sei in
EDITORIALI
Letteratura
pag. 7
|
Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
|
|
pubblicato il 12 Giugno 2010
Isabella Morra
Un Rinascimento meridionale: tra Basilicata e
Calabria
Nei versi di un amore impossibile - A 490
anni dall’uccisione
di Pierfranco Bruni
Poesia e morte. Un binomio antico. Ha
attraversato intere generazioni. Ritorna spesso.
Ma è la poesia che fa discutere di questi
intrecci. Chi ricorda più la tragedia della
poetessa Isabella Morra? Era il 1546 quando
Isabella Morra veniva uccisa. Aveva 26 anni.
Ed era bella.
Bella con i
sogni tra i versi e le parole che raccontavano
solitudini nel tempo perduto in un feudo tra la
Calabria e la Basilicata. Suo padre era il
signore di Favale.
Un feudo nella
valle del Sinní. Era avverso agli spagnoli e
quando i francesi vennero scacciati dal Regno di
Napoli il padre di Isabella si rifugiò in
Francia. Isabella fu affidata alla cura dei
fratelli che la costrinsero a vivere in una
tragica solitudine.
Isabella si
innamorò del poeta Diego Sandoval de Castro
sposato con Antonia Caracciolo. I fratelli
appena scoperta la relazione, senza pensarci due
volte, uccisero Isabella e poco dopo tesero un
agguato al suo amante e lo trucidarono.
Era bella
Isabella. Nel castello di Favale. Era bella
mentre tendeva lo sguardo a Diego Sandoval,
mentre si amavano, mentre giocavano nel tempo
tragico a perdersi e a ritrovarsi. Era bella
Isabella nell'ultimo amplesso mentre con
tristezza recitava:
"Ogni mal ti perdono,/né l'alma si dorrà di
te giammai, /se
questo sol farai,/ahi, ahi, Fortuna (e perché
far no 'i dei?):/che giungan al gran Re
li sospiri miei."
L'eco
di lontananza e le voci del vento setacciate
nella notte. Notte di stelle e di tragedie.
Favale era un deserto. Giovanni Michele di
Morra al servizio del Gran Re si trovava lontano
dalla sua terra. Isabella lo invocava.
Lanciava
messaggi. E cantava una melanconia struggente:
"Torbido Siri, del mio mal superbo/or ch'io
sento da presso il fine ama /…/Dilli
come, morendo, disacerbo /l'aspra fortuna
e lo mio lato avaro, /e, con esempio
miserando e raro,/nome infelice a le tue
onde io serbo. /Tosto cb'ei giunga a la
sassosa riva /(a che pensar m'adduci, o
fiera stella,/come d'ogni mio ben son
cassa e priva!),/inquieta l'onde con
crudel procella, /e di: <<M'accrebber sì,
mentre fu viva, /non gli occhi no, ma i
fiumi d'Isabella>>."
Isabella morì
sotto i colpi dei fratelli. E anche l'amante
poeta. Tra i sogni in un gioco infinito. Si
perse un amore nel tradimento consumato. E la
fantasia era nella vita. Fantasia e biografia:
su questo tracciato si snocciola il mondo
poetico di Isabella Di Morra. Un tracciato
poetico teso sulla corda di una esistenzialità
inquieta e addolorata.
Che cosa fu la
poesia per Isabella? Una tragica coincidenza?
Il linguaggio come liberazione o come sintesi di
una vita ? Chi lo potrà mai confermare? E' certo
che Isabella invocò sempre il padre. Il padre
come identità perduta. L'amore per Diego
Sandoval come riferimento ritrovato. Ma le
coincidenze a volte sono più crudeli della vita
stessa.
Gli amanti
traditi in un rapporto d'amore vissuto sul
tradimento. E Antonia Caracciolo ? Quale
tradimento più atroce dovette subire ? Tradita e
beffata. E non c'era, nel tutto, un filo
sottile d'ironia. Ma il destino è un cammino
segnato che tocca le corde del tempo e incrocia
l'amore con la morte.
Isabella era
bella lungo il fiume Siri (o Sinni). E
raccoglieva parole per raccontare favole o
gloria di un tempo andato. E chiedeva al padre
di ritornare. Ma il tempo è lungo e le ore sono
brevi. Il tempo si sbriciola e i ricordi si
condensano nella memoria. Tutto, alla fine, è
memoria. Anche il suo canto è una voce nella
memoria che ritaglia sogni nelle fantasie che si
fanno futuro.
Ci sono racconti
che imprigionano misteri e racconti che si
chiudono nella solitudine. I destini si
incrociano. Isabella e Diego Sandoval. 0
quell'altra storia di sofferta malinconia tra
Bianca Lancia di Agliano e Federico.
L'imperatore Federico e Bianca. L'imperatore
muore poco dopo aver coronato il suo sogno
d'amore con Bianca.
Dopo aver
legittimato suo figlio Manfredi. Ci sono viaggi
imprevedibili e percorsi che diventano
insondabili e indefinibili. Isabella e Diego si
sono amati pur sapendo a cosa andavano
incontro. Ma ci sono segreti tra le pieghe di
ognuno di noi che non vorremmo rivelare neppure
a noi stessi. La vita è una tragedia che
continua.
Per Isabella non
c'era uscita diversa dalla sua tragedia. Il suo
canto disperato è una testimonianza di fuoco.
Erano le lacrime e il sangue che scorrevano nel
Siri. E si faceva triste la sera. Sotto la
luna si intonavano rime di dolore. Una delle
prime raccolte delle poesie di Isabella apparve
a Venezia nel 1552 ma a Napoli venne pubblicata
la raccolta integrale nel 1693. Fu Benedetto
Croce a riscoprirla.
Poesia di
meditazione. Poesia semplice. Poesia di
tristezza. Poesia della consapevolezza. Sono
state usate tante terminologie. Isabella Di
Morra resta nella poetica della tragedia: sia
biograficamente sia letterariamente. Forse
anche una poesia della solitudine.
"Quella ch'è detta la fiorita etade,/secca ed
oscura, solitaria ed erma, /tutta
ho passato qui cieca ed inferma."
Una commozione intensa pervade il dettato
poetico. I sogni sono dentro l'angoscia e le
disperazioni sono graffi sui muri del castello
di Favale. E' un fiume che scorre. Ci sono
parametri letterari sui quali si potrebbe
riflettere. Ma Isabella è la biografia che si
fa poesia e gioca con le onde di un amore -
fantasia.
"Deh, mentre ch'io mi lagno e giorno e
notte,/ o fere, o sassi, o orride ruine,/o selve
incolte, o solitarie grotte,/ulule e voci, del
mal nostro indovine,/piangete meco a voci alte
interrotte/il mio più d'altro miserando fine."
In
Leopardi ritorna questo canto. Una tensione
senza sirene che freme nell'angustia dei giorni
che passano e conducono inavvertitamente alla
fine. In ogni fìne c'è sempre la fine di un
tempo. Ci si consuma aggrappati ad una attesa.
E Isabella è stata colta dentro questa attesa.
Ma forse c'è anche un'attesa che manca.
Una poesia fatta
di tensioni. Nelle biografie ci sono sempre
misteri intrecciati a segni indecifrabili.
Chi potrà mai
penetrare i misteri o chi potrà mai entrare
dentro il fiume dei segreti? E' vero. Isabella
era bella. Nella disperazione era bella. La sua
poesia è una testimonianza che continua a
tracciare percorsi.
La solitudine e
poi la tragedia di Isabella alla fine si
trasformano in disperazione. Disperazione senza
speranze, disperazione senza ancore,
disperazione chiusa nel silenzio. Amore e
morte. Ma l'amore è nella morte e la morte (e
aveva ragione Michelstadter) è nell'amore -
vita.
Il destino
crudele la circondò. La avvolse nel suo
mantello. Il suo testamento non giunse a
termine. Pagine bianche. E poi c'è la morte.
Ma il tempo è più della morte. Ecco perché
ancora si racconta di Isabella Di Morra: donna
di Favale nata nel 1520 e morta uccisa nel
1546.
I suoi versi
recitano e il suo amore per Diego Sandoval è
oltre il fiume. Ma la vita è nel tempo e
l'amore è un segreto. |
inizio pagina |
pubblicato il 12 luglio 2010
Un Novecento
letterario non definito e non ancora finito:
nel destino di Carlo Michelstaedter e Maria
Zambrano
di Pierfranco Bruni
Tra
Carlo Michelstaedter, nato a Gorizia nel
1887 e morto suicida il 16 ottobre del 1910,
e Maria Zambrano, nata nel 1904 a Vélez –
Malaga e morta a Madrid, dopo un esilio di
45 anni, a Madrid nel 1991, i luoghi di un
esistere metaforico insistono in un
intreccio tra l’amore come persuasione e la
morte come accettazione in un intreccio, in
cui destino e metafisica dell’anima
diventano un unico segno di un tempo che
resta definito nella storia ma indecifrabile
in una ragione poetica.
Perché insieme il
poeta e filosofo italiano e la filosofa del
mistero poetico spagnola in una
contemporaneità fatta di modernità,
modernismo e incompatibile gesto della
tradizione? Perché entrambi si trovano a
misurarsi con il sentimento del tragico che
recita una costante rappresentazione: in
Michelstaedter la variante della fuga
diventa tempo della morte, nella Zambrano il
viaggio vive dentro il tempo dell’esilio.
Ma c’è una dimensione
poetica che lega i due mondi e li lega
intorno ad una dimensione che è quello
dell’onirico percorso tra il buio della
coscienza e la luce della parola. In
entrambi la metafisica della parola diventa
una vera e propria metafisica dell’anima.
La notte di
Michelstaedter: “Tace la notte intorno a me
solenne/le ore vanno e sfilan le
memorie/siccome un nero e funebre convoglio”
è la notte che non conosce il chiarore. In
Zambrano, invece, il bosco ha sempre un suo
chiaro perché in esso la “bellezza” diventa
una mediazione tra l’angoscia e la
possibilità della luce. Nella Zambrano è la
speranza che vibra i destini violati della
disperazione che entra tra le pieghe del
divino.
In Michelstaedter non
c’è alcuna verità se non attraversata
dall’agonia esasperante. È certo che in
entrambi la confessione della parola si fa
biografia. Non si tratta soltanto di una
meditazione – contemplazione giocata intorno
al rapporto filosofia – poesia o viceversa.
Piuttosto si entra in un travaglio in cui la
ragione dell’essere si fa azione come nel
caso di Michelstaedter passando attraverso
il senso poetico ma si identifica in una
specificità sostanzialmente onirica che
oltrepassa sia la storia che il tempo come
nella Zambrano.
E perché riconsiderare
queste due voci, questi due volti, questi
due percorsi? Perché nella crisi della
modernità non può esserci una chiave di
lettura se non viene ad essere filtrata dal
concetto di destino tra una concezione
mitico – simbolica e una deriva che approda
allo scoglio senza la conoscenza della
possibilità della speranza sognante. Perché
è solo la speranza che filtra la luce del
sogno. Ma nella civiltà del bosco, nella
quale ci troviamo ad essere collocati come
temperie storica, bisogna pur rintracciare
un chiarore lunare.
Dalla morte – vita
recitata da Michelstaedter bisogna andare
oltre e attendere l’aurora della Zambrano.
In fondo dove termina il disperante
groviglio di Michelstaedter comincia
l’agonia che condurrà ad un sapere
dell’anima tratteggiato in un suo importante
saggio (che porta il titolo “Verso il sapere
dell’anima”) da Maria Zambrano.
Con Michelstaedter si
chiude un Ottocento che ha saputo leggere le
prospettive del secolo nuovo introducendo
però una letteratura completamente affidata
sia all’enigma che al vuoto superando la
disdicevole congiura tra malinconia e
nostalgia contaminata sia da Manzoni che da
Pascoli e da tutto un cordone romantico che
resta ancorato al secolo vecchio e non
antico. Una tradizione che “uccide” il senso
della rivoluzione dell’uomo moderno e che
proprio in virtù di questo concetto di
secolo vecchio traccia un profilo della
crisi.
Questa crisi sta anche
nella impossibilità di sradicare il
romantico senso della morte e lo consegna,
proprio nei modi e nei termini del
romantico, al Novecento. Michelstaedter è
uno dei maggiori interpreti di questo
equivoco. Il suo suicidio resta proprio in
questo tragico intaglio tra un secolo finito
che, comunque, non smette di dettare
aforismi di morte e il desiderio di non
perdersi pur sapendo, lo sottolinea spesso
Michelstaedter, con Matteo, che “gli uomini
cercano e perdono”.
Michelstaedter è, in
un certo qual modo, un profeta nella
disperazione del Novecento. Maria Zambrano
raccoglie questa profezia e la legge, però,
sul piano di un tempo che si confronta con
la storia perenne ma la intavola sul
sottile desiderio di un destino di speranza
nonostante la sua inquiete fisionomia di
scrittrice errante. Ma è dentro il
Novecento.
Non si lascia
intimorire né della scialba decadenza di
Pascoli e tanto meno dal secolo vecchio,
perché la Zambrano vive nella pazzia
pirandelliana e nella poetica di Machado,
perché immediatamente la sua scrittura si
impne come ragione storica e come ragione
poetica in una estetica che lega e unisce,
nelle distanze e nelle vicinanze, Seneca a
Garcia Lorca e alla temperie di una agonia
qual è quella dell’Europa che strappa la sua
geografia sulle eredità mediterranee e sulla
scia di una tradizione dei sufi e
sciamanica.
Solo una personalità
come la Zambrano può raccogliere l’identità
stoica con il barocco, la follia di Don
Chisciotte con la “Città di Dio” di
Agostino, la fiamma di Cristina Campo con la
magia di Elemire Zolla. Una follia che le fa
vincere il sentimento di morte, il quale lo
interpreta con Unamuno come il sentimento
tragico della vita e resta tale proprio per
non lasciarsi aggredire dalla “illusione
della persuasione” segnata da
Michelstaedter.
Due interpreti di un
secolo che sarà breve e lungo, ovvero il
Novecento. Due protagonisti camminanti nel
silenzio della parola che hanno individuato
la crisi della modernità o la crisi nelle
modernità. Un sentiero nella classicità
romantica che cerca capri espiatori per
vendicarsi della rivoluzione barocca e che
individua, comunque, nel Novecento
l’espiazione del “sogno creatore”.
La disperazione di
Michelstaedter e l’agonia della Zambrano in
un processo culturale, tra poesia e
filosofia, fattosi biografia. Il suicidio e
l’esilio. Due temi caratterizzanti in un
omerico e virgiliano intreccio al cui centro
però resta la crisi, la quale, in
letteratura, ha condotto alla morte della
storia e mai del tempo da una parte e alla
follia nella speranza che ha unito la storia
al tempo.
Due condizioni di un
esistere che costituiscono l’immagine
provvisoria e precaria di un Novecento che
si è mosso tra l’esilio e il viaggio, tra il
tragico e l’equivoco, tra la maschera e il
tentativo di salvezza. Per Michelstaedter
non c’è salvezza (“la vita nella morte”) se
non nella morte (“la morte nella vita”). Per
la Zambrano la salvezza è nell’anima.
L’anima come atto creativo. E la bellezza
resta mediazione.
Un Novecento, dunque,
che assorbe il vecchio dell’Ottocento ed ha
apparentemente una sua struttura coerente
per inventarsi la dinamicità della crisi.
Nel tempo che viviamo non dovremmo più
parlare di crisi del moderno ma di sconfitta
o di vittoria. Quale secolo è rimasto
sconfitto, nel gioco tra disperazione e
agonia, quale secolo è uscito vincente?
Forse siamo in una attesa in cui la
pacificazione tra poesia e filosofia diventa
un atto dovuto ma ormai scivolato
nell’indifferenza. Michelstaedter è la lenta
persuasione della morte. La Zambrano è nel
teatro delle maschere (Picasso) e della
solitudine dello spazio (de Chirico). Due
tempeste in un secolo non definito e non
ancora finito.
|
inizio pagina |
pubblicato il 12 luglio 2010
Il cinema nella
scuola come strumento formativo
tra letteratura,
storia e società
di Marilena Cavallo
Il rapporto cinema e letteratura all’interno
delle aule scolastiche, di ogni ordine e
grado, può costituire una chiave di lettura
fondamentale per penetrare i valori di un
interscambio tra cultura, apprendimento e
formazione. Mi pare necessario
riconsiderare un rapporto tra cinema e
letteratura nella storia della cultura
italiana e soprattutto nel dialogo formativo
tra scuola e forme di apprendimento rivolte
alla letteratura, alla storia, alla società.
La scuola come porto certamente della
formazione e dell’apprendimento ma anche
dello stimolo verso una diversificazione dei
modelli culturali stessi. Un “affaccio” che
riguarda anche la nuova riforma e una
dialettica che la riforma pone all’interno
della società stessa attraverso gli
strumenti della conoscenza e della
socializzazione ai nuovi saperi e ai nuovi
linguaggi dell’incontro con le culture
altre.
Il
cinema come patrimonio culturale. Il
linguaggio cinematografico si serve, tra
l’altro, di due aspetti che sono letterari e
geografici. Ovvero del personaggio e del
paesaggio. Due modelli che nascono proprio
dall’estetica dei linguaggi e della
comunicazione. Soprattutto in un momento di
nuovi approcci verso linguaggi sommersi
riflettere su tali questioni diventa sempre
più importante sia dal punto di vista
culturale che istituzionale. Cinema e
letteratura un dialogo per una scuola
dell’apprendimento articolato. Un binomio
che ha attraversato il Novecento. Ha
caratterizzato la ricerca di molti registi e
si è posto come elemento di dibattito nel
corso delle diverse stagioni storiche -
letterarie. Ma cerchiamo di proiettarci in
un tracciato.
Una
faccenda antica. Pirandello del "Si gira" o
D'Annunzio che campeggiava nelle patrie
lettere del cinema sono una testimonianza
vivificante. Il cinema è fondamentale nella
letteratura e nella storia e la letteratura
a sua volta diventa sostanzialmente un
elemento significativo anche in una
interpretazione diversificata. Fermandoci al
solo campo letterario una considerazione va
fatta. Molti romanzi, anche recenti, hanno
già dentro la loro struttura una dimensione
cinematografica e non perché vengono
costruiti a priori cinematograficamente ma
perché lo scrittore riesce a vivere gli
scenari e a strutturare i personaggi grazie
a respiri lunghi o corti ma sulla base di
una proprio di una scenografia.
In
altri termini molti scrittori quando
scrivono non fanno altro che costruire
immagini. Le immagini sono quelle categorie
che permettono al soggetto di essere
trasformato. Viceversa, avviene anche che
molti film hanno dentro la loro "partitura"
scenica e linguistica un iter romanzesco.
Ovvero una visione romanzata della storia
che vi si racconta. In fondo la letteratura
stessa è una letteratura, e mi riferisco al
romanzo in particolare, che crea scenari sui
paesaggi immaginari e sostiene l'avventura
che intraprendono i personaggi. Già di per
sé il romanzo si porta dentro la fisionomia
di un raccontare per meditazioni, dialoghi e
immagini. Appunto per questo si potrebbe
anche dire che un romanzo è un soggetto che
prosegue per impianti scenografici. Mentre
un film, che si rispetti chiaramente, è
sempre un raccordare la parola dei
personaggi con le immagini che si vedono.
Nel
romanzo le immagini si ascoltano, si
sentono, si avvertono. Nel film si vedono e
prendono corpo grazie all'immagine. Nel
romanzo prendono corpo attraverso la
fantasia. Quindi il gioco fondamentale è tra
la fantasia che proietta sensazioni che si
trasformano in immagini e le immagini che
producono, a loro volta, sensazioni. Un
interscambio utile e necessario in termini
letterati e cinematografici.
Cosa
succede in realtà quando si porta un romanzo
sullo schermo? Il romanzo resta un romanzo
con una sua struttura non solo da valutarsi
sul piano linguistico ma soprattutto sul
piano della collocazione e del vissuto dei
personaggi. Le immagini che nel romanzo ci
sono vengono catturate dal lettore. Non
vengono offerte come immagini tout court.
Mentre nella trasposizione cinematografica
il gioco è tutto un attraversamento di
immagini e di scenari al di là dei dialoghi.
Ma un film è sempre un ulteriore romanzo.
Questo è un aspetto.
L'altro
è quello già posto, non molto tempo fa, da
Alberto Bevilacqua che con intelligenza e
professionalità ha sollevato una riflessione
seria e attenta. Cosa avviene se il regista
e lo scrittore sono la stessa persona? Qui
allora sta allo scrittore cercare di
accordarsi con il regista e viceversa. Ma
cosa ne potrebbe venir fuori? Prima di tutto
la consapevolezza del regista. Secondo
l'interazione completa tra la parola e
l'immagine giocata da uno stesso sentire
esistenziale. Terzo, la completezza
dell'avventura narrativa. Quarto, il
recupero di una tensione che si sposta dal
testo allo schermo e la storia prende corpo
perché si definisce in movimento.
Il
cinema è movimento reale. Nel romanzo è
l’immaginazione che prende il sopravvento
attraverso le metafore. Ma il personaggio
resta un disegno fondamentale. Già Giacomo
Debenedetti, in alcuni suoi studi, aveva
posto tale riflessione. Il personaggio
compie un'avventura. La compie sia nel
romanzo che nel film. Il discorso consiste
nel come questa avventura si compie.
Da qui
bisognerebbe partire per non dimenticare lo
spirito che a un tale rapporto Pirandello e
D'Annunzio avevano dato. Perché nonostante
tutto, nonostante la trasformazione della
"macchina" da presa, nonostante gli
strumenti applicati nel cinema, il problema
che si pone ancora oggi è sempre lo stesso.
Un dialogo che è fatto di linguaggi che si
esprimono attraverso una griglia di simboli.
Un rapporto che non ha mai smesso di creare
istanze estetiche. Occorre recuperare queste
istanze attraverso un percorso metodologico
grazie ad una visione estetico - pedagogica
che abbia una valenza conoscitiva, formativa
e valorizzante.
Anche
la scuola, in un tale contesto, non solo
quella dell’istruzione superiore, potrebbe
diventare un riferimento in grado di
offrire un modello di progettualità rivolto
alle nuove generazioni e ad una educazione
che intrecci l’estetica dell’immagine con
quella della parola. La scuola come modello
formativo e integrativo (e interattivo) tra
i vari saperi. La scuola sempre come agenzia
educativa e, quindi, come tale va
ricontestalizzato il modello di approccio
nei confronti sia letterari che storici in
una società, come sostiene Mac Luhan, della
comunicazione totale.
|
iinizio
pagina |
pubblicato il 10
luglio 2010
LA
SCUOLA: UN “PARLARSI” TRA SOCIETA’ E RIFORME,
NELLA ATTUALITA’ DEI PROCESSI CULTURALI
di
Marilena Cavallo
Il dibattito intorno alla “Lettera ad una
professoressa” di don Lorenzo Milani ha posto in
essere alcune condizioni dialettiche sia di
ordine prettamente scolastico (e quindi inerenti
un progetto di metodologia educativa) sia di
natura squisitamente culturale che vivono tra le
maglie delle problematiche educative e
metodologiche nel campo dell’approccio
sull’istruzione e sulla conoscenza.
Un dibattito che ha interessato la società nella
sua articolazione e nella sua complessità ma
anche, in modo più particolareggiato, il mondo
cattolico. Rivisitare i “luoghi” del sapere di
questo dibattito potrebbe essere interessante
anche perché sarebbe necessario impostare un
percorso che non può riguardare soltanto i
tracciati scolastici, ma deve entrare in una
dimensione dello scibile chiaramente più
avanzato anche in termini di mera discussione
epistemologica sui fenomeni sia pedagogici che
filosofici che hanno attraversato l’intera
discussione culturale e scolastica degli anni
Sessanta.
Non si tratta di prendere delle
posizioni, ma ormai la presenza di don Milani
risulta storicizzata e non si può fare a meno
di inserirla addirittura nell’attuale dibattito
sulla riforma scolastica e sulle strategie di
premessa che hanno portato al quadro
istituzionale e culturale dei codici pedagogici
delle varie riforme proprio a partire dal 1968.
Mi riferisco sia alla scuola elementare
sia a quella media che a quella superiore senza
dover tralasciare il permanente modello di
discussione sviluppatosi sulle realtà
universitarie.
Certo, gli anni Sessanta sono stati un
pilastro nella impostazione di una scuola che
voleva rinnovar sima se il tanto discusso
sessantottismo ha interessato forse in prima
istanza proprio i vari campi della questione
scolastica c’è da dire che si è articolato
dentro una società che chiedeva di essere
ascoltata e di essere messa a confronto con
nuove istanze, nuove esigenze, nuovi rapporti
tra generazioni.
Il Sessantotto è stato un tentativo di
“parlarsi” o di “sfidarsi” tra padri e figli,
tra accademismo e militanza, tra modelli di
cultura istituzionalizzata e cultura meramente
popolare. Dentro questi strati potrebbero
trovarsi delle motivazioni. La protesta delle
nuove generazioni, degli studenti in particolare
ha riguardato, nella complessità dei riferimenti
scolastici stessi, ogni grado e ogni ordine.
Comunque, l’impalcatura scolastica, negli
anni Sessanta, non è stata ristrutturata o
rivoluzionata nelle radici, come si tentava di
fare, e tanto meno sono state spezzate le basi
delle antiche riforme sulle quali si continua a
tenere banco. Ma questo è un dato che ha
accompagnato anche gli anni successivi sino alla
più “riformata” visione della scuola che è si è
espressa dalla dialettica intorno alla proposta
Brocca e alla impostazione della riforma sulla
scuola elementare degli anni Ottanta.
In questi anni ci siamo posti numerosi
interrogativi sia dentro la scuola, come
docenti, sia come famiglia e questo dialogo non
ha smesso di turbare la coscienza delle società
nei vari passaggi epocali. La classe docente è
stata sempre un punto di riferimento in una
intelaiatura tra la percezione e la vita degli
adolescenti, il nucleo famiglia, la società –
territorio.
Più democrazia, più partecipazione, più
comprensione. Sono un argomentare perspicace
che mette insieme la scuola, sia come struttura
in sé sia come singoli insegnanti sia come
studenti sia come progetto dirigenziale, e la
società nel cui seno si porta le sue “agenzie”
socializzanti, pedagogiche, istruttive.
Il forno dentro il quale questi nodi o
questi snodi vanno a finire è dato dal risultato
che passa inevitabilmente nelle capacità di
apprendimento e nella metodologia di una
pedagogia aperta in una società aperta.
Alcuni anni fa Giuseppe Acone, un
intelligente e lungimirante pedagogista, si
poneva, in un suo saggio, una domanda
semplicissima: “Quale pedagogia?”. E
successivamente si spingeva come antesignano di
una “pedagogia dell’adolescenza” con un altro
suo scritto.
Ebbene, ancora non abbiamo sciolto
completamente questo interrogativo. Un tale
interrogativo si pone ogni qual volta ci si
trova a dialogare con la società e noi non siamo
dentro una società immobile bensì in una società
costantemente in transizione (interessante le
osservazioni, in merito del patriarca di Venezia
mons. Angelo Scola) e i metodi che si richiamano
e si richiedono devono essere varianti, anzi
devono portare delle variabili da applicare non
con regole fisse ma diversificate a secondo
delle situazioni tenendo sempre presente la
relazione tra società, cultura e politica (in
termini aristotelici) nel dibattito per le
democrazie della conoscenza e
dell’apprendimento.
Un tema molto caro a Norberto Bobbio
(proprio sull’approccio dialettico tra cultura e
politica) e mai suscettibile, questo sì, di
contrasti. Scuola e società è ancora un aspetto
dove poter spendere uno spazio per l’attualità?
Credo proprio di sì perché, all’interno di
questo rapporto, la cultura dell’umanesimo, sia
nelle sue sfaccettature etiche sia in quelle
morali (la visione kantiana è sempre più
appropriata), non può smettere di dialogare con
le altre culture: a partire da quella
scientifica sino ad arrivare a quella delle
tecnocrazie.
È questa è una realtà con la quale non
smetteremo di fare i conti. Ecco perché il
linguaggio della pedagogia del confronto a tutto
tondo resta necessario all’interno di una
filosofia della educazione della persona, come
ben aveva sottolineato Jacques Maritain.
|
inizio pagina |
pubblicato il 10
luglio 2010
La
politica?
Una
metafora e un arcipelago.
di Pierfranco
Bruni
Può sussistere una
politica senza una etica? Andiamo verso un tempo
della politica il cui senso va verso la
dismisura di ciò che una volta si usava chiamare
valori. Valori, ideali, identità. Quali sono i
punti di riferimento che attraversa il nostro
tempo? Anche i processi economici possono essere
identificati come valori o come ideali ma mai
come delle identità anche se si muovono su un
tessuto prettamente di “cognizione” concreta.
Ci sono domande che
non hanno risposte e risposte che si consumano
senza alcun ragionamento. Ma la politica deve
necessariamente uscir fuori dalla foresta degli
slogan perché proprio attraverso la politica si
dà “cittadinanza” alle idee, ovvero ad una
filosofia delle idee. E queste non sono soltanto
elementi nella dimensione dell’etica ma vivono
nei riferimenti dell’estetica. La politica deve
poter avere una sua estetica proprio attraverso
quella cultura che si fa coraggio delle sfide.
Il concetto di
cittadinanza, oggi, è una sfida non solo in
termini di geografia dell’accoglienza ma anche
della spiritualità dell’estetica. Se la politica
recupera questo sentiero sul piano della visione
della dialettica, dell’umanesimo del confronto,
delle tesi di una Europa e un Mediterraneo
dentro l’idea dell’inclusione delle culture il
rapporto tra la centralità dell’uomo, dei popoli
e dello sviluppo articolato può definirsi
proprio nell’estetica della cittadinanza come
valore prioritario.
La letteratura, in
questo caso, offre delle metafore interpretative
abbastanza chiarificatrici. Nel 1861 Fëdor
Michajlovič Dostoevskij pubblicava “Umiliati
e offesi”.
Un romanzo che resta come pietra miliare nel
tracciato esistenziale che segnerà i processi
storici di generazioni che si confronteranno con
le culture dell’Europa, delle Russie e con
quelle del Mediterraneo. Ed è un romanzo che
presenta una capacità culturale straordinaria
nella visualizzazione di un passaggio epocale
qual è quello dell’Europa ottocentesca che si
affaccerà ad una Europa delle lingue sommerse e
delle politiche sommerse.
Era l’anno in
cui l’Italia praticava la riunificazione degli
Stati interni per dar vita ad uno Stato
unitario, pur attraverso delle politiche
articolate nella misura delle rotture tra quello
che è stato il Regno di Napoli e le esuberanze
austro – ungariche.
Non si tratta
di un romanzo politico ma di un romanzo per la
politica.
Oggi si
presenta di grande attualità perché pone una
riflessione proprio su due concetti chiave che
serpeggiano nei modelli della contemporaneità.
Non si è soltanto umiliati. Si è anche offesi. E
non lo si è per una depressione esistenziale che
noi singoli possiamo vivere e le generazioni
possono attraversare. Ma lo si è per una
improvvisazione della politica che si smuove
nelle strutture della società. I personaggi sono
comparse e la “misura” dostoievskijana lacera un
tessuto che era ricco di valori e che oggi è
diventato indecifrabile.
Come è
possibile che uno scrittore russo, del secolo
passato, possa diventare un punto di riferimento
per le nostre inconcludenze che vivono nei
processi della decadenza di una Europa, che ha
smesso di essere riferimento. E questa Europa ha
smesso di essere riferimento perché non ha
saputo guardare al Mediterraneo attraverso la
consapevolezza della tolleranza.
La politica
non è più tolleranza. Non lo è nei grandi temi
della pacificazione o della articolazione delle
economie delle Nazioni. Non lo è neppure quando
ci si trova a vivere nella mediocrità di una
“provincia” che ritiene che il confronto non
sia necessario perché si vince se si è
intolleranti e gridaioli.
Ebbene, ormai
siamo tutti dentro il deserto, che può essere
quello dei Tartari, o quello della Libia di
Italo Balbo, o quello dei predicatori cristiani
o musulmani che viaggiano tra le sabbie dei
Mediterranei sommersi. E restiamo nel deserto
umiliati e offesi. Ma siamo anche consapevoli
che il Palazzo prima o poi crollerà nella sfera
di metafore inconfutabili che solo la
letteratura può annunciare e decifrare. Quel
Palazzo non pasoliniano, reale, ma quello di don
Fabrizio dei Gattopardi.
Si sentono
assediati i Tartari e sono arrivati sino a
Donnafugata ma lì ci si scontra e ci si divide,
appunto, tra gattopardi e iene. Si può restare
sia umiliati che offesi ma sempre con la testa
alta.
La
letteratura non è finzione. Ha la capacità di
diventare destino. E
Dostoevskij lo aveva ben capito. Proprio per
questo qualche anno dopo scriverà quei ricordi
(o memorie) del sottosuolo. Bisognerebbe
conoscere e leggere di più la letteratura.
Perché solo così resterebbe comprensibile il
kafkiano risvolto politico nel quale ci troviamo
a vivere. Perché solo così l concetto
dell’intellettuale contro di Leonardo Sciascia
oggi potrebbe avere un senso.
Kafka, già. Lo
scrittore che ha parlato del “processo” e della
“metamorfosi” e si è incontrato con quel Musil
che non smette di recitare “l’uomo senza
qualità”. Non perdiamo di vista l’immaginario di
questi due scrittori. Ci tornerà utile.
Lo scrittore è un
annunciatore dei tempi che verranno.
Bisognerebbe saper leggere tra le pieghe degli
scrittori per catturare il gioco dell’imprevisto
e del perverso che si agita nel presente. Non
perdiamo di vista il “ragionamento” di Leonardo
Sciascia e il tentativo di impegno che cercò di
innescare nella società italiana dagli anni
Sessanta alla fine degli anni Ottanta. Un
profeta della modernità nella contemporaneità.
Come abitare la
politica senza la cultura? Non siamo farisei e
tanto meno giudei. Ma siamo ben dentro la nostra
contemporaneità e il “vizio assurdo” è una
proposta di lettura che ci spinge verso realtà
altre. Cosa è la verità? Cristo guardò Pilato,
ma Pilato continua ancora ad interrogarsi.
Nel 1969
Dostoevskij pubblicava “L’idiota”. È il romanzo
dei nostri giorni. Forse il meno politico e il
più degno per la non cultura della politica. Ma
anche il più consono per una politica che se non
accetta la sfida delle culture entra
inevitabilmente nel gioco dei “delitti e
castighi”. Ironia a parte. Metafore incluse.
La cultura è dentro
la vita sotterranea dei destini. E le memorie
restano sottosuoli. Perché questo incastrare la
letteratura a meta giudizi sulla politica?
Perché sono convinto che dentro ogni romanzo e
dentro ogni scrittore ci sono ferite o pieghe
che ci permettono di interpretare quel fondo di
chiarezza che è stato espresso da Aristotele e
sul quale oggi bisognerebbe riflettere. Ma ogni
scrittore ha come principio il valore della
cittadinanza non solo come modello di una
eredità greco – romana ma come rappresentazione
di una contemporaneità.
Abbiamo bisogno,
sostanzialmente, di sconfiggere le solitudini
che aggrediscono il nostro essere e il nostro
tempo e queste solitudini, che sono
manifestazioni che si presentano costantemente
nel quotidiano, si mostrano nel battito delle
ansie e delle paure che agitano la vita di
ognuno di noi e la prospettiva delle storie
generazionali.
Siamo ormai in
bilico o ci raffiguriamo come abitanti di un
labirinto. In bilico perché ondeggiamo lungo la
corda di un perduto equilibrio. Nel labirinto
perché non siamo ancora riusciti a intravedere
un bagliore di luce che potrebbe portarci oltre.
Ci resta il rischio e il coraggio della sfida.
Avremo la forza di rischiare e di anteporre ogni
scelta individuale al resto? Ma certo tutto
ruota intorno ad una metafora.
La stessa politica,
con i suoi radicamenti, si mostra come una
eterna metafora se l’uso stesso del termine lo
si riporta però ad una visione dell’estetica
filosofica. Ciò che non è metafora può passare
sotto la voce di arcipelago. Ma mai di isola.
L’isola appartiene al simbolo omerico –
ulissistico ed entreremmo così nel campo del
mito. Tutto può essere, la politica, tranne che
un mito.
Allora resta la
visione dell’arcipelago. Forse in astratto. Ma è
ciò che definiamo astratto che offre al
contenitore un’anima. Cosa ci salverà? Diceva
ancora Dostoevskij che “La bellezza salverà il
mondo” in quel suo romanzo “L’idiota” ma
sosteneva anche che “E’ difficile giudicare la
bellezza;non vi sono ancora preparato: la
bellezza è un enigma”.
Siamo distanti da
ciò o forse neppure siamo preparati ad
affrontare ciò. Aspettiamo che l’alba precipiti
nel mare e che il tramonto finisca dietro i
monti. Il resto si vedrà. Ma se non siamo noi a
cominciare da questo “resta” ogni fatica sarà
stata inutile ed è inutile continuare a
lamentarsi.
Dobbiamo rischiare.
E dobbiamo fare in modo che l’oblìo non ci
appartenga più. Una politica senza cultura è uno
sguardo senza anima. Diamo un senso a questo
orizzonte. O diamo un orizzonte al senso che
vorremmo vivere o al senso che vorremmo che ci
fosse dentro di noi e non solo, dentro questo
tempo che ci appartiene.
|
inizio pagina |
pubblicato il 15
luglio 2010
La storia della letteratura del
Novecento si offre agli studenti con errori
storici e di datazione.
Il testo adottato al Liceo Giuseppe Moscati di
Grottaglie - Taranto
di Pierfranco
Bruni*
La politica
dell’adozione dei libri scolastici certamente
andrebbe rivista, riconsiderata, ricontestualizzata e non per motivazioni di
natura politica ma di scientificità vera e
propria. Non si tratta di innescare nuove
polemiche o dibattiti intorno ad una proposta
argomentativa su un problema letterario o
storico o filosofico o artistico. Le
interpretazioni e le chiavi di lettura hanno la
loro particolare e necessaria importanza ma si
va oltre.
Anzi si deve
avere il coraggio anche di superare alcune
proposte che hanno un preciso marchio
ideologico. Ma è inaccettabile quando la chiave
di lettura su un autore o su un libro o su una
visione letteraria si presenta agli studenti con
dei vizi e degli errori storici di fondo e
accanto a questi vengono meno i presupposti
scientifici, ovvero: l’errata datazione di
nascita e morte di alcuni autori, l’errata data
di pubblicazione nella nascita di alcune
riviste, la completa omissione di particolari
politici come per esempio la citazione della
data di iscrizione ad un partito che va bene per
un determinato schieramento citando persino la
data di iscrizione e l’omissione per un altro.
Circolano
libri scolastici che vengono affidati a studenti
liceali sui quali si constatano errori di fatto.
Fin qui la considerazione. Ma ci saranno pure
delle responsabilità per chi vaglia e adotta
questi testi? In più occasioni ho già avuto modo
di dimostrare e mostrare situazioni di
parzialità ed errori in testi scolastici.
Uno dei testi
che si dice vada per la maggiore ed è adottato
da Dirigenti scolastici e docenti, ovvero dalle
scuole è il percorso di Gian Mario Anselmi e
Gabriella Fenocchio: “Temi e immagini della
letteratura” con il coordinamento di Ezio
Raimondi, diviso in 6 parti, Edizioni
scolastiche Bruno Mondadori, nella edizione del
2004. Mi è capitato tra le mani il volume 6,
dedicato al Novecento, adottato al Liceo
Giuseppe Moscati di Grottaglie Taranto.
Non entro nel
merito interpretativo e metodologico anche se
sul piano di una critica più appropriata sarebbe
chiaramente necessario e i dubbi, oltre che alle
lacune e alle forzature, sono tante. Ma mi
soffermo, in sintesi, su alcuni particolari non
confutabili.
A pagina 53 si
parla del dibattito letterario e delle riviste
in Italia. Nel citare la rivista, diretta da
Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti, la si fa
nascere nel 1939. Data completamente errata. Il
primo numero della rivista esce il 1 marzo del
1940. Errore da prendere come refuso? Bene.
Nella pagina successiva entrando nel merito i
compilatori sostengono: “…Bottai promuove… una
rivista più sua, ‘Primato’, che esce a Roma dal
1939, col sottotitolo ‘Lettere ed arti
d’Italia’…”. Dunque non si tratta di un semplice
refuso.
Si tratta, a
parere degli esperti, di un errore di non poca
importanza considerato il ruolo che svolgeva la
bottaiana rivista. Nel 1939, l’Italia non è
ancora in guerra. Il 1 marzo del 1940 si
avvicina alla dichiarazione di guerra del 10
giugno e la rivista, anche se in un
attraversamento culturale, pone una discussione
forte non solo sulle arti ma anche sulla
politica mediterranea. Infatti il Mediterraneo è
alla base della discussione tanto che la
rivista doveva chiamarsi con una metafora che
portava il nome di Ulisse. Il 1940, per Bottai,
la rivista e la politica culturale è una data
strategica anche perché pone in discussione le
riforme sulle culture varate il 1939. E’ un
errore non perdonabile perché vizia tutta la
discussione.
Pagina 167. Si
parla di Corrado Alvaro. Si dice che dopo
diverse esperienze letterarie: “Nel 1926 diventa
anche segretario di redazione di ‘900’.
Costretto a trasferirsi a Berlino per le sue
posizioni antifasciste”. A Berlino Alvaro arriva
il 1928 collaborando a “La Stampa” e a “L’Italia
Letteraria”, tanto che su questa rivista nel
1929 intervista il “fascista” Luigi Pirandello,
tessera PNF 1924. Torna in Italia il 1930. Negli
stessi anni scrive ed è impegnato sui maggiori
quotidiani italiani e fa l’inviato e inoltre
pubblica un reportage - saggio – inno a
Mussolini dal titolo: “Terra nuova. Prima
cronaca dell’Agro Pontino”.
Pagina 869.
Ignazio Silone. Lo si fa morire il 1977. Falso.
Muore, invece, il 22 agosto del 1978. Cosa
significa un anno? Tantissimo nella vita di uno
scrittore come Silone. Perché? Perché lascia un
romanzo incompiuto dal titolo “Severina”, che
racconta, in un tracciato narrativo, passaggi
che giungono sino ai suoi ultimi giorni. Ma
quali? E poi c’è di mezzo una riflessione che
interessa i “fatti” sia del 1977 sia quelli
relativi alla morte di Aldo Moro, che per la
cronaca avviene il 9 maggio del 1978.
Ci rendiamo
conto su quali testi studiano o dovrebbero
studiare i nostri figli?
Un'altra
piccola chicca, ma questa sa molto di
ideologico: sia da una parte che dall’altra ma è
bene stabilire una dialettica.
Cesare Pavese,
pag. 582. Si legge: “Alla fine della guerra si
iscrive al Pci e collabora con ‘L’Unità’ di
Torino”. Bene. Ma perché si omette che nel 1933
prende la tessera del PNF, negli anni 40 scrive
sulla bottaiana “Primato” e durante il confino
in Calabria scrive delle lettere a Benito
Mussolini usando questi toni: “Eccellenza,…mai
io mi ero sognato di fare della politica di
qualunque genere, e tanto meno
dell’antifascismo… Non mi rivolsi sinora
all’Eccellenza Vostra – benché consigliatone da
parenti e beneficati che ne conoscono tutta
l’umanità – per una naturale ripugnanza a
intralciare con piccole cose la giornata di Chi
ha ben altro cui attendere” (Lettera a
Mussolini, datata 15 gennaio 1936 – XIV).
A pagina 585
nel commentare la fine del personaggio Santa nel
capitolo ultimo de “La luna e i falò”, sempre di
Pavese, si esclude qualsiasi interpretazione
storico - politica per fare spazio ad una
lettura antropologica eliminando la fase storica
della uccisione di Santa, uccisa e bruciata dai
comunisti. Se ne sono guardati bene a
soffermarsi e a proporre agli studenti una
indagine del genere.
Potrei andare
oltre. Ma il problema non è che si scrivono e
pubblicano testi del genere. Il problema serio è
che vengono adottati tali testi che non dicono
la verità storica, che sbagliano le date e,
quindi, come tali non hanno un percorso
scientifico. Ci sono responsabilità? Certo. E
gravi responsabilità culturali e morali
incombono sui Dirigenti scolastici, dico
Dirigenti perché sono la sintesi delle strutture
scolastiche sul territorio.
È un fatto che
va denunciato pubblicamente e ed è bene che si
sappia che i ragazzi anche al Liceo Moscati di
Grottaglie – Taranto - hanno studiato e
studiano su questo testo.
*
Vice Presidente Nazionale del Sindacato Libero
Scrittori Italiani
|
inizio pagina |
pubblicato l' 11
Agosto 2010
Raoul Maria De Angelis a venti
anni dalla morte - Oltre il narratore - Quando
fece conoscere la filosofa spagnola Maria
Zambrano al pubblico italiano.
di
Marilena Cavallo
A venti
dalla morte lo scrittore resta non solo tra le
sue pagine narrative e poetiche ma in tutto un
“costume” letterario che abbraccia un Novecento
da rileggere e da ridiscutere. Raoul Maria De Angelis fu uno scrittore e un giornalista i cui
natali sono nella ragnatela della Calabria ma la
sua formazione si sviluppa intorno ai grandi
dibattiti culturali romani.
Scrive romanzi
importanti con i quali si aprono dibattiti e
prospettive per il Novecento letterario europeo.
De Angelis è l’aurore, tra l’altro, di “Inverno
in palude” del 1936, di “Oroverde” del 1940, di
“La peste a Urana” del 1943, di “Panche gialle
– sangue negro” del 1959, di “Amore di Spagna”
del 1968, di “Moneta falsa” del 1985. Nel 1953
pubblica anche un testo di “Poesie”.
Carlo Bo ebbe
a scrivere riferendosi all’opera di De Angelis:
“…Chi tenterà un giorno la storia del nuovo
romanzo italiano, non potrà fare a meno
dell’opera di R.M. de Angelis, e questo perché
il lavoro dello scrittore calabrese ha un
rapporto preciso con le aspirazioni e i
sentimenti del nostro tempo vero…”. Un mosaico
di prospettive ma il percorso indicato di Carlo
Bo è certamente un riferimento.
Si tratta di
una scrittore che vive pienamente il Novecento
tra “realismo” e metafore che si sprigionano in
un gioco di immagini e di coloriture come in
alcuni passi proprio di “Inverno in palude” che
segna un romanzo – nucleo:
“I tronchi
abbattuti dalle prime bufere sbarrano i
sentieri, e la pianura non conserva tracce di
uomini e di belve. E la stagione dei cacciatori.
I cinghiali scendono dalle montagne, goffi e
mostruosi, con gli occhi pazzi di fame e di
ferocia e si avventurano fino alle soglie delle
casipole di sterpo e di fango; devastano le zone
coltivate a grano, abbattendo siepi e
staccionate ".
Con De Angelis
si può andare, comunque, oltre i suoi personali
interesse letterari perché riesce a spaziare in
un articolato mondo che va dalla letteratura
all’arte e da questa alla filosofia. Intrattiene
amicizie con scrittori e artisti e si occupa
anche di scritti filosofici e sulla cultura
filosofica.
Tra le
personalità che sono entrati nel suo tracciato
di conoscenza e di ricerca c’è anche la filosofa
spagnola Maria Zambrano (1904 – 1991). Un nome
importante che ha soggiornato in Italia, nel suo
abitare l’esilio europeo, tra il 1953 e il 1964.
Proprio alla
Zambrano De Angelis dedica uno scritto
significativo soprattutto perché pone la sua
ricerca all’attenzione del pubblico e
dell’opinione culturale italiana.
La
testimonianza di De Angelis sulla Zambrano ha un
suo valore critico non indifferente che viene
pubblicata sul n. 4 de “La Fiera Letteraria” del
24 gennaio del 1954 in un articolo intitolato:
“Destino nomade di Maria Zambrano” firmata dallo
scrittore Raoul Maria De Angelis.
De Angelis
annota sulle colonne della rivista ,diretta in
quel periodo da Vincenzo Cardarelli e Diego
Fabbri, che “Maria Zambrano ha il destino
nomade: ora è a Roma reduce dall’Havana. Lei si
dice felice di essere tornata in Italia, e a
Roma sente di aver ritrovato antiche radici,
poiché non esclude di avere lontane origini
italiane: a badare al cognome, Zambrano non
molto diffuso in Spagna. Forse ci lascerà presto
per Parigi o per New York, chissà mai./ Anche
per questo, non vogliamo frapporre alcun
indugio, per presentarla ai nostri lettori, con
uno dei suoi saggi più limpidi di informazione
filosofica./Il suo linguaggio testimonia a
sufficienza una chiarezza di idee a cui non
siamo, da tempo, abituati”.
De Angelis,
nato a Terranova da Sibari il 4 maggio 1908 e
morto a Roma il 5 marzo 1990, non è soltanto
un attento giornalista letterario è soprattutto
uno straordinario scrittore e pittore e proprio
in quell’anno, nel 1954, aveva pubblicato “Apparizioni
del Sud”,con la casa editrice
S.E.I., e “Storia
di uno sconosciuto” da Vallecchi ma
i suoi primi romanzi risalgono alla fine degli
anni venti.
De Angelis ci
presenta la Zambrano con una chiave di lettura,
soltanto con poche battute, esemplare: “I suoi
libri, pubblicati in spagnolo nell’America del
Sud, non sono di facile lettura e
richiederebbero un’attenta esegesi” (da “La
Fiera Letteraria”, cit.). La propone al lettore
italiano in un contesto, quello della metà degli
anni Cinquanta, di frequente contraddizioni
culturali. Il De Angelis scrittore, dunque, è un
riferimento nel contesto delle culture del
Novecento. Il suo Novecento e il suo
“novecentismo” costituiscono processi
inevitabile nella cultura italiana.
Proporre la
Zambrano in Italia ha significato, d’altronde,
indicare una strada culturale che è la stessa
strada che permette di scavare tra le parole e i
linguaggi della sua narrativa e della sua
poesia.
|
inizio pagina |
pubblicato il
13 Dicembre 2010
Mario Pomilio
Tra
religiosità e letteratura
A
venti anni dalla scomparsa
Uno
scrittore che resta nella tradizione
cristiana
di
Marilena Cavallo
Uno degli
scrittori che ben ha saputo definirsi nel
rapporto tra sacralità e letteratura è stato
certamente Mario Pomilio, di cui si celebra
quest’anno il ventennale della morte. Era
nato a Orsogna il 14 gennaio 1921. muore a
Napoli, 3 aprile 1990.
Da Il
testimone del 1956 alla
Compromissione del 1965, dal libro di
saggi Contestazioni del 1967 a Il
quinto evangelio. Mario Pomilio è nella
linea di una letteratura della tradizione. E
prima ancora: L’uccello della cupola
che risale al 1954. Tradizione che significa
mantenere fede ad una identità di valori
cattolici, cristiani, esistenziali. Queste
identità sono completamente trasportate
sulla pagina.
La
letteratura per Pomilio è una continua
confessione e, come tutti gli spiriti
religiosi, fa della letteratura un diario in
cui la realtà non si assopisce o non viene
assopita da altri fattori ma viene
constantemente superata da una metafisica
dell’anima che prende il sopravvento sul
resto. La religiosità, in Pomilio, diventa
preghiera.
Dai
libri citati sopra mancano quello
“incompiuto” che uscì nel 1991 con il
titolo: Una lapide in via del Babbuino,
ma Pomilio lo avrebbe voluto chiamare: Il
racconto interrotto e il testo del 1983:
Il Natale del 1833,
in cui Manzoni è la pietra miliare del
raccontare stesso sia sul piano espressivo
che più completamente tematico. Gli altri
testi fanno da contorno e danno un senso al
rapporto storica – cristianità.
Ma il
libro (ovvero parliamo adesso di romanzo)
più “artisticamente” e dolentemente
penetrante e “forte” è senza dubbio Il
quinto evangelio del 1975. Un romanzo
dentro il romanzo. La ricerca di
rivelazione, di speranza, la considerazione
del bisogno di attesa sono dentro le pagine
di questo nuovo vangelo dove leggenda, mito
e sogno sono un intreccio armonico che tende
a ristabilire letterariamente un processo di
vitalità e una consapevolezza di
accettazione.
Il
bisogno di Cristo è il bisogno di ritrovare
un punto certo e, dunque, la necessità di
una speranza che va verso la verità. La
verità cercata, la verità che diventa un
viaggio. Ma noi siamo non solo in viaggio ma
anche il Viaggio e apparteniamo alla
generazione dell’esodo. Scrive Pomilio: “Le
generazioni degli uomini sono simili a degli
assetati lungo le rive d’un vasto fiume:
ciascuna corre ad attingere quanto occorre
alla sua sete, ma il fiume continua a
scorrere ugualmente vasto e pieno”.
Tutti i
romanzi di Pomilio sono un desiderio di
terra promessa e si qualificano
letterariamente sul piano di una tensione
espressiva. È come se ci fosse, sulla
pagina, una cromaticità di colori ma
l’esistenzialità è nella inquietudine del
religioso. Pomilio fa parte di un percorso
narrativo che sottolinea una vera e propria
“tendenza”. Antonio Barolini, Piero
Bargellini, il radicamento della formazione
discussa nella rivista “Il Frontespizio”,
Diego Fabbri sino agli “Scrittori cristiani
dolenti o nolenti” di Francesco Grisi che
trovano, comunque, in Manzoni e Papini due
chiavi di lettura fondamentali.
Si,
una generazione di scrittori che ha
tracciato lungo la metafora dell’esodo il
bisogno di redenzione. E la letteratura
serve a decodificare la metafora e a
riempirla di contenuti fondamentali e
universali con trasporto personale. Il
quinto evangelio potrebbe essere
definito il manifesto di una letteratura che
ha in sé la comprensione e l’attesa
dell’esodo, la poetica e la francescana
memoria della pazienza. Già, l’esodo è
l’esplorazione di un viaggio che
prioritariamente si concede a Mosè, poi a
Cristo, poi al dubbio, poi al tradimento e
alla fine c’è un attraversamento
francescano.
Il
piano critico - narrativo ha una sua valenza
significativa che si trasporta in quella dei
rapporti umani che sono rapporti anche di
natura ontologica. Giulio Ferroni,
riferendosi a Pomilio, ha scritto: “Il
narrare è stato per lui un modo di sondare i
vuoti che scavano nell’esistenza, nel
rapporto tra responsabilità individuale ed
essere sociale, tra persona e mondo, tra
ricerca della verità e suo frantumarsi nel
tempo, tra il presente e la storia. I suoi
personaggi vivono così nella contraddizione
e nel conflitto: sganciarsi ben presto da
modelli di tipo realistico, essi prendono
corpo entro un convergere di situazioni,
nell’impossibilità di un’esistenza totale,
come assediati da una minaccia, come se il
loro essere verosimile sia sottoposto a un
continuo rischio…”.
No. Non
c’è realismo. C’è, piuttosto, una magia
della parola che è incanto del dire nel
pensiero dell’essere. L’ironia ci salva.
Pomilio sapeva e conosceva l’importanza
dell’ironia nella vita e nella letteratura.
Chiude il suo libro (Il quinto evangelio)
facendo dire a Pilato: “E’ in arresto, lo
sa. E si tolga quel che ah addosso: la
mascherata è finita”.
Queste
parole non sono riferite a Gesù ma a Giuda.
Il rovescio della storia è un nuovo processo
che pone all’attenzione, dunque, appunto, un
Quinto Vangelo. Vero, non vero. Non è questo
il problema. Il processo a Gesù di
Diego Fabbri è, qui, il processo a Giuda. Il
tradimento è poi stato vero tradimento? La
letteratura, in questo caso, può più della
storia stessa. Perché la fantasia è oltre la
cronaca. Ma questa letteratura non è mai, in
Pomilio, letteratura – realtà. È sempre
letteratura – metafora.
La
ricerca della terra promessa è
sostanzialmente l’andare verso. Il
viaggio già in sé rappresenta il cerchio
della memoria. Perché appunto di memoria si
tratta questo andare verso che
raccoglie il venire da. È un costante
pellegrinaggio che ci porta sempre oltre. In
realtà Pomilio si addentra in quelle “nostre
radici più profonde ed invisibili” che
appartengono al popolo della cristianità.
Anche se, come scrive Francesco Grisi in un
saggio su Pomilio, “l’uomo rimane solo nella
sua tristezza accorata che invade lenta come
un fiume che cammina largo verso la foce. E
questa problematica si lega religiosamente
ai valori morali…”.
Ci sono
allegorie che campeggiano e danno senso: “Un
uomo andava pellegrino cercando il quinto
evangelio. Lo venne a sapere un santo
vescovo e, l’affetto d’averlo veduto vecchio
e stanco, gli mandò a dire queste parole:
‘Procura d’incontrare il Cristo e avrai
trovato il quinto evangelio’”. È quello che
dice il professore Bergin nel romanzo di
Pomilio. Appunto il viaggio. Ma in tutti i
romanzi di Pomilio c’è la “frase” del dolore
ma questo dolore diventa “un sentimento
rassicurante”. Così ne Il testimone.
Così ne La compromissione. Così in
Natale 1883. Così, appunto, in Il
quinto evangelio.
In
fondo tutto è nel dettato dei versi della
“Preghiera al crocifisso” dell’anonimo
fiammingo del XV secolo che Pomilio cita.
Ecco un passaggio: “Ma ciò che facciamo in
parole e opere è l’evangelio che si sta
scrivendo”. La promessa, la provvidenza, il
sentimento dell’attesa che si fa speranza e
poi riconciliazione. Il divino nella
giustizia che coniuga fede e cultura.
È una
letteratura, quella di Pomilio, che ritrova
così il suo essere in un tempo lungo che è
tempo della Misericordia e della Passione. È
uno scrittore di quella letteratura della
Provvidenza che segna un tracciato preciso e
indelebile nel contesto del nostro
Novecento. Un Novecento che si presenta con
diverse sfaccettature. Il percorso degli
scrittori cristiani costituisce una chiave
di lettura significativa che ci permette di
leggere la letteratura non solo come
teologia della parola ma soprattutto come
mistero.
|
inizio pagina |
pubblicato il 13
Dicembre 2010
Alda Merini nella ungarettiana inquietudine
della terra promessa
Ricordandola nella parola che chiede speranza
di Marilena cavallo
Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931 – Milano, 1º
novembre 2009) ha recitato il silenzio della
croce e il vissuto del Calvario sull’onda di una
parola che diventa sempre Passione. Ma la
poesia, ad ascoltare la Merini, è dentro
l’intreccio della sofferenza di uno scavo
vissuto sui percorsi ungarettiani di una terra
scavata e che diventa costantemente “terra
promessa” come effetto metaforico della
speranza. La parola è speranza ed è lungo la
sintesi del graffio della vita che la speranza
non può che accompagnare l’esistenza dei popoli,
delle civiltà e degli uomini.
Ci sono versi pungenti. Ci sono versi che
lasciano ferite nell’anima. Ci sono versi che si
portano dentro lo strascinamento di tutta una
vita. Forse anche per questo nella allegoria
della fede la Croce diventa un “carnevale”. In
un gioco di interpretazioni il linguaggio del
vocabolario di Alda Merini si intreccia in una
intelaiatura sia letteraria che umana. Appunto
nella raccolta “Il carnevale della croce” Alda
Merini raccoglie la sintesi del suo strazio
tutto interiorizzato nelle parole.
Perché insiste la croce nella poesia della
Merini? Perché è intorno alla croce che la
sofferenza – dolore, depositata nella memoria e
nel tempo, si apre in uno spiraglio in cui la
fede non è teologia. Non può essere tale ma,
invece, si ridisegna nel mistero. In fondo tutta
la poesia di Alda Merini è adagiata sul velo
atipico di una farfalla che esiste in quanto è
possibile percepire il suo volo attraverso la
grazia del mistero. Eppure il camminamento
poetico di Alda Merini parte da molto lontano.
Le sue esperienze critico – letterarie la
portano dentro un Novecento che ondeggia tra il
lirico stupore di Dino Campana e il paesaggio
onirico e “tristeggiante” di Lorenzo Calogero
che approda con la sua anima inquieta nei voli
del mattino sino ad un Camillo Sbarbaro dei
“truciuoli” della nostalgia e a un Clemente
Rebora della rivelazione nel segno, appunto,
della grazia.
Ma la Alda Merini di “Corpo d’amore. Un incontro
con Gesù” del 2001 non è la stessa de “La
presenza di Orfeo” del 1953. In cinquant’anni di
testimonianza tra la vita, gli amori, il dolore
c’è un attraversamento completamente affidato
non solo ad orizzonti di disperazione ma ad una
mai cessata inquietudine.
In “Orfeo” l’inquietudine era fortemente
lacerata dentro la vita e le uscite di sicurezza
non conoscevano né il contemplativo paolino e
tanto meno il recitativo del misterioso. Una
inquietudine, in fondo, tutta terrena e anche
l’amore era fatto di corpo, di pelle, di sangue.
Così nella continuità che tocca la fine degli
anni Ottanta con “Delirio amoroso” del 1989. Un
libro che può leggersi come spartiacque è
certamente “Vuoto d’amore” del 1991 e poi
“Ballate non pagate” del 1995, dove alcune di
queste poesie sono dedicate a Michele Pierri e
anche a Dino Campana.
Nel suo incontro con la Croce la poesia si
sviluppa intorno ad alcune coordinate che sono
quelle del messaggio cristiano, del volto di
Maria, del “Cantico dei Vangeli” sino a toccare
le parole del “Canto di una Creatura” che
riporta chiaramente a Francesco d’Assisi. La
poesia è vivificante rivelazione che si sviluppa
nell’esasperante visione dell’attesa verso la
meraviglia.
In Alda Merini ci sono strumenti che non
conducono alla “persuasione” del linguaggio
poetico stesso. Anzi, in molti versi c’è una
“liberalità” di un vocabolario che sempre
assentarsi dalla poetizzazione della parola.
Questo perché la Merini pur restando dentro la
tradizione del Novecento, anche attraverso le
sue ramificazioni storiche ed ereditarie,
consuma i linguaggi nella modernità che si fa
contemporaneità. Forse anche per questo è amata
dai ragazzi, dai giovani, dagli studenti.
D’altronde il suo linguaggio è parte integrante
dei linguaggi della comunicazione musicale.
Amata da Roberto Vecchioni, da Fabrizio De André,
da Fernanda Pivano ha rappresentato un nuovo
modo di approccio al testo poetico. Questo non
può che essere un dato positivo dal punto di
vista interattivo tra linguaggi imperanti
all’interno della società ma Alda Merini resta,
in fondo, una poetessa della costante malinconia
della gioia. La nostalgia dell’allegria.
Infatti uno dei suoi maestri non può che
rintracciarsi in Giuseppe Ungaretti che passa il
suo onirico senso tra il dolore e una allegria
dei naufragi. Morire d’amore, morire per amore,
amarsi sempre. Una triangolarità che è possibile
afferrare proprio negli ultimi testi della
Merini.
Una poesia, dunque, che è l’estrema attenzione
di un Novecento che si apre con il tragico
orizzonte nicciano e si avvia, proprio con la
Merini, ad una risposta di riconciliazione con
il mistero che attacca l’anima e la vita tutta
nella sua drammaticità di esistere nel presente
e nel tempo.
Come nei versi della poesia “Maria Maddalena”:
“Il sale delle mie labbra guarirà/le tue molte
ferite”. Un verso lancinante ma in Alda Merini,
bisogna non dimenticarlo, c’è l’eresia dell’uomo
che si cerca per non perdersi, sapendo che
soltanto l’amore è la bellezza che potrà salvare
l’umanità. Un novecento poetico inquieto tra la
speranza della contemplazione dostoevskijana e
l’enigma onirico di Ionesco.
|
inizio pagina |
|
|
|