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EDITORIALI
Letteratura
pag. 1
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato il 3 Nov 2006
Alberto
Bevilacqua tra memoria e quotidiano
Ascoltando
“Lui che ti tradiva”. Una narrazione di grande
rilievo estetico.
di Pierfranco Bruni
Ci
sono sempre dettagli. Nella vita. In quella vita che
si fa letteratura. In quella vita che racconta. In
quella vita che si strazia tra le parole e la
memoria. E la memoria è sempre un attraversare i
confini e i deserti, i viaggi e le maree. L’ultimo
romanzo di Alberto Bevilacqua è un attraversare i
deserti e le maree. I nubifragi di una esistenza nel
ritagliare pezzi di infanzia, di giovinezza, di
umanità, di storia. La sua vita e quella di sua
madre. La sua vita con il destino di una
disperazione nel quotidiano vivere. La presenza –
ombra del padre. Le città che diventano luoghi
dell’anima e ingombro geografico. Questo nuovo
romanzo di Alberto Bevilacqua è un “assoluto”.
Titolo: “Lui che ti tradiva” (Mondadori, pagg. 238,
€ 17,00).
Le storie sono un continuum. Un raccordo tra gli
spazi dell’esistere e il vivere. La madre continua
ad essere vera nel racconto e nelle avventure mentre
la confessione dello scrittore diventa una nenia, un
canto, una melodia nel segno di una profonda
grecità. C’è sempre il tempo che diventa un “gioco
di incastri” nel vissuto di un labirinto. Non per
caso questo romanzo giunge dopo i due testi di “Tu
che mi ascolti” (nonostante “Il Gengis” che
appartiene ad un’altra visione sempre determinante).
Questa madre – sangue – terra – acqua – memoria è un
filo che lega il tempo alla storia. Dicevo che si
tratta veramente di una “narrazione massima” perché
qui, tra queste pagine, c’è l’ontologia di uno
scrittore e la metafisica di un uomo.
In un precedente romanzo Bevilacqua sottolineava:
"Una storia finisce sempre con qualche rintocco,
colpi di coda, dettagli. A volte sono il trapasso
verso un'altra storia che va a cominciare.
Un'anteprima, non una chiusura". Il romanzo dal
quale è tratta questa citazione è: “Gli anni
struggenti”. C'è sempre qualcosa che va oltre. E in
quell'oltre ci sono i sentieri dei segreti, i sogni
che bussano alla porta della memoria, i giochi
infiniti dell'esistere nell'intreccio stesso
dell'esistere. "Rintocco". "Dettagli". Il viaggio
che compie Alberto Bevilacqua nel suo ultimo romanzo
è un viaggio non solo nei frammenti di un tempo
ritrovato. E' anche un viaggio nell'intreccio delle
metafore.
Ogni romanzo in Bevilacqua ha una sua unitarietà, un
suo corpus ma tutto il percorso è un unicum che va
letto in una interpretazione globale. Lo scrittore è
l'avventuriero che si lascia trascinare dalla parola
immergendosi (lasciandosi immergere) nelle avventure
ma anche in un io che attraversa le coscienze di
tutti i personaggi. I grandi scrittori sono un lungo
racconto. O un viaggio che ci introduce in altre
attese. Appunto rintocchi e dettagli.
Il mistero, il sogno, il tempo. L'amore, il viaggio,
il "sentimento del sorriso". Sono il tracciato di
una identità letteraria (narrativa e poetica) che
trova in Alberto Bevilacqua un punto di sicuro
riferimento. La letteratura diventa esistenza perché
dentro di essa ci sono i parametri del vivere, del
morire, del ritrovarsi. Ci sono le àncore di una
memoria che si raccoglie nel sublime, nel gioco come
immenso, nel desiderio che si fa passione. E la
memoria è tempo che intreccia i filamenti del
quotidiano con le ragnatele, appunto, di un sogno -
sognato che ci ritrova in quel che è il nostro
viaggio.
Un libro particolare, intenso, che racconta una
tensione vitale sulla corda dell'esistere e del
morire. Una pagina in cui il tempo domina e le
immagini vengono costantemente raccontate dal tempo
e filtrate dai sogni che recitano una inquieta
tragedia. La madre – figlio. O il figlio – madre.
Una rivelazione che si intreccia alla figura
emblematica del padre. Di questo padre fascista che
vive nei ricordi e in futura un passato di glorie ma
che vive il rapporto con la moglie –a amante sui
filtri del sublime. Si ascolta in “Lui che ti
tradiva”: “Non è più notte, non è ancora giorno.
L’ora che tu hai definito così bene: ‘Amorosa di
attese…Quando sembra che il mondo cammini sulle
punte’”.
L'attraversamento onirico in Alberto Bevilacqua si
intreccia tra le metafore e le ironie che
rappresentano l'immaginario narrativo che si serve
della dimensione della memoria. I luoghi oltre ad
essere gli spazi di una geografia corale
costituiscono quella geografia dei ricordi che fa
della scrittura di Bevilacqua un percorso
identitario di una letteratura che naviga tra le
onde del mistero. Una letteratura nella quale lo
scontro - incontro tra realtà e ragnatela della
fantasia è sempre dettato da una meticolosa ricerca
della parola ma anche da una penetrazione
all'interno di quella dimensione che non ha nulla di
enigmatico ma che assurge a codice del mistero.
Il mistero dunque come rivelazione. E il sentiero
del mistero che si fa comunque orizzonte lo si
ascolta nella sfogliatura delle sensazioni dei
romanzi (e della poesia) di Bevilacqua. Percorsi nei
quali il viaggio è sempre una metafora. Un lungo e
indefinibile viaggio.
Non smetto di ritornare a quell’antico e
straordinario testo che è “Lettera alla madre sulla
felicità” che resta fulcro centrale che unisce
ilprimo e ciò che ora stiamo leggendo – vivendo. Ci
sono temi in Bevilacqua che focalizzano quel sentire
il viaggio come identità. O meglio il viaggio come
radicamento. In “Lettera alla madre sulla felicità”,
appunto, si legge: "Ci sono due favole che gli
uomini non cesseranno mai di ascoltare, perché sono
le uniche vere: quella della nave sperduta che cerca
nelle acque mediterranee un'isola amata e quella di
un dio che si fa crocifiggere sul Golgota". Il mito
e il sacro sono intrecciati. Ma entrambi
appartengono all'isola del mistero – vita – tempo.
Lo scrittore, il personaggio, l’io narrante. Un
unico intreccio in una pagina letteraria che entra
nella vita, si impossessa del presente e della
memoria e gioca con il tempo per andare sempre
oltre. L’ironia, la tragedia, il tempo. Alberto
Bevilacqua è sempre oltre la storia perché resta
dentro la vita. Sempre.
Lo scrittore nel raccontare segue le vicende, si
appassiona agli intrecci e soffre nel delineare il
quadro. La storia con le sue verità o con il suo
immaginario non è soltanto uno scenario fittizio. E’
invece lo scenario dentro il quale si compie il
tutto.
La storia si traduce in memoria ed è decodificata
grazie alla maestria della parola che racconta e
raccontando definisce tempi e spazi, atmosfere e
realtà, proiezioni e prospettive in un paesaggio
letterario che Bevilacqua ha vissuto. Un paesaggio
fatto di segni e di itinerari onirici. Uno
scrittore, che si raccoglie nel poeta, che è un
punto di riferimento nella nostra letteratura
contemporanea.
In “Lui che ti tradiva” si raccoglie il senso e
l’orizzonte di una vita. Di uno scrittore, bambino –
adulto, che si cerca tra le parole della madre,
nelle immagini del padre, tra i luoghi non luoghi
dell’essere e del tempo traducendo il tutto in una
letteratura che scorre insieme al sangue nelle vene
di un misterioso appuntamento. Lo scrittore vive di
appuntamenti. Bevilacqua è un punto di riferimento.
È lo scrittore riferimento di un secolo passato e
che continua a vivere tra gli spazi degli anni e dei
linguaggi. La letteratura è viaggio come le
esistenze.
Chiude così il romanzo di Bevilacqua: “Penso al
viaggio che desiderava fare con me, finalmente in
pace, nel posto più misterioso. Gli ho giurato che
lo faremo./E forse quel viaggio ci porterà insieme
tutti e tre./Per ascoltarci”. Porsi in ascolto. Nel
tempo e con il tempo nella vita e oltre la vita. Un
romanzo che resta. |
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pubblicato il 21 Maggio 2006
“Nelle vene
quell’acqua d’argento”
Le
METAFORE ANTICHE di Franceschini
di
Pierfranco Bruni
Metafore
antiche come le stagioni che sono vita nel romanzo
di Dario Franceschini dal titolo “Nelle vene
quell’acqua d’argento”
“Aveva sempre confuso il silenzio con il freddo”.
Una bella immagine che sa di metafora nella quale la
vita entra nella letteratura e la letteratura recita
la vita. Ma quell’Aveva misura il tempo sulla corda
dei ricordi. E’ l’incipit del romanzo di Dario
Franceschini. Il silenzio, comunque, sembra una
assonanza, un lievito, una dimensione tra l’ironico
e l’onirico. Un pavesiano sentimento del ricordo
(fatto di memorie e di oblio che scavano nella
coscienza e nel sogno) e una geografia dei luoghi e
del sentire che sarebbe certamente piaciuta a
Giovannino Guareschi. Ma forse anche una atmosfera
che avrebbe amato Grazia Deledda.
Un andare lento in quella nostalgia che conosce non
solo frammenti di abbandoni ma anche dolcezze in un
intreccio di realtà e metafore in cui tempo ed
esistenza sono tracciato letterario e vissuto di
luoghi. I luoghi non sono ambienti o paesaggi fine a
se stessi. Sono piuttosto un vivere il luogo e il
paesaggio nella sfumature delle esistenze e del
passaggio di un tempo che, come dirò più vanti, non
è mai immobile.
Non mi ha sorpreso. Navigare tra i “fiumi” di
un’acqua che ha filamenti d’argento, per usare una
allegoria lirica, è sempre entrare nel di dentro di
destini che, pur se non accomunano, lasciano
chiaramente il segno. Mi riferisco sempre al romanzo
di Dario Franceschini dal titolo straordinariamente
emblematico “Nelle vene quell’acqua d’argento”,
edito da Bompiani.
Franceschini, come si sa, è un politico, impegnato
nel mondo della cultura e della cultura ne ha fatto
un perno. Cultura politica, cultura letteraria
attraversata dai segni intangibile della memoria.
Infatti questo romanzo è un camminare sulle tracce
di un passato che non si dimentica, che non va
dimenticato e che resta con i personaggi che
campeggiano su una scena fatta di storia, di spazi
geografici e di paesaggi e soprattutto di tempo. Non
si tratta di un tempo immobile.
Neppure del tempo della meraviglia. Ma il tempo
della letteratura raccoglie, come in questo caso,
l’essere, il presente e il ciò che è stato. Il
quotidiano non si vive nella letteratura. E questo
romanzo è proprio la dimostrazione di ciò. Penetrare
la memoria che è nel tempo significa, tra l’altro,
recuperare quel tempo che viaggia dentro di noi. Il
viaggiare del tempo è un viaggiare nel tempo senza
mai assentarsi dalle nostre consapevolezze. Il tempo
come urto con la storia. Infatti nel romanzo di
Franceschini non ci sono concessioni alla storia e
il realismo si supera grazie alle immagini che vi
campeggiano perché sono queste che danno il senso di
una memoria mai scalfibile.
E poi i valori riempiono la parola che è fatta di
anima. Tracce deamicisiane (come nelle pagine
dedicate alla morte dello scolaro Bruno Baldini)
sono una singolarità del sentimento che sfoglia le
pagine della vita. Una dopo l’altra queste pagine
sono il vero frontespizio del vissuto che si adagia
nel quotidiano.
Diamo solo una sottolineatura immediata della trama
senza andare oltre perché il romanzo bisogna
leggerlo per la bellezza che emana. Dunque. Perché
Pietro Bottardi (nome del personaggio che campeggia
nel contesto di tutto il narrato) va alla ricerca
del suo compagno di scuola? Per rispondere ad una
domanda rimasta in sospeso o per cercare altre
risposte? O forse per capire se stesso?
La giovinezza è stata attraversata da interrogativi,
da anni che non hanno portato via il sapore dell’età
e l’immaginario che si rispecchia nelle acque è un
cerchio magico tra gli echi che giungono da lontano.
Pietro segue le linee del fiume e sa che il fiume
non è per niente uno specchio. Anzi. Non ci permette
di essere quelli che siamo stati. Metaforicamente
non si ha la possibilità di bagnarsi nelle stesse
acque. Ma il ricordo vive nei giorni dell’attesa.
Il suo compagno, Massimo Civolani, ha scelto di vere
nella “terra del fiume”. Terra e fiume. Un intreccio
di viaggi o un intreccio nell’indefinibile viaggio
nelle acque della rigenerazione. Il fiume è come la
vita e la vita è nello scorrere di quei sentieri che
sono esistenziali e spirituali. I rimpianti sono
altrove perché nel mosaico del tempo la nostalgia è
un “esistente” che ci accompagna senza trasgredire
il presente ma affidandoci i passi del tempo. E qui
si vive nel frammentare la vita recuperando la
musica, l’arte e i linguaggi che permettono di non
assentaci mai soprattutto da noi stessi. Pietro
Bottardi non si assenta mai.
Ci sono foglietti ingialliti che vengono ritrovati
per riportarci a un qualcosa che non c’è più.
Sensazioni che sono esistenza o che fanno una
esistenza: “…Come uno scrittore che non racconta le
cose che ha visto ma che segna soltanto con la penna
le storie già finite che vivono dentro di lui”. Così
è annotato in questo foglietto giallo ritrovato in
un cassetto. Franceschini, in fondo, è uno scrittore
che segna le storie che, metaforicamente o meno,
resistono al tempo. Siamo fatti di foglietti
ingialliti. Ed è in questa letteratura che l’uomo
non resta una desinenza ma una vita.
Il tempo sono i passi che ci vivono e che viviamo. I
passi sono il colore che illumina sapendo che le
radici sono dentro di noi perché nelle vene c’è
quell’acqua d’argento che è, appunto, la metafora
del ritrovarsi sempre. Un romanzo rivelazione? Ma io
direi che si tratta di un bel romanzo che non è da
collocarsi nello “stile” degli scrittori latino –
americani ma va nel solco della tradizione italiana.
Una tradizione ben consolidata.
Ecco perché ho citato Guareschi. In quella
tradizione italiana in cui linguaggio, senso dei
luoghi, personaggi costituiscono una vera identità
non solo letteraria ma anche profondamente radicata
in quei valori della cultura popolare. Una eredità
italiana che si è ben testimoniata attraverso
scrittori e romanzi. Le stagioni, i segni, il tempo
tra le pieghe dei ricordi, le immagini lungo
l’esistere della parola. Sempre di viaggio si
tratta. Io dei romanzi tento di cogliere le
sfumature, i dettagli, le pieghe. Un romanzo è
sempre un viaggio e come tutti i viaggi è fatto di
partenze. Ma chissà dove ci condurrà? Un romanzo di
acque e di terre. Metafore antiche come le stagioni
che sono vita. Così nel romanzo di Dario
Franceschini.
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pubblicato il 1 Nov 2005
Il
senso dei luoghi di Vito Teti
Il senso dei
luoghi - Memoria e storia dei paesi abbandonati.
di Maria
Zanoni
Vito
Teti, docente di Etnologia all'Università della
Calabria, dove dirige il Centro di antropologie e
Letterature del Mediterraneo, nel volume "Il
senso dei luoghi" – edito da Donzelli nel 2004,
invita a guardare i luoghi abbandonati con occhi
diversi, in una dimensione cognitiva ed affettiva
nuova.
In 569 pagine, ricche di illustrazioni-documenti,
scopriamo il senso della nostra identità.
"Proprio paesi abbandonati, paesi a rischio
abbandono, centri senz'anima e senza piazze, senza
posti di ritrovo, desolati, a volte mortificati,
devastati, oggetto d'incuria e di speculazioni,
proprio questi non-luoghi aspirano a diventare
luoghi, ad essere riconosciuti come luoghi, ad
affermarsi come nuovi luoghi" – dice l'Autore
nell'Introduzione.
Vito Teti legge il territorio, per salvare le
nostre "radici".
E lo legge attraverso documenti e monumenti che il
territorio conserva, attraverso processi culturali
il cui portato storico assume valenze etiche ed
esistenziali.
Lontano da vagheggiamenti di un mitico passato e da
nostalgie di ritorno alle origini, l'antropologo
lascia spazio alle memorie dello scrittore.
I luoghi abbandonati, che l'occhio distratto non
vede, perdono il loro senso di solitudine, di
smarrimento e di silenzio per diventare punto di
riferimento.
Le rovine, i muri diruti, le pietre raccontano
storia; rinascono a nuova vita, e con i segni
del tempo trasmettono sensazioni, emozioni, memorie,
culture, identità.
Per far rivivere queste realtà, per renderle vitali
e protagoniste, è necessario un robusto progetto
didattico e scientifico che sfrutti varie sinergie
che possano realizzare processi di promozione, oltre
che di difesa.
Un progetto di ampio respiro che investa la Scuola,
prioritariamente, gli Enti locali e faccia i conti
con l'Europa.
È finito per sempre il tempo di piangersi addosso.
È il momento di operare per salvare l'immenso e
prezioso patrimonio culturale, storico, naturale,
artistico, enogastronomico che la Calabria possiede,
per vincere la sfida e riscattare il volto pulito
della regione.
Le linee di sviluppo nel campo delle politiche
territoriali devono passare attraverso la
valorizzazione dell'identità e della specificità di
luoghi e culture, senza trascurare le individualità
territoriali che derivano da valenze
folklorico-antropologiche.
La visita guidata, scientificamente programmata
dalla scuola, supportata dallo spessore culturale
del racconto folklorico nel territorio è in grado di
fornire ai luoghi una identità specifica, capace di
suscitare interesse e coinvolgimento, ai fini della
conoscenza, sicuramente più forte di altri modi di
far turismo a volte frettolosi e superficiali.
Il paesaggio ha una dimensione
simbolico-immaginaria in cui, più che in altre, è da
ricercare l'identità dei luoghi.
La nostra terra ha molto da raccontare: ogni fase
della sua storia mantiene un legame imprescindibile
con i gusti, con i sapori, con i luoghi che hanno
accompagnato gli eventi.
Far rivivere i luoghi, e quindi l'economia,
significa riqualificare l'esperienza quotidiana dei
territori, quella legata alle tradizioni, alle
botteghe storiche, agli antichi mestieri, esaltando
le caratteristiche di coinvolgimento e di ritualità
che sono insite in queste produzioni.
Solo così ci riappropriamo del senso dei luoghi,
per capirli, valorizzarli, amarli e comunicarli. |
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pubblicato il 12
Mag 2005
Umberto
Eco: Riflessioni illustrate sulla Bellezza
di Maria
Zanoni
Nell’Aula
Magna dell’Università della Calabria, gremitissima,
il 6 maggio 2005 Umberto Eco ha tenuto una
Lezione Magistrale sulla Bellezza. L’incontro,
promosso dal Dipartimento di Filologia dell’Unical e
dall’Istituto Italiano di Studi filosofici, è stato
un bagno di folla per il grande pensatore, esteta
del linguaggio, nato ad Alessandria nel 1932, che
vanta più di 30 Lauree Honoris causa.
In un clima di cordialità, il corpo accademico e
quello studentesco, gli intellettuali e la gente
comune respirano emozioni.
Come nel suo libro «Storia della bellezza», (Bompiani
2004, pagg. 438, € 30,00), l’Autore de Il nome della
rosa, fa un lucido e prezioso excursus, analizzando
l'idea di bellezza in occidente dall'antichità
classica ai nostri giorni, attraverso l’iconografia
della storia dell’Arte e dell’Estetica.
Sullo schermo alle spalle del carismatico scrittore,
scorrono più di cento immagini, testimonianze di
come gli artisti sono anche strumento per
ricostruire i modi in cui gli uomini della strada di
tutti i tempi sentono il Bello.
Il celebre semiologo indaga le varie forme che la
Bellezza sia fisica che divina (dei corpi umani e
animali, della natura, degli astri e della luce) ha
assunto nelle diverse epoche storiche.
Da «Storia della bellezza» proponiamo un brano
che prende in esame il XX secolo.
”Immaginiamo uno storico dell'arte del futuro o un
esploratore in arrivo dallo spazio che si pongano
entrambi questa domanda: qual è l'idea di Bellezza
che domina il XX secolo? In fondo noi non abbiamo
fatto altro, in questa cavalcata nella storia della
Bellezza, che porci domande analoghe circa la Grecia
antica, il Rinascimento, il primo o il secondo
Ottocento. È vero che si è fatto il possibile per
individuare i contrasti che agitavano uno stesso
periodo, in cui per esempio potevano coincidere. Il
gusto neoclassico e l'estetica del Sublime, ma, in
fondo, si aveva pur sempre la sensazione, guardando
«da lontano», che ogni secolo presentasse delle
caratteristiche unitarie, o al massimo una sola
contraddizione fondamentale.
Può darsi che, guardando anche loro «da lontano»,
gli interpreti del futuro individuino qualcosa come
veramente caratteristico del Novecento, e che diano
per esempio ragione a Marinetti, dicendo che la Nike
di Samotracia del secolo appena passato era una
bella macchina da corsa, ignorando magari Picasso o
Mondrian. Noi, da parte nostra, non possiamo
guardare cosi da lontano; possiamo accontentarci di
rilevare che la prima metà del Novecento, e al
massimo gli anni Sessanta del secolo (dopo sarà più
difficile), è teatro di una lotta drammatica tra la
Bellezza della provocazione e la Bellezza del
consumo.
La Bellezza della provocazione è quella proposta dai
vari movimenti d'avanguardia e dallo sperimentalismo
artistico: dal futurismo al cubismo,
dall'espressionismo al surrealismo, da Picasso sino
ai grandi maestri dell'arte informale e oltre.
L'arte delle avanguardie non pone il problema della
Bellezza. Si sottintende certo che le nuove immagini
siano artisticamente «belle», e debbano procurare lo
stesso piacere procurato ai propri contemporanei da
un quadro di Giotto o di Raffaello, ma questo
proprio perché la provocazione avanguardistica viola
tutti i canoni estetici sino a questo momento
rispettati.
L'arte non si propone più di fornire un'immagine
della Bellezza naturale, né vuole procurare il
pacificato piacere della contemplazione di forme
armoniche. Al contrario, essa vuole insegnare a
interpretare il mondo con occhi diversi, a godere
del ritorno a modelli arcaici o esotici: l'universo
del sogno o delle fantasie dei malati di mente, le
visioni suggerite dalla droga, la riscoperta della
materia, la riproposta stralunata di oggetti d'uso
in contesti improbabili (vedi nuovo oggetto, dada
ecc), le pulsioni dell'inconscio.
Una sola corrente dell'arte contemporanea ha
recuperato un'idea di armonia geometrica che può
ricordarci l'epoca delle estetiche della
proporzione, ed è l'arte astratta.
Ribellandosi sia alla sudditanza della natura sia a
quella della vita quotidiana, essa ci ha proposto
pure forme, dalle geometrie di Mondrian alle grandi
tele monocrome di Klein, Rothko o Manzoni.
Ma è stata esperienza comune di chi visitava una
mostra o un museo nei decenni passati ad ascoltare i
visitatori che - di fronte a un quadro astratto - si
domandavano «che cosa rappresenta» e protestavano
con l'immancabile «ma è arte, questa?».
E quindi anche questo ritorno «neopitagorico»
all'estetica delle proporzioni e del numero si attua
contro la sensibilità corrente, contro l'idea che
l'uomo comune ha della Bellezza. Infine ci sono
molte correnti dell'arte contemporanea (happenings,
eventi in cui l'artista incide o mutila il proprio
corpo, coinvolgimenti del pubblico in fenomeni
luminosi o sonori) in cui pare che sotto il segno
dell'arte si svolgano piuttosto cerimonie di sapore
rituale, non dissimili dagli antichi riti misterici,
che non hanno per fine la contemplazione di qualcosa
di bello, bensì una esperienza quasi religiosa,
anche se di una religiosità primitiva e carnale, da
cui sono assenti gli dei.
E d'altra parte di carattere misterico sono le
esperienze musicali che folle immense fanno in
discoteca o nei concerti rock, dove, tra luci
stroboscopiche e suoni ad altissimo volume, si
pratica un modo di «stare insieme» (non di rado
accompagnato dall'assunzione di sostanze eccitanti)
che può apparire anche «bello» (nel senso
tradizionale di un gioco circense) a chi lo
contempla standone fuori, ma non viene vissuto come
tale da chi vi è immerso. Chi la vive potrà anche
parlare di una «bella esperienza», ma nel senso in
cui si parla di una bella nuotata, di una bella
corsa in motocicletta o di un amplesso
soddisfacente.
Il nostro visitatore del futuro non potrà comunque
evitare di fare un'altra curiosa scoperta. Coloro
che visitano una mostra d'arte d'avanguardia, che
comperano una scultura «incomprensibile» o che
partecipano a uno happening, sono vestiti e
pettinati secondo i canoni della moda, portano jeans
o vestiti firmati, si truccano secondo il modello di
Bellezza proposto dalle riviste patinate, dal
cinema, dalla televisione, e cioè dai mass media.
Essi seguono gli ideali di Bellezza proposti dal
mondo del consumo commerciale, quello contro cui si
è battuta per cinquanta e più anni l'arte delle
avanguardie.
Come interpretare questa contraddizione?
Senza cercare di spiegarla: essa è la contraddizione
tipica del XX secolo; A questo punto il visitatore
del futuro dovrà cercare di chiedersi quale è stato
il modello di Bellezza proposto dai mass media, e
scoprirà che il secolo è attraversato da una doppia
cesura.
La prima è tra modello e modello nel corso dello
stesso decennio. Tanto per fare qualche esempio, il
cinema propone negli stessi anni il modello della
donna fatale incarnato da Greta Garbo e da Rita
Hayworth, e quello della «ragazza della porta
accanto» impersonato da Claudette Colbert o da Doris
Day. Consegna come eroe del West il massiccio e
virilissimo John Wayne e il mansueto e vagamente
femmineo Dustin Hoffman.
Sono contemporanei Gary Cooper e Fred Astaire, e
l'esile Fred danza con il tarchiato Gene Kelly.
La moda offre abiti femminili sontuosi come quelli
che vediamo sfilare in Roberta, e nel contempo i
modelli androgini di Coco Chanel.
I mass media sono totalmente democratici, offrono il
modello di Bellezza per chi è già fornito di grazia
aristocratica dalla natura e per la proletaria dalle
forme opulente; l'agile Delia Scala costituisce un
esempio per chi non può adeguarsi alla «maggiorata
fisica» Anita Ekberg; per chi non ha la Bellezza
maschia e raffinata di Richard Gere, c'è il fascino
esile di Al Pacino e la simpatia proletaria di
Robert De Niro.
E infine, per chi non può arrivare a possedere la
Bellezza di una Maserati, c'è la conveniente
Bellezza della Mini Morris.
La seconda cesura spacca in due il secolo.
Tutto sommato gli ideali di Bellezza a cui si
rifanno i mass media dei primi sessant'anni del
Novecento si richiamano alle proposte delle arti
«maggiori». Signore dello schermo come Francesca
Bertini o Rina De Liguoro sono parenti prossime
delle donne languenti di D'Annunzio, le figure
femminili che appaiono nelle pubblicità degli anni
Venti e Trenta richiamano la Bellezza filiforme del
floreale, del Liberty e dell'Art Déco.
La pubblicità di vari prodotti risente
dell'ispirazione futurista, cubista e poi
surrealista. Ispirati dall'Art Nouveau sono i
fumetti di Little Nemo, mentre l'urbanistica d'altri
mondi che appare in Flash Gordon ricorda le utopie
di architetti modernisti come Sant'Elia, e
addirittura anticipa le forme dei missili a venire.
I fumetti di Dick Tracy esprimono una lenta
assuefazione alla stessa pittura d'avanguardia.
E in fondo, basta seguire Topolino e Minnie, dagli
anni Trenta agli anni Cinquanta, per vedere come il
disegno si adegui allo sviluppo della sensibilità
estetica dominante. Ma quando da un lato la Pop Art
s'impadronisce, a livello di arte sperimentale e di
provocazione, delle immagini del mondo del
commercio, dell'industria e dei mass media, e
dall'altro lato i Beatles rivisitano con grande
sapienza anche forme musicali che provengono dalla
tradizione, lo spazio tra arte di provocazione e
arte di consumo si assottiglia. Non solo, ma se
sembra che esista ancora una distinzione qualitativa
tra arte «colta» e arte «popolare», l'arte colta, in
quel clima che è definito post-moderno, offre
contemporaneamente nuove sperimentazioni al di là
del figurativo e ritorni al figurativo, a
rivisitazioni della tradizione.
Dal canto loro i mass media non presentano più alcun
modello
unificato, alcun ideale unico di Bellezza. Possono
recuperare, anche in una pubblicità destinata a
durare una sola settimana, tutte le esperienze
dell'avanguardia, e al tempo stesso offrire modelli
anni Venti, anni Trenta, anni Quaranta, anni
Cinquanta, persino nella riscoperta di forme desuete
delle automobili di metà secolo.
I mass media ripropongono un'iconografia
ottocentesca, il realismo fiabesco, l'opulenza
giunonica di Mae West e la grazia ano-ressica delle
ultime indossatrici, la Bellezza nera di Naomi
Campbell e quella anglosassone di Kate Moss, la
grazia del tip tap tradizionale di A Chorus Line e
le architetture futuristiche e agghiaccianti di
Blade Runner, la donna fatale di tante trasmissioni
televisive o di tanta pubblicità e la ragazza acqua
e sapone alla Julia Roberts o alla Cameron Diaz,
Rambo e Platinette, George Clooney dai capelli corti
e i neo-cyborg che metallizzano il volto e
trasformano i capelli in una foresta di cuspidi
colorate o si radono a zero.
Il nostro esploratore del futuro non potrà più
individuare l'ideale estetico diffuso dai mass media
del XX secolo e oltre.
Dovrà arrendersi di fronte all'orgia della
tolleranza, al sincretismo totale, all'assoluto e
inarrestabile politeismo della Bellezza.”
Nella foto: Maria Zanoni e lo scrittore Umberto
Eco nell'Aula Magna dell'Unical
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pubblicato il 11 Maggio 2005
Addio
al poeta MARIO LUZI
di Pierfranco
Bruni
La
poesia è fatta di tempo e di luoghi. Le metafore che
circondano le parole nell’immenso destino del sogno
sono, appunto, quei luoghi che recitano lo spazio.
Mario Luzi (Firenze 1914 – 2005) è un poeta nel
tempo dello spazio nel quale i luoghi dell’essere
sono fatti di sguardi ancorati alla memoria. Un
intreccio che è conoscenza e dimensione dell’essere.
La poesia, dunque. Una didattica sulla poesia.
Bisognerebbe riflettere. Dovremmo spingerci verso
una metodologia della didattica della poesia. Ma in
modo serio. Il poeta è nel tempo. Chi continua negli
esercizi linguistici non conosce il tempo perché non
conosce l'emozione, lo stupore, la meraviglia, il
dolore, la gioia, la passione. Luzi ha sempre
creduto all’insegnamento della parola poetica. Tanti
i suoi libri da quel 1935 quando uscì La barca. Sino
a L’adorazione dei Magi e dei pastori: un classico
nella sua costante ricerca di infinito.
La parola come la vita in Luzi. La parola nella
vita. E, chiaramente, viceversa. Spesso si dibatte
sulla funzione della poesia. Un gioco infinito ma
anche indefinibile. Ci cattura. Ci aggredisce. Ci
abbandona. Vive dentro di noi. Vive fuori di noi. Ma
non voglio parlare di questo. Il poeta è uno
scrittore. Lo scrittore non sempre è un poeta. Il
poeta è attraversato dalle alchimie. Lo scrittore
forse del pensare, di quel pensare che può conoscere
magia e mistero ma può anche non conoscere i
sentieri dell'incantesimo. Voglio andare oltre. I
luoghi dello scrittore. I luoghi del poeta. I vizi.
Gli assurdi.
Il poeta e lo scrittore hanno una loro geografia.
Metaforica e fisica. Le case e il sogno. O la
fantasia e l'allegoria. Il tempo. Il tempo nella
geografia dell'anima e nella geografia del vedere,
del toccare. I luoghi dello scrittore (quelli fisici
inizialmente) diventano ben presto i luoghi e gli
spazi della letteratura. Il più delle volte la
geografia dello scrittore si impossessa dello stesso
linguaggio. Un linguaggio che è recita di tempo e di
modelli esistenziali. Lo scrittore si forma con il
linguaggio recuperando alla memoria i segni del
quotidiano. Una volta recuperati questi gesti
bisogna assorbirli e non renderli rappresentativi.
La rappresentazione uccide l'atto poetico, uccide la
favola, la magia, il mistero. Perché rende l'effetto
creativo stesso come elemento di un realismo
immediato. Lo stesso luogo non può essere una
dimensione che conduce alla descrizione. Deve
servirsi della metafora perché è la metafora che si
impossessa di tutto il vissuto.
Mario Luzi in Vero e verso Scritti sui poeti e sulla
letteratura ha sottolineato: "Il mistero è invece
l'habitat, possiamo dire, ordinario del poeta, per
quanto realistica possa essere la sua tesi o ipotesi
di lavoro. Ci sono poeti che si professano, appunto,
realisti e fondano la propria poetica sul realismo -
anch'esso richiederebbe una più precisa definizione
- prendiamo Brecht, per esempio: neanche lui
potrebbe negare che c'è un margine di mistero nella
trasformazione che il suo realismo, la sua capacità
di analisi realistica del mondo è poi costretta a
subire nel processo creativo, nel tradursi in un
testo poetico".
Ed è vero quello che dice Luzi. Anche in Brecht si
può leggere la dimensione della memoria oltre il
realismo. La poesia come messaggio universale ma è
tale perché si assottiglia il rapporto con il reale
e prende il sopravvento il misterioso. Il tempo in
letteratura non conosce il presente ma lo attraverso
e lo conosce successivamente ma nel momento in cui
lo ha conosciuto è già passato. In questo passato si
definisce la nostalgia che in letteratura la si
legge anche come patos.
Lo scrittore deve fare i conti con questi
attraversamenti. In fondo il suo mondo (che è fatto
di sentieri di parole e di sentieri di anima) non è
un giocare con il presente e i luoghi della sua
esistenza diventano metafora letterariamente ma
anche antropologicamente. I luoghi dell'essere sono
i luoghi del tempo. Sono i luoghi che fanno della
parola un immenso universale. Un indefinito. La
Sicilia per Pirandello, la Calabria per Alvaro, il
Piemonte per Pavese, la Sardegna per Deledda, la
Liguria per Caproni, la Toscana per Pratolini,
Napoli per Domenico Rea. Soltanto esempi. Ma ci sono
precise indicazioni che creano una ragnatela di
suggerimenti onirici. I luoghi di Luzi sono nel
cerchio magico delle immagini – metafore.
Il luogo viene sempre ad essere vissuto come destino
di appartenenza. In Luzi c’è un’appartenenza fatta
di cose e di simboli. appartenere ad un luogo che è
stato un a - priori. Ovvero un riferimento
ancestrale. Perché sì. Questo luogo di solito è il
luogo dell'infanzia che si traduce come il luogo
delle origini e le origini sono un richiamo che ci
porta al senso della nascita. Origini come radici.
Un legame che unisce ancora di più un orizzonte non
solo letterario ma umano.
In questo proscenio il tempo e lo spazio sono
decifrazione, appunto, di un mistero. Ma sia il
tempo che lo spazio definiscono il luogo o i luoghi,
come già si diceva. Ancora Luzi: "Mistero,
d'altronde, non deve essere pensato come
impossibilità, o rinunzia a conoscere, ma come modo
altro della conoscenza, come modo particolare di
conoscenza; conoscenza per mistero è una elargizione
della fede, un dono dell'iniziazione confortato dal
pensiero teologico, ma lo è anche per altri campi
tra cui, appunto, la poesia".
La poesia come motivazione. L'ancestrale desiderio
di ritrovare il luogo è un costante bisogno di
ritrovar - si. Ritrovarsi, dunque, è un indefinibile
desiderio che cattura, tra l'altro, il bisogno di
conoscenza. Riconoscer - si nei luoghi è riconoscere
un tempo e uno spazio. Ritrovarsi, riconoscersi,
ritornare. Appunto il viaggio che va verso il
sentimento del nostos.
Lo scrittore ha come filo conduttore un legame,
appunto, ancestrale, forse inconscio, ma che diventa
simbolico. Il linguaggio si nutre di simboli.
Altrimenti si perde, si dimentica. Ecco perché il
luogo ha sempre un valore metafisico. Non potrebbe
essere diversamente. E dentro il luogo ci sono i
luoghi. Il paese, il quartiere, la via, la piazza,
il bar, l'incontro. Tutto questo lo si potrebbe
riassumere come la "circostanza" del paesamento.
Lo scrittore cerca di allontanarsi dallo spaesamento
facendo ritorno al centro. Il centro del luogo o dei
piccoli luoghi è il ritornare. Ma questo luogo che è
la metafisica di una esistenza e la metafora della
parola che richiama echi antichi non è altro che il
destino che accomuna in una identità che ha sempre
una sua visione omerica. Questo luogo non può che
essere definito allegoricamente con il concetto che
rimanda alla metafora, ormai antica ma sempre
valida, di Itaca.
Lo scrittore che cerca il paesamento o che si cerca
nello spaesamento è sempre uno scrittore della
nostalgia. Un paese vuol dire non essere soli
raccontava Pavese. "Pensa a Itaca, sempre,/il tuo
destino ti ci porterà" recitava Kavafis. Bisogna
sempre pensare a quest'Itaca. Quando la si è
lasciata la si porta dentro. Quando si vive
fisicamente Itaca continuerà ad essere la nostra
meta. E', in fondo, il viaggio. Lo scrittore che
dimentica è lo scrittore che si è lasciato
intrappolare dall'assenza. Uno scrittore
attraversato dall'assenza sa di essere aggredito dal
vuoto.
L'assenza è assentarsi. Per lo scrittore è
smarrirsi. La perdita del luogo letterariamente
diventa una "vacanza" ma soprattutto la si legge
come un lutto e quindi come l'intrappolamento
dell'angoscia. E' da questa angoscia che lo
scrittore deve cercare di uscir fuori. La fuga, in
questo caso, è piuttosto una fuga dall'angoscia che
mira a riconquistare un destino. Ma in Luzi non c’è
deriva. C’è una ontologia dello spazio e del tempo.
La letteratura è la metafora del luogo perché in
essa si recupera l'agonia dello smarrimento in una
dimensione non del rifuggir - si nel luogo ma
ritrovare il luogo e quindi lacerare così anche il
sentimento della distanza. Ritornare è in fondo è
"ricostruire un universo perduto" (come dice Luzi).
Sostanzialmente l'idea omerica è un destino e resta
tale in un tempo che non può essere reale e che in
letteratura si traduce nell'orizzonte della memoria.
La letteratura è un orizzonte che va oltre la linea
ma lo scrittore non è un confine. Il poeta è un
vagare. La poesia non è un percorso. E' una
geografia del tempo e dell'essere. Si è stati si
dice in poesia. Non si è. Perché se si è, si è già
stati. La poesia è una metafora che intaglia
nell'essere attraverso anche la fisicità. Un giocare
con l'anima, con le disarmonie - armonie del cuore,
con le linee del corpo.
Insomma vivere la poesia non è in un vivere
astratto. La realtà esiste ma la realtà conosce le
maschere e le finzioni. Forse nel sogno. Forse
oltre… Bisogna proprio riprendersi il perduto per
essere nell'anima della poesia ricostruendosi nel
tempo che fugge. E' il tempo che fugge una geografia
indefinibile, come è indefinibile la nostalgia della
parola che sfiora le labbra in una leggera carezza
tra amanti nella tenerezza, nella passione, nel
respiro di un silenzio. A volte la poesia è anche
silenzio. Bisogna saperla ascoltare. Il silenzio
della poesia di Luzi è incanto dello sguardo. Oltre
ogni luogo reale ma nel luogo del sempre.
Il poeta è il silenzio. Ma il silenzio è un
linguaggio nell'indefinibilità dell'essere e del
tempo. I rimandi letterari sono necessari, ma perché
cercarli? Verranno da soli. Oltre i luoghi. O nei
luoghi. Oppure, chissà? Il viaggio di Mario Luzi è
un incidere nel solco di una memoria che supera ogni
steccato geografico perché è la geografia
dell’essere che si fa misterioso cammino. Un io nel
simbolico che chiosa la favola indefinibile
dell’uomo che non può dimenticare.
Un viaggio che si fa oggi ancora di più
indefinibile. Ed è quel viaggio nell’amore che va
oltre i limiti. Così in una poesia del 2004 da
Dottrina dell’estremo principiante: “L’amore aiuta a
vivere, a durare,/l’amore annulla e dà principio. E
quando/chi soffre o langue e spera, se anche spera,
che un soccorso s’annunci di lontano,/è in lui, un
soffio basta a suscitarlo./Questo ho imparato e
dimenticato mille volte,/ora da te mi torna fatto
chiaro,/ora prende vivezza e verità.//La mia pena è
durare oltre quest’attimo”.
Nella foto:
il poeta Mario Luzi, spentosi lunedì 9 maggio 2005
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pubblicato il 2 Maggio 2005
Luci
a San Siro... di questa sera: Maria
Zanoni rilegge Roberto Vecchioni
in
concerto al Politeama di Catanzaro.
di Maria Zanoni
Una
straordinaria performance teatrale, più che il
solito concerto.
Un ritorno al "lirismo" che privilegia la parola, la
"sua" musicalità, l'incanto che può esibire quando è
nuda e cruda davanti a tutti.
L'Artista canta, sussurra, colloquia, accompagnato
solo da due musicisti: uno al pianoforte, l'altro al
contrabbasso.
Un “recital” che sta tra il cabaret espressionista,
il recitar cantando e il canto-confessione (come
dice Vecchioni stesso); e si presenta come un
varietà da camera in cui le canzoni sono ovviamente
protagoniste.
Le canzoni che confessano disagio, dolore e speranza
attraverso la favola, il mito, le identificazioni
storiche, gli amici, i grandi "vecchi", come afferma
lo stesso cantante che spesso ama ricordare: “Più
si va avanti negli anni e più si ringiovanisce nella
coscienza e nel cuore. Puoi sfidare le cose. Non
te ne frega più niente. Dici le cose che vuoi dire.
Il senso delle cose, piccole o grandi che siano, si
confonde e scompare, mentre il senso dell'amore
rimane intatto ed eterno”.
E come non condividere?!?
Vecchioni dialoga magistralmente con il pubblico,
tra letture di brani di favole e omaggi a Van Gogh,
a Gauguin, a Pessoa, a Dante Alighieri, in mezzo ad
una scenografia che non distrae, ma fa pensare:
libri accanto al pianoforte; e ancora libri vicino
ad una sedia.
E il “cantante-poeta-prof” racconta storie di vita,
anche della sua vita; e, col tipico gusto
dell'appassionato di crittografia, nelle pieghe
occulte dei suoi versi racconta storia e
letteratura.
Ho ri-scoperto Roberto Vecchioni in una calda serata
d’agosto 2004 in Calabria.
Lì ho conosciuto il cantante, il poeta, l’uomo.
E non era quello incontrato negli anni sessanta.
Erano diverse le parole, le note, le sensazioni, le
emozioni; diversi anche i sorrisi, gli incanti, i
ricordi all’animo di chi (come me) andava al
concerto più per una sfida, una curiosità, che per
il piacere di godersi il cantante preferito e
rivivere emozioni.
Parlavo spesso di Vecchioni con un’amica carissima e
mi chiedevo: cosa potrà trovare nei testi e nella
musica di un attempato cantautore una giovane
“innamoratissima del mitico Roberto”?
E spesso riflettevo su quanto dice sul viaggio
poetico e musicale di Roberto Vecchioni il mio amico
Pierfranco Bruni nel suo libro “Fabrizio De Andrè –
il cantico del sognatore mediterraneo”.
Bruni, saggista attento, indagando sulla poesia
italiana, rileva che “la poesia, come forma
tradizionale negli anni Sessanta si trovava a vivere
un processo di dissolvimento non solo della parola,
ma nei contenuti. E in aiuto alla poesia venne la
canzone d’autore. Da una parte (per citare soltanto
alcuni nomi) i Gino Paoli, i Luigi Tenco, i Bruno
Lauzi e dall’altra Fabrizio De Andrè, Lucio
Battisti, Francesco De Gregori, Franco Battiato,
Riccardo Cocciante e poi Claudio Baglioni, Antonello
Venditti, Roberto Vecchioni.
La novità esemplare fu che la maggior parte di
questi cantautori proveniva da una scuola di
pensiero che, nonostante sottolineasse l’impegno e
il realismo, cantava l’amore, l’emozione degli
incontri, il rimpianto del tempo che passa, la
lontananza, la nostalgia, l’abbandono. [...] La
parola così ritornava a vivere. Anzi ad essere
presente nei codici del sentimento che si faceva
vita. La presenza della poesia e dei poeti era un
attraversamento non di mestiere ma di parametri
emozionali, che davano senso all’incontro tra parola
e musica.
[...] Si pensi al recupero della tradizione poetica
di Roberto Vecchioni. [...] L’autore di El bandolero
stanco conosce molto bene la letteratura e nei suoi
testi ci sono segnali precisi che vanno da Pavese, a
Pascoli, a Rimbaud, a Penna, ad Alda Merini, dalla
letteratura greca a quella latina e così via. [...]
un viaggio nel cerchio magico della parola-mistero”.
Il confronto di opinioni con i miei amici creò in me
curiosità e nello stesso tempo un po’ di rimorso per
aver “trascurato” uno dei grandi.
Le canzoni di Vecchioni erano passate sulla mia
pelle di liceale senza lasciare segno evidente.
Erano quelli gli anni della contestazione giovanile
che si consumava nelle grandi città, ma che nelle
nostre realtà di provincia aveva scenari diversi.
Era il tempo in cui le canzoni davano emozioni e
creavano legami; accompagnavano i primi amori, le
delusioni, le lontananze, le nostalgie.
E così, le note delle canzoni di Mina, Celentano,
Morandi, dei Beatles e poi ancora di Battisti e
Baglioni scandivano il tempo della mia vita,
accompagnando le mie solitudini e caricando i
momenti di gioia.
Eravamo alla metà degli anni Settanta, quando da una
radio locale conducevo un programma di musica e
poesia, scegliendo dall’Antologia di Spoon River di
Edgar Lee Masters liriche significative e struggenti
che affascinavano e trascinavano verso la poesia un
pubblico sempre più distratto e intrappolato dal
consumismo e dalle mode del momento.
Intanto Fabrizio De Andrè realizzava l’album “Non al
denaro non all’amore né al cielo” in cui il
cantautore ligure ha riletto l’opera dello scrittore
americano.
Quanto tempo è passato da allora... Oggi, nella
stagione dei bilanci, quel senso di
curiosità-rimorso, mi ha portato a riscoprire
Roberto Vecchioni e la sua poesia che valica i
confini del tempo.
È così che ho iniziato un viaggio alla scoperta dei
legami che uniscono le canzoni alla poesia, alla
letteratura e alla storia, per dimostrare come ci si
possa avvicinare alla storia e alla letteratura, non
soltanto attraverso le pagine dei manuali, ma anche
con le canzoni.
Non a caso Vecchioni afferma sull’enciclopedia
Treccani: “La canzone d'autore, pur partendo da due
modelli semantici preesistenti (il linguaggio
poetico e la notazione musicale) non si presenta
come somma aritmetica dell'uno e dell'altra.
Essa è già alla sua origine unità inscindibile di
racconto elaborato su figure letterarie proprie e
tessuto metrico che accompagna liberamente le
parole.
Non si possono separare musica e testo e non si può
prescindere dall'interpretazione che diventa terzo
elemento semantico essenziale: siamo di fronte alla
nascita di una forma d'arte e più particolarmente di
un genere letterario nuovo”.
E ancora, non a caso, nell’anno scolastico 1999-2000
il prof Vecchioni ha promosso oltre 40 appuntamenti
con le scuole superiori e le università italiane,
incontrando oltre 50.000 studenti sul tema "Musica e
poesia", illustrando l'evoluzione storica della
canzone d'autore, impegnandosi a diversi livelli per
il riconoscimento pieno della canzone come forma
poetica a se stante, forma espressiva ricca e
potente che muove sui tre canali semantici della
scrittura poetica, del brano musicale e
dell'interpretazione teatrale.
Oltremodo incuriosita da una affermazione del prof
Vecchioni: "Quando a scuola tengo una lezione di
storia" "non parlo mai di date, di fatti, ma di
antropologia”, ho cominciato a leggere con
attenzione i suoi libri.
Viaggi del tempo immobile (1996), è la storia
di Teliqalipukt, il protagonista immortale con il
compito di raccontare i propri vissuti con uomini
storici illustri. È l’Artista che racconta ad un
gruppo di bambini le paure, gli amori, i sentimenti,
il lato più umano, insomma, di vari personaggi della
Storia: Alessandro Magno e Fernand De Saussure,
Saffo, Andromaca e Miguel de Cervantes, Napoleone e
Rimbaud.
Le parole non le portano le cicogne (2000)
tratta dell’incontro di una diciassettenne inquieta,
Vera, con un vecchio linguista dolcissimo ed
eccentrico, Otto November, che le svela quanta forza
e vitalità custodisca ogni lingua, non con enfasi
accademica, ma con il linguaggio semplice della
vita.
Il libraio di Selinunte (2004) narra la
storia di un uomo misterioso, un libraio che narra i
suoi libri più che venderli e che riesce a stabilire
un magico legame solo con Frullo, un ragazzo
tredicenne che, nascosto dietro due pile di libri,
lo ascolta leggere ogni sera i passi più belli dei
grandi poeti e romanzieri di ogni tempo. E quelle
parole, per Frullo come per ogni lettore, spalancano
di colpo un universo di emozioni e di storie che
hanno un'eco lunga, come una favola infinita.
La “nostalgia di vivere” è il motivo di fondo che
anima i personaggi letterari e storici di cui è
ricca la produzione artistica del cantautore
brianzolo.
Fernando Pessoa, Saffo, Alda Merini, Thomas Mann,
sono gli autori cantati da Vecchioni che esprimono
questo sentimento di grande attaccamento alla vita,
nei quali l’autore proietta sempre qualcosa di sé.
Nella canzone Lettere d’amore entriamo
nell’animo del poeta portoghese Pessoa, che, alla
fine dei suoi giorni, fortemente attaccato alla
vita, comprende di aver cercato di capire il mondo
scrivendo migliaia di pagine, ma di essersi
dimenticato di scrivere lettere d’amore.
...e capì che “invece di continuare a
tormentarsi
con un mondo assurdo
basterebbe toccare il corpo di una donna,
rispondere a uno sguardo... E scrivere
d'amore,
e scrivere d'amore”....
Nelle parole della Canzone per Alda Merini,
traspare la volontà di affermare il proprio
disperato desiderio di vivere:
basta anche un niente per essere felici,
basta vivere come le cose che dici,
e di vederti in tutti gli amori che hai
per non perderti, perderti, perderti mai.
Il brano La bellezza mi regala forti
emozioni.
Nella canzone, ispirata al racconto La morte a
Venezia di Thomas Mann, traspare il rimpianto per il
tempo che passa. Ma la concezione che Vecchioni ha
del tempo è particolare: è come se i suoi personaggi
dilatassero il tempo della propria esistenza
rimanendo ancorati a piccoli frammenti di vita.
Passa la bellezza
nei tuoi occhi neri,
scende sui tuoi fianchi
e sono sogni i tuoi pensieri...
Venezia "inverosimile
più di ogni altra città"
è un canto di sirene,
l'ultima opportunità
ho la morte e la vita tra le mani
coi miei trucchi da vecchio senza dignità:
se avessi vent'anni
ti verrei a cercare,
se ne avessi quaranta, ragazzo,
ti potrei comprare,
a cinquanta, come invece ne ho
ti sto solo a guardare ...
E le note di Marika, dall’ultimo album "Rotary
club of Malindi":
“Canta Marika canta che da domani tornano le
stelle,
canta noi siamo il sangue che scorre nella tua
pelle,
canta non ti fermare, non ti voltare, gira tra la
gente,
siamo nelle tue mani, un vento sale un vento scende
dietro è il domani, domani è il presente”
mi riportano alla mente la Marika, dagli occhi
dolci, grandi, pungenti, dal sorriso antico, che
sapeva amare, “trafitta dal vento della morte in un
giorno d’estate” che anima le pagine de “L’ultima
primavera” (1998) di Pierfranco Bruni.
“Dopo la morte di Marika... non ho mai visto / il
cielo / urlare di sangue / come in questi giorni /
mentre le mie parole (continua Bruni) inchiodano
silenzi / mentre / le voci di sabbia /
impallidiscono...”
E’ la stessa Marika dell’ultimo romanzo di Bruni
Quando fioriscono i rovi. (2004):
“Marika, occhi di oceano che restano nel vento della
memoria”...
“Sei dentro di me come un’aurora che entra nel
giorno”...
“Lo so che ritrovarti è soltanto un arcobaleno di
metafore
ma lasciami questa nostalgia che è graffiata
nell’anima”...
Una metafora nella finzione e nella realtà, che
continua a vivere nella coscienza dei nostri giorni.
Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere ha
scritto:
“Non si ricordano i giorni, si ricordano gli
attimi”.
E sono proprio gli attimi che la musica spesso aiuta
a fermare e a riscoprire.
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