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EDITORIALI
Letteratura
pag. 2
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato il 15
Apr 2008
LETTERATURA DIALETTALE E IDENTITA’
di MARIA ZANONI
“I
Prùffici d’u ricùnculu” è il titolo di una
raccolta di racconti in rima, in vernacolo
castrovillarese, del poeta Luigi Russo, pubblicata
recentemente, a dieci anni dalla Sua prematura
scomparsa, dalla Fondazione che porta il Suo nome.
Il volume, in elegante veste grafica, appartiene
alla preziosa eredità letteraria di oltre 16mila
versi, in lingua ed in dialetto, intreccio di storia
e memoria, che Russo ci ha lasciato, che è una
risorsa inestimabile da tutelare e comunicare alle
giovani generazioni.
In una società multiculturale e plurilinguistica che
sta progressivamente perdendo la propria identità,
promuovere letteratura dialettale significa
riappropriarsi delle proprie radici identitarie,
cogliendo la modernità dei complessi valori portati
dalla letteratura in vernacolo.
Questo bene culturale prezioso è da tramandare,
perchè riflette la condizione esistenziale della
società dei secoli passati, ricca di valori
socio-culturali complessi. E’ finito il tempo di
considerare il dialetto “la lingua del popolo senza
libro”. E’ ora di “studiare” i tratti
caratterizzanti di un mezzo espressivo tra i più
efficaci della cultura italiana, che accomuna, con
il suo legame alle tradizioni, ed oggi è sempre più
vicino alle culture giovanili, passando anche
attraverso la musica ed il teatro.
I Prùffici d’u ricùnculu (che liberamente tradotto
significa: le critiche del crocchio dei vicini,
dalla lingua tagliente come forbici affilate) ci dà
uno spaccato della vita quotidiana di un paese e di
un’epoca. Un paese, come tanti in Calabria: il paese
dell’anima, dove il vico fa le veci del salotto.
A “vanèdda”, con le porte sempre aperte e una
sediolina sempre davanti, era centro di socialità
che rafforzava legami parentali e di comparaggio; ma
era anche fucina di pettegolezzi e malignità, in un
tempo in cui le relazioni sociali erano di natura
emotiva e personalizzata e la famiglia era centro di
affetti.
“A vanedda” diventa palcoscenico di un teatro. ‘A
vanedda ‘a chiazza, così come ‘u scuvàto, santuvìtu,
‘u tunnu, ‘a minzàna, recitano le loro storie.
Storie di “gualàni”, di “masti cusitùri”, di “mbrillàri”,
di “carruchiàni”, di “santòcchie”, picùzzi,
“traminzàni e jiudicatùri”. E il paesaggio, sentito
con intensa, appassionata liricità, quando non si
presenta come valore estetico autonomo, fa da
imponente cornice alla vicenda umana, al lavoro, al
dolore, alla storia della terra del poeta.
Negli endecasillabi, classicamente misurati, i
detti, i proverbi, modi di dire coloriti ed
efficacissimi, recitano emozioni, apparteneze,
orgoglio di “calabresità”.
Io, studiosa di dialettologia, ho da sempre letto i
versi di Luigi Russo. E non li ho soltanto letti. Li
ho anche recitati. Spesso li ho immaginati, li ho
guardati, ne ho ascoltato i palpiti e le voci,
sfogliando le pagine dei poderosi volumi, come album
di fotografie ingiallite dal tempo. Ho dialogato con
i “suoi” personaggi, ogni volta con emozione nuova.
L’emozione che suscita una poesia viva, atto di
presenza, intreccio di memoria e cultura, che non
permette smarrimenti.
Il poeta coglie voci, lontane nel tempo, ma
vivissime nella sua memoria. Egli tramuta in versi
sensazioni e fatti di vita quotidiana, emozioni e
nostalgie in quantità tale da dare anima e vita a
luoghi ed eventi di questa terra castrovillarese, da
lui tanto amata, di un patrimonio che va
scomparendo. Ogni libro è, dunque, un atto d’amore e
una testimonianza, perché il poeta percepisce la
realtà con l'occhio del cuore. E tutto questo per
riscatto di quella memoria che risulta sempre più
necessaria alle nuove generazioni, per non perdere
il contatto, senza enfasi né esaltazioni, con
l’identità dei progenitori.
Tempo e memoria operano la trasfigurazione lirica
della realtà e le danno il ruolo di rivendicazione
di un’identità comune da mantenere stabile. Ai versi
è affidato, dunque, un messaggio che supera
l’occasione, la circostanza. Non è il solito
rimpianto di cose lontane e perdute. È ricordo,
senza commemorazioni lamentose o idilliache. È un
che di vivo, di gioioso; e le sensazioni che il
paese nativo suscita nel poeta, i fatti che
rientrano nella sua esperienza di vita, sono il
segno tangibile di un intimo sentire che convince e
affascina. I tanti personaggi che s'incontrano nelle
pagine di Luigi Russo sono disegnati, avvolti da un
velo di nostalgia, con sottile umorismo, spesso
malinconico, che di tanto in tanto diviene caldo
accento evocativo.
È poesia, che ama la gente semplice e la
sentenziosità, la saggezza popolare, in cui si
esprime il buon senso tipico dell'ambiente rurale
che si manifesta, appunto, in certi caratteristici
atteggiamenti del linguaggio o addirittura nel
proverbio. È poesia, niente affatto popolare nel suo
intrinseco, che nasce da eletto sentire e da severe
meditazioni, come dimostrato, d'altra parte, dalla
perfetta padronanza del dialetto, innalzato a mezzo
espressivo duttilissimo, e capace di aderire a tutte
le pieghe e le sfumature dell'animo del poeta. Una
poesia dialettale che ha il potere di annunciare una
sorta di ritorno alle origini; che ci riporta ad un
mondo “a misura d’uomo”, lontano dalla solitudine e
dalle inquietudini di una vita massificata e
malsana. Nei versi di Russo troviamo quelle
tradizioni regionali e paesane, quel gusto della
vita umile e cordiale del popolo, che nel dialetto
trovano il più efficace mezzo per tradursi in
poesia. Il tono semplice, caldo e discorsivo, di
tante pagine rivela un impasto linguistico
stilisticamente omogeneo, ma anche ricco nel
lessico, da adeguarsi pienamente alle più varie
necessità espressive, in modo particolare alle
tipiche strutture della parlata popolare. Il verso è
pulito, ricco di immagini e di termini
particolarmente efficaci.
La “sua” gente, quella nobilitata dalla fatica e dal
sacrificio, contemplata anche nella vita familiare,
è quella della Sua fanciullezza, sono le
caratteristiche figure che gli sono rimaste nel
cuore. È tutta una civiltà contadina, con la sua
frugalità e le sue semplici usanze, che riaffiora in
affettuose, nostalgiche immagini. C'è il passato, la
tradizione, le leggende, ci sono i grandi eventi
pubblici, i problemi sociali del suo paese in questo
volume postumo. E questi motivi predominanti ne
attraggono infiniti altri, correlati con le più
vaste vicende nazionali, dandoci l'esatta misura
degli orizzonti ideali e dell'umana sensibilità del
poeta.
Luigi Russo, voce altamente significativa della
poesia in vernacolo, avrebbe avuto ancora tanto da
dirci, se il crudele destino non gli avesse
strappato la penna di mano.
La foto "u ricunculu" è tratta dal volume :
Castrovillari immagine e tempo - di M. Zanoni -
1989.
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pubblicato il 2
Feb 2008
NEL
CENTENARIO DELLA NASCITA DI PAVESE
“Cesare
Pavese. Il mare, le donne, il sentimento tragico”
In
occasione del centenario della nascita di Cesare
Pavese Pierfranco Bruni analizza temi e
problematiche di uno scrittore significativo del
Novecento Italiano attraverso percorsi letterari e
umani.
Proprio per la ricorrenza del centenario della
nascita di Cesare Pavese (1908 – 2008) Pierfranco
Bruni pubblica il suo terzo libro dedicato a Cesare
Pavese. Un saggio tascabile che analizza l’intreccio
tra luoghi, sentimenti e vita. Si tratta di un
importante lavoro, in distribuzione in questi
giorni, diviso in otto capitoli nei quali si
tratteggia un percorso non solo letterario ma anche
umano.
Travolgente sono le pagine riguardanti il rapporto
tra Pavese e l’attrice americana Constance Dowling.
Pagine di una singolare liricità che portano sulla
scena un amore e una tragedia recitata nei versi di
“Verrà la morte…”.
Su questo testo Bruni si sofferma con acute
angolature entrando nei particolari dell’amore e
della morte di Pavese. Un titolo abbastanza
suggestivo: “Cesare Pavese. Il mare, le donne, il
sentimento tragico”, edito da Pellegrini nella
prestigiosa collana “Zaffiri”, Pp. 96, € 10.00
(www.pellegrinieditore.it).
"Non si può ormai disconoscere che Cesare Pavese,
sostiene Pierfranco Bruni, abbia rappresentato un
punto di riferimento di quella cultura letteraria
che è stata espressione di modelli simbolici e
metaforici che hanno segnato una rottura con la
letteratura realista. La mia rilettura pavesiana può
costituire una interpretazione dialettica intorno
alla quale può nascere un utile dibattito su tutta
la letteratura italiana degli anni Quaranta”.
Lo studio su Pavese è un libro che analizza la
figura e l'opera di Pavese ma non in termini di
tracciato biografico. Piuttosto ne valorizza gli
esiti problematici sul piano sia etico che estetico.
Una chiave di lettura affascinante.
D'altronde Pierfranco Bruni aveva già pubblicato, in
più occasioni, testi su Pavese e la letteratura del
Novecento. Risale al 1986 un suo primo libro su
Pavese per il quale ottenne il riconoscimento del
Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio e
al 2004 un nuovo lavoro sul Pavese tra mito e storia
al quale fu assegnata la Medaglia d’Ora della
Presidenza della Repubblica – Premio Ciaia.
Pierfranco Bruni, tra l'altro, rilegge il sentimento
della memoria e della nostalgia nell'opera di Pavese
e ricostruisce anche il suo rapporto d'amore con
l'attrice americana Constance: la sua ultima donna
prima del suicidio avvenuto nell'agosto del 1950.
La ricerca di Bruni, comunque, analizza, a tutto
tondo, la poetica di Pavese. Uno scrittore (e un
poeta) che resta in quella letteratura della memoria
e del mito che ha una presenza considerevole nel
contesto italiano del Novecento. La metafora di
Omero avvicina Pavese a quegli scrittori inquieti e
tragici che appartengono al viaggio dell’ulissismo.
Una proposta innovativa che pone Pavese tra due
simboli: quello di Ulisse e quello di Enea.
Personaggi del viaggio. Ma tutta la problematica
letteraria di Pavese, secondo Bruni, vive lungo la
metafora del viaggio.
Bruni scava nei testi di Pavese e chiama
costantemente in causa il mito, i simboli e quella
cultura classica che ha formato l’itinerario
letterario delle opere narrative e poetiche dello
scrittore de “La luna e i falò” e di “Verrà la morte
e avrà i tuoi occhi”. Le donne che campeggiano in
questo scritto di Bruni sono realtà ma anche
rappresentazione onirica e fanno parte di quella
dimensione del sentimento tragico che è dimensione
dell’essere dello scrittore.
I due capitoli finali sono dedicati alla Calabria e
alla grecità e al rapporto tra Pavese e la politica.
Proprio su quest’ultimo capitolo emergono delle
pagine che faranno discutere perché Bruni fa
riflettere su alcune missive che Pavese scrisse, dal
confino a Brancaleone, a Benito Mussolini. In una di
queste si legge: "…mai io mi ero sognato di fare
della politica, di qualunque genere, e tanto meno
dell'antifascismo".
Il libro di Bruni, comunque, analizza, a tutto
tondo, la poetica di Pavese. Uno scrittore e un
poeta che resta in quella letteratura della memoria
e del mito ben consistente nel contesto italiano del
Novecento. Gli elementi letterari si intrecciano con
quelli di natura antropologica. Una visione
innovativa che pone l’opera di Pavese al centro di
una rilettura profondamente radicata al testo.
Il lavoro di Bruni si iscrive in quel contesto di
promozione del Novecento letterario italiano che
trova in molti scrittori contemporanei una chiave di
lettura emblematica per un approfondimento del
rapporto recupero dei luoghi - cultura popolare.
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pubblicato il 16 Gen 2008
Dario
Franceschini. Oltre la politica
La
letteratura che è follia improvvisa. Un romanzo del
mistero e senza “relativismi”.
di Pierfranco Bruni
Ho
già avuto modo di recensire il precedente romanzodi
Dario Franceschini. Ora, Franceschini, pubblica un
nuovo percorso narrativo. Un romanzo significativo
che dovremmo considerare al di là dell’autore stesso
(dico questo perché il nome dello scrittore nel bene
e nel male corre il rischio di condurre ad un
probabile condizionamento). Io non sto tra questi
perché la mia posizione ideologica (anzi la mia
visione culturale non coincide con quella di Dario:
non coincide per un semplice fatto: io da cattolico
cristiano non avrei mai accettato di governare con
il relativismo estremizzato, dimostrato anche in
questi giorni. Non me ne voglia il bravo Dario ma un
cattolico cristiano deve sempre difendere il suo
Pontefice anche a costo di barricate e non sedersi
intorno a coloro che considerato tutto relativo:
dalla difesa della vita ai veri valori etici, ma
questo è un altro discorso, ma che ci stai a fare
con “questi”?).
Entriamo un po’ nel merito della scrittura e dei
viaggi letterari. Più che una recensione ho
considerato quel mio scritto, sul primo romanzo di
Franceschini, un confronto tra linguaggi e
letteratura. Linguaggi dell’anima più che della
parole e ho sottolineato, in quella circostanza,
elementi puramente letterari ed espressivamente
emotivi. Ma letteratura ed emozione costituiscono un
modello di approccio ad una scrittura che vada oltre
i limiti di una narratività illogica. L’arte non ha
logica… La cultura dovrebbe averla…
Oggi assistiamo alla illogicità della letteratura.
Non ci dobbiamo spaventare se da Saviano a Camilleri
assistiamo all’impeto della sfida dove di letterario
c’è ben poco. Oggi viviamo la letteratura come
espressione di un marketing. Cerchiamo di essere
meno ipocriti e di dirci, almeno tra addetti ai
lavori, un po’, soltanto un po’, di verità. Siamo in
una irreversibile crisi del linguaggio letterario.
Irreversibile se si continua ad insistere sui
“Gomorra” che starebbero bene per una buona pagina
giornalistica ma non in una trasposizione
letteraria.
Da Saviano a De Cataldo (i giudici vanno di moda
anche in letteratura) non c’è il minimo sentire di
tracciato letterario. La letteratura cede il passo
al tribunalese e alle inchieste ma anche al
caramelloso preconfessionale alla Erri De Luca che
non mi piace anche se alcuni ambienti cattolici si
ostinano… Molto meglio Veltroni narratore che
questi. Ma non meglio di Franceschini, certamente.
Non ci sono dubbi che il recente romanzo di Dario
Franceschini dal titolo spagnoleggiante o
sudamericano: “La follia improvvisa di Ignazio
Rando”, Bompiani, è un ottimo romanzo.
Bravo Dario.Come, d’altronde ho considerato “Nelle
vene quell’acqua d’argento”. Una mite malinconia
pervadeva il primo romanzo con sottolineatura di
forte metafora. Una enigmatica metafora attraversa
questo nuovo romanzo. E, lo dico senza alcuna
spocchia (non mi frega niente di quello che pensano
gli altri ma io vivo di letteratura e con la
letteratura da circa quarant’anni e non faccio né il
politico e tanto meno il magistrato) perché la mia
esperienza e i miei studi mi fanno guardare al di là
del bene e del male.
“La follia improvvisa di Ignazio Rando” è
certamente il romanzo più bello che ho letto negli
ultimi tre o quattro anni. Non mi si venga a
dire che i Premi Strega siano romanzi da
consigliare. Non apriamo questo “verseggiare”. I
Veronesi i Baricco, i Busi, i De Carlo, i Piperno e
una volta anche i Tondelli (che si è voluto
innalzare a maestro ma di che…’) sono al di qual del
bene e del male.
La letteratura è ben altra cosa. È un’emozione
chiamata non verità ma poesia, grazia, mistero,
fantasia. Ebbene dobbiamo avere il coraggio di
sprigionare le tensioni esistenziali che vivono
dentro di noi soprattutto noi che il mestiere della
letteratura lo pratichiamo non per gioco e neppure
per tirare la carretta di fine mese. Il romanzo di
Franceschini ha una freschezza borghesiana. Forse
intinta in una venetara kafkiana dove la storia
scompare e rimane la testimonianza del personaggio.
Il personaggio che si fa destino e si aggrappa alla
nostra anima come si è aggrappata alla nostra anima
il tempo che scorreva nelle vene dell’acqua
d’argento. Ma perché, caro Dario, “…in piedi si è
già in mezzo al cielo”? Non darmi la risposta. Non
puoi darmela. Non cercarla. Lasciala al lettore.
Ognuno di noi si interrogherà a proprio piacimento.
Ma tu lasciala sospesa tra il cielo e il vento. Non
è ragione la letteratura.
I relativisti ci punzecchiano con la ragione
scambiandola con il sentimento. Vogliono dare un
senso a tutto. Ma noi non cerchiamo un senso.
Piuttosto un orizzonte. Sì, un orizzonte come il
tuo, il mio, il nostro Ignazio Rando. Il resto non
ha mancia. E siamo tutto in viaggio verso i mulini
al vento perché restiamo in fondo dei fantasmi o dei
funamboli.
“Ignazio camminava sul bordo del marciapiede
cercando di cadere sulla strada. Certo il sasso
sulla spalla lo sbilanciava, per questo era più
difficile stare in equilibrio. Metteva i piedi l’uno
davanti all’altro, lentamente, come facevano u
funamboli ed era bravo, perbacco”.
Forse, voglio cogliere questa provocazione, Ignazio
Rando vive un po’ dentro di noi. E vive senza che
noi ci accorgiamo della sua presenza. Ma cosa è la
presenza e l’assenza in letteratura. È un romanzo
scrittore con un sapere letterario, ben costruito,
con delle ombre poetiche che toccano l’anima e con
una geografia che scompare per lasciare proprio
questa ombra alla metafora.
Non racconto la trama. Cerco di raccontare
sensazioni. Sono quelle che mi ha lasciato l’impatto
con questo romanzo. Vedete che straordinaria
immagine: “Dalla finestra da cui proveniva il canto
si affaccia una donna bellissima. È lei che canta ma
la sua voce è quella di un uomo. Noi continuiamo a
ballare e io cerco a ogni giro di vederla bene,
aspettando la luce del giorno che cresce. Poi la
riconosco. Sei tu. Tu che canti con la mia voce”.
Immagini che ci immettono nella ragnatela delle
emozioni, nella follia di una parola che si fa
incanto. Superando sempre sia la storia che la
ragione. Possono piacere o meno queste mie
considerazioni. Nessuno è obbligato ad accettarle.
Ma vi posso giurare, sotto il giuramento di uno
scrittore che non fa il magistrato e neppure il
prelato, che “La follia improvvisa di Ignazio Rando”
è proprio un vero romanzo. E poi c’è la follia. Cosa
sarebbe la letteratura senza la follia… Dario non
trascurare la parola che si fa emozione.
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pubblicato il 23 Dic 2007
IL
SACRO E LA LETTERATURA
Uno
studio di Pierfranco e Micol Bruni analizza il
Novecento letterario italiano attraverso gli
scritti dello scrittore calabrese Francesco Grisi
edito dal Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”
con il patrocinio del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali.
Incontri tra scrittori: da Ignazio Silone che
parlava di "preconcetti estetici o ideologici” a
Mario Pomilio che difendeva l'autonomia della
letteratura.
Una ricca documentazione ricostruisce spaccati della
letteratura italiana del secondo Novecento
attraverso testimonianze dirette.
Una ricerca che pone all’attenzione il legame tra
scrittori cattolici e formazione sottolinea il
valore della letteratura cristiana del Novecento
Italiano. Uno studio articolato, nel quale il
rapporto tra sacro e letteratura partendo da
Francesco Grisi, diventa fondamentale. Hanno
lavorato a questa pubblicazione, in distribuzione in
questi giorni, Pierfranco e Micol Bruni portando
alla luce, tra l’altro, una significativa
documentazione epistolare che fa emergere una
temperie di grandi incontri e discussioni.
“…è piuttosto raro trovare in Italia un critico che
sappia leggere e che avvicini un autore senza
preconcetti estetici o ideologici”. Così scriveva
Ignazio Silone, l'autore del famoso romanzo "Fontamara"
allo scrittore Francesco Grisi in una lettera datata
Roma 24 luglio 1957. Grisi aveva scritto un
brillante articolo per "La Fiera Letteraria" nel
quale analizzava tutta la produzione di Silone. Lo
scrittore abruzzese in una lettera si rivolgeva
proprio in questi termini al giornalista e
scrittore, Grisi, con il quale ha poi intrattenuto
un rapporto di vera amicizia sino alla sua scomparsa
avvenuta nell'estate del 1978.
Questa lettera, insieme ad altre 68 lettere e
carteggi vari di scrittori italiani del Novecento,
sono state studiate da Pierfranco e Micol Bruni e
analizzate in un saggio dal titolo: “Francesco Grisi.
Il sacro e la letteratura” pubblicato per conto del
CSR “Francesco Grisi” con il patrocinio del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Si
tratta di un testo dove si evidenziano i rapporti di
Grisi con il Novecento letterario e dove emergono
importanti spaccati letterari del Novecento.
Pierfranco Bruni sottolinea l’importanza che Grisi
ebbe con scrittori come Diego Fabbri, Ignazio Silone,
Mario Pomilio, Giuseppe Berto, Ettore Paratore.
Una significativa documentazione emerge da questa
ricerca. Come il carteggio tra Mario Pomilio e lo
stesso Grisi. Un Pomilio che difende l'autonomia
della letteratura. come la difende Antonio Barolini.
Pesante, invece, è una lettera del giornalista della
Rai Andrea Barbato, indirizzata ad Antonio Barolini.
Si scaglia contro gli intellettuali non conformisti
alla sinistra durante la nascita del Sindacato
Libero Scrittori avvenuta nel 1970 prendendo le
distanze dal Sindacato Nazionale Scrittori di
matrice social - comunista. Interessante, dal punto
di vista politico - culturale, è anche la
testimonianza di Libero Bigiaretti.
Sorprendente è, tra l'altro, la lettera di Riccardo
Bacchelli datata Milano 20 maggio 1964, nella quale
emerge lo spirito critico dello scrittore de "Il
Mulino del Po". Triste e ironica, invece, la lettera
di Marotta datata Roma 11 luglio 1962, nella quale
si sottolineano gli impegni dello scrittore
napoletano e i suoi rapporti con il mondo dello
spettacolo, della canzone e della cultura.
"Si tratta di un lavoro accurato, precisano
Pierfranco e Micol Bruni, che presenta delle novità
particolari che riguardano sia la letteratura nel
suo aspetto creativo e religioso sia la letteratura
letta in un rapporto con la vita politica degli anni
compresi tra il 1968 e gli anni Settanta. Si avverte
il disagio di molti scrittori cattolici (e laici)
nei confronti della cultura egemone di sinistra”.
Nelle pagine, scorrono intagli storici che indagano
il legame tra letteratura e sacro, mostrando una
vera e propria teologia del pensiero dove le parole
nascono dal silenzio e sono esse stesse un atto di
fede.
Francesco Grisi, che ha fatto ‘diversi mestieri’,
ricorda il saggio (ha infatti insegnato
all’Università, ha scritto libri, è stato
giornalista), era esperto in umanità. Sapeva che
‘l’orologio è cronaca’ e che c’è un altro tempo da
fermare: sono le attese dei paesi del Sud
perennemente appesi ai burroni di roccia e di
precarietà, c’è un messaggio da cogliere nella
poesia greca e in quel mito che – insieme a Mircea
Eliade - è un eterno presente. Un oltre che la sua
penna e la sua tavolozza di colori forti
raccontavano con arguzia.
Ci sono simboli ondeggiano nel vento dei segni, la
vita “è sempre un cerchio – annotano i Bruni – non è
una linea retta. Si parte da un punto e si ritorna
lì, a vedere incantesimi’’, a giocare con alchimie e
delfini che danzano nel mare dei greci che conosce
le rotte di Ulisse.
Anche per questo “Grisi e’ un viaggiatore che sa che
oltre il vento d’altura gli orizzonti sono infiniti,
e la memoria e’ una marea’’. Nelle sue pagine dense
di glosse, c’è però un “costato che è la preghiera’’.
Lo testimoniano anche i suoi scritti su Francesco
d’Assisi o su Jacopone da Todi, fino alle
riflessioni su Giovanni Paolo II. A sostenere la
narrazione, la convinzione che per gli abitanti
della terra “ogni cosa e’ necessario che avvenga.
Anche la Via Crucis della perdizione’’.
Il verbo è andare avanti, graffiare di verità le
sere, anche quando ‘I giorni non si somigliano
tutti’, per dirla col titolo di un romanzo postumo
di Grisi. In questo percorso, la speranza diventa un
linguaggio, perché “l’attesa di religiosità –
rimarcano Pierfranco e Micol Bruni– è una ruga che
si avverte e che non va dimenticata”. Una ferita,
forse, propria a intellettuali che “non si lasciano
trascinare dalle mode”.
Una ricerca sulla quale Pierfranco Bruni continua a
lavorare attraverso altro materiale inedito compreso
materiale fotografico. Questo saggio si inserisce
negli studi che il Centro di Ricerche “Francesco
Grisi” compie da quasi un decennio sul rapporto tra
fede e letteratura. Il sacro e la letteratura sono
dentro il “materiale” letterario che ha formato il
progetto poetico e narrante di Grisi.
Nella foto: P. Bruni
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pubblicato il 9 Mag 2007
MARIA
ZANONI SI RACCONTA IN POESIA
Maria Zanoni,
ricercatrice di Antropologia, racconta la sua
esperienza di donna in poesia.
Nella
vita ci sono momenti in cui uno scrittore sente il
desiderio di raccontarsi. E lo fa pubblicando una
raccolta di poesie.
È capitato a me, dando alle stampe “Azzurro
nell’anima” per le edizioni Arte 26.
Si tratta di una silloge di liriche a tema unico,
l’amore, che ho custodito in un cassetto per ben 35
anni. Tanto tempo... Ma la vita intesse destini
contro cui la volontà nulla può. Misteriosa alchimia
della scrittura...
Forse, dopo varie pubblicazioni di natura
socio-antropologica, la convinzione di partecipare
agli altri sentimenti ed emozioni è maturata dando
ascolto agli insegnamenti del grande Pablo Neruda:
“Lentamente muore chi non cambia la marcia, chi non
rischia. Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce i puntini sulle "i" piuttosto che un
insieme di emozioni”...
Allora la scrittrice di tradizioni popolari si mette
in gioco e, nella stagione dei bilanci, decide di
fare un salto senza rete. A 20 anni tutto sarebbe
stato più semplice...
In genere un giovane che aspira a diventare
scrittore, con slancio ambizioso, pubblica un libro,
a sue spese o con un editore compiacente, quasi a
coronare i suoi sogni giovanili, e non si rende
conto che quello è ancora il momento di maturare ed
affinarsi. E poi, ahimè, spesso si smarrisce e
nessuno sente più parlare di lui.
E non parliamo delle donne-poeta (o poetesse?!?).
Proprio questo dilemma su come definire il genere
femminile che si esprime in versi, la dice lunga sul
fatto che la storia annoveri poche donne in poesia.
Anche se oggi stiamo recuperando un ritardo di
secoli.
Ma Dacia Maraini, parlando delle donne in poesia,
nel suo libro-manifesto “Donne mie” dice: “È una
voce fiacca, grezza e mutilata / che viene da
lontano, da fuori della storia, dall'inferno degli
sfruttati”.
E Dario Bellezza, nel 1974, riferendosi al testo
della Maraini scriveva: “...proprio nella
letteratura le donne smentiscono quell'odiosa e
razzistica imposizione della barbarie maschile di
definire una donna un essere inferiore, non per
ragioni talvolta storiche e sociali, alle quali
fanno bene le donne a ribellarsi, ma arrivano, i
fessi, i fascisti del sesso, a dire che la donna
sarebbe inferiore per struttura biologica. Non è
vero, non esiste più grosso torto fatto ad un essere
umano di questo, anzi quando nasciamo siamo tutti
uguali, maschi e femmine, senza distinzione. In
letteratura abbiamo una quantità sterminata di forti
scrittrici, anche se le storie letterarie le
occultano, perché le storie letterarie sono state
sempre fatte dagli uomini” – conclude il critico.
Il problema resta sempre attuale ed aperto, anche se
i tempi sono cambiati.
Oggi, sono numerose le donne che cercano di dare
voce poetica ai loro sentimenti, affiancandosi agli
uomini, come in ogni campo, non per insidiare quella
supremazia che finora hanno avuto, ma solo per
condividere la gioia che la poesia dà in ogni
momento, sempre e comunque.
In realtà, anche le donne di indole più concreta,
più impegnate nel sociale, hanno momenti in cui il
loro senso poetico può trasformarsi in poesia. Non
esistono doveri così assoluti e condizionanti che
possano soffocare completamente l’afflato poetico.
Anche perchè la poesia non è sempre e comunque
ispirata da avvenimenti, dolori, avventure.
Il problema per una donna-poeta, soprattutto nella
società meridionale, invece, è, ne sono fortemente
convinta, quello di avere il coraggio di esporsi, di
mostrare a tutti il proprio cuore; e se decide di
mettere in piazza le passioni socio-politiche corre
il rischio di essere tacciata di femminismo, nella
società ancora a dominio maschile.
L’arte e la poesia, piuttosto, sono per le persone
più sensibili e fragili una valvola di sfogo nelle
avversità della vita, in una società piena di
violenza, in una realtà colma di materialismo ed
egoismo, nella quale ci orientiamo a fatica.
La sensibilità, tutta femminile, può trasformare in
versi il guardarsi nell’animo e scrutare nel mistero
profondo dell’esistenza.
Infatti, il critico d’Arte Adriana De Gaudio, nella
postfazione al mio volume, dice: “Non deve stupire
se Maria Zanoni, studiosa di tradizioni popolari,
ricercatrice di antropologia culturale, riesce a
guardare la realtà, che la circonda, anche con il
terzo occhio, quello dell’anima, e a trovare nella
poesia, nonostante le miserie e le nefandezze umane
che ci circondano, la bellezza dell’amore. Amore
immenso, che nell’azzurro, senza il limite
dell’orizzonte, trova l’acme per elevarsi ed
esprimersi. [...] La diversa gamma cromatica
scandisce il bioritmo della poetessa, regola, a
seconda della variazione e intensità tonale, la voce
del cuore che, vibrando dal profondo, cattura
l’ispirazione in un verseggiare liricamente
modulato. L’uso della metafora, della similitudine,
dell’iperbole, traduce in efficaci immagini visive,
il flusso del pensiero. [...] Una testimonianza
veridica, un messaggio poetico da intendere non
semplicemente come un “pezzo di vita”, ma un invito
a proseguire il viaggio terreno, conservando sempre
la curiosità, lo stupore, l’entusiasmo” - conclude
la De Gaudio.
Dunque, che i poeti vanno cercati e incoraggiati lo
dicono in tanti.
Lo stesso grande Papa Giovanni Paolo II, nella
Pasqua del ’99 rivolgendosi agli artisti, affermò:
“La società ha bisogno di artisti, come ha bisogno
di scienziati, di tecnici, di lavoratori, per la
crescita della persona e lo sviluppo della comunità
attraverso le altissime forme dell’Arte.”
E il dubbio mi sfiora. Quanto può interessare
ancora, oggi, nella società dell’immagine, la poesia
(emozione ed astrazione)?
Eppure ci sono tanti giovani che coltivano con
passione quest’arte.
Che si chiamino Filomena, laureata in Marketing
territoriale, che adora i versi del poeta turco
Nazim Hikmet e si regala la sua opera omnia; o che
si chiamino Ciro, che sta nel campo della
Giurisprudenza e fa della poesia la sua ragione di
vita, poco importa.
La poesia vive e continua a testimoniare la
condizione umana. E non solo per un’èlite di
attempati cultori.
La poesia è vita. Nonostante “Carmina non dant panem”,
come mi ripete spesso il mio amico Ciccio.
In verità questa mia silloge di 40 poesie, non
titolate e senza data volutamente, scelte tra quelle
dei primi anni settanta mescolate ad altre più
recenti, mi riporta ai primi versi giovanili,
affidati ad un foglietto, onnipresente nella tasca
posteriore dei jeans.
Eh, già, quei jeans per poche di noi ragazze del
sud, uscite dal Sessantotto, senza averne coscienza,
erano, nel nostro sentire, ansia di libertà (o
illusione di libertà???).
Questo volume, che fa dell’azzurro un simbolo, non è
una sorta di autobiografia lirica, fatta di mille
frammenti di vita. Questi frammenti sono fatti di
sogni, colori, immagini, voci, rimpianti, ricordi.
Non a caso la copertina riporta un mio dipinto olio
su tela del 1977. Una coppia di amanti che si
dileguano su uno sfondo senza orizzonte, ancora una
volta azzurro. I due corpi, nudi, che si confondono
e si fondono nell’abbraccio, uscirono dalla mia
tavolozza di dilettante, ispirata a Paolo e
Francesca danteschi.
Chi avrebbe immaginato, trent’anni fa, che avrebbero
fatto da coperta ai versi, strappati a fogli
ingialliti su cui il tempo ha scolorito le parole
scritte con la Olivetti Lettera 22 (ambìto regalo
della maturità classica, amata compagna di viaggio,
tradita per un computer).
So bene che non compete a me dare giudizi di merito
sul mio lavoro; e non lo faccio.
Provo a sfidare me stessa, raccontandomi. E mi
racconto verseggiando sul mio anelito giovanile di
libertà, sui sogni e le conquiste. Allora, per dirla
con William Shakespeare: “Il mio occhio si è fatto
pittore e ha tracciato forme... sulla tavola del mio
cuore”.
Questa mia poesia d’amore è l’azzurro della mia
anima, senza tempo e senza spazio. È il sentimento
di tutti i tempi, quello che la poetessa Maria
Pawlikoswka paragona alla Nike di Samotracia che
“con lo stesso ardore tende le braccia mutilate e
vola”. “Ansia senza limite” – direbbe Neruda.
Non ci sono storie vere tra le righe della mia
poesia, lo dice bene il critico letterario
Pierfranco Bruni nella prefazione, di cui il volume
si pregia.
“Un afflato lirico nelle maglie di una tensione
tutta giocata sul filo dell’onirico – dice lo
studioso di poesia del ‘900. Si intesse il gioco
delle parole nella griglia dei sentimenti che
raccontano emozioni. Non storie. La storia è
altrove. Resta “bloccata” nel labirinto dell’anima.
Poesia lacerata nei giorni vissuti. Così questo
percorso poetico di Maria Zanoni. Poesia alta e
scavata. Linguaggio nel sublime. Sentieri incantati.
L’azzurro non è una parola. È una dimensione dello
spirito nella vita che consuma le ore dell’amore. La
poesia è un tratto dell’esistenza nel cammino che
accompagna Maria Zanoni. Un tratto che racchiude il
misterioso incanto-disincanto di una
armonia-disarmonia di passioni che sono una
esplosione nel tempo del perdere e del ritrovarsi.
Se c’è una storia d’amore, poco importa, perchè il
poeta sta sempre al di là della storia stessa, la
quale si racconta quando tutto è trascorso, ma non
finito. Perchè nulla finisce realmente. [...]
L’azzurro è, dunque, una metafora, ma forse è anche
qualcosa che va oltre e sa di più di un cielo che si
lascia dipingere da un vento d’altura. [...] Ma
questi versi di Maria Zanoni sono un viatico nel
quale si va alla ricerca della luna che tramonta in
un orizzonte di rossi crepuscoli per recitare “corse
senza tempo” restando “tra la scogliera / e il
mare”. E come tutte le belle poesie (il termine
belle sta a significare anche la giusta misura dei
versi e lo sviluppo estetico del “poemetto”) lo
strazio e lo strappo dell’anima (o nell’anima)
assume un colore (che sa di luna, di chiarore, di
intenso, di denso e quindi di profondo) che va
appunto oltre la favola della metafora, come già si
diceva. – afferma Bruni - E perchè tutto questo? Non
dimentichiamo un fatto che risulta, in tale
contesto, significativo: la Zanoni dipinge i colori
delle parole. L’Artista dell’azzurro e delle forme
rende vitale il senso del misterioso che cela ora il
volto dei personaggi nei suoi lavori pittorici, ora
il valore delle parole nella autenticità di una
espressione che resta costantemente onirica. La
bellezza e l’amore non sono le maschere
dell’azzurro. L’amore e la bellezza sono una
sensualità mai definita del tutto, ma mai rivelata
completamente.
È qui il punto che, comunque, non
chiude il mosaico, ma aggiunge tasselli nel silenzio
degli incanti o nel silenzio di un incontro che
trova però nella poesia lo sguardo dell’amplesso:
“Abbracci di fuoco / si concedono / senza ricatti”.
Oppure: “...ci respiriamo l’anima / a fior di
labbra”. C’è, come si sottolineava, sensualità.
Intenso amore, ovvero eros che chiede al ricordo di
farsi vita. Una poesia nel tempo. Il tempo non
assoluto. Ma il tempo del poeta è nella misura della
propria testimonianza. [...] È vera poesia del sogno
che fa sognare nella recita dei ricordi”.
Nella foto: La scrittrice Dacia
Maraini con Maria Zanoni nel 2003
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pubblicato il 4 maggio 2007
LA METAFORA DELLA CONCHIGLIA
La
Letteratura di Pierfranco Bruni tra attese, ricordi
e misteri.
di Maria Zanoni
Tre
lunghi racconti, legati da un unico filo conduttore:
il senso del vivere tra sogno e realtà.
“Il mare e la conchiglia” (Pellegrini editore) nuovo
romanzo di Pierfranco Bruni è ”una metafora, oltre
la metafora”.
E profuma di mare l’elegante copertina patinata
color verde Paolo Veronese (ottima scelta grafica
della curatrice della veste editoriale del volume,
Micol Bruni) che riporta un’opera pittorica del 1987
dell’indimenticabile scrittore Francesco Grisi.
Bruni, scrittore della “mediterraneità” si racconta
in 109 pagine, tra le nostalgie, i sogni, le
emozioni, le attese. E le sue parole “si confondono
nel cerchio magico”... mentre “ la luna cade sui
tramonti”.
È la memoria l’eco restituito dalla conchiglia. E lo
scrittore, che si sente “un bandolero stanco”
continua a vivere “di tramonti e calcolati oblii”.
Allora mi chiedo: dove finisce il racconto e dove
inizia la poesia!?!
La narrazione, ricca di riflessioni, diventa poesia.
E lo scrittore che medita si confonde con il poeta
che sogna. La realtà è fagocitata dalle sensazioni,
dalle emozioni che emergono dai ricordi. Ogni pagina
è tripudio di segni e meditazioni, tessere di un
mosaico ricco, variegato ed equilibrato nei colori
dell’anima. Anche “i silenzi sono segni” che il
poeta affida al “paese del vento”, perchè li
custodisca.
Lo scrivere di Bruni, anzi, il mestiere-fatica di
vivere, nasce da una vena malinconica e pensosa, da
una vera umanità narrante, sospesa “sempre tra i
rigagnoli di un’attesa” che “custodisce ore bruciate
dai crepuscoli”. I suoi libri (tanti, che ormai ho
perso il conto) sono “una costante interrogazione
sulla Terra Promessa”, che cercano risposte nella
fede, sulle tracce di San Paolo.
Pierfranco Bruni è il poeta della nostalgia,
“viandante” in terra di Magna Grecia, “marinaio nel
vento” del Mediterraneo, che “ascolta il silenzio –
il silenzio oltre le parole – in un tempo di
disincanti, in un’epoca che “ha ucciso i sogni” e i
giorni trascorrono nella mediocrità, tra amarezze e
disillusioni.
“In un tempo di lunghe malinconie lo scrittore è
l’unico a non sentirsi indispensabile”. E coglie il
senso del vivere tra poesia e letteratura, tra
immagini e simboli.
In queste pagine si ripete quanto afferma Stefano
Zecchi in prefazione ad un precedente romanzo di
Bruni, “Paese del vento”: “Compaiono simboli
dell’architettura complessa in una successione che
sa sapientemente alternare la forza dirompente del
sogno o l’intensità malinconica della memoria”.
“D’altronde la letteratura è un’immaginazione che
inganna e salva” – dice Bruni - che trova nel
“vizio” della letteratura l’àncora di salvezza, dopo
il naufragio e le disillusioni della politica. E il
passato si veste di nostalgia, nell’avventura del
testimoniare la propria esistenza.
Ma l’esistenza vera del poeta non appartiene alla
storia, ma al sogno. È allora che il
ricordo-nostalgia di una donna mediterranea diventa
frenesia, follia, amore impossibile dello “scrittore
vanesio” per il quale “la vanità è un gioco
pericoloso”. Ed il rapporto passionale con il paese
natìo è un’ossessione ancestrale che vive
inconsciamente nel suo animo e genera inquietudine
lacerante che la letteratura registra come
sentimento nostalgico.
Le nostalgie colmano le solitudini della vita. Ecco,
allora, che affiorano i ricordi, raccolti dalla
memoria. Gli incontri “romani”, a casa del caro
amico-maestro Francesco Grisi, a discutere e
ascoltare di Letteratura, con Alberto Bevilacqua ed
altri intellettuali. “Il tempo è mistero e Roma
diventa una conchiglia sulla spiaggia dello spazio e
del tempo. Il mistero è nella conchiglia”. Scriveva,
allora, il poeta della memoria.
Il viaggio di Bruni tra fantasia e mistero continua,
fedele all’insegnamento di Francesco: “Chi ha
vissuto il tempo delle idee deve testimoniarsi”,
alimentandosi di “quei valori forti che non trovano
più spazio nella testimonianza politica''. In queste
pagine, oltre al ricordo dei terribili “anni
settanta”, continua, più o meno apertamente, la
riflessione e nello stesso tempo l’invito alle nuove
generazioni a ritornare ad una politica che abbia
forti contenuti culturali, confrontandosi nel
presente con i valori della tradizione, con la
dimensione spirituale dell’individuo. L’agire
politico deve ritrovare un senso etico ed estetico,
al di là di ogni forma di potere. Lo dice ben chiaro
Bruni nel saggio di qualche anno fa “Oltre la
foresta. L’estetica della politica” (Edizioni Centro
Studi e Ricerche Grisi).
“La politica dei valori è nel ritrovare la cultura
della comunità di un popolo, di una civiltà, di un
territorio, di una città. Se non ha questo indirizzo
la politica è solo lo scenario per una recita
malinconica”.
E ricompaiono le malinconie, “tra amori mancati e
anni smarriti”. Emergono tra le righe la tristezza
del distacco e il desiderio del ritorno al “paese
del vento”. Un’altalena di partenze e ritorni che
solo la poesia può cristallizzare. In un continuo,
frenetico viaggiare tra la Roma degli impegni
ministeriali, i paesi balcanici degli scambi
etnico-culturali, la “sua” Taranto e la terra delle
radici, degli affetti, dei sacri legami, affiorano
dal fondo del cuore dello scrittore i vicoli del suo
paese, “i lunghi silenzi dell’infanzia che ora si
fanno attesa”.
La vita dello scrittore è fatta di attese, di
fantasie e misteri, di voci raccolte in una
conchiglia. La Letteratura per Bruni non è
occasionalità. È destino.
E, così, sul filo della memoria e della
“indefinibile” nostalgia, tra mediterraneità e
metafora del ritorno, il viaggio continua.
*pubblicato sul quotidiano La
Provincia Cosentina - Tracce - pag. 35 - Venerdì 4
maggio 2007
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pubblicato il 24 Dic 2007
Poesia
e luoghi -
Se la poesia recita la piazza
di
Pierfranco Bruni
C’è
un legame significativo tra la poesia e i
luoghi, tra la lingua e le eredità di una
cultura popolare, tra processi storici e linguaggi
all’interno di una geografia sia letteraria che
esistenziale. Sulla base di tale sottolineatura il
discorso tra la poesia e il “luogo” piazza diventa
fondamentale in una chiave di interpretazione in cui
la lingua diventa linguaggio e il linguaggio si
serve di modelli di contaminazioni che definiscono
elementi di partecipazione.
È proprio il concetto di piazza a trovare nella
poesia italiana un riferimento importante non solo
come “metafora” di una rappresentazione di un luogo
definito ma soprattutto come incontro tra culture.
La piazza resta, in poesia, quell’agorà in cui
spazio e tempo si definiscono nella misura in cui il
luogo diventa una metafora di dialogo. La poesia che
è espressioni di sentimenti, di sensazioni e di
esperienze linguistiche si racconta anche grazie
all’essere del luogo.
Ci sono poeti nella letteratura italiana del
Novecento che hanno “recitato” la piazza e hanno
fatto della piazza un tempo della loro esistenza. Da
Vincenzo Cardarelli a Giuseppe Ungaretti, da
Salvatore Quasimodo a Vittorio Bodini, da Cesare
Pavese a Rocco Scotellaro, da Corrado Alvaro a
Francesco Grisi, da Alfonso Gatto a Sandro Penna, da
Raffaele Carrieri a Leonardo Sinisgalli: il percorso
si incide tra immagini e linguaggi in cui la parola
resta un battuto lirico per eccellenza.
La piazza la si recita come un spazio geografico
vero e proprio ma anche come una allegoria del
recupero di una centralità di un tempo che non è
cronologico o storico ma profondamente onirico. Un
tracciato con dodici poeti che designano un cammino
oltre ogni realtà figurata. Certamente come
riferimento resta Gabriele D’Annunzio. Un D’Annunzio
con le sue piazze dove si racconta e racconta gli
intagli di un luogo che è anche recita.
Ma D’Annunzio è il poeta italiano che ha segnato il
percorso di tutta una poesia nuova dalla quale il
Novecento letterario si è fortemente
contestualizzato sia dal punto di vista linguistico
che oggettivo e soggettivo. La poesia non solo ha
recitato nelle piazze ma, con questo tracciato, la
poesia recita la piazza. E lo fa usando, appunto,
gli strumenti più consoni che sono quelli della
lingua, dei linguaggi e della cultura popolare. I
poeti qui citati sono la testimonianza vitale di un
incontro tra il luogo e l’essere stesso della
parola. Si pensi a Rocco Scodellare che usa una
lingua profondamente radicata nella cultura
contadina e il paese – luogo è tutto un incontro
nella piazza.
Il paese stesso diventa piazza. Come in Leonardo
Sinisgalli dove la poesia si fa quadretto e si
racconta di un vivere nel suono dei gioco dei
ragazzi che si incontrano nella piazza del paese. Si
pensi a Vincenzo Cardarelli dove il paesaggio è
tutto un giocare e intrecciare immagini di un luogo
di infanzia tra strade e vicoli alla ricerca di un
riferimento qual è appunto la piazza stessa. Si
pensi ad Ungaretti in cui l’incastro delle metafore
è un viaggiare tra fiumi e porti proprio alla
ricerca di uno spazio che possa contenere
l’indefinibile.
E il sud con il suo vento o i navigli al nord sono
finestre nel cuore di un poeta che ha abbandonato la
piazza e il paese per andare altrove sono in
Quasimodo il bisogno di ritrovarsi. Un ritrovarsi
con immagini fisse sulle case e tra le strade trova
in Vittorio Bodini una realtà definita in una
memoria che è nostalgia. E al nostos, ritornare ai
luoghi dell’infanzia e alla piazza di un paese che
custodisce solitudini, pensa spesso Francesco Grisi
in un immaginario che è quello Magno Greco.
E tutta la Magna Grecia si fa immensa piazza in
Raffaele Carrieri che recitando la sua città riporta
nel canto le nenie e i lamenti di donne che
raccontano vita. Come in Cesare Pavese che è come se
dipingesse quelle donne che con l’anfora in testa si
recano alla fontana in un paese che è esistenza in
quanto è luogo di incontri tra le parole che si
contaminano con una soffusa grecità. Quella grecità
che assorbe i suoni del Mediterraneo nel mito mai
sconfitto e mai perduto di un Corrado Alvaro.
Si pensi ancora alle piazzette di Sandro Penna, le
quali piazzette sono un volteggiare di onde tra i
colori delle ore che trascorrono lente nell’ascolto
dell’attesa. O alla piazze metafora che si fa isola
nel recitativo poetico di Alfonso Gatto. Molti di
questi poeti hanno in comune un “sentire” di piazza
che significa un lasciarsi catturare dalle immagini
che la piazza stessa traduce ma anche la comunanza
la si avverte nel constatare che c’è una piazza di
paese o addirittura li si incontra ascoltando versi
dedicati alla romana Piazza di Spagna.
Una piazza per eccellenza tra un sentire, un
immaginare e un vedere. Ma non c’è mai una piazza
soltanto affidata alla descrizione o alla
rappresentazione pittorica. La piazza è il vero e
proprio contro altare di un altro elemento che si
sorregge in poesia ed è il labirinto. La piazza è
vissuto come staticità, forse anche come ozio, come
raccordo di incontri e di parlate. Mentre il
labirinto è piuttosto una metafora di un viaggio
inquieto dal quale bisogna uscire per ritrovarsi. E
ci si ritrova in piazza perché soprattutto nel paese
la piazza è simile all’incontro che si vive intorno
al focolare domestico.
Il labirinto è un viaggio frenetico, una fuga, uno
sradicamento. La piazza, invece, è sempre un
appuntamento. C’è una poesia che recita la piazza e
recitandola si serve di vari linguaggi che sono
affidati certamente alla tradizione. La piazza nella
cultura contadina ha ancora qualcosa di rituale e di
mitico. Si pensi alla piazza di un paese in una
domenica mattina. È il ripopolamento. Ci si ritrova.
Ecco perché diventa il centro, ovvero l’agora. Dove
tutto si vive e dove tutto si consuma. Ma anche dove
tutto ritorna ad essere un incontro. “La piazza è un
silenzio/Ricordi di voci nelle sere estive/Si
raccontavano partenze e mai ritorni/Il tempo si
scandiva ogni mezz’ora/Si ascoltavano i passi e poi
c’era il vento/Anche noi pensavamo già di andar via
tra i colori sbiaditi dei giorni/Forse siamo andati
via/O forse siamo ancora lì/ In attesa di un viaggio
nella solitudine di una partenza”.
Dunque perché la poesia recita la piazza? Ma cosa
sarebbe la poesia senza la metafora – luogo – tempo
- lingua della piazza? E se la poesia recita la
piazza le parole nel tempo della disarmonia possono
avere ancora un senso.
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