamente ha
liberato la sua anima, scendendo agli inferi del
proprio inconscio, facendo i conti con le proprie
paure, i propri errori, toccando il fondo per
riemergere, pronto a fondersi con l'eroina.
"Restami nell'incantesimo
Preziosa come la luna
Nel cuore dei deserti che ho camminato
Senza cercarti
Ma
come destino ritrovato […]
Il
sogno non teme il tempo
Nel tremore del disincanto".
I
due amanti, le due metà che instancabilmente si
cercano, dopo aver trovato se stessi preparano la
sublime armonia e perfezione della propria unione,
l'unica possibilità di dare scopo alla propria
esistenza, la meta divina dell'autorealizzazione, il
platonico androgino, l'ermetico Rebis che emerge
compositum de compositiis.
Anche Asmà e Shadi, proprio in quanto archetipi
dell'uomo e della donna, sottostanno alle regole e
agli ostacoli dell'amore che, per essere vero e
completo, presuppone che gli amantes
pervengano all'incontro avendo percorso fino allo
stesso grado di maturazione e integrazione lo
sviluppo della propria individualità.
Solo questa isocronia di percorsi garantisce che
Asmà e Shadi, l'Io e il Tu, siano perfettamente
trasparenti l'uno all'altra, in cui l'uno conosce
l'altra senza parole, in una fusione integrale
eterna e divina.
"Ma sei amore, amore mio
Nell'orizzonte di pioggia
Nel colore di terre al sole.
Mai ti perderò
Concedimi il tuo silenzio nel mio silenzio".
Asmà e Shadi archetipi che rappresentano l'uomo e la
donna ideali, ma anche reali, l'uomo e la donna che
non sempre giungono all'incontro con lo stesso
patrimonio derivante dal confronto con la parte
oscura di sé.
E
allora quello stesso silenzio che evoca l'amore vero
è profondo, quello che non ha bisogno di parole, che
è immediato, senza mediatori, né mediazioni,
tangibile, istantaneo, diventa macigno di
incomunicabilità.
Esseri veri, Asmà e Shadi, anche nella sofferenza
della disillusione, nella scoperta che illusorio può
essere l'incontro, se a dettarlo è solo la passione
e non la consapevolezza di sé.
"Se tu mi parli
Ed
io non ti ascolto
Non chiedermi
Perché il mio sorriso
Ha
il sale del silenzio
Domandati soltanto
Se
a scioglierti i capelli
È
stato il vento
Della mia sera
O
l'inganno del deserto.
Non mi ascoltare
Se
non mi senti
Amore mio".
Nessuno di noi può davvero leggere questi versi
senza sentire un nodo alla gola, un'emozione
pervasiva e dolente, la stessa sensazione di
impotenza provata davanti ad una perdita definitiva,
quasi come se volessimo prendere le mani della
persona amata tra le nostre e le avvertissimo
scivolose, incapaci di trattenerla. E del resto,
perché trattenerla?
Pierfranco Bruni con Anna Sturino
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pubblicato il 28 marzo 2013
“Versi della
Crocifissione” di
Nazhim Kalim Dakota Abshu.
Un raccontare inedito tra Giuda,
Pilato, Barabba, Pietro, Gesù e Maria di Magdala
di Pierfranco Bruni
La
Croce prepara la Resurrezione. Nel segno di un
camminare tra i luoghi e nomi della fede. Forse
è proprio nei momenti in cui ho bisogno di
superare la foresta del dubbio e il riparo dalle
tempeste è semplicemente una tenda che, cercando
tra le mie carte sparse, nei cartigli
dimenticati, direbbe D’Annunzio, che trovo o
ritrovo o mi vengono incontro i versi inediti di
un poeta che oramai è parte integrante non solo
dei miei studi mediterranei ma della mia stessa
esistenza.
Questo poeta mi accompagna
e mi segue. Sono io, il più delle volte, a non
seguirlo, a non approfondirlo, a depositarlo
nelle mie tante cartelle sparse tra le stanze
dei miei libri e dei miei studi.
Nazhim Kalim Dakota
Abshu (Tunisi 1900 Nizza 1955). Un poeta
pellegrino e viandante tra le città e i luoghi
di una profonda religiosità. Il poeta della
conversione. O meglio il poeta del Mediterraneo
degli incontri religiosi e culturali.
Ho pubblicato
tanto, comunque, su questo poeta tunisino, di
cultura e religione musulmana e convertitosi al
cristianesimo, ma non abbastanza per renderlo
comprensibile e proiettarlo in questo nostro
tempo di incertezze e di bisogni di certezze.
1900. 1955. un poeta che nell’età piuttosto
matura mi ha “formato”, i cui versi li ho
incontrati per un semplice segno del destino o
del divino.
Su questo poeta ho
“confezionato” conferenze lungo le sponde del
Mediterraneo e tra le città dell’Occidente. Un
poeta sempre sospeso tra l’Oriente e
l’Occidente. Uno dei suoi temi dominanti è stato
l’incontro con Cristo e soprattutto con la
Croce.
Lasciando Tunisi e
il suo mondo musulmano ha incontrato il Cristo
della Croce ma soprattutto il Cristo prima della
Croce con il suo vocabolario di personaggi, di
figure, di luoghi che costiutuiscono una
rappresentazione di una geografia reale ma anche
di una geografia profondamente radicata alla
fede. Queste poesie compongono un paesaggio,
letterariamente lirico, ma spiritualmente dentro
un messaggio che è quello del perdono del Cristo
in Croce.
I versi, tra i
frammenti in mio possesso, hanno un loro titolo
ben definito: “Versi per la crocifissione”. Il
Giuda del tradimento diventa il Giuda perdonato.
Il Pilato del lavaggio delle mani è il Pilato
che continua a far scorrere acqua tra le dita,
il Barabba osannato dalla folla è il Barabba che
comprende come si è giunti alla sua salvezza, il
Pietro del canto del gallo si porta nei suoi
viaggi il costante rimorso di aver rinnegato e
il Cristo di Abshu resta il pellegrino della
salvezza.
È un poeta, Abushu,
che si presenta con le sue metafore. Lo stesso
suo nome è un legame di nomi che hanno richiami
metaforici. Questi versi si legano, potrebbero
essere considerati una appendice della plaquette
pubblicata, dal Centro Studi e Ricerche
“Francesco Grisi”, da me curata, alcuni anni fa
intitolata “La Croce”. Ma hanno delle aggiunte
metafisiche in più. Degli scavi profondamente
spirituali perché Abshu tocca i “protagonisti”
dell’avventura cristiana e li fa parlare in
prima persona.
È come se il poeta
raccogliesse la loro testimonianza attraverso il
loro linguaggio ma anche attraverso la loro
versione e visione che va da Giuda, appunto, a
Pietro e il Gesù che parla in prima persona ha
un suo fascino straordinario perché l’incastro è
tra la parola e lo sguardo. Il volto di Gesù
nello sguardo della parola ha un misterioso
cammino. Il mistero si lega alla speranza e
questa alla salvezza.
Nazhim Kalim Dakota
Abshu resta il poeta del mio camminare tra le
vie dei pellegrinaggi in un incontro in cui
l’amore ha sempre un senso. Resta
fondamentalmente il poeta della rivelante
essenza tra lo sradicamento dell’Occidente e la
profondità spirituale di un Oriente dentro il
quale riconosco l’incontro tra Gerusalemme, la
Mecca e il Tibet.
Ma in Abhsu questo
viaggiare alla ricerca di Cristo ha come punto
di riferimento la fede e l’amore. La
Crocifissione, dunque. Ma ci sono altri versi
inediti che recitano il tempo della Resurrezione
nel vissuto della Passione. Versi che hanno la
profondità della vita e il suono della vita
dentro il cammino della Rivelazione. Il testo di
Maria di Magdala ha una sua arcana metafisica
che intreccia il pensiero alla ricerca delle
verità.
Inediti
“Versi della
Crocifissione” di
Nazhim Kalim
Dakota Abshu
Giuda
Sono ancora a misurare
la corda che ha
sospeso la mia esistenza,
nel pianto del mio
bacio,
a te
mio Gesù,
che hai ridato l’amore
a Maria di Magdala
e la vita, tra le vie
della terra,
a Lazzaro.
Il mio sangue
si è confuso con il
tuo sangue
ma i sacerdoti del
tempio
hanno rivenduto il
campo dell’impiccagione;
sempre per trenta
denari.
Ti ho chiesto perdono
e mi hai offerto la
tua misericordia
con il tuo sguardo.
Io ti ho tradito con
un bacio;
tu mi hai perdonato
con uno sguardo.
Pilato
Avrei potuto non
chiedere l’acqua
e lasciarla scivolare
tra le dita,
ma sfidare, per il tuo
sguardo,
la piazza,
difendendo i rivoli di
sangue
sul viso rigato
dai tradimenti.
C’è stata una voce
che mi ha condotto
a quell’atto
istrionico;
e con un solo gesto
ti ho allontanato,
mio Cristo.
Barabba
Se tu non ci fossi
stato
avrei scontato la mia
condanna,
come Zolota,
nella morte dei senza
tempo,
nella Giudea dei
Romani;
sei giunto
per la mia salvezza;
salvandomi
hai mutato la barbarie
in luce
dentro di me
e nel mio popolo;
ma la folla,
gridando il mio nome,
ha condannato
il figlio di Dio,
e la storia
ha scavato
fossi nei deserti,
ma l’acqua
era rimasta
imprigionata
tra le mani di Pilato.
Pietro
Tre volte il canto del
gallo
e tre volte,
Gesù mio,
ho rinnegato,
come tu
mi aveva
preannunciato.
Non sono degno
della pietra
sulla quale dovrò
costruire la tua parola;
ma dovrò riscattare la
mia colpa
e il mio rimorso
con il cammino
che condurrà i miei
passi
nella città delle
catacombe;
nel tuo nome
la mia parola
ha la pietà del
perdono,
che non merito;
ma ti onorerò
nell’agorà della
speranza
con i segni
della tua croce.
Gesù
In Verità,
e sempre in Verità,
dal deserto,
come custode,
ho bussato
alle porte della
Grazia
per giungere,
nel dono di Dio,
al giorno del sonno di
Getsemani;
con le spine sul mio
capo
ho toccato la terra
del Calvario;
e i chiodi sulla Croce
non hanno stillato
il dolore
nell’urlo del Cielo.
Tutto si è compiuto,
ma non è stato il
tradimento di Giuda
a consegnarmi
alla Croce;
senza la Croce,
io non sarei con voi,
con il mio sguardo,
a recitare
il pellegrinaggio
della Salvezza.
Maria di
Magdala
Hai chiesto di
scagliare la prima pietra,
ma tutti hanno piegato
il capo,
e con lo sguardo da
alchimista sacro,
hai fissato il mio
volto
lacerato dal pianto
e rigato di sangue.
Mi hai chiamato
“donna”,
ed io ho seguito il
tuo cammino
sino ad accompagnarti
nelle ore del Calvario
e lungo la via della
crocifissione.
Con Maria, tua madre,
ho urlato il tuo nome
e nel tuo nome
la pietà
che tu ci hai
consegnato.
Tutto era già scritto?
Ho sofferto e pregato,
e sulla Croce,
tu con la corona di
spine sulla fronde,
ho cercato di parlati
con la misericordia
del tuo amore immenso
nel mio amore infinito
per te.
Ho più volte
allungato e stretto le
braccia,
come se stringessi il
tuo cuore
e i tuoi occhi
nel mio cuore
nei miei occhi
e i tuoi occhi,
nelle tenebre
dell’alba e della notte
non hanno mai perso la
luce.
Ti ho ritrovato
lungo la via della
Resurrezione
e mi hai parlato
con la dolcezza della
pace
ed ho ancora gridato
il tuo nome:
Cristo Gesù Signore è
risorto.
Io Maria di Magdala,
ti sono stata devota
e a te solo
ho consegnato
il mio amore.
Nella foto:
Pierfranco Bruni dopo una sua conferenza su
Nazhim Kalim Dakota Abshu a Santo Domingo
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inizio pagina |
pubblicato il 31 marzo 2013
L’affascinante viaggio del silenzio dello sciamano nel
recente
“Come un
volo d’aquila” di Pierfranco Bruni
di
Angiolina Nantas
Il
poeta e lo scrittore si incontrano attraverso un linguaggio
che ha una forte dimensione magico – onirica e la parola,
nel suo raccontare, incide vistosamente negli scavi
dell’esistenza.
Nel recente libro (una
importante plaquette che porta l’autore su una strada
affascinante, non nuova per lo stesso autore, ricca di
simboli e di visioni in cui il mistero domina) di Pierfranco
Bruni dal titolo “Come un volo d’aquila” (Nemapress editore,
pp. 56, euro 10) si respira non solo l’alchimia di un
paesaggio in cui si misura un raccordo tra culture e modelli
religiosi ma si vive una atmosfera dove ogni traccia di
realtà e di realismo viene completamente allontanata.
È come se Pierfranco Bruni
si giocasse la sua partita in un colloqui stretto con uno
sciamano. Due racconti, 21 poesie, due “preghiere” di Aquila
di Mare e Aquila di Vento, nelle quali la lezione sciamanica
è fortemente visibile, un Preludio e un Epilogo dentro i
quali la testimonianza buddista è vistosamente presente) per
un viaggio in cui la figura dello sciamano riporta la voce
del padre.
Il padre che non c’è più è
il riferimento non tanto di un dolore che strazia ma di un
tempo smarrito, o meglio di un tempo che ha perso le
lancette dell’orologio per farsi spazio sempre fuori dagli
schemi della storia. Compaiono i simboli e sono elementi
chiarificatori del viaggio di Pierfranco Bruni. Dall’aquila
stessa alla tartarughe con le tredici lune, dalla luna
all’insistere sul concetto di pazienza. Molto forte è la
frase del Dalai Lama che Bruni pone interpretazione del suo
viaggio, ovvero la pazienza che ci allontana dalla
disperazione.
Il sottotitolo potrebbe
leggersi come un ulteriore titolo perché se l’aquila è un
simbolo della cultura indiana sciamanica ancora di più lo è
il guerriero che rimanda ad una lettura prevalentemente
castanediana, (Carlos Castaneda) alla quale Bruni ha
dedicato molti studi e molte riflessioni soprattutto negli
ultimi anni inserendolo in un percorso che va da Eliade alla
Zambrano, da Jung al suo caro Pavese, da Zolla a Papini, da
Coomaraswamw ad Horia. Dunque, il sottotitolo: “Mio padre mi
diceva di amare con la passione del guerriero”.
Titolo e sottotitolo sono
dentro questo viaggio sciamanico di Bruni e le due
“preghiere”, astutamente o abusivamente li abbiamo definite
tali, sono la traccia singolare di un personaggio, qual è
Pierfranco Bruni, che propone l’interfaccia del poeta e
dello scrittore.
Le 21 poesie hanno una
simbologia. Parlando con Bruni abbiamo cercato di capire i
segni che si trasmettono in questa plaquette. Perché 21
poesie? Perché il 21 è il giorno della morte del padre e
anteponendo i numeri, ovvero 12, è il mese in cui il padre
si è messo in viaggio verso ciò che gli sciamani definiscono
silenzio, volando, in solitudine, come l’aquila.
Comunque tutta la plaquette
è ricca di simbologie e anche elementi rituali. Come le
tartarughe e le tredici lune. Ritorna il suo mondo
orientale, soprattutto quando nel secondo racconto
sottolinea le radici del padre. Ma il padre può essere un
pretesto per una manifestazione esistenziale e archetipica
che va oltre la letteratura stessa?
Il padre c’è. L’assenza del
padre è ben visibile. Ma tutto può diventare pretesto
all’interno di un processo in cui scrittura e pensiero sono
diventati elementi plastici di un raccontare, attraverso il
mito e la metafisica, un uomo dentro il dolore, la pazienza,
la preghiera, il distacco, la lontananza.
La figura dello sciamano è
ormai una costante in Bruni ma ci sono i richiami ad un
incrocio tra il mondo cristiano che si ferma alla Croce e il
mondo islamico in cui la ritualità delle danze è sì quella
degli Indiani ma anche quella dei sufi nella circolarità del
volo.
Un Bruni altro rispetto ai
precedenti scritti? C’è una continuità. Ciò lo si avverte
subito. Non una rottura con il passato. Ma si avverte una
coerenza in un progetto che è quello dell’antistoricità e
dell’antirealismo della letteratura e della prevalenza dei
simboli, degli archetipi, dei miti. Non bisogna dimenticare
che nel 2004 Bruni pubblicando una antologia delle sue
poesie (1974 – 2004) la si intitolava “Fuoco di lune”. Un
titolo fortemente intriso di archetipi nell’incontro tra
esistenze occidentali e orientali.
“Come un volo d’aquila” è
un testo importante. E resterà un modello significativo
nella bibliografia di Pierfranco Bruni. Il guerriero – poeta
e scrittore è un guerriero di luce dentro quelle forme di
una alchimia che non cerca spiegazioni ma vive completamente
tra le pagine del mistero.
Bruni pone nel retro
copertina dei versi di Aquila di Vento nei quali è inciso:
“Lo sciamano mi ha parlato/ed io mi sono posto in
ascolto/della sorgente dell’orizzonte”. Simboli, archetipi,
alchimie dentro il dolore e la magia della vita.
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