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EDITORIALI
Letteratura
pag. 4
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato il 28 maggio 2009
SENECA IL FILOSOFO SULLA DIFENSIVA
ALLA RICERCA DI PAOLO
di Pierfranco Bruni
Nel tempo di Nerone (nato nel 37 e morto nel 68)
si incrociano le vite di Seneca e San Paolo.
Seneca è il sapiente della difensiva ma che non
ha mai osteggiato il viaggio della cristianità.
Non per questioni di virtù ma perché ha sempre
interpretato le parole dei cristiani con lo
spirito della comprensione verso quella ricerca
della verità. Non di un verità ma della verità.
Questo è uno dei nodi centrali del dialogo che
Seneca ha voluta intrattenere con Paolo.
Mi sembra un fatto di grande importanza
soprattutto se si rileggono lo scambio di
missive apocrife tra i due. Lettere scritte
sotto il Regno di Nerone. Non si può prescindere
storicamente da questa condizione ma non si può
neppure dimenticare l’avvicinamento che cercò
Seneca nel condurre le parole di Paolo dentro il
senato romano.
Pur essendo state definite Lettere Apocrife,
quelle di Seneca a Paolo e viceversa, hanno una
chiave di lettura significativa perché impongono
realmente una riflessione non solo sulla
religiosità ma sulla fede cristiana. Se poi
Seneca si sia avvicinato a Paolo perché spinto
dal bisogno di verità cristiana è un altro
discorso ma resta il fatto che gli scritti di
Seneca hanno sempre un particolare di attenzione
verso la parola della fede. È un sapiente che
non solo conosce i limiti e vive nella
mediazione ma fa della tolleranza, questo sì,
una virtù.
I suoi scritti già molto prima delle Lettere
apocrife manifestano ciò. Penso ad un piccolo
scritto dal titolo “La provvidenza”. Seneca
scava nei contenuti di Dio e affronta il
problema del male e dei giusti. Solo i giusti
possono comprendere il segnale del male. Dirà
sostanzialmente. Seneca sostiene che Dio mette
alla prova. Questo mettere alla prova non è più
un concetto laico ma entra nella sfera del
divino e del misterioso.
Il cammino bisogna condurlo a termine anche a
costo di cadere. Sostiene ancora Seneca. Un
segnale che diventa forse un profezia.
Una filosofa che si è posta la questione del
tempo cristiano in Seneca è stata Maria Zambrano
e pone alcune attente riflessioni. Il senso del
viaggio, del tempo, la “misura” della memoria,
la nostalgia, la capacità di comprendere il
sentimento dell’esilio (nella letteratura e
nella filosofia), il rapporto tra destino, mito
e sacro, la dimensione offerta dell’eresia o il
bisogno di capire l’altro oltre la religiosità
non sono altro che tracciati che fanno della
filosofia di Marìa Zambrano una scrittura
nell’intreccio della metafisica dell’anima
attraverso un “codice” dell’essere che è dettato
dal Ritorno alla Tradizione.
Si confronta a tutto tondo, la Zambrano, con le
letterature della distanza, dei distacchi ma
soprattutto incide un solco nelle parole delle
malinconie.
I suoi studi sono nel vento dei sogni e nel
tempo della riconquista delle radici. Spagnola,
nata nel 1904 e morta nel 1991, ha vissuto il
suo tempo di esilio con le immagini delle
memorie e in questo suo “mirare” tra i paesi
delle sconfitte e delle eredità è riuscita a
trovare nella figura e nell’opera di Seneca una
di quelle chiavi di lettura con le quali ha
stabilito un dialogo non solo culturale ma
soprattutto esistenziale.
Il suo Seneca, (Maria Zambrano, “Seneca”, Bruno
Mondadori,) è quello dell’esilio in Corsica, è
quello della solitudine, è quello della grecità
che mutua il sentiero greco – romano in
mediterraneità. È il Seneca che si incontra con
Paolo e non si divede nella spaziatura tra
cultura pagana e cultura cristiana. Il suo
lavoro su Seneca ci riporta ad una
interpretazione che va oltre le righe della
filosofia stessa.
Per Maria Zambrano (uno dei pochi filosofi che
ha riletto in modo comparativo il “personaggio”
e l’antifiloso in Seneca) Seneca “non è un
filosofo, ed è il filosofo, dicono, a dover
essere maturo per la morte, e quasi intriso di
essa, come scrivono Platone e Plotino. Non è
neppure un mistico come il sapiente orientale,
che cerca in vita di annullare la propria
nascita, di nascere e poi di cancellare
l’agitazione della nascita. È un sapiente sulla
difensiva”.
Il punto di discussione che pone la Zambrano
ruota proprio intorno al tema del tempo che
diventa il tema della vita e della morte in un
radicarsi nel mosaico del viaggio – ricerca.
Anche il suo incontro con Paolo nella temperie
neroniana si fa “difensiva”. Nelle 14 lettere,
considerate apocrife, tra Seneca e Paolo si
sottolinea, anche dal punto di vista della
“indulgenza” filosofica cristiana o
meta-cristiana da parte dello stesso Seneca, una
letteratura della difensiva che offre allo
spazio – tempo la forza di dialogare sulla
storia e persino sugli orizzonti della fede.
Nella prima Lettera apocrifa di Seneca a Paolo
si legge: “Voglio anche che tu sappia che con la
lettura dei tuoi scritti, cioè di alcune tra le
molte lettere, da te inviate a città o
capoluoghi di provincia…ci siamo profondamente
ricreati…”. È Seneca che cerca nelle parole di
Paolo non una consolazione ma una via.
Ma è anche Paolo che si appropria della parola
di Seneca per dedurre la parola del sapiente che
viaggia lungo la strada della difensiva,
soprattutto quando Seneca annuncia a Paolo di
aver parlato e cercato di spiegare a Nerone del
linguaggio usato nelle Lettere paoline. Ma nelle
Lettere apocrife tra Seneca e Paolo si leggono
alcuni incisi straordinari.
Seneca scrive a Paolo: “…sei il vertice e la
vetta di tutti i più alti monti, non vuoi dunque
che mi rallegri se io sono così vicino a te, da
essere considerato un altro te stesso?”. E poi
più avanti: “Nelle tue lettere il mio posto è
anche il tuo: magari potessi considerare come
mia la tua posizione!” è Seneca nella XII
Lettera a Paolo.
Mentre Paolo nella XIV Lettera risponderà:
“…devi evitare le pratiche religiose dei Pagani
e dei Giudei e ti farai nuovo testimone di Gesù
Cristo, annunziando in forma elevata la perfetta
sapienza, che appena raggiunta, farai penetrare
nell’animo del sovrano terreno, dei membri della
sua corte e dei suoi amici fidati…”.
Una chiave di lettura che potrebbe riaprire un
discorso di estremo interesse non solo religioso
in sé ma anche culturale tra la teologia di
Paolo e il cammino verso una sapienza verità di
Seneca.
Ma cosa fa Seneca, secondo Maria Zambrano? La
filosofa spagnola (conterranea dello stesso
Seneca) scrive: “…il filosofo stoico non è un
filosofo che è diventato tale per amore della
sapienza, per ansia di verità, ma che è andato
alla ricerca della verità come rimedio per la
sua vita”.
Quella ricerca che è stata considerata sempre un
viaggio sia dentro il destino sia dentro la
possibilità di leggere il messaggio cristiano.
Una duplice valenza che ha posto a Seneca il
problema sia metafisico sia dell’anima. Paolo ha
avuto una importante presenza e la ha avuta
proprio nel momento in cui Seneca si appresta a
morire. Quel pensare alla morte si dividono,
forse, i ritorni.
Per Seneca, come ci dice la Zambrano, la morte
fu “un tragico fallimento, il fallimento
dell’intellettuale di fronte al potere”. Per
Paolo fu la speranza, il tempo dell’incontro
cristiano, con Cristo. Seneca nel morire ha
perso Cristo. Ha perso, forse, quella
“Paternità” alla quale fa riferimento San Paolo
nella Lettera ai Galati.
Ma è nel concetto di sopportazione e di serenità
che il linguaggio di Seneca a Paolo e viceversa
trova il segno tangibile di un incontro che è
volto a “combattere la buona battaglia” con le
vele spiegate.
Paolo nella VI lettera apocrifa dice a Seneca:
“Dobbiamo portare rispetto a tutti, tanto più
quando cercano pretesti per sfogare il loro
sdegno”. Un messaggio proprio all’insegna della
cristianità del viaggio. Seneca saprà cogliere
questo invito. Con la sua morte.
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pubblicato il 24 maggio 2009
Taranto sulle rive dei poeti del
Novecento
Pierri, Carrieri, Spagnoletti,
Fornaro
di
Marilena Cavallo
Sulle rive della poesia ionica di Taranto parlando
di Novecento. Ci sono sviluppi tematici e profili
letterari importanti sia dal punto di vista
geografico – poetico che umano. Taranto è dentro i
profili della poesia italiana del Novecento. C’è da
dire che la poesia contemporanea trova nella
dimensione dei luoghi una tensione lirica che
diventa fondamentale per una contestualizzazione di
una geografia che non è soltanto una visione del
sentimento dell'anima e dell'essere ma di un
sentimento dell'appartenenza.
Il luogo come territorio, il paese o la città come
rapporto fisico con l'esistente, le strade come
metafora di un tracciato che indica un viaggio. Il
tutto in un intreccio in cui il suono della memoria
incontra il presente. Gli echi del tempo sono
filtrati dalla realtà e la parola diventa un
linguaggio ovattato da simboli che recitano il
quotidiano che è custodito nel sempre. Poeti solari,
nella affermazione dei luoghi.
La poesia, ma la letteratura in senso più generale,
trova nelle immagini un codice che è semantico
certamente ma è sostanzialmente destoricizzato
perché vive il luogo, ovvero il territorio, come
partecipazione al tempo della memoria. un percorso
come testimonianza.
Allora. Michele Pierri (Napoli 1899 - Taranto 1988),
Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Milano 1982),
Giacinto Spagnoletti (Taranto 1920 - Roma 2003),
Cosimo Fornaro (Taranto 1928 - 1992), sono un
percorso in una poesia che ha tratteggiato quei
luoghi della Magna Grecia che ha trovato in una
città come Taranto l'incantesimo della magia delle
radici. Il cuore del Mediterraneo che pulsa tra il
mare e la ricerca delle radici.
Quattro poeti che segnano, nella temperie
contemporanea, pur in una diversità generazionale,
una ridefinizione di un rapporto tra luogo
dell'essere, luogo dell'esistere, luogo delle
radici, luogo della partenza. Il territorio per
questi poeti è una dimensione della spiritualità e
il linguaggio della poesia costituisce l'ancoraggio
a delle metafore che superano il tempo quotidiano.
Un tempo fatto di allegorie.
C'è un legame costante tra tempo e territorio e il
tempo resta un sillabario che proviene da una
straordinaria impaginazione dell'infanzia.
Un'infanzia vissuta nel luogo e il dialogo tra luogo
e poesia diventa un raccordo dell'immaginazione che
trova nel ricordo una chiave di espressione
esistenziale. Immaginazione su un tempo e su un
luogo e non finzione e non mascheramento. Il senso
del ritorno è un sentimento.
Pierri pur non essendo nato a Taranto in questa
città si ritrova e rilegge i segmenti di una civiltà
che lo portano a determinare una scelta che ha
rimembranze remote, dipinte in un quotidiano vivere
perché del luogo, di questo luogo, conosce gli
intagli e i nascosti anditi della sua storia. Un
poeta del sublime che ben ha saputo raccogliersi in
una geografia dell'essere. Una geografia che si
incastra nella memoria.
Carrieri ha recitato il mare nell'infinito destino
dei viaggiatori che cercano un approdo. Il mare
della sua infanzia è nell'indefinibile desiderio di
raccogliere i cocci di una stagione di tempo che
vive dentro l'anima. "L'infanzia/Del
mare/Mescolai/Alla mia". L'intercalare espressivo è
un salto rievocativo che non smarrisce, comunque, le
tracce del mito che danno un senso indelebile alla
storia stessa di un luogo.
Giacinto Spagnoletti ha decodificato atmosfere e
stagioni, paesaggi e passaggi di una città troppo
legata ai suoi antichi radicamenti. Così. "Mi
parevano così lunghi quei tramonti/soffocati dal
gorgo delle rondini/e dagli addii delle
campane./Tardi s'accendevano i fanali,/le acetilene
scoprivano i meloni e le cozze/all'occhio dei
passanti". La luce e le stagioni in un Mediterraneo
che è ricordo d'infanzia.
Nella ragnatela poetica di Cosimo Fornaro ci sono
lampi in cui il tremore dell'infanzia è una
sottolineatura lirico - esistenziale di estremo
appagamento. "Nella città il sole si coglie a
spigoli o a strisce tra le file dei palazzi o gli
angoli delle strade. Nei paesi no. Non lo si vede
perché splende uniforme con una violenza che
ossessiona, specie in estate".
Il territorio è un'espressione del tempo - memoria
che si articola in un intreccio parossistico alla
cui base c'è l'incontro reale e metaforico con la
dimensione dell'appartenenza. Il territorio è
appartenenza e nella poesia si legge come un modello
rappresentativo singolare. Ma è sul territorio che i
poeti si ritrovano. Territorio dell'anima e della
storia.
Poeti che hanno delineato non dei messaggi ma hanno
definito, appunto, delle immagini. Immagini che
durano proprio perché sono state trattate attraverso
il linguaggio che trasmette. Un altro autore che
entra come riferimento tra i destini delle metafore
che raccontano un territorio come sistema di
appartenenza ad un luogo della geografia e
dell'essere (per restare chiaramente all'identità di
Taranto come testimonianza del presente e
spiritualità della grecità) è senza alcun dubbio
Giulio Cesare Viola (Taranto 1886 - Positano 1958).
Uno scavo nella coscienza di un luogo ma anche una
riaffermazione di una identità che ci porta a quel
mondo classico che è presente in tutto gli altri
poeti citati.
Il luogo è appartenenza perché è radicamento. Una
esperienza che non è sociologica ma letteraria. Il
luogo per un poeta non giunge ad altre affermazioni
se non attraverso ragioni che non siano poetiche.
Perché è nella poesia che la geografia del
territorio si fa essenza lirica. Cogliere nella
parola questa essenza lirica è dare un significato
ai valori di una identità. E' il luogo che manifesta
i codici identitari. Luoghi che si intrecciano e che
si parlano nella meraviglia di una consapevolezza.
I
poeti si portano dentro le allegorie dei luoghi, i
quali non vengono mai sepolti ma recitati sulle onde
di un vento che raccoglie nostalgie. Pierri per una
sua esperienza tra testimonianze di città: Napoli e
Taranto. Carrieri tra Taranto e Milano. Spagnoletti
tra Taranto e Roma. Fornaro ha viaggiato nella sua
Taranto recuperando il lirismo di quei luoghi che
sono metafora dell'indefinibile. Poeti della
nostalgia.
I
poeti sono, in fondo, i trasmettitori di relazioni
simboliche che resistono all'urto della storia. Non
una operazione educativa ma di scavo e conoscenza.
D'altronde un grande poeta contemporaneo ha saputo
recitare il passo e le voci di Leonida:
"Molto
lontano dormo dalla terra
d'Italia e dalla mia patria, Taranto.
Questo
è per me più amaro della morte.
Tale è
la vana vita d'ogni nomade.
Ma le
muse mi amarono, e per tutte
le mie
sventure mi diedero in cambio
a
dolcezza del miele.
l nome
di Leonida non è morto.
I doni
delle Muse lo tramandano
per
ogni tempo".
Per questi poeti le partenze non sono state delle
fughe e neppure dei tradimenti. Forse degli
abbandoni. E ritornare è riappropriarsi di un tempo.
Un tempo e un luogo. Tempo e luogo sono mediazione
in una poesia che è dimensione del sacro. In fondo i
luoghi nel tempo sono disegni in una memoria che è
sacralità. La cultura del territorio è un luogo del
mito che chiede al sacro di esprimersi. La poesia è
in questo meraviglioso incontro che recita memoria e
mistero. Proprio sulle rive della Magna Grecia la
poesia del Novecento tarantino offre chiavi di
lettura di straordinaria importanza che restano come
pietre miliari per un confronto con tutta la
letteratura del Novecento italiano.
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pubblicato il 24 maggio 2009
Dalla Calabria a Taranto nella Magna Grecia di
George Gissing.
Ripercorrendo “Sulle rive dello Ionio”
come Mediterraneo delle contaminazioni
di Pierfranco Bruni
La Magna Grecia dei viaggiatori. È un tema
affascinante e anche misterioso. Affascinante perché
tocca nel de dentro alcuni particolari che per noi
“viaggiatori” o “stanziali” italiani non riusciamo a
catturare e tutto ciò che loro riescono a percepire
ci sembra (e forse lo è) insodabile ma tale non è.
Misterioso perché è il mistero che ci trasmettono a
renderci la nostra terra più vicina al nostro
destino e il senso del mistero diventa sempre più
impenetrabile ma lo è perché è già dentro di noi
quel senso di mistero al quale il più delle volte
non diamo importanza.
La Magna Grecia dei viaggiatori è fatta di
tante piccole realtà che recitano civiltà e culture
greche e romane. Ma la grecità è proprio il segno
del nostro essere. Tra i viaggiatori di fine
Ottocento George Gissing ha tracciato un raccordo
tra la sapienza e la realtà nel presente (nel suo
presente certamente). Ha raccontato, viaggiando,
storie di una Magna Grecia non unica. Non una sola
Magna Grecia. Ma più di una storia della Magna
Grecia chiaramente legata ai luoghi, ai territori,
alle geografie.
Da Napoli alla Calabria e da Taranto
all’interno dell’intreccio tra Ionio e Tirreno. La
Calabria di Crotone, di Catanzaro, di Reggio è uno
spaccato indelebile. Indimenticabile. Quella
Crottone della colonna di Pitagora dentro il mare
ionio che è sempre più la testimonianza di un
Mediterraneo infinito non come realtà geografica ma
come luogo di una antica memoria. Così tutta la
Calabria.
Il viaggio di Gissing, in fondo, non è un
viaggio alla ricerca della Magna Grecia, sulle rive
dello ionio, ma è un viaggio nella saggezza del
Mediterraneo. Mi sembrano molto incisive le pagine e
le meditazioni su Taranto. Quella Taranto che si
lega a Sibari, e prima a Metaponto o a Heraclea. Un
viaggio al centro, appunto di un destino che è
quello della mediterraneità.
Taranto come chiave di lettura con la Calabria
nel cuore. George Gissing giungendo a Taranto
alloggia in un albergo che ha una vista sul porto.
Giunge nella città dei due mari con l’intenzione di
fermarsi per un paio di settimane. La prima immagine
è quella di una città non ancora moderna o
ammodernatasi in modo disarticolato e pregna di una
atavica malinconia. In una sua prima annotazione si
legge: “…grandi costruzioni di una pietra bianco
giallastro tra le peggiori che l’architettura
moderna possa concepire, sorgono là dove i Fenici, i
Greci e i Romani costruivano nello stile di un
nobile dei loro tempi”.
Taranto non come cartolina ma come vissuto,
come impatto immediato e mediatico, forse,
all’interno di quegli intagli e di quei luoghi non
luoghi che, chiaramente, la rendono più viva e più
vera. Anche Crotone non è mai una foto scattata
nell’immediato. Crotone è nei personaggi oltre che
nei luoghi. Quella Crotone che assorbe civiltà,
storie e misteri.
Taranto, Gissing, inizialmente,la vive come un
immaginario. Spesso se la costruisce nella mente.
Visita il territorio. Passeggia in quelle tratture o
in quelle mulattiere di mare e vi scava ricordi e
memorie. Rincorre il Galeso, dove si troverà? Una
volta trovato non gli dice nulla anzi si chiederà
perché Orazio lo ha amato tanto. Ma poi la rilegge
nella sua storia, la riscopre, la incastona in
quella sua spiritualità inglese che ha abbandonato
per far spazio ad una classicità Mediterranea con la
quale avvierà una indagine che è, soprattutto,
esistenziale e non mancheranno appunti che
risulteranno di grande importanza non solo per i
viaggiatori stranieri ma per gli stessi italiani.
Scriveva George Gissing nel suo “Sulle rive
dello Ionio”, la cui prima edizione risale al 1901,
una pagina significativa di una Taranto fine
Ottocento e poneva all’attenzione degli aspetti e
degli elementi di natura sia archeologica che
antropologica. Gissing andò a Taranto né come
viaggiatore né come pellegrino ma con l’obiettivo di
riscoprire il senso di una eredità che è quella
grecoromana.
Gissing a Taranto, come attraversando la
grecità soffusa e immensa della Calabria, non è il
viaggiatore inglese giunto con lo scopo di lasciarsi
ammagliare dal fascino della Magna Grecia perduta e
rintracciabile soltanto in qualche pezzo
archeologico o nei simboli di un mare che porta echi
di Mediterraneo. Ma voleva capire il sentimento di
una città attraverso quella pagina che pone insieme
il dialetto di una città e il senso di una
appartenenza nella misura o nella dilatazione del
tempo.
Infatti, egli scrive : “ Anche se Taranto fa
ogni sforzo per adeguarsi alla modernità e al
progresso, c’è una forza ritardatrice che per ora
non accenna a diminuire: la profonda superstizione
della gente”. Quindi, individua immediatamente un
elemento che va oltre lo spirito del viaggiatore
perché lo scavo che si impone è quello di una
visione prettamente etno-antropologica che risale a
i suoi studi giovanili e quindi ad un tempo che è
stata la sua giovinezza.
Il suo viaggio in Magna Grecia, quella Magna
Grecia greca e romana successivamente, diventa così,
un viaggio alla ricerca di se stesso e di viaggi in
Italia ne compie tre. Il suo cercare e il suo
ricercarsi nella grecità soffusa gli fa annotare :
“I suoni della Grecia e dell’Italia mi attirano come
nessuno altro; mi riportano alla mia giovinezza”. Ed
è la giovinezza grecoromana che si agita nella sua
formazione e che troviamo in molti altri suoi
scritti sia narrativi che saggistici.
Da Taranto a Crotone da Crotone a Reggio
Calabria e da qui a Napoli: riferimenti che
sottolineano ancora oggi una forte attualità perché
questa sua letteratura di viaggio si impone
necessariamente come letteratura-viaggio, in quanto
riesce a distinguere la diversità dei luoghi e ad
affermare un concetto molto forte che è quello di un
Mediterraneo grecoromano che si confronta con gli
altri mediterranei. Non c’è un Mediterraneo unico ma
insistono diversi mediterranei che si mostrano con
le loro differenze. Così come ci sono diverse realtà
della Magna Grecia. La linea o il semi cerchio che
va dal Golfo di Taranto a Crotone è il fascino del
mistero che lega Archita a Pitagora e viceversa.
La geografia –luogo di quella che fu la Magna
Grecia e che storicamente e politicamente divenne
Regno di Napoli non può che identificarsi
unicamente, secondo Gissing, nel Mediterraneo
grecizzato e latinizzato dentro il quale
archeologicamente e storicamente le città come
Taranto Sibari Crotone Reggio Calabria hanno
giocato un ruolo di primaria importanza anche dal
punto di vista commerciale ma più profondamente
culturale.
Questo non significa che bisogna trascurare le
contaminazioni con gli altri mediterranei e anche
all’interno della stessa Magna Grecia. Taranto è
stata Magna Grecia ma anche nell’Ottocento si è
dovuta confrontare con quelle contaminazioni e con
quei modelli di meticciato che “invadevano” tutto
l’arco ionico.
Taranto, è definita da Gissing, città dei
pescatori tanto che nel suo testo afferma: “Questi
pescatori sono i primitivi di Taranto; chi può dire
per quanti secoli hanno tirato in secca le loro reti
sulla scogliera? Quando Platone visitò la scuola di
Taras, vide le stesse figure dalle gambe brune con
un abito quasi identico, intente al loro racconto
marino”.
Gissing, comunque, non è un
sognatore-scrittore che viaggia. Anche viaggiando
riesce a cogliere la frammentarietà di un paesaggio
attraverso il linguaggio della letteratura e il
mosaico è sempre quello antropologico e gli offre la
capacità di leggere con molta sincerità le pagine
nascoste nei luoghi. Parlando dell’arsenale ebbe a
scrivere : “ …se almeno si potesse credere che
l’arsenale significasse davvero u bene per
l’Italia…” .
Ma spesso ritornava al mito grecoromano con
una cesellatura racchiusa in questo scatto :
“Socchiudendo gli occhi si poteva immaginare la vera
Tarentum”. Gissing ci riporta chiaramente ad uno
scrittore viaggiatore italiano che è Carlo Belli ma
sono due epoche e forse due modelli culturali oltre
ad essere due spaccati di una stessa geografia visti
da un inglese e da un italiano di Rovereto.
Comunque, Taranto è una chiave di lettura per
questi scrittori che hanno lasciato un segno
tangibile di una Magna Grecia in una età dove non
c’è più la Grecia arcaica ma c’è una eredità che è
dentro quel “destino” che è il Mediterraneo tra i
luoghi che si stringono tra Taranto, Sibari,
Crotone, Locri, Reggio.
Per Gissing Taranto è stato destino nella
Magna Grecia e in quella sua epoca (nato nel 1857 e
morto nel 1905) tardo romantica resterà destino
tanto da fargli dire che volgendo il suo pensiero
all’Italia, a quell’Italia della Magna Grecia,
ritornava spesso alle sue origini e alla sua
formazione culturale.
Questo destino di Taranto si intreccia con
quello di Sibari distrutta nel 510 dai crotniati e
della stessa Crotone e poi di Reggio. Una Magna
Grecia definita che, tra le parole e le pagine di
Gissing diventa infinita e forse indefinibile. Ma
Gissing ci ha regalato immagini indimenticabili. Un
viaggiatore tra le pieghe dei luoghi e dentro le
letterature. In fondo la Magna Grecia resta non solo
un territorio ma una cultura delle contaminazioni
all’interno del Mediterraneo.
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pubblicato il 21 maggio 2009
Difesa della lingua italiana e “revisione”
della normativa sulla tutela delle minoranze
linguistiche in Italia a dieci anni dalla
emanazione
Tra le lingue e le culture storiche che
occorre tutelare bisogna necessariamente
inserire anche quelle Armene, Rom e Sinti
di Pierfranco Bruni
Occorre difendere la lingua italiana sia dal
punto di vista culturale che giuridico. C’è un
dibattito in corso che interessa la tutela della
lingua italiana. Un dibattito che parte da molto
lontano. Occorre ristabilire una dialettica sia
giuridica che culturale sulla modifica
dell’Articolo 12 della costituzione. In un tale
contesto credo che sia necessario rivedere e
quindi riconsiderare anche la Legge (la 482/99)
sulla tutela delle minoranze etnico –
linguistiche storiche.
Una Legge che va rivista nella sua struttura, va
riconsiderata alla luce di un decennio che ha
visto diverse trasformazioni nel campo delle
minoranze linguistiche in Italia e andrebbe
riscritta. O meglio va ricontestualizzata. Ci
sono alcuni motivi di fondo.
Prima di tutto (ovvero primo elemento) è
necessario parlare di “presenze” minoritarie e
non di minoranze vere e proprie. Il discorso è
sottile ma qualifica e diversifica la questione
sia politica che giuridica e culturale.
Secondo elemento non può interessare soltanto la
lingua e le culture o la Pubblica Istruzione ma
deve creare la possibilità di comparazioni altre
e questo nonostante il successivo Regolamento
non si evince con chiarezza.
Terzo elemento: bisogna alleggerirla e aprirla
ad un confronto con le identità nazionali. Non
la si può circoscrivere ad una tutela e ad una
promozione della tutela soltanto delle minoranze
non tenendo conto che queste minoranze sono
“presenze” nel contesto territoriale italiano,
regionale e provinciale. Contesto che ha già un
suo dialetto.
Quarto elemento: le 12 minoranze linguistiche di
cui parla la normativa sono ampiamente superate
anche se ci si riferisce ai livelli storici. Un
solo esempio: è necessario inserire nella tutela
la lingua e la cultura armena come è da
riconsiderare le culture e le lingue dei rom e
dei sinti presenti sul territorio italiano.
Quinto elemento: non può essere considerata come
un serbatoio dove attingere economie per una
tutela che, a volte, è abbastanza mediocre dal
punto di vista della proposta culturale.
Quindi occorre rivederla nella sua struttura e
nella sua complessità. Gli stessi Sportelli
Linguistici, nei territori interessati,
dovrebbero avere una funzione di forte
incisività culturale e invece sono molto
limitati.
D’altronde il dibattito sulla modifica
dell’Articolo 12 va a cambiare logicamente la
Legge in questione e perciò occorre
necessariamente ricontestualizzare la tutela
delle minoranze storiche sulla base della difesa
della lingua italiana e dell’identità italiana.
Una riflessione di altro tipo, comunque, va
rivolta a questa normativa sulla base di alcuni
principi.
La presenza delle minoranze etnico-linguistiche
in Italia, riconosciute come tali, va
considerata almeno secondo tre aspetti.
Il primo aspetto è, certamente, storico
in quanto occorre
capire e analizzare il rapporto tra la loro
provenienza e la contestualità territoriale
nella quale le stesse minoranze si sono
stanziate. In tale aspetto rientra certamente
una meditazione e una valutazione delle
influenze che si sono verificate nel momento in
cui le minoranze si sono insediate all’interno
dello stesso territorio italiano e all’interno
di un particolare assetto geografico. Perché un
loro insediamento ha contribuito a creare una
rete estesa di legami e di rapporti con le
popolazioni già esistenti sul territorio e nelle
strette vicinanza e quindi essendo state
popolazioni aggiuntive al territorio si è
verificato un incontro tra storia, modelli di
civiltà e tra assetti territoriali stessi.
Proprio per questo è necessario approfondire
quelle valenze storiche che nel corso dei secoli
hanno portato alla luce modelli di identità.
Il secondo aspetto è, chiaramente, quello che
riguarda gli elementi giuridici. In realtà una
minoranza linguistica per resistere su un
determinato territorio o all’interno dell’intero
Paese Italia ha necessità di essere tutelata
grazie a precise normative che devono garantire
la salvaguardia della loro presenza attraverso
apposite leggi stabilite sia a livello nazionale
sia a livello regionale ovvero locale. Su questo
tema si sono sviluppati diversi dibattiti ma
resta fondamentale ciò che stabilisce la
Costituzione della Repubblica Italiana. O meglio
occorre far riferimento costantemente
all’articolo 6 della Costituzione nel quale si
sottolinea : “La Repubblica tutela con apposite
norme le minoranze linguistiche”.
Eravamo nel 1948, da
allora la discussione sia giuridica,
istituzionale e parlamentare è stata abbastanza
articolata e vasta. Proprio partendo
dall’articolo 6 alcune regioni nelle quali
ricadono le presenze minoritarie si sono sentite
in dovere di proporre e attuare delle normative
e delle leggi in grado di tutelare e promuovere
le realtà etnico-linguistiche ricadenti,
certamente, nel territorio di competenza. Sulla
scorta di una discussione che è continuata per
anni soltanto nel 1999 è stata promulgata una
legge che sancisce “Norme in materia di tutela
delle minoranze linguistiche storiche”.
La legge in questione è del 15 dicembre 1999 n.
482 ed è stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n.297 del 20 dicembre 1999, il cui
regolamento di attuazione è andato in vigore il
28 settembre 2001.
In questa legge si sancisce come recita
l’articolo 2 : “In attuazione dell’articolo 6
della Costituzione e in armonia con i principi
generali stabiliti dagli organismi europei e
internazionali la Repubblica tutela la lingua e
la cultura delle popolazioni albanesi, catalane,
germaniche, greche e slovene e croate e di
quelle parlanti il francese, il
franco-provenzale, il friulano, il ladino,
l’occitano e il sardo”.
La legge che è costituita da 20 articoli punta,
certamente, a valorizzare il patrimonio
linguistico e culturale ma anche sottolinea
l’importanza della valorizzazione della lingua e
delle culture. Quindi non solo tutela la lingua
ma anche il tessuto culturale di cui le
minoranze sono portatrici. C’è da
ribadire,comunque, un dato significativo sul
quale la discussione è di estrema attualità :
l’articolo 1 di questa legge ribadisce “La
lingua ufficiale della repubblica è l’italiano”.
In virtù di tali elementi si è aperta la
discussione, di recente, proprio sull’articolo
12 della Costituzione in materia di
riconoscimento dell’italiano quale lingua
ufficiale della repubblica.
È necessario, chiaramente, approfondire i
risultati che hanno portato la legge n.482/ ’99
non solo dal punto di vista giuridico ma anche
dal punto di vista storico e proporre che tipo
di incidenza politico-culturale nel corso degli
anni si è innescato anche alla luce della
autonomia regionale.
Il terzo aspetto è prettamente culturale e
interessa in modo particolare la ricostruzione
di queste presenze e della loro incidenza
storico-sociale. Ciò ha portato ad una
discussione sul concetto di etnia, ovvero della
valenza storica dell’etnia in Italia a partire
sia dall’Unità d’Italia e successivamente dal
1948 alla L. n. 482/ ’99.
La questione
riguarda le presenze minoritarie storiche e si
guarda con attenzione a quelle presenze definite
stanziali e non migratorie. Un inciso che è
prettamente culturale in quanto si ribadisce
il fatto che si tratta di presenze minoritarie
all’interno di culture nazionali e non tout
court di minoranze linguistiche. Ogni realtà di
presenza minoritaria ha vissuto un impatto
particolare con il territorio sia in termini di
incisività storica sia sul piano culturale
attraverso usi, costumi, tradizioni ed elementi
etno-antropologici e letterari che andrebbero
analizzati sia sotto il profilo storico sia
sulla base di moduli normativi sia attraverso
una residuale presenza linguistica e perciò
culturale.
Detto ciò, bisogna ritornare sul dettato
sottolineato all’inizio. Occorre porre al centro
la tutela della lingua italiana. Bisogna
difendere l’Italiano e l’italianità nella lingua
e nella cultura, nella storia e nelle eredità.
Oggi più che mai va difeso il concetto stesso di
italianità perché rimanda all’idea vera di
Nazione. Senza nulla togliere alla presenze
delle “isole” minoritarie ma bisogna avere la
consapevolezza forte che restano delle isole
linguistiche. Attenzione a non confondere il
valore antropologico con quello storico, il
valore di una letteratura nazionale con quello
di una frammentazione “etnica”.
Ci sono realtà che vanno salvaguardate perché
sono il portato di una storicità che va ben
oltre il 1861. E’ necessario riflettere su tali
questioni perché è necessario difendere una
lingua e con la lingua l’eredità nazionale.
Le presenze minoritarie devono essere certamente
tutelate ma all’interno di una tale temperie.
Ecco perché la normativa del 1999 diventa ormai
quasi obsoleta sia sul piano culturale sia sul
versante di una analisi storica sia su quello
giuridico. L’Articolo 6 della Costituzione è un
riferimento certamente ma il dibattito e le
posizioni sulla modifica dell’Articolo 12
impongono un diverso modo di approccio allo
stesso Articolo 6 che riguarda, appunto, le
minoranze linguistiche ed etniche storiche.
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pubblicato il 9 maggio 2009
Pio Rasulo in
"La lunga notte della civetta" racconta
come la letteratura si fa antropologia
di Marilena Cavallo
Pio Rasulo in "La lunga notte della
civetta" compie un viaggio nella civiltà
di un popolo e di una cultura. Ora ripubblicato
in una veste sobria e accattivante con in
copertina un disegno di Carlo Levi. La prima
edizione uscì addirittura nel 1963. questa nuova
edizione è arricchita da un significativo saggio
di Antonio Basile che fa posta fazione.
Subito si legge: "Troppe cose m'avevano
fatto credere che mai più avrei trovato su
questi monti gli stessi pastori di allora,
ridotti solo nel numero, quelle stesse case che
per decenni hanno raccolto da ognuno pochi
argomenti, parecchie speranze e molte preghiere.
Avevo creduto che la guerra avesse distrutto
anche il mondo vergine e acerbo, magico e
primitivo: un mondo tradizionale, fatto sempre
di uguali rapporti, che perpetua nel Sud la
cosiddetta 'civiltà contadina'".
In questo viaggio il significato e il
significante si incontrano per raccontarsi la
celebrazione del ricordo. E c'è tanta nostalgia.
La nostalgia dei paesaggi che ritornano ed è
come se si vestissero di sogno: "La nostalgia
dei monti carichi di neve, del focolare
domestico, del bel presepe artistico della
piccola chiesa non li abbandona mai".
E' sostanzialmente un attraversamento di
paesi. Sono i paesi della Lucania. I paesi di
Isabella Morra, di Rocco Scotellaro, di Leonardo
Sinisgalli, di Carlo Levi, di Rocco Montano. Ci
sono i contadini del Sud: quelli che recitano
malinconia e nenia, fatica nei campi e alzate
nelle ore antelucane. Usi e costumi. Riti e
liturgie. Miti e leggende. Canti e rosario
recitato.
Tra i paesi della Lucania e della Puglia
ci sono immagini mai dimenticate. Ogni paese o
ogni cittadina ha il suo ritratto. Un ritratto
che resta indelebile. Con i colori delle
fotografie in bianco e nero riporta sulla scena
gli antichi scenari rituffandoli nel presente.
Un presente che era ieri e che oggi il tutto si
legge con una pacata malinconia che sa di tempo
depositato nel cuore. Tira fuori tutta
quell'anima impregnata di tradizioni che
lasciano segni nel cavo della mano.
Immagini che decodificano un vissuto e
disegnano il cammino di un tempo: "A Stigliano
ci svegliò la notte del 17 gennaio uno strano
tipo di rumorosa processione; a Pisticci c'è il
rauco suono della 'cupa - cupa'". La nostalgia
ritorna nello spezzettamento delle ore e il
tutto si intreccia. I fenomeni storici con gli
eventi naturali. Il brigantaggio con i suoi
briganti con il canto religioso.
La grande nostalgia di un popolo è nella
magia della poesia. Una poesia che è anche
linguaggio. Si legge: "Da Orazio ai nostri
giorni centinaia di poeti lucani hanno
sintetizzata liricamente la vita del loro popolo
in ogni manifestazione, inquadrata secondo le
istanze storiche, economiche e sociali del
tempo. Quasi tutti hanno rilevato un
attaccamento ed un amore pensoso per questa loro
terra amara. Anche quando i versi esprimono
ansia di evasione si sente in essi una nota
dolente, permeata di sofferenza e di malinconica
nostalgia".
Citazioni che ci riportano a un mondo che
è quello che resta nella nostra memoria e nel
nostro vissuto e ritorno come viaggio della
nostra (o nella nostra) interiorità. Veniamo
tutti da un mondo contadino. È un
insegnamento,quello di Rasulo, ricco di valori
che richiamano i segni di una tradizione che è
dentro il nostro tessuto territoriale e umano.
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pubblicato il 9 maggio 2009
L’attualità di Leonardo Sciascia a 20 anni dalla
morte. Uno "scrittore-contro" nella contemporaneità
di Pierfranco Bruni
Venti anni fa moriva Leonardo Sciascia.
Impegno civile e letteratura. Due percorsi che hanno
dato vita a un processo culturalmente omogeneo ma
che è stato fondamentale per capire una “certa”
Italia sia sul piano politico che su quello
culturale. Sciascia era un contemporaneo nella
contemporaneità ma riusciva a vivere il “suo” tempo
nel tempo della storia e la storia, non quella che
offriva nei suoi scritti o mostrava attraverso la
sua dialettica e la sua capacità di afferrare gli
eventi, era una frantumazione di particolari, di
elementi culturali, di modelli esistenziali. I
personaggi che portava sulla scena avevano sempre
un’anima e i paesaggi che mostrava non erano sempre
dei luoghi geografici ma dei riferimenti
esistenziali che avevano una penetrazione etica,
morale, letteraria.
Nei suoi personaggi quell’anima non era sempre
un’anima cosiddetta civile ma il più delle volte
emergeva una coscienza enigmatica. Il mistero era
per Sciascia un’avventura ma anche un destino. Uno
scrittore calato nella profondità siciliana. Una
sicilianità che significava Mediterraneo. Un
incrocio tra civiltà abbandonate sulle onde del Mare
arabo, sulle colline, lungo i corridoi dei paesi del
Sud, nelle piazze che si traducevano in agorà, nel
sospetto dei sogni, nella falsità degli uomini persi
alla ricerca delle ricchezze improvvise o
improvvisate. Ebbene Sciascia aveva la
consapevolezza che i personaggi e gli uomini si
sentivano aggrediti dal destino e dal peso delle
avventure. E il tutto in una rocambolesca messa in
scena nel teatro fittizio dei giorni.
Un pirandelliano (o un pirandellismo) che
incontra un’essenza gattopardiana (gattopardesca).
Due capisaldi, al di là dei suoi testi sulla mafia e
sulla condizione della sua Sicilia in un tempo di
mafie e di sconfitte morali, sono certamente
Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Il mistero e la
comprensione che ci deriva dalla storia. Un’unica
chiave di lettura che ha un suo senso e che diventa
un processo esistenziale il cui centro è segnato
dall’incontro tra la natura e l’uomo.
Da qui la malinconia che esplode dalle sue
parole. Parole che sono sguardi, non attimi
fuggenti, e marcano identità e radicamenti. La
malinconia di Sciascia è già in Le parrocchie di
Regalpetra. E poi in Il giorno della civetta
pur essendo un romanzo in cui si parla di mafia.
E ancora malinconia in quella ricerca di una verità
che passa comunque attraverso il “sapore” della
falsità. La verità è una falsità purificata. Mi
riferisco a Il consiglio d’Egitto, a Morte
dell’inquisitore e ancora A ciascuno il suo,
a Il contesto e mi fermerei, in questa fase,
a L’affaire Moro. Quest’ultimo lo considero
un testo chiave.
Perché ha dentro di sé almeno tre dimensioni.
Quella storica. Quella romanzesca. Quella politica.
Ovvero. L’analisi di un contesto che raccoglie
l’aspetto sociale, ideologico, umano. La
centralizzazione del personaggio Moro è una
proiezione letteraria che si focalizza non solo in
quella tragedia ma in uno scavo che permette di
addentrarsi nell’avvenimento in sé ma anche nel
destino di Moro stesso. Moro non è soltanto lo
statista è, in Sciascia, un personaggio della
tragedia. Qui l’aspetto letterario me sembra
fondamentale ed eccezionale. Il dato politico non
prescinde da un processo che è etico, morale ed
esistenziale e ha radicamenti che vengono da molto
lontano.
Storia, letteratura e politica. Ovvero ancora:
memoria depositata, metafora, cronaca. Tre forme del
pensare, dell’essere e dell’agire che trovano nei
suoi scritti una chiave di lettura che si condensa
in quello stato di malinconia che si troverà in modo
emblematico in Il cavaliere e la morte.
Ritorna il pirandellismo e il gattopardismo. In uno
scritto su Tomasi di Lampedusa Sciascia ha scritto:
“Immutabile è il destino dell’uomo siciliano;
immutabile dovunque, nell’atroce successione dei
fatti che le idee muovono, il destino umano: un
destino da contemplare, fuggendo dallo spavento
della storia, nello spavento cosmico di Pascal”. E
poi ha affermato che don Fabrizio in Il
Gattopardo “si accorda alla precarietà della
vita e alla infinità della morte”.
Vita e morte sono i codici di una Sicilia che
incarna non solo il suo mondo ma, secondo Sciascia,
il mondo in sé. E questo mondo in sé è una costante
rivelazione che si serve di due categorie: del senso
dell’ambiguo e della certezza che la verità passa
attraverso, come già si diceva, la finzione. Per
Sciascia la scrittura è un messaggio in codice che
trasporta sulla pagina frammenti di realtà. Ma la
realtà è un filtro che processa il quotidiano e va
dentro la storia.
La menzogna che occupa la storia può essere
sconfitta dall’intelligenza della critica. E’ su
questo che Leonardo Sciascia ha percorso il suo
viaggio culturale e letterario in particolare. Un
viaggio che si legge soprattutto con il coraggio del
rischio. Sciascia aveva il coraggio del rischio
anche quando scrisse quel “brutto” articolo sui
professionisti dell’antimafia. Forse non capito o
forse troppo forzato ma che ha lasciato molti dubbi.
Ora Sciascia è diventato un personaggio tra i
personaggi che egli stesso ha costruito o
“falsificato”. Un personaggio che non aveva
condiviso l’incontro tra il rosso e il bianco del
1978. Che non aveva mai accettato l’immagine di una
Sicilia “illuminata” dagli scoppi della lupara. Che
non avrebbe chiaramente condiviso tutte le polemiche
politiche sui fatti di mafia di questo decennio
passato. E forse avrebbe completamente riscritto
quell’articolo sui professionisti dell’antimafia.
Aveva il coraggio di correggersi, di accettare, di
ammettere valutazioni errate.
Un uomo di cultura che poneva al centro l’uomo
con le sue falsità e con le certezze del dubbio.
Ecco perché nella sua scrittura il segno della
metafora rappresentava un codice sia linguistico che
problematico. Una letteratura della problematicità
perché per Sciascia il tempo della cultura poteva
coincidere con quella della politica attraverso gli
uomini e attraverso un’etica dell’essere.
Come il Mattia Pascal Sciascia “usava” una sua
biblioteca. La biblioteca delle parole, dei
linguaggi, del tempo, della memoria. Non ho
condiviso alcune sue scelte ma non era fazioso. Non
ho condiviso il suo fare letteratura
sull’impressione fotografica del reale. Ma la
memoria non sta al di là della realtà. E’ dentro la
realtà. Una volta superata resta il fantastico.
Ebbene, dal 1978 in poi: dal libro su Moro, in
Sciascia ha prevalso il fantastico. Ed è questo lo
scrittore che ancora dà lezioni, che è ritornato a
parlarci di quella “corda pazza” con un sentire che
va oltre la misura del quotidiano. Come una
proiezione profetica.
Molte volte le sue denunce che passavano sotto
i codici della letteratura non mi convincevano. Il
suo fare letteratura non coincideva con il concetto
che ne avevo e che ne ho io della letteratura. La
sua passione, il suo far prevalere i valori della
cultura o i valori della verità della cultura su
quelli della demagogia politica, il dare degli
orizzonti e il mettere costantemente in discussioni
le varie posizioni, da qualsiasi parte esse
potessero provenire, facevano di Sciascia non solo
quell’intellettuale “contro”, che ho sempre stimato,
ma ponevano all’attenzione il ruolo
dell’intelligenza critica sul conformismo dilagante
e Sciascia, appunto, era un interprete di questa
intelligenza critica che veniva messa al servizio di
una discussione problematicizzando i fatti e la
storia stessa nella quale la contemporaneità era
calata. Ma la letteratura che si spoglia della
cronaca diventa anche profezia. E in Sciascia se si
riesce a leggerlo con serenità c’è soprattutto il
sentiero dell’ambiguo che gioca sulla corda del
profetico, dell’avventura e del mistero – destino.
La realtà comunque è altrove in letteratura.
Sciascia lo aveva capito molto bene.
Leonardo
Sciascia era nato Racalmuto l’8 gennaio 1921 e
morto a Palermo il 20 novembre 1989.
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pubblicato il 6 maggio 2009
FRANCESCO GRISI DIALOGA CON GLI SCRITTORI DEL
'900:
DA ITALO CALVINO A DIEGO FABBRI
di Pierfranco Bruni
Francesco Grisi è stato uno scrittore che si è
costantemente testimoniato attraverso rapporti e
amicizie che hanno segnato un ben preciso contesto
della letteratura del nostro tempo. Uno spaccato,
d'altronde, che ha messo in luce importanti legami
grazie ai quali si è potuta documentare una pagina
significativa della formazione che ha segnato lo
scrittore e l'intellettuale Francesco Grisi. I suoi
libri sono pieni di emozioni e di riscontri che
richiamano anche un modello di partecipazioni tra
letterati.
Francesco
Grisi in realtà ha vissuto una dimensione della sua
vita non perdendo mai di vista l'intreccio umano tra
la parola – sentimento e sacralità. Una scrittura
che alla base non solo un sistema di vita ma anche
una strategia in termini culturali. Lo scrittore lo
si incontra sia nelle pagine narrative e nella sua
poesia ma anche in quella dimensione dell'esistere
che si ascolta dalle pagine, chiamiamole così, di
critica letteraria. Grisi ha avuto delle
frequentazioni molto belle con scrittori del
novecento. Vanno ricordati i suoi legami con
personaggi come Prezzolini, come Brancati, come
Calvino, come Berto, come Buzzati, come Silone, come
addirittura Mircea Eliade.
Credo che tra gli scrittori frequentati da
Grisi almeno due o tre hanno lasciato un segno
indelebile nella sua vita di uomo e di pensiero. Mi
riferisco in particolare a Giuseppe Berto, a Ignazio
Silone e a un filosofo come Ugo Spirito. Di Berto
più volte ha detto raccontando un fatto che a
distanza di anni ha un sentore profetico per lo
stesso Grisi.
Ecco di Berto cosa ricorda:" Ero amico di
Berto. Ci incontravamo spesso. Si parlava di tutto.
Ma non si approfondiva nessun problema. La
conversazione serviva solo per certificare. Vi erano
anche i lunghi silenzi. Berto aveva sempre paura di
entrare nella vita. Era un grovigli di
contraddizioni. Trovata una verità la metteva subito
in dubbio. Ma soffriva. La sua angoscia era quella
di chi è destinato a navigare sempre. Mai un porto
dove fermarsi. I suoi amori vivono intensamente,
prima. Irrimediabilmente finiti, dopo.
Eppure credeva nell'amore. Diceva che l'amore è un
sentimento confuso perché da una parte è
'divinamente eccelso' (sono sue parole) e dall'altra
affonda le radici nell'oscurità del sesso. E
soffriva perché si sentiva incapace di conciliare.
Anche fisicamente era strano. Un giorno si
presentava con lo sguardo limpido che lo illuminava,
sistemato e profumato. E il giorno dopo era pieno di
rughe, invecchiato con gli occhi macchiati.
Straccione".
Si,
si tratta proprio di un viaggio profetico. In questo
ricordare Berto ci sono onde che ci riportano la
realtà vissuta dallo stesso Grisi. Infatti vent'anni
dopo Grisi sarà colpito dallo stesso male e morirà.
Una letteratura impregnata di una forte marcatura
esistenziale. Berto è stato molto amici di Grisi.
Come lo è stato Ignazio Silone. Moriranno entrambi
nel 1978.
Tra Grisi e Silone una amicizia cominciata da
molto lontano. Anche dopo la morte dello scrittore
abruzzese Grisi lo ricorderà sempre con grande
affetto. Un affetto che andava oltre la pagina
letteraria. Ci lascia questa testimonianza:
"Nelle nostre conversazioni nella sua casa a Roma
in via di Villa Ricotti mi raccontava il suo
faticoso processo di elaborazione e la forma di
pretesto che i personaggi dovevano assumere. La
razionalità illuminista in Silone ( che illuminista
non era ) affondava nella necessità di dare una
funzione agli intrecci e ai sentimenti che dovevano
concorrere a dimostrare una tesi…Durante gli ultimi
anni della sua vita ci incontravamo spesso con
Silone. Dopo la sua morte lo sentii come una guida
esemplare per il nostro tempo così disperatamente
antisiloniano".
Elementi che provengono certamente dai suoi
testi ma anche da un racconto personale che Grisi mi
rendeva partecipe. Il mio rapporto con lui, è
inutile ripeterlo, è stato fondamentale. Mi ha
lasciato una testimonianza che tutt'ora ha una
cocente attualità. La letteratura come coscienza del
nostro vivere nel tempo e nel misterioso. Il suo
parlarmi di esperienze letterarie è stato sempre un
parlare di avventure nelle quali gli incontri
definivano elementi di una umana malinconia. Ricordo
quando mi parlò di Calvino o di Eliade.
Su Calvino mi disse:" Sai, una volta gli
parlai di Roma e mi accorsi subito che Calvino era
lontano, guardava il mare salutandomi. Lo vidi
allontanarsi…piccolo di statura si rimpiccioliva
ancora di più nella luce del tramonto…". Un'altra
immagine mi ritorna pensando a Mircea Eliade. Mi si
attesta con questa visione: " L'ultima volta che
incontrai Mircea Eliade fu a Palermo in occasione
del Premio Mediterraneo…Sulla spiaggia di Mondello
si è abbandonato. Nel sole caldo felice per il
colore verde del mare. Mircea Eliade mi diceva che
la 'Sicilia non è isola ma bellezza diventata
tradizione. E che la tradizione è depositata nel
Sacro'".
Eliade e il tempo della nostalgia. Sono
soltanto alcuni tasselli di un mosaico molto più
ampio che ha riguardato la storia letteraria di
Francesco Grisi. Una storia, quella sua, che
certamente è tracciata nei suoi libri ma anche, come
si diceva, con alcuni protagonisti della cultura
contemporanea. Protagonisti nella testimonianza di
uno scrittore che si è sempre raccontato. Si pensi
alla sua forte amicizia con Diego Fabbri. E si pensi
a un suo maestro, già richiamato prima, quale fu Ugo
Spirito.
"Sono stato un discepolo e un amico di questo
personaggio così esemplare e contraddittorio". E'
Grisi che parla di Spirito. " I miei incontri con
Spirito sono stati sempre incompiuti. Anche se mi
trattenevo con lui per molto tempo andavo via sempre
con l'impressione di non aver detto tutto. Era come
una terra da arare nel profondo. Il cuore della
miniera era al centro della terra".
Un incontro, appunto, con i contemporanei,
come ha intitolato un suo libro antologico del 1970.
Forse ci sono significati alti ma questo viaggio tra
scrittori è un viaggio anche nella letteratura,
nella teologia della parola, nella teologia della
letteratura. In quella letteratura mai costruita ma
vissuta come eterna consapevolezza di una memoria
che non si perde e che ritorna a raccordare antichi
e nuovi respiri. |
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pubblicato il 3 maggio 2009
“FVTVRPVGLIA” DI GIUSEPPE MAZZARINO -
Le attività sul Futurismo a Taranto.
di
Marilena Cavallo
Il
Futurismo, suggestiva arte dal colore di futuro,
poetica dal sapore aurorale, foriero di futuro,
approda con questo saggio in Puglia, o meglio nelle
Puglie, nelle tre terre di Messapia, di Peucezia e
di Daunia, se non si vuole aggiungere una quarta
“P”, quella della singolare esperienza di Taranto.
Significativo il contributo di “FuturPuglia”, edito
da Csr e Nemapress, di Giuseppe Mazzarino con
Appendice di Pierfranco Bruni. Il Futurismo ha avuto
una sua particolare impostazione anche in Puglia.
Lo
dimostra il saggio citato e le manifestazioni
organizzate di recente dal Centro Studi e Ricerche
“Francesco Grisi” a Taranto e in Provincia (da
Grottaglie a Maruggio a Carosino). Tra qualche
settimana una nuova iniziativa a Carosino porterà
sulla scena una mostra di materiale futurista
comprese copie originali della storica rivista
“Futurismo - Oggi” che era diretta da Enzo
Benedetto, le cui copie sono custodite dal Centro
Studi e Ricerche “Francesco Grisi” diretto da
Pierfranco Bruni..
Parole
in libertà per una Puglia allo specchio senza
cornici, che restituisce il profilo Apulo degli
stati d’animo, delle vibrazioni, delle gioie intense
e dei desideri frenetici, custoditi nelle tavole
parolibere o nei quadri futuristi lungo un
tracciato che rivoluziona innovando. Ma si innova
proprio attraverso una idea precisa di rivoluzione.
Soprattutto in questo caso.
All’interno di un variegato esame del volto
nazionale e internazionale della prima vera
sperimentazione di avanguardia letteraria e
artistica, la fisionomia del panorama pugliese si
definisce con caratteristiche “dinamiche”. Sono
queste caratteristiche che danno quel sensononsenso
ad un tracciato che sa di progetto. Il Futurismo
anche in Puglia (o nelle Puglie) è stato Progetto.
Il
travaglio della parola nel linguaggio scattante di
Ungaretti, la ricerca di una parola nuova per il
nuovo sentire di Quasimodo, attingono a risorse
futuriste e insieme a nomi come quelli di Mario
Carli, Emilio Notte, Franco Casavola, Pietro Pupino
Carbonelli e tanti altri futuristi nati o operanti
nelle Puglie, nomi “rimossi”, cancellati,
disconosciuti e relegati nel dimenticatoio, tornano
a testimoniare un percorso personale, regionale,
nazionale ed internazionale grazie all’“insonnia
febbrile” della forza dell’indagine letteraria e
della critica artistica, che animano questo studio.
E
poiché, come amava proclamare lo stesso Filippo
Tommaso Marinetti, “non v’è più bellezza se non
nella lotta”, “FUTURPUGLIE” lotta contro il silenzio
sulla “meridionalità” del Futurismo e sugli errori
di identità o di interpretazione rispetto ad alcuni
autori. Autori che offrono una precisa chiave di
lettura non solo artistico – letteraria ma anche
storica.
L’analisi sembra “inneggiare” a quei letterati e
artisti, che al “volante” di una letteratura nuova,
hanno attraversato con un’asta ideale la terra
pugliese, lanciandola in corsa nella più ampia
esperienza italiana. La velocità, la dinamicità,
l’idea della macchina non sono un documento ma i
riferimenti di un mosaico che troviamo ben definito
nei Manifesti. Proprio a partire da quello del 1909.
Si
sveglia, dunque la “sonnacchiosa provincia” e anche
la capitale barocca vive il suo bagno nella
modernità, con gli immancabili Manifesti e l’invito
rivolto ai giovani meridionali a “marciare e non
marcire” e con la presenza in Puglia di riviste come
la barese “+ - 2000” o la leccese “Vecchio e Nuovo”.
Il Manifesto - programma ai giovani meridionali del
1918, pubblicato a Napoli, è un testo –
testimonianza di grande efficacia e di sicura
mobilitazione “ideale”.
Pagine
queste accese, come un carbone sotto la cenere,
pegno della “vampa futurista che incendiò anche la
nostra regione”, pagine che restituiscono
trentacinque anni di futurismo a una personale e
nuova proposta di periodizzazione, sfidano la
“damnatio memoriae” di alcuni interpreti del
Futurismo pugliese, convinte che con le futuristiche
istruzioni di un Mario Carli, si possa ancora
“costruire la primavera”…è questa la “dinamite delle
idee nuove”!
In
questo testo i fili che tessono i Futuristi non
formano un gomitolo ingarbugliato e pur non
trattandosi di una tela omerica i fili comunque si
intrecciano su un inciso che potrebbe costituire la
chiave di lettura di una realtà – tempo futurista:
“Chi ama la vita, l’energia, la gioia, la libertà,
il progresso, il coraggio, la novità, la praticità,
la velocità” è un “futurista nella vita”, come si
legge nel primo punto delle “nozioni elementari” di
“Che cos’è il futurismo” firmato da F.T. Marinetti,
E. Settimelli, M. Carli.
Non una
idea soltanto, dunque, ma un progetto, e questo
studio pone in evidenza una eredità che non sarà
legata al passato ma proprio ad un futuro che vive
le necessità di innovare. Nei linguaggi, nelle arti,
nei costumi. Forse nella vita stessa. Il Futurismo
non è solo cultura o costume. È soprattutto una
“struttura” mentale. I percorsi intrapresi dal
Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” lo
dimostrano.
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pubblicato il 3 maggio 2009
L’uscita di sicurezza di Ignazio
Silone - Lo scrittore era nato il 1° maggio di 109
anni fa in Abruzzo.
La politica, la letteratura l’eresia.
di Pierfranco Bruni
Silone era nato a Pescina dei Marsi, in provincia
dell’Aquila, il 1° maggio del 1900, centonove anni
fa, e morto a Ginevra il 22 agosto del 1978.
Recentemente come Centro Studi e Ricerche
"Francesco Grisi" abbiamo pubblicato un testo (dal
titolo Spirito e verità. Lettere inedite di
scrittori contemporanei, Csr) nel quale
compaiono due lettere inedite di Silone indirizzate,
appunto, a Grisi.
Due lettere che hanno un valore sia etico -
letterario sia ideologico se si pensa che in una di
queste lettere si legge: "…è piuttosto raro trovare
in Italia un critico che sappia leggere e che
avvicini un autore senza preconcetti estetici o
ideologici". Un segno importante che definisce
sostanzialmente un percorso culturale. Le lettere
risalgono al 1957 la prima e al 1966 la seconda. Uno
scrittore che ha raccontato il radicamento alla
terra, l’appartenenza, ha “disegnato” il paesaggio
dei suoi paesi e di un mondo che la memoria
costantemente ripercorre.
Da Fontamara a Severina. Ignazio
Silone, lo scrittore della Marsica e dei cafoni, del
cristiano senza chiesa, della terra come
appartenenza, della nostalgia sempre assopita, della
solitudine ancorata alla parola, della realtà che
diventa storia, del superamento di quel comunismo
che è stato vissuto non solo come tradimento ma come
indefinibile incoscienza, di quella “uscita di
sicurezza” che ha permesso di catturare non solo la
libertà ma anche il senso della libertà. Silone è
stato comunista. Anzi è stato uno dei fondatori del
comunismo e ne conosceva gli orrori e le sciagure,
le finzioni e le maschere. Quando si rese conto che
la sua storia incamerava l’oppressione dell’uomo ha
tentato di guidare quell’uscita di sicurezza che lo
ha condotto fuori le mura di quella inconsapevole
bugia.
Palmiro Togliatti su “Rinascita” dell’agosto –
settembre del 1951 scrisse di Silone: “Quando Silone
se ne andò, anzi fu messo fuori dalle nostre file
(per conto suo ci sarebbe rimasto per dir bugie e
tessere l’intrigo), l’avvenimento contò. Silone ci
aiutò, in sostanza, non solo a approfondire e veder
meglio, discutendo e lottando, parecchie cose; ma
anche a riconoscere un tipo umano, determinate,
singolari forme di ipocrisia, di slealtà, di fronte
ai fatti e agli uomini”. E il confronto che
Togliatti tesseva in quell’articolo era tra
Vittorini e Silone. Entrambi “fuoriusciti” dalla
casa madre del comunismo ed entrambi “illusi”
inizialmente che nel comunismo potesse nascondersi
il barlume della libertà. Pura illusione e mero
inganno.
Da quel romanzo che racconta i suoi paesani (i
fontamaresi) al destino “religioso” di Severina. E’
un viaggio lungo, nel corso del quale l’avventura
dell’uomo diventa prima l’avventura di una politica
il cui disegno ideologico si è consumato in uno
scontro tra fede e libertà e poi l’avventura dello
scrittore che ha attraversato il fiume della
politica stessa attraverso i codici e le definizioni
della letteratura.
Fontamara è certamente il romanzo
rivelazione. E’ il romanzo dell’appartenenza alla
terra, al suo Abruzzo, oltre ad essere il romanzo di
una iniziazione a un processo narrativo che non
sopprime mai l’io narrante. Questo io narrante
assorbe la contestualità non solo di una realtà
storica ma soprattutto di una “territorialità”
esistenziale.
Nella Prefazione al romanzo Silone avverte:
“Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi
vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia
universale vi si svolge: nascite morti amori odi
invidie lotte disperazioni”. Questa è Fontamara. Una
comunità, un paese, dove “La lingua italiana è per
noi una lingua imparata a scuola, come possono
essere il latino, il francese, l’esperanto”. Ma,
soprattutto in letteratura, “ognuno” ha “il diritto
di raccontare i fatti suoi a modo suo”.
E’ questo il Silone di Fontamara che
troviamo poi in Pane e vino e nella edizione
riveduta di Vino e pane. E’ questo il Silone
de Il seme sotto la neve, di Una manciata
di more, de Il segreto di Luca, de La
volpe e le camelie, de L’avventura di un
povero cristiano, di Severina. E’ il
Silone di Uscita di sicurezza e dei suoi
saggi. La realtà e il sogno sembrano incontrarsi con
la favola. “Un bel sogno”. “Una bella favola”. In
Vino e pane: “Un bel sogno… I lupi e gli agnelli
pascoleranno assieme nello stesso prato. I pesci
grossi non mangeranno i pesci piccoli. Una bella
favola. Ogni tanto se ne sente riparlare”.
Ma cosa era la politica per Silone? Come la
intendeva? Una manciata di more è una
dichiarazione non riluttante che mette a confronto,
al di là del gioco – destino dei personaggi, l’uomo
con la politica. In un discorso tenuto a Milano nel
1949 Silone sottolinea: “…Nella nostra attuale
posizione è implicita la confessione delle sconfitte
politiche subite; noi siamo certamente le persone
che sono state più sconfitte”. Ma Silone si aggrappa
costantemente all’utopia: “Se l’utopia non si è
spenta, né in religione, né in politica, è perché
essa risponde a un bisogno profondamente radicato
nell’uomo. (…) La storia dell’utopia è perciò la
storia di una sempre delusa speranza, ma di una
speranza tenace. Nessuna critica razionale può
sradicarla, ed è importante saperla riconoscere
anche sotto connotati diversi” (da L’avventura di
un povero cristiano).
L’utopia e l’eresia sono un intreccio non di
valori ma di significati esistenziali. Trovano una
loro esplicazione ultima proprio in Severina.
Un romanzo postumo e incompiuto ma non minore nella
produzione siloniana. Severina è la testimonianza
del dolore ma anche dell’amore. Silone fa dire a
Severina: “Io penso che non bisogna temere il
dolore. Vi è un dolore inevitabile, inerente alla
stessa condizione umana, e quello bisogna saperlo
affrontare e diventare suo amico. Non bisogna
temere, io penso, neppure la disperazione; perfino
Gesù all’inizio della sua interminabile agonia,
dell’agonia che ancora dura, si credè abbandonato ed
ebbe un istante di scoraggiamento”.
Il finale di Fontamara (“Dopo tante
pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe,
tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione,
che fare?”) rispecchia questa cesellatura ponendosi
una domanda alla quale risponde la frase citata di
Pier Celestino alla quale Severina risponde a sua
volta con l’eresia per tentare di sconfiggere quel
cristianesimo diventato ideologia.
Silone si annovera tra quelle coscienze
inquiete (sul piano umano e culturale) che hanno
caratterizzato e segnato il Novecento letterario
italiano. Uno scrittore che non aveva mai perso il
senso dell’indignazione. Sino alla fine. Il suo
ultimo romanzo (si deve molto di questo romanzo alla
moglie Darina) è una confessione che richiama anche
uno stile di vita.
Proprio in questo ultimo romanzo si legge:
“Non perdere mai la nostra indignazione morale di
fronte all’ingiustizia. Non abbandonare mai la
ricerca della verità, neanche in mezzo alla notte
oscura. Per strada ritroveremo Cristo, che è la
verità. Qualsiasi cosa avvenga, coloro che
conserveranno intatta, in fondo all’anima, la fede
nei sacri principi della vita saranno i più forti”.
Severina è un personaggio metafora che chiude la
parabola non solo letteraria di Silone ma anche
esistenziale.
Oltre ogni steccato politico resta lo
scrittore: quel Silone così eretico è così tanto
bisognoso di speranza. Non c’è perdizione ma una
costante penetrazione nel vissuto Cristo logico che
ha comunque, anche qui, di un richiamo fortemente
paolino. Forse in questa battuta il tutto della sua
vita: “Per darsi, bisogna anzitutto possedersi”. E
poi in quest’ultimo accenno di Severina a suor
Gemma: “Spero, suor Gemma, spero. Mi resta la
speranza”. Un bisogno forte d’amore. E lo si nota
anche in Ed egli si nascose. Qui la speranza
e l’amore devono fare i conti con la disperazione e
con la follia. Ma il tutto si risolve. C’è la
costante ricerca della libertà. Dice Fra Celestino
ad Annina (nel testo appena citato): “Non disperare,
Annina. Chi ama non può disperare”. E Annina in
un’altra circostanza pronuncia a Don Paolo – Pietro
Spina: “… l’amore è follia”.
Così in Severina. Un libro che è un
diario e si lascia leggere, quest’ultimo, come la
memoria in viaggio di uno scrittore. Insomma Silone
nel suo ultimo scritto attraversa a frammenti la sua
vita e la sua letteratura. Se si andasse a leggere
attentamente quel capitoletto dal titolo: “et in
hora mortis nostrae”, sempre del romanzo in
questione, ci si renderebbe conto della vera forza
eretica espressa da Silone. Così: “Il cristianesimo
ufficiale è diventato un’ideologia. Solo facendo
violenza su me stesso, potrei dichiarare di
accettarlo; ma sarei in malafede”.
Un Ignazio Silone dunque che è lontano
dall’ideologia ma è lontano anche dalla fede come
cultura. L'eretico di Fontamara, del libro
dedicato a Celestino IV e del romanzo che
centralizza la figura di suor Severina è oltre ogni
visione politica.
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pubblicato il 10 aprile
2009
RACCONTO INEDITO DI FRANCESCO GRISI NEL DECENNALE
DELLA SCOMPARSA
Nella
ricorrenza del decennale della scomparsa dello
scrittore Francesco Grisi
(nato nel 1927 e
morto nel 1999) , il Centro Studi e Ricerche
“Francesco Grisi”, diretto da Pierfranco Bruni, è
lieto di porre all’attenzione alcune pagine
inedite di Grisi che sono parte integrante del
materiale inedito sul quale da anni sta lavorando lo
stesso Pierfranco Bruni, biografo dello scrittore.
Di Grisi il Centro Studi e Ricerche ha già
pubblicato alcuni testi completamente inediti, tra i
quali figurano racconti e poesie. Ha pubblicato, tra
l’altro, anche il primo romanzo di Grisi risalente
al 1958 – 1959 dal titolo “I giorni non si
somigliano tutti”.
Le pagine di “Forse un giorno ci ritroveremo nel
cammino dell’antico” fanno evincere un paesaggio
metaforico attraverso un linguaggio in cui il
simbolo primeggia. La Calabria come la Magna Grecia
sono riferimento di una visione non della storia ma
del tempo che si definisce nella memoria.
Bruni ha dato alle stampe numerosi testi dedicati a
Grisi scrittore, operatore culturale, futurista ed è
previsto, nei prossimi mesi, un lavoro articolato
che comprende la sua funzione nella cultura italiana
degli anni Settanta con in appendice documenti
inediti che scavano nei rapporti culturali che Grisi
ha intrattenuto proprio nel corso degli anni.
Pierfranco Bruni: “Si
evince uno spaccato di Calabria come metafora di una
lunga memoria e di un tempo indefinibile. Ci sono
elementi che ci riportano il Grisi delle stagioni
più significative”
Il racconto che viene posto all’attenzione è parte
integrante del volume che verrà pubblicato
prossimamente.
Forse un giorno ci ritroveremo nel cammino
dell’antico.
Il mio tempo è fermo. O sono oltre.
Cutro è una cartolina. Immaginario. Ci sono anni. La
Calabria. Il mare è nell’anfora. Antica. Nato a
Vittorio Veneto ma Cutro è nel sogno. Forse. O è
solo una nostalgia. La danza si fa notte. La notte è
una danza. Cammino. Lungo i passi della grecità.
Amori perduto. Io perso. Poi. Ritrovato.
Terre di Magna Grecia. Di Mare e di uliveti.
Gli ulivi nelle notti di luna si inargentano.
Le foglie tremano. E musicano con i granelli di
sabbia.
Nell’antica città pugnali e canti. Donne arabe
con gli occhi neri e ebrei riccioluti si abbracciano
nei letti di ferro. Ho amato. Tanto. Grandi amori.
Una passione che è luna. L’età si chiude nel
cerchio.
Sibari. Taranto. Crotone. Allora. Si
raccontavano.
Uso simboli e metafore. Cammino con il bastone
con il pomo d’argento. E vedo questo pezzo di futuro
che è nel mio presente. Il tempo si racconta nella
lacerazione tra presente e memoria.
Il tempo dello scrittore non è soltanto quello
che vive ma quello che è stato e quello che sarà.
Allora.
Il mare greco di Pitagora. Azzurro striato con
tessiture di tremolante - ante verde. La memoria è
futuro.
Vorrei una tomba tra le pietre odorose di
scoglio - zagare nel tempo di Pitagora. Tra giorni
sarò greco in Cielo.
I trionfi sono spesso una maschera dietro la
quale si nasconde la fragilità della situazione.
Queste leggende sono mito. Anche la religione si
ammanta di miti. E la memoria illumina il passato
come un arco arcobalenante nel cielo.
Il percorso è tutto in questo incrocio. Un
incrocio dove i simboli ondeggiano nel vento dei
segni e non c’è bisogno di alcuna spiegazione, non
c’è bisogno di alcuna giustificazione.
Cosa resterà?
Voglio raccontare un frammento di una storia.
Comprensibile. Non so. Ma ecco. Nel cammino
dell’antico.
Il Mediterraneo è un
sogno.
Tango.
Mara.
La fantasia colora le
insegne dei giorni. Bella.
Era bella. Nella pazzia
che invade. I cuori. Le anime.
Si vive scorrendo i
giorni. Così.
Ancora.
Amami… Baciami con
passione.
Stringimi.
O prendimi come sai fare
tu.
Prendimi. Stringimi con ardore. Coglimi…
Vento.
Non andare via. Pazzia nei giorni.
Mara del tango.
La mia vita è come un fiore. Fiorisce presto e
presto muore.
E' sol per te il mio cuor!…
Ci sono i tramonti che non tramontano ancora.
Ammaliati dalla pazzia bellezza. Avanti con le
memorie.
E. poi. Cosa ci resta.
Ancora.
Tango.
E' sol per te il mio cuor!…
Il sogno diventa vero.
La verità annulla il sogno?
Appesi a un filo di luna i ricordi fanno
compagnia. Quando non ci
saranno più. Noi chissà dove saremo.
Allora.
Una nuova danza. Musica. Musica a cielo di
luna.
Luna nel lago. Il lago negli occhi.
L'infinito si perde dentro gli occhi.
E aveva negli occhi…
Sguardo d'acqua e di terra.
Mara ha raccolto tutto il mistero.
Viviamo di misteri.
O di segreti.
Amami con passione. Prendimi con ardore
In questo amore. Unico…
Raccolgo memorie antiche.
Nella memoria, nessuno scompare e finisce. Non
so come ma tutti risorgono. E quando li chiamiamo
con la memoria vengono a trovarci. La vita è senza
morire.
La resurrezione. Viene per tutti. Peccatori e
santi. Vinti e vincitori. Per quelli di prima e per
quelli che non sono riusciti a destinarsi.
Le metafore chiudono il cerchio.
Il viaggio si fa intenso e denso di
significati e di contenuti.
Vorrei vivere vicino questo dolce mare e nel
verde degli ulivi. E vedere dalla collina i delfini
che danzano nel mare dei greci.
Nella resurrezione la nascita e la morte sono
un solo punto. Il cerchio si chiude.
Sono un’ape che ha raccolto molto miele. E lo
consegno agli uomini perché siano felici nella loro
pazzia.
Nell’intreccio delle parole la vita si riempie
di senso perché si racconta.
Il mare.
La colonna. San Francesco. Tommaso.
Gioacchino. Tutto ha senso. Anche noi.
La preghiera è partecipazione attenta
alle cose del mondo che, anche per il miracoloso
della preghiera, perdono la storia per diventare
necessari passaggi attraverso i quali si compie la
salvazione.
Ogni cosa è necessario che avvenga. Anche la
Via Crucis della perdizione.
La preghiera riscatta la storia dal suo
peccato di essere esistenza. E non significa un
movimento di labbra, ma una partecipazione
responsabile al destino di un uomo o di una società.
Significa anche entrare nei disegni di Dio per
liberarsi dalla schiavitù del potere,
dell’abitudine, dalla desolante ipocrisia
quotidiana.
La esperienza del sacro scrive e ordina,
distingue e non cede ai compromessi.
La concretezza del sacro accetta e ama la
tradizione, rifiutando la novità del conformismo e
lavora per il ‘nuovo’ che il tempo richiede dalla
nostra passione.
Voglio qui citare un mio maestro. Buonaiuti
compie una operazione rischiosa: quella di seguire
la generazione dell’esodo che ha vissuto questi anni
introducendo i temi attraverso episodi personali.
Quasi per dare agli argomenti una più eccitante
veste di credibilità.
La spartizione così netta tra storia e
teologia che aveva condotto alla rigida disciplina
teoretica sembra spezzarsi di fronte al dolore.
Anche l’orgoglio reclama umiltà nell’ora dell’esodo.
Forse perché vedo il mare e mi immagino di
navigare verso la Terra Santa o verso l’Egitto.
Mi hanno detto che laggiù nei paesi del
deserto vi è una grande primavera di preghiere
cristiane.
Vedremo.
Intanto resto qui. In questa immensa
circonferenza che è la Magna Grecia. Ed è come se mi
rivolgessi ad una dea.
Così.
Ti ho parlato degli ulivi. E dei girasoli.
C'erano chitarre andaluse e danze zigane nelle
parole ingemmate di sogni d'oro.
La luna di seta bianca inargentava.
Forse innocenza siderale era il tuo cuore.
Ho cercato la tua mano esitante e silenziosa.
Allora.
Un saluto frettoloso.
Mi dicesti. Soltanto le favole sono la vita.
E mi lasciasti la tua ombra acerba tra i platani
morenti del quartiere.
Lascio, comunque, la città dei due Mari.
Mi incammino. Vado. Oltre. Magna Grecia. Un
sogno. L'ironia. Il gioco. L'incontro. L'attesa. Ci
sono gli applausi. Teatro. I futuristi recitano. So.
Gli applausi dureranno nei secoli. Forse un giorno
ci ritroveremo. Nel deserto. Tra i mari. Il Sud. Tra
i mari del Sud.
Nella foto: Francesco Grisi con Pierfranco Bruni |
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pubblicato il 4 aprile 2009
LA BUSSOLA PER I VIANDANTI DI OGGI
Il libro del
Vescovo di Cassano Vincenzo Bertolone
di Luigi Franzese
“Briciole
di speranza…per guardare oltre”: è questo il titolo
di una pubblicazione del Vescovo della Diocesi di
Cassano Jonio, Mons. Vincenzo Betolone, edita da
Ancora Editrice di Milano (pagine 110) con
prefazione del Presidente del Pontificio Consiglio
della Cultura, Mons. Gianfranco Ravasi e postfazione
del Capo Servizio della Gazzetta del Sud, Arcangelo
Badolati.
Il
libro, in elegante veste tipografica della collana
Focus (dedicato alla madre Carmela), racchiude, in
una forma piana e scorrevole, una serie di
riflessioni che domenicalmente il Presule espone
attraverso le colonne del quotidiano messinese, in
un apposito spazio a lui riservato, su temi più vari
che spaziano da quelli strettamente teologici a
quelli etici a questioni di grande rilevanza sociale
come la pace nel mondo, il lavoro, la famiglia, la
scuola, i diritti umani, l’impegno civico; tutti
temi che attengono all’uomo d’oggi nella sua
complessità.
Si
tratta di un libro che rappresenta - come acutamente
osserva Mons. Ravasi nella sua stringata ma efficace
prefazione - la “bussola per i viandanti dei tempi
presenti, inquieti cercatori di speranza persi tra
le nebbie del materialismo e del consumismo”. Un
volume da leggere che si presenta molto interessante
per le notevoli problematiche trattate che possono
sicuramente rappresentare una base di partenza per
ulteriori approfondimenti, confronti, dibattiti,
riflessioni, attesa la grande valenza delle
argomentazioni in esso contenute di viva e
pregnante attualità.
Mons.
Vincenzo Bertolone è nato a San Biagio Platani
(Agrigento) il 17 novembre 1946. Dopo la laurea in
pedagogia al Magistero di Palermo, ha conseguito
alla Pontificia Università “Angelicum” di Roma il
dottorato in diritto canonico. Dal 1976 al settembre
2000 è stato membro del Consiglio Generale della sua
Congregazione. Ha insegnato per oltre 15 anni
religione nelle scuole statali.
Dall’ottobre del 1988 ha prestato servizio alla
congregazione per gli istituti di vita consacrata e
le società di vita apostolica, dove il 12 giugno
2004 è stato nominato Sottosegretario dal Papa
Giovanni Paolo II°. E’ postulatore della causa di
colonizzazione del Beato Giacomo Cusmano, del Beato
Francesco Spoto e di Beatificazione della Serva di
Dio Vincenzina Cusmano e del Servo di Dio Francesco
Paolo Gravina.
Il
Presule Bertolone ha al suo attivo numerose e
pregevoli pubblicazioni quali: “Volto Redentore”, Le
“Sette Lampade”(1997), “Il Mandorlo Fiorì”(1999), “I
Sette Doni della Grazia”(2000), “I Tre compagni di
Viaggio” (2001), “Aspetti Giuridici e Attenzioni
Carismatiche nelle Esperienze di Aggregazioni,
Federazioni, Fusioni e Unioni di Istituti di Vita
Consacrata”(2006), “Sulle Orme del Divino
Viandante”(2007).
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