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EDITORIALI
Letteratura
pag. 6
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Editoriali,
recensioni e articoli di LETTERATURA
Italiana moderna e contemporanea
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pubblicato il 28 gennaio 2010
Sibilla
Aleramo a Cinquant’anni dalla morte
Una
pubblicazione sul valore dell’amore
di Marilena
Cavallo
Cinquant'anni fa
moriva Sibilla Aleramo (Rina Faccio). Una
poetessa nella femminilità degli incontri e
degli spazi tra le parole e il tempo. Si
ritorna a parlare della Aleramo tra la
fisicità dell’amore e la metafora dell’amore
stesso. È di questi giorni un libro di
Monika Antes dal titolo "Amo, dunque sono.
Sibilla Aleramo, pioniera del femminismo in
Italia" (pp. 144, euro 15) pubblicato da
Mauro Pagliai nella collana "Italianistica
nel mondo". Si tratta di un volume
pubblicato in Germania e tradotto e tradotto
in italiano da Riccardo Nanini. La poesia,
con la sua epifania e con il suo misterioso
giorno incastonato nella vita, resta sempre
un indefinibile sentiero graffiato dalle
parole e nelle parole. Ma sono le parole che
danno vita. La poesia è solitudine nel
silenzio notturno o adamantino dell’ora
antelucana.
Non so se
Sibilla Aleramo è silenzio nella notte o
silenzio nell’ora che annuncia l’alba. Un
gioco non ad incastro. Ma un gioco,
comunque, che sa di voci e di ritmi
musicali. Siamo a volte al valzer e a volte
al tango. Ma Sibilla Aleramo sembra danzare
i passi del tango in un giravolta in cui le
parole sono lame e riposo. Quella poesia che
è solitudine e grido non è una metafora ma
un colpo violento assestato ai ricordi che
però si dipanano lungo i giorni. E di
ricordi la sua vita è piena e sono questi
ricordi che cessano la vita. Ma prima di
essere ricordi le immagini e il vissuto sono
stati viaggi nella vita.
La poesia e la
vita sono leggibili tra i fili di un
erotismo sottile e pervasivo che resta
intagliato nei gorghi delle giornate che si
consumano con le battaglie della delizia.
“Fra il mio seno/e il petto forte che
amo/sta una rosa,/sola”. Non la prosa che
descrive ma la poesia che travalica il
movimentismo letterario per rendersi
movimentismo esistenziale. Perché tutta la
vita di Sibilla Aleramo è un cercare non la
parola che racconta ma il linguaggio che si
fa diario.
Il suo romanzo
dal titolo “Una donna” è una di
quelle testimonianze emblematiche che
lasciano il segno e lacerano la coscienza.
Viene pubblicato nel 1906. Lei era nata nel
1876 ad Alessandria. È morta a Roma il 13
gennaio del 1960. Una vita vissuta nella
ricerca (o nella richiesta o nell’offerta)
di un amore che lo si legge tra gli intagli
del suo linguaggio.
Dall’incipit del
suo romanzo: “La mia fanciullezza fu libera
e gagliarda. Risuscitarla nel ricordo, farla
riscintillare dinanzi alla mia coscienza, è
un vano sforzo”. Recuperare una vita dentro
la letteratura. Ma arte e letteratura per la
Aleramo resta un binomio inscindibile perché
in ogni goccia di vita e in ogni goccia
d’amore vi campeggia sempre una profonda
mobilitazione letteraria.
I suoi amori con
Cardarelli, Campana, Cena, Papini, Godetti
sono frammenti di una esistenza che trova la
sua compiutezza in un dialogo forte e
pressante sempre con la letteratura. Bene ha
fatto a sottolineare Silvio Raffo nel suo
saggio introduttivo a Tutte le poesie
(Mondadori, 2004). Infatti ha così
sottolineato: “ Se cerchiamo un modello
letterario del ventesimo secolo in cui il
binomio ‘ arte-vita’, per di più coniugato
al femminile, si presenta e si mantenga
inscindibile superando qualsiasi ostacolo e
resistendo a qualsiasi tentazione di
normalità, c’è solo un nome che soddisfa il
nostro desiderio: Sibilla Aleramo”.
D'altronde
questa melodia o questa fragile tragedia
diventa per Sibilla Aleramo un viaggio che
non è soltanto da chiamarsi amore (così come
il suo amore per Dino Campana) ma da
definirsi nel contesto delle grandi
inquietudini che hanno campeggiato nella
agonia umanamente e letterariamente
belligerante del ‘900. ma è l’eros che è
passione indefinibile che travolge la sua
vita e la sua poesia. Tutto scompare e tutto
riappare sotto quelle forme che sono
insistenti penetrazioni del linguaggio.
Certo non ci
sono dubbi lei è una donna tango non valzer.
Una donna attrazione fatale e come tale
anche evanescente, fuggevole su un mare di
onde di carta o di vento. Fuggente. Come la
sua poesia o come le onde che invadono la
sua poesia che si
fanno tenerezza ma anche angoscia, si fanno
notte ma anche alba, si fanno luna e si
fanno stella. Il suo amore immenso o
l’immenso amore che cercava con Cardarelli,
il poeta della malinconia, o con Campana, il
poeta della follia…Malinconia e follia sono
dentro quel pellegrinaggio disperante ma
anche giocoso che è stato la sua vita-poesia
o la sua poesia-vita. Si ascolta: “ Era il
tuo riso/fuggente/come il lucido raso delle
acque…”.
Ecco il
verseggiare di Sibilla che non deve e non
può cadere nel prosastico perché se così
fosse svanirebbe tutta quella ebbrezza che
custodisce il mistero di una sola parola.
Aveva ragione Cardarelli quando in una
lettera del maggio 1915 le aveva scritto :
“…pensa che tu sei esalazione assoluta e che
non puoi permetterti composizioni, per così
dire, strofiche. Allora cadi nel vieto e nel
falso…”. Eh si perché la rarefazione della
parola trova nella esalazione il maggiore
accento di quel rapporto tra arte e vita.
Ciò le permette di non scivolare nella
retorica perché la retorica appunto uccide
la poesia. Bisogna parlare nel caso di
Aleramo di bellezza inquietudine soprattutto
quando si focalizza l’attenzione sulla
poesia. Si ascolta: “…tu mio bene segreto,
tu che mio non sei,/ tu alto sovra quanto
amai,alto amore,/ e dal ungi il tuo sorriso
di carità dolce/ vita e morte ugualmente mi
illumina,/ colme e preziose di pianto e
gloria”.
I suoi versi
come i suoi amori. I suoi amori come i suoi
versi. Da una lettera della Aleramo a Dino
Campana : “ I nostri corpi sulle zolle dure,
le spighe che frusciano sopra la fronte,
mentre le stelle incupiscono il cielo”
(risalente al 6-7 agosto 1916). Una donna
immensa in una poesia ritagliata tra le
pieghe della sua vita e degli amori. Amata e
amante di Vincenzo Cardarelli, Giovanni
Papini, Jullius Evola, Franco Matacotta.
Dove finisce allora il tempo della parola e
dove inizia il tempo della vita? Forse la
certezza del dubbio infervora i cuori e
lascia tutto sospeso come quel finale del
suo romanzo Una donna, che sottolinea
: “O io forse non sarò più…non potrò più
raccontargli la mia vita, la storia della
mia anima…e dirgli che lo ho atteso per
tanto tempo?/ ed è per questo che scrissi.
Le mie parole lo raggiungeranno”. Ma il suo
pensare nella vita stava nella bellezza
maledetta della vita stessa tanto che aveva
posto come paesaggio questo inciso: “Io sono
certa di vivere come devo. Questa certezza
mi fa superiore alla maggioranza, ed e' [una
certezza] costante”.
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pubblicato il 28 gennaio 2010
L’uomo
falco Navajo e la donna aquila Arrapaho
nella
profezia della luna
di Pierfranco
Bruni
Un amore può
vivere di foglie gialle perse tra i viali
dell’inverno?
Si sono
cercati lungo gli orizzonti del mare e hanno
recitato, insieme, la profezia della luna.
Amami
perdendomi. Gli pronunciò, proprio nel
momento in cui il faro illuminava, in un
mezzo giro, l’ansa del porto. Le mani non si
intrecciarono.
Lei guardò
fisso il fascio di raggi. Luci nel tramonto.
Tutto finì? In ogni fine c’è un inizio.
Lei era una
indiana della tribù degli Arrapaho e si
lasciava andare nelle Danze dello Scalpo.
Bella, con gli occhi penetranti nel verde
dei giorni marini.
Lui
apparteneva agli antichi sciamani Navajo e
si raccontava ritrovandosi nei giorni
dell’infanzia tra il lancio delle frecce e i
riposi lungo le sponde dei fiumi. Ogni
freccia lanciata somigliava ad una parola
portata via dal vento. Ogni passo nel
cerchio della danza sembrava un gesto per
sfuggire il presente.
Ma può
esistere il presente nel filo smagliato che
intreccia il passato con ciò che sarà?
“Vedi quel
raggio di luce? È un’incisione nella tua
memoria. Si perde e ricompare. Un gioco nel
girotondo. I bambini hanno fretta di
crescere. E quella luce gira, gira
velocemente senza mai infrangersi. Di giorno
non c’è, soltanto perché non la vediamo con
il chiarore. La si ritrova se il giorno cede
alle tenebre, al buio, alle tempeste che
scuriscono. Ma il faro gira. Gira sempre. Io
sto qui seduto da anni. Potrei dirti da una
vita. Anche se spesso sono andato via. Ma è
come se non fossi mai partito. E forse non
sono mai partito. Resto qui perché ho
bisogno di leggere fino in fondo i fasci di
questi raggi che il faro proietta. Ecco
perché sono un maestro nel lanciare frecce.
Ho passato il mio tempo nella pazienza di
trovare la freccia più bella. Forse l’ho
trovata ma adesso è come se mi mancasse la
forza di tirare l’arco. Mi alleno come
quando ero ragazzo. Ascolto. Leggo nello
scorrere del fiume e cerco i tuoi passi.
Anzi chiedo ai tuoi passi di farsi sentire
nella danza dei sogni”. Così disse lo
sciamano Navajo.
“Io non danzo
la danza dei sogni. La mia storia tu la
conosci. Ho cercato sempre i sogni ma molte
volte hanno incendiato i miei capelli tanto
che porto ancora delle strisce rosse e mi
ricordano il fuoco, la cenere, il pianto. Ho
sempre creduto o forse sperato nella
possibilità che in ogni fine ci possa essere
un inizio. Io non credo al caso. Appartengo
alla famiglia degli Arrapato e mi porto
dentro i riti e le tradizioni. Come te che
sei sciamano negli occhi. Un po’ guaritore,
un po’ fingitore, un po’ sognatore, un po’
viandante. Anch’io ho avuto tanta pazienza
nel disegnare i passi nelle danze. E le mie
non sono state danze dei sogni ma io sono
stata la danzatrice degli Scalpi. Un rito
che tu conosci bene. Non puoi non
conoscerlo. Ma so che ci vuole molta
pazienza”. Così parlò la danzatrice
Arrapato.
Ma un amore
può vivere di foglie gialle perse tra i
viali del tramonto?
“L’amore non
vive nei tramonti. E neppure tra le ore
della nostalgia. Il tramonto e la nostalgia
segnano la fine di un amore. Io resto,
comunque, un tiratore di frecce. Non lo
dimenticare. E ho bisogno della perfezione.
Ancora oggi. Ma tu sei la mia freccia o il
mio arco?”.
“Io sono il
tuo incantesimo. Ti meravigli? Sotto la luna
continuo a recitare le danze. Le mie gambe
hanno l’agilità delle tue frecce. Dirti che
ti amo soltanto non è possibile. Dirti che
mi appartieni è sconvolgente. Dirti che sei
la mia pazzia è poco. Ma resto nel mio
campo. A sera danzerò. Come un tempo i canti
sono portati dal vento ed è il vento che
modula le voci”.
“Ogni parola
è una lacerazione”.
“Sì, le
parole sono passi”.
“Il mio
sguardo è una freccia che si perde nella tua
danza”.
“La mia danza
è fatta di passi che mi portano a te”.
“Ma non
possiamo intrecciare i nostri destini sino a
smarrirci oltre il fascio di luci del faro.
Come fare a congiungere le nostre attese
alle nostre pazienze consumate? Io parto.
Lascio l’arco e le frecce sono, quelle che
rimangono, nella faretra. Non porto nulla
con me se non la tua danza. La tua danza
dentro di me”.
“Lanciami la
freccia. L’ultima. Poi giocherò la mia
ultima danza e consegnerò ai crepuscoli gli
intrecci della mia vita. La mia vita con te.
Tu sciamano, io danzatrice. Tu lanciatore di
frecce. Io danzo il Ballo dello Scalpo per
assentarmi e guarire tra le tue mani”.
Si sono
cercati e si sono ritrovati.
Ci sono gli
orizzonti del mare e il mare all’imbrunire è
un orizzonte. I deserti sono distanze e le
praterie sono spazi lasciati agli allevatori
di bisonti e cavalli.
“Porto con me
lo spirito del mio popolo. Porto con me il
sogno. Gli uomini bianchi non conoscono la
verità del mistero. Mi lascio guidare dal
falco e ti vengo incontro lanciando l’ultima
mia freccia sotto una luna di vento”.
“Aspettami.
Mi conduce a te la mia aquila. Ho sciolto i
miei capelli e sono radici che hanno odore
di erba e di terra. Penetro i tuoi segreti.
I tuoi segreti che sono anche miei. Stasera
danzerò solo per te. Sul tuo scialle ci
ameremo. Il falco e l’aquila intrecceranno i
loro voli nel vento della luna”.
Così l’uomo
falco Navajo e la donna aquila Arrapaho
hanno recitato la profezia della luna.
Nel
cerchio dei falò la recita ha voci antiche.
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pubblicato il 28 gennaio 2010
ALBERT
CAMUS MORIVA IL 4 GENNAIO DI 50 ANNI FA
DAL
MARXISMO ALL’ESISTENZIALISMO DELL’UMANESIMO
UNO
SCRITTORE IN RIVOLTA
di Marilena
Cavallo
Il
4 gennaio di cinquant’anni fa
(1960) moriva Albert Camus. Era nato a Mondovi il 7
novembre del 1913. Uno scrittore consacrato
alla letteratura attraverso una visione di
esistenzialismo prima considerato ateo, poi
laico, poi semplicemente esistenzialismo
legato al pensiero dell’umanesimo e della
classicità intrecciata tra mito e simboli.
Prima marxista. Successivamente forte
contestatore del materialismo storico. Era
nato in Francia ma si trasferisce, dopo la
morte del padre, insieme alla madre ad
Algeri.
Uno scrittore
sempre in bilico tra il senso dell’assurdo e
i paradigma di una filosofia del dubbio e
della costante ricerca aggrappata agli
scogli dell’attesa. Uno scrittore contro che
ha saputo però ben capire l’inquietudine del
tempo moderno che non conosce né
riconciliazioni né patti con la speranza ma
soltanto accordi con ciò che non può essere
vissuto nella reticenza del quotidiano.
Oltre ogni reticenza. È questa la misura di
ogni frontiera che non si serve soltanto
della scrittura – linguaggio ma della vita.
La vita è sempre una coincidenza con il
tempo. Con il tempo dell’indefinibile ma
anche con il tempo delle sconfitte.
Il suo
esistenzialismo, dopo la rottura con Sartre
o forse anche prima, si legge come modello
di una cultura libertaria. I suoi scritti
sono una testimonianza emblematica di un
fiume che si metaforizza in un mare di
intense trascrizioni con il mito. Ma l’uomo
resta sempre un uomo in rivolta. La rivolta
che si porta dentro e che lacera la crosta
del religioso silenzio dell’attesa.
In Camus non
si vive l’attesa e tanto meno si lacera il
tempo nella ricerca della speranza. Anzi è
il dubbio che taglia la storia per
incunearsi nel possibile dell’esistenza che
diventa amore. L’esistenza è possibile
viverla soltanto se si incide con il solco
dell’amore. C’è un concetto chiave che va
oltre il tempo stesso ed è quello che recita
con queste parole: “Non essere amati è una
semplice sfortuna; la vera disgrazia è non
amare”.
Nel 1947
pubblica “Lo straniero”. Un testo che si
presenta ancora oggi di sicura e necessaria
attualità. Nello stesso anno esce “La
peste”. Nel 1956 “La caduta”. Studioso di
Plotino e di Sant’Agostino si inserisce in
quel quadro filosofico che ha una segreta
spiritualità attraverso la quale non può che
porsi un altro problema che è quella
certamente della rivolta ma soprattutto
della “croce”. È suo un adattamento teatrale
ricavato da Pedro Calderón de la Barca dal
titolo: “La devozione della croce”. Come è
suo un adattamento de “I Demoni” di
Dostoevskij
realizzato un anno prima della morte dal
titolo “Les Possédés”.
“L’uomo in
rivolta” esce in Italia nel 1962 e in
Francia, invece, aveva visto la luce nel
1951 mentre “Il mito di Sisifo” era stato
pubblicato nel 1942. Perché Camus si cerca
in Plotino e Sant’Agostino? C’è una
inquietudine letteraria che si vive in Camus
e che non può essere scissa da quella
filosofica e umana. Letteratura e filosofia
sono l’algebra di un umanesimo che si pone
come centralità tra l’uomo e il sentiero
dell’assoluto. Oltre ogni schema.
Proprio in
“Il mito si Sisifo” si può leggere: “Lascio
Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova
sempre il proprio fardello. Ma Sisifo
insegna la fedeltà superiore che nega gli
dèi e solleva i macigni. Anch'egli giudica
che tutto sia bene. Questo universo, ormai
senza padrone, non gli appare sterile né
futile. Ogni granello di quella pietra, ogni
bagliore minerale di quella montagna,
ammantata di notte, formano, da soli, un
mondo. Anche la lotta verso la cima basta a
riempire il cuore di un uomo. Bisogna
immaginare Sisifo felice”.
Bisogna
immaginare. E in questo immaginare la vita
non è un resto. È piuttosto la supremazia
dell’assoluto. In questa direzione si
potrebbe offrire una chiave di lettura di un
Camus certamente esistenzialista ma
dichiaratamente proteso verso quel segno del
destino che ha inciso tutto il suo esistere
tra l’inquieto, il dolore, il mistero e un
kafkiano gioco della provvisorietà e
dell’imprevedibilità.
Muore in un
incidente stradale dopo aver detto, qualche
tempo prima, che morire in un incidente
stradale è la cosa più sciocca che possa
capitare. Nelle sue tasche gli viene trovato
un biglietto ferroviario. Quel giorno doveva
viaggiare con il treno. Chissà perché decide
di incamminarsi con l’auto lungo la strada
di
Villeblevin,.
Insieme a lui muore anche il suo editore
Gallimard.
In “L’uomo in
rivolta”, qualche anno prima, aveva scritto:
“Oggi nessuna saggezza può pretendere di
dare di più. La rivolta cozza
instancabilmente contro il male, dal quale
non le rimane che prendere un nuovo slancio.
L'uomo può signoreggiare in sé tutto ciò che
deve essere signoreggiato. Deve riparare
nella creazione tutto ciò che può essere
riparato. Dopo di che i bambini moriranno
sempre ingiustamente, anche in una società
perfetta. Nel suo sforzo maggiore l'uomo può
soltanto proporsi di diminuire
aritmeticamente il dolore del mondo”.
Questo
sentire il dolore del mondo è nell’intreccio
tra la caduta e la rivolta. Per vivere il
senso della rivolta bisogna comprendere fino
in fondo il senso della caduta. Per ripetere
ciò che è stato detto: tutto ha un seno.
Per Camus, leggerlo oggi, gli orizzonti
metafisici non sono più un assurdo. Plotino
e Sant’Agostino sono nella rivolta di un
esistenzialismo che ha una voce
nell’umanesimo della vita. Tre anni prima
della morte, Camus è premio Nobel per la
letteratura.
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pubblicato il 28 gennaio 2010
LA
SCOMPARSA DELLO SCRITTORE FRIULANO CARLO
SGORLON
OLTRE IL
REALISMO MAGICO E DENTRO UN TEMPO SACRO
di Pierfranco Bruni
C’è
una poetica sottile nelle maglie del
linguaggio di Carlo Sgorlon ( Casacco,
Udine, 26 luglio 1930 – Udine 25 dicembre
2009) che è quella del ritorno ai miti. Un
ritorno al mito ancestrale o primordiale che
si intreccia con le eredità della tradizione
di una terra, di una civiltà contadina e di
un popolo che è stato attraversato dalla
favola ed ha attraversato l’immaginario
rituale di una memoria che riecheggia con
elementi di profonda nostalgia.
Non c’ è
soltanto il paesaggio geografico che parla
con la nostalgia dei sensi. C’è il paesaggio
nel tempo che si fa memoria e lancia la sua
sfida con gli occhi della malinconia. Una
malinconia ammaliatrice e accompagna il
trascorso dei personaggi, i ricordi che sono
pezzi di vita, la magia del luogo che ha
sempre una marcata interiorizzazione nei
nomi dei personaggi stessi, i quali
diventano protagonisti, figure e
controfigure.
Carlo Sgorlon
ha fatto del suo narrato una poetica che
penetra l’intreccio tra tessuto dei luoghi,
che diventa, però, territorio dell’anima e
metafora della storia (da “La luna color
ametista” del 1972 a “La conchiglia di
Anataj” del 1983). La storia e le storie non
vengono narrate o raccontate ma sono
certamente assorbite all’interno di un
processo mitico – simbolico che è
espressione di un raccordo tra una fase
sacrale e una entratura nei percorsi magico
– antropologici del mondo contadino (da “I
sette veli” del 1986 a “Le tribù” del 1990;
da “Il patriarcato della luna” del 1991 a
“La malga di Sir” del 1997”).
Nella
scrittura di Sgorlon la parola stessa è da
sottolineare come modello religioso. Non c’è
impostazione o proposta di immagine (e di
immagini) senza la struttura religiosa che
raccoglie sia le istanze del linguaggio, e
quindi delle parole o della Parola, sia il
mosaico del percorso narrante. È una
scrittura nei simboli. Gli stessi personaggi
sembrano coordinati intorno a dei simboli
chiave (si pensi a “La tredicesima notte”
del 2001, a “Il velo di Maya” del 2006, a
“L’alchimista degli strati” del 2008, o ai
racconti straordinari che si leggono in “Il
quarto Re mago” del 1986, a ancora ai
“Racconti della terra di Canan” del 1989).
Così la
lingua (penso all’intreccio che si vive in
“La carrozza di rame” del 1979 o a “Il
calderas” del 1988) come fenomeno non solo
comunicativo ma come scavo nelle radici di
un popolo. Il suo popolo, quello friulano,
ha una matrice etnica che non si riversa
soltanto nelle forme di una cultura della
tradizione (spesso il richiamo de “Gli dei
torneranno” del 1977 è emblematico) ma
soprattutto nell’incastonare la lingua in
una diretta visione che richiama il senso
dell’archeologia della parola come infanzia
di un territorio (penso a “La contrada” del
1981). La sua poetica è il mistero del
cammino della parola che si sprigiona di
quella inconsapevolezza dialogica per
lasciarsi catturare dal sentimento della
memoria che caratterizza tutto il vissuto
stesso della nostalgia dell’uomo.
Una poetica
dei simboli (ritornano “I sette veli” del
1986) che si forma nei segni presenti in una
realtà territoriale. La realtà scompare come
scompare la storia. Ma resta la pagina del
territorio e la storia si dipana lungo il
tempo ed è, appunto, il tempo che recita la
meraviglia, il dolore, il tragico, la
fisicità, l’onirico, il misterioso,
l’incanto – magia (ci sono echi che
rimandano costantemente a “L’alchimista
degli strati” del 2008 o a “Il velo di Maya”
del 2006 o a “Il filo di seta” del 1999).
Tutti tasselli che danno vita a quel senso
dell’identità che è dentro il legame civiltà
– tempo.
Comunque, più
di un realismo magico si dovrebbe parlare di
un magico sentiero della nostalgia o di un
tempo sacro. Cosa c’è di realismo in
Sgorlon? La storia è una realtà, anzi è
stata una realtà, in quanto la storia vive
nel consumato o meglio nel “già stato”. Il
paesaggio è una realtà, anzi è un passaggio
di realtà nella cosmografia delle stagioni.
I personaggi sono in bilico tra il reale e
la fantasia, anzi diventano sia memoria che
destino e quindi la realtà si perde nel
vento delle finzioni. La lingua può essere
una realtà? (mi riferisco, a tal proposito,
a “Prime di sere” del 1979 e a “Il Dolfin”
del 1982). Direi di no, perché in Sgorlon la
parola assume sempre la versione e visione
allegorica. Un linguaggio allegorico? Certo,
fino a quando l’allegoria non si trasforma
in vera e propria metafora del tempo.
C’è il magico
ma non il realismo. Perché ad insistere è il
tempo e non si tratta di un tempo storico ma
di un tempo mitico. Parlerei piuttosto di un
tempo magico e non di un realismo magico. È
proprio questo tempo che si incastra tra i
personaggi ma anche è stato ben incastrato
nella vita di un mondo popolare che ha
formato l’uomo e lo scrittore Sgorlon. Non
manca l’ironia. L’ironia è nel Kafka ben
analizzato e studiato da Sgorlon (“Kafka
narratore” del 1961, Sgorlon, d’altronde, si
è laureato con una tesi su Kafka). Un’ironia
che è nel dialetto friulano al quale lo
scrittore ha dedicato la sua attenzione
nella comprensione dei moduli di ricerca di
una identità delle radici. Una ironia che
non cede al comico o al sarcasmo ma va nel
profondo di quelle strutture mentali che ci
conducono al sacro, al magico,
all’archetipo.
L’io narrante
è sempre nel di dentro di questi passaggi e
di questi processi che si assumono come
rivelazione poetica ma non dimenticano la
tessitura antropologica. Ed è come se la
poetica di Sgorlon assumesse in sé la
capacità di leggere antropologicamente i
fenomeni del tempo magico (sottolineo ancora
“Il velo di Maya” o romanzi come “Regina di
Saba” del 1975 o “Il tono di legno” del
1973) espresso sia dalle avventure narrate
sia dai personaggi che vivono dentro il
gioco infinito del raccontare. Lo stesso
Sgorlon ebbe a dire, parlando della sua
narrativa, “Io possiedo un forte istinto
narrativo, e a quello mi abbandono. È una
specie di bussola incorporata nel mio
inconscio. Seguo i grandi archetipi del
narrare”.
In questi
archetipi del narrare i miti, le fiabe, i
riti disegnano tracciati indelebili con i
quali è la scrittura a fare i conti ma anche
l’anima dello scrittore. La parola e la
fantasia. I sogni e il mistero. Un rapporto
inscindibile che ha fatto di Carlo Sgorlon
uno scrittore dentro la religiosità della
tradizione. Religiosità e tradizione: due
riferimenti che restano modelli
interpretativi in una poetica, in cui il
senso del primitivo è una ricerca costante,
che va oltre la storia per ridefinirsi nella
sensualità della favola e del mondo onirico
di una civiltà che solca i passi di una
eredità e di un pathos non solo immaginari
ma vivi dentro la nostra esistenza.
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pubblicato il 27 gennaio 2010
Giacinto
Spagnoletti e la coscienza del letterato
A 90 anni
dalla nascita
Da Renato
Serra a Raffaele Carrieri
di Marilena
Cavallo
Tra il filo del
romanzo mai descrittivo e sempre calato
all’interno di una psicologia dell’anima, le
venature poetiche di una nostalgia che non
lo ha mai allontanato dalla sua Taranto e
dai luoghi della Magna Grecia e la critica
letteraria costantemente legata alla ricerca
dell’interiorità degli scrittori e dei poeti
l’opera di Giacinto Spagnoletti (Taranto
1920 – Roma 2003) costituisce un punto di
sicuro riferimento per comprendere un
Novecento letterario che continua ad
occupare gran parte dello scenario dei
nostri giorni.
Come si è accostato
alla storia della letteratura una
personalità come Spagnoletti? Il suo
incontro con gli autori italiani e francesi,
soprattutto, è partito non dall’analisi
storica o critica ma da un legame che lo ha
condotto ad esplorare il linguaggio del
Novecento come mosaico articolato di una
sempre crescente creatività, fantasia e
poetica della metafora. Da scrittore e poeta
si è avvicinato alla storia della
letteratura.
Credo che questo sia
stato un merito e un pregio soprattutto se
si pensa già ai suoi primi studi e al suo
lavoro dedicato a Renato Serra. Su Serra ha
lavorato molto tanto che ha sviluppato la
sua tesi di laurea alla cattedra di Natalino
Sapegno. Ma Spagnoletti è stato sempre
lontano da incastellature ideologiche tanto
che il suo ruolo, parallelo quasi a quello
cattedratico, è stato caratterizzato dal suo
considerarsi ed essere un critico militante.
D’altronde Spagnoletti
nasce culturalmente come scrittore di una
pagina in cui la psicologia della scrittura
si incontra con la prosa d’arte. I suoi
autori amati sono stati Renato Serra,
appunto, e poi scrittori come Italo Svevo,
Pierpaolo Pasolini, Sandro Penna passando
attraverso Baudelaire e il suo “splen” e il
futurista Aldo Palazzeschi mai dimenticando
le grandi lezioni di Giacomo Debenedetti e
Angelo Maria Ribellino.
Proprio grazie alle
lezioni di Debenedetti (sempre l’avventura e
il personaggio senza la prevalenza della
rappresentazione del reale e dello
storicismo) ha potuto esprimersi con una
prosa incisiva nei suoi tasselli lirici con
'Tenerezza' (1946), 'Le orecchie del
diavolo' (1954), 'Il fiato materno' (1971),
e il fortemente lirico e nostalgico 'A mio
padre, destate' (1953), 'Poesie raccolte'
(1990).
Da Verlaine a
Danilo Dolci Spagnoletti ha indicato alcune
strade da percorrere per tentare di entrare
in un Novecento poetico abbastanza ampio e
mai omogeneo. Intorno a questi autori si è
soffermato sulla prevalenza della grecità e
ionicità in autori come Raffaele Carrieri o
come Michele Pierri in cui l’universalismo
lirico ha permesso di portarlo nel di dentro
di una contestualizzazione europea delle
poetiche del Novecento sino a proporre una
chiave di lettura di Alda Merini. Ma in
Spagnoletti non c’è mai una caduta nella
provincialità o provincialismo o nel
tentativo di difesa dei poeti delle radici o
matrici sommerse.
I suoi scritti
su Raffaele Carrieri hanno una visione
articolata e ci propongono una lettura
tout court della poesia del Novecento
che, necessariamente, deve potersi
confrontare con le poetiche europee. Il
Carrieri dei viaggi, il Carrieri della
contaminazione artistica, il Pierri della
“religiosità pavesiana”, il Pierri
contemplante, il Lorenzo Calogero della
corda del misterioso e il recupero del
dialetto come lingua della poesia tra Sud e
Nord sono incisi indelebili.
I suoi studi
ultimi, quelli dedicati alla poesia e al
dialetto della poesia, offrono una visione
importante e ad intreccio tra la cultura
italiana quella mitelleuropea e quella
direttamente recitata da Verlaine.
Spagnoletti, comunque, non ha mai cessato di
essere l’allievo di Renato Serra.
Infatti i suoi
scritti richiamano spesso la grande visione
di un Serra che ha raccontato la funzione
dello scrittore e della letteratura in un
“esercizio” umano che è quell’esame costante
della “coscienza del letterato”.
Spagnoletti ha
inserito il suo mestiere di scrittore e di
storico del Novecento poetico italiano nella
coscienza del letterato. Forse sarebbe
auspicabile una meditazione sul legame che
Spagnoletti ha avuto con gli scritti di
Renato Serra. Un legame che lo ha
accompagnato sino ad inserirlo nella
modernità linguistica di Raffaele Carrieri.
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pubblicato il 22 dicembre 2009
Nella
notte di Natale due pescatori si incontrano
accompagnati da una stella tra il sacro e
l’alchimia sciamana
di Pierfranco
Bruni
In un paese
chiamato Athsyu. In una piazza affollata.
Due pescatori di parole si giocano il tempo.
È la notte di Natale.
Il primo
pescatore si chiama Lakota. Ha una storia
antica. Ha viaggiato per deserti lasciando
ombre sulla sabbia e pieghe di emozioni
lungo le strisce di cielo consegnate
all’orizzonte. Sapeva leggere i tramonti, in
giovinezza, e con gli anni ha abbandonato
questo mestiere per dedicarsi alla lettura
delle albe. Ma per anni il suo viaggio è
stato tra le dune e il blu dei suoi
sciallati costumi. Uomo del deserto.
Appartiene alla famiglia degli uomini blu,
ovvero dei tuareg. Il secondo pescatore si
chiama Nuvola che non teme il Mare.
Appartiene ad una famiglia che ha abitato le
foreste e che poi si è trasferita lungo le
coste. Ha vissuto una vita tra porti, tra
scogliere ed ha viaggiato a lungo, anche lui
smarrendosi tra le alte maree e il vento
d’altura.
Lakota
vive custodendo ricordi, sogni, camminamenti
e porta dentro di sé un paziente amore che
ritorna spesso tra i tramonti e le albe. Ha
sempre vissuto per questo unico amore e per
una donna di nome Luna di Fuoco.
Nuvola che
non teme il Mare, invece, è stato un amante
imperfetto. Ha sofferto nell’inquieto
scorrere dei giorni e ha trepidato per ogni
donna consegnata alle ferite del suo cuore.
Ma anche lui è rimasto affascinato dal
mistero di una donna chiamata Donna
Sorgente.
Questi due
personaggi hanno camminato, il primo, e
hanno viaggiato, il secondo, mai
incontrandosi se non nella notte di Natale.
Entrambi hanno cercato di seguire una stella
ma non sono dei Re Magi e seguendola o
inseguendola sono giunti al centro di una
piazza. Ma non so se hanno seguito o
inseguito la stella o sono stati catturati
dalla stella. Forse è stata la stella ad
afferrare i loro destini.
Allora. Notte
di Natale. Un silenzio ovattato. E poi le
parole.
“Non so chi
ci ha condotto in questa piazza, dice
Lakota, ma siamo giunti puntuali ed è come
se fossimo arrivati spinti dalla forza della
natura. Tutto è spazio. Perché in questa
notte? La notte di Natale. Gesù sta per
nascere. E noi siamo qui. Perché dobbiamo
disputarci il tempo?”.
E
Nuvola che non teme il Mare risponde: “Ho
abbracciato tutte le eresie. Ho cercato di
capire il Cristo della Resurrezione ma mi
sono sempre fermato al Cristo della nascita.
La rivelazione è una illuminazione che non
cerco. Voglio essere cercato dalle parole
dell’illuminazione anche se sono considerato
un pescatore di parole”.
Lakota: “Noi
siamo pescatori di parole. C’è un mistero
che mi inquieta. Come siamo giunti qui, io e
te, questa sera? Non ci si interroga davanti
a ciò che consideriamo mistero. E proprio
nella notte in cui nasce il Cristo noi ci
disputiamo il tempo”.
Nuvola che
non teme il Mare: “Ma quale tempo? Io non mi
porrò mai il problema del tempo”.
Lakota:
“Ognuno di noi è lacerato dalle passioni.
C’è, comunque, la grande Passione che è
fatta di sacrificio, sofferenza, dolore e
resurrezione. Ma non credere che nel nostro
quotidiano non ci siano le quotidiani
passioni. Il tempo è dentro questa piega che
fa del nostro essere un segno
impercettibile, a volte illeggibile ma
sempre presente pur nella inafferrabilità”.
Nuvola che
non teme il Mare: “Tutto si ritrova nella
notte di Natale. Tu con la tua certezza da
eretico, io con i miei dubbi da profeta del
mare che aspetta una chiamata. Tu che misuri
i granelli di sabbia stabilendoti un metodo
per ogni caduta di granello. Io che non
riesco a stringere l’acqua e mi illudo che
ogni goccia possa contenere tutti i mari
possibili. Però siamo qui per disputarci il
tempo…”.
Lakota: “Io
non ho dentro di me timori. E la mia Luna di
Fuoco non è solo un ricordo perché il
ricordo scompare se lo lasci scorrere come
sabbia. Il ricordo è nella mia pelle, nel
mio corpo, nei miei capelli. Tutto questo
può consumarsi nel tempo? Il tempo è sempre
al di là di noi? Vedi, questo fuoco si alza
con le sue fiamme e punta il cielo in questa
notte. È come se cercasse la stella che ci
ha condotto qui. Noi siamo pescatori di
parole. Lo siamo stati e ora custodiamo
queste parole nella notte di Natele per dire
che tutte le parole e tutto il tempo
possibile e impossibile non conoscono nome.
La nascita di Cristo è una passione
inarrestabile”.
Nuvola che
non teme il Mare: “Una passione
inarrestabile... Perché Cristo non può
vivere il tempo. È nell’infinito che si
intreccia con l’eterno ma è quel personaggio
che porta l’amore. Quando c’è l’amore non
può esserci il peccato, quando l’amore
trionfa non può esserci la richiesta di
perdono perché il perdono è nella teologia e
noi, invece, siamo nel mistero, nella
sacralità dell’amore, nella sacralità di due
corpi che si cercano e si amano e si
tramandano futuro. Nella magia. Cristo non è
passato, non è presente, non è futuro.
Cristo è. Quindi non vive nel tempo. Ti dirò
di più: non conosce il tempo. Dove c’è il
tempo non c’è Cristo. Noi siamo stati
portati qui per giocarci il tempo? Io non mi
gioco alcun tempo. Se vuoi posso darti la
partita vinta. Mi ritiro e mi pongo non in
attesa ma in ascolto”.
Lakota: “Cosa
facciamo allora? Trasgrediamo chi ci ha
condotto fino a qui? La stella?”.
Nuvola che
non teme il Mare: “Io sono qui e mi metto in
ascolto del fuoco, della luna e ripenso al
mio mare e ai miei viaggi. Chiedo al mare di
svelarmi misteri custodendo sempre i
segreti. Ma i misteri possono essere
svelati?”.
Lakota: “Ma
anch’io non sono interessato a questa
partita. Il falò è un crepitio di stelle
luminose. Ci sono distanze. Cerco di vivere
non più il tempo ma lo spazio che mi lega al
bisogno di rivelazione. La stella? È stata
una sfida, posso dirti che ci ha sfidato.
Senza finzioni, però. Noi non sapevamo ma la
stella ci ha condotto qui pensando ad una
nostra battaglia. Ma sul tempo non possono
consumarsi guerre. La stella… Che
meravigliosa luce. E Cristo? In questa notte
di Natale la passione è una rivoluzione e la
piazza è il teatro delle recite
incompiute…”.
Nuvola che
non teme il Mare: “Siamo due pescatori di
parole? O forse siamo due viaggiatori di
pensieri? Non mi stupisce il fatto che ci
siamo incontrati. Nella notte di Natale. Non
ho più meraviglia di nulla. Ormai. Mi
catturano i segreti. Cristo è un segreto?
No. Resta però un mistero. La sua nascita è
una rivelazione più potente della sua
Passione. Più della Croce. L’incanto è una
alchimia. Anche se sono dentro la linea del
destino. A quale tempo dovrei appartenere?
Sono qui, in questa piazza dell’infinito, a
celebrare la polvere delle onde. E ascolto
le onde anche se sono distanti mille echi.
Questa polvere che ha parola e acqua è
dentro di me. Resto con il mio silenzio. A
contemplare gli occhi della mia Donna
Sorgente”.
Lakota:
“Domani. Ai primi bagliori partirò per il
mio deserto. Camminatore di pensieri. Nella
notte di Natale recito le mie preghiere
indiane. La mia Luna di Fuoco danza intorno
al falò. Il mio popolo ha sotterrato
l’ascia. Tu riparti per i tuoi mari. Io
entrerò nella mia tenda. Ma la stella che mi
ha condotto sino a te è un segno di
profezia. Siamo giunti come pescatori di
parole e ripartiamo come naviganti di
pensieri. Ma in tutto ciò perché la presenza
di Cristo? Noi apparteniamo al destino degli
sciamani. Siamo stregoni. Voci nelle magie,
nelle alchimie, nei miti, negli archetipi
che recitano la vita e l’oltre. Ma siamo al
di là del tempo. Pescatori, naviganti,
giocatori di tempo. Dentro di noi Cristo è
uno sciamano che prega nel sortilegio delle
lune ferite e viaggia i mari con le vele
spiegate. Cosa ci chiederemo ancora… Siamo
nella magia. E nel sacro”.
In un paese
chiamato Athsyu due personaggi di nome
Lakota e Nuvola che non teme il Mare si
salutano. Senza abbracci. Senza più parole.
Il loro sguardo è un inciso di vento e di
terra. Il fuoco continua ad ardere. La
piazza si spopola. Il centro resta un
cerchio. Un girotondo.
È ancora
notte. Notte di Natale. Il gioco è finito.
Anzi non è mai cominciato. Le parole sono
nel tracciato del sogno che indica la voce
che giunge da lontano come un passato che
non esiste e un’attesa che dovrà essere nel
dono che arriverà.
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pubblicato il 19 dicembre 2009
“Ti amerò fino ad
addormentarmi nel rosso del tuo meriggio”
In una storia di destini tra profezia,
sensualità e nostalgie
È il romanzo
di un amore in versi. La poesia che si intreccia
in una storia d’amore profonda che ha atmosfere
magiche sul filo di un gioco in cui l’attesa e
la profezia diventano modelli profetici in una
duplice contesa tra lettura sciamanica e viaggio
religioso.
Si tratta del
nuovo libro di Pierfranco Bruni dal titolo: “Ti
amerò fino ad addormentarmi nel rosso del tuo
meriggio”, in questi giorni in libreria.
Un romanzo
d’amore in versi attraverso 40 capitoli che
spaziano tra doloranti fughe e profetiche
nostalgie.
L’amore, in
questo nuovo libro di Pierfranco Bruni, è un
raccordare la quotidianità tra una sfuggente
donna che appare, scompare, riappare e si fa
orizzonte in una metafora costante che è il mare
nell’universalità e nella personalizzazione del
sentimento di viaggio e un io “narrante” che si
trova costantemente in un dissidio tra ricerca e
pienezza, tra una forte diaspora e una voce
interiore che richiama i cammini degli antichi
sciamani.
Il conflitto
si vive nelle parole, nel verso, nella poesia
come completezza e incompiutezza, nello stesso
contesto, di una meditazione in cui si verifica
uno scontro lacerante tra il tempo che recita i
passi dell’amore e quel tempo che segna il
passaggio delle stagioni.
Ci sono
capitoli (o poemetti) lacerati da un dolore che
non è apparenza stilistica o scenario lirico ma
restano piuttosto una avventura tra il tentativo
di ricucire un atto quasi sacrale, qual è
l’amore nella sacralità dell’incontro, e uno
sguardo proiettato verso la dimensione
dell’onirico che rimanda ad una cultura
dell’alchimia, della magia, del mistero tra
mito, nostalgia e coerente ulissismo.
È un libro,
questo di Bruni, che si pone fuori dal laico
concetto di poesia e di amore perché insiste su
due coordinate: l’amore come eros, come
passione, come fisicità e l’amore come
rivelazione, come illuminazione e come destino.
Un vero e proprio “cantico dei cantici”, in una
esplosione quasi di sortilegi che hanno radici
sia nella profezia che nel concetto di
provvidenza.
Una
religiosità compatta in una amore fuori dalle
convenzioni e dalle regole ma l’amore si
racconta proprio per una selvaggia e mitica
coincidenza di sensi e di intermittenze
sentimentali. Fa da sfondo la dimensione della
memoria che raccoglie il vissuto non in una
visione romantica e tanto meno in un
atteggiamento di rimpianto. Mai affiora il
concetto di peccato. Anzi emerge che l’amore,
tra eros e contemplazione, non tocca mai le
corde del peccato.
Tante sono le
immagini proiettate nello specchio delle
emozioni e sono queste emozioni che fanno di “Ti
amerò fino ad addormentarmi nel rosso del tuo
meriggio” un romanzo nel quale la poesia si
articola in poemetti e il narrato ha sempre un
filo conduttore dettato dal concetto che
soltanto l’amore è bellezza e che la bellezza ha
il compito di salvarci.
Una lezione
che emerge sia da San Paolo che da Dostoeviskij
ma anche dai canti Navajo che recitano le loro
avventure attraverso la voce della pioggia in
una inarrestabile danza. Una abbinata coraggiosa
che rende questo romanzo in versi di
Bruni affascinante ed è tutto giocato in un
contrasto di sguardi, di interpretazioni, di un
mosaico che riesce a custodire i ricordi con la
tensione mai dei presente e sempre della
speranza, del futuro, di ciò che accadrà. C’è,
in realtà, tutto il percorso onirico del
viaggio di Pierfranco Bruni nell’oscillare tra
linguaggio poetico e una potente visione
sciamanica della vita..
L’io narrante
sembra ascoltare gli echi e leggere i segni in
una trascrizione che è fuori ogni tessuto di
realtà perché la realtà, in questo libro, non
c’è, come non c’è una verità ma soltanto un
bisogno di capire le distanze, le lontananze, i
distacchi. L’io narrante è come se restasse a
guardare il mare e l’orizzonte e si trova,
invece, ad osservare un falò non completamente
spento e intorno a questo falò custodisce
segreti che affida al vento e ai tramonti.
Fortemente
lirico, nella conta dei giorni l’incontro tra
poesia, magia e mistero traccia non solo il
profilo di una storia d’amore ma anche le
nostalgie di un io narrante che vive con
distacco il tutto, compreso il senso meditativo
sulla morte, tranne che la passione nell’amore e
l’amore nella passione.
In questo io
narrante, tracciato da Pierfranco Bruni, c’è
l’incontro con una donna straordinaria un po’
strega, un po’ magicamente predestinata, a volte
marcatamente misteriosa ma sicuramente legata
alla religiosità di un tempo mai completamente
inafferrabile.
Un libro che
raccoglie i dubbi, la provvisorietà, i simboli
in un linguaggio originale mai scontato. Un
romanzo d’amore in versi. Una storia d’amore in
versi in uno scavo coraggioso dove il rischio
della parola vale il rischio dell’esistenza.
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pubblicato il 26 novembre 2009
Nazhim Kalim Dakota
Abshu
Gli inediti di un
poeta tra la spiritualità dei Sufi e il
Cristo in Croce
di Pierfranco Bruni
Di Nazhim Kalim Dakota Abshu si conosce
poco. Un poeta di origini tunisine che ha
intrecciato un modello culturale proveniente
da una scuola musulmana ben radicata nella
tradizione dei sufi e dei dervisci danzanti
(o rontanti). Il mistico che abbraccia il
pensiero dei sufi e la fede cristiana è
dentro il poeta. La sua parola sembra un
teatro di emozioni e di suggestioni oniriche
recitate da un profeta. Sono venuto a
conoscenza di questo poeta e sono in
possesso di una manciata di poesie che
sottolineano una espressività ricca di
modelli sia antropologici che puramente
poetici, i quali rimandano ad una tradizione
che è quella del mistico eretico – ortodosso
con una accentuazione della presenza della
spiritualità dei sufi.
La mia attenzione è ormai focalizzata su
questi temi e, in modo particolare, su
questo poeta, che è una espressione forte
della “dinamica” spirituale tra modelli
occidentali e pensiero di un mediterraneo
islamico, sul quale mi accingo, ormai, a
scrivere un saggio con una analisi dei testi
da me ritrovati. Qui voglio tracciare alcune
linee segmentando alcune coordinate. La
presenza di Cristo e della Croce, in Abshu,
ha una simbolicità singolare: “Croce,
Cristo; il mio Cristo/in Croce; la Croce o
la Passione;/vado verso l’alto, ma ho una
distesa di orizzonti”.
Fede e pensiero sono, dunque, l’intreccio
che non vuole chiarire ma porsi
costantemente in ascolto: “Ho ascoltato la
notte; nel silenzio/il cuore mi ha portato
il mare; ho recitato/Cristo, semplicemente.
L’inizio/ non coincide con la fine;
Cristo,/ti vivo per la Croce/che porto”.
Oppure: “Illuminante silenzio; vestiti di
bianco/in un cerchio,/danzano la vita e il
mistero/per ritrovarsi nell’infinito”. La
danza, l’infinito, il mistero e la presenza
del misticismo cristiano sono tasselli nella
poesia di Abshu. La presenza dei dervisci
resta fondamentale.
Chi sono i dervisci? Sono chiaramente i
“discepoli” di comunità islamiche che vivono
in piena povertà e sono catturati da una
spiritualità profonda che rimanda ad una
cultura dell’ascesi. Vivono distaccati dalle
passioni terrene anche se sono attraversati
da un forte sentimento dell’amore. È molto
pregnante il loro confronto con i cristiani
mendicanti che pongono al centro il
sentimento della povertà e l’assoluto
spirituale come riferimento.
I dervisci sono i cosiddetti cercatori di
porte, ovvero cercano di andare oltre il
senso materiale della vita e del tempo
stesso. La danza è la focalizzazione della
loro ricerca. I dervisci danzando (ruotando
velocemente) cercano di raggiungere dio
aiutati da un maestro, o meglio, in turno
viene ad essere identificato come il saggio
o il vecchio.
A questa tradizione appartiene Nazhim Kalim
Dakota Abshu anche se il concetto di divino
resta molto complesso e lo si legge
attraverso alcune contraddizioni, che
restano contraddizioni per noi Occidentali,
che diventano, però, per il poeta elementi
di ascesi vera e propria. I suoi maestri
letterari sono indubbiamenti Rumi e le sue
poesie mistiche, ‘Omar Khajjam e le sue
“Quartine” e soprattutto Kahlil Gibran. Uno
dei filtri, non solo poetici e letterari, è
chiaramente anche Tagore (il Tagore che
scrive le pagine dedicate a “Il Cristo”).
Tra questi poeti c’è uno spazio temporale
abbastanza rilevante.
Infatti con Rumi siamo tra il 1207 e 1273,
in una geografia che abbraccia l’attuale
Afghanistan e la Turchia (è uno dei più
grandi poeti persiani). Con Khajjam siamo ad
un’età precedente, ovvero tra il 1050 e il
1130 in una terra che è quella della Persia
nord – orientale. Con Gibran, invece,
tocchiamo quasi la sua contemponeatità.
Gibran nasce nel Libano settentrionale il
1883 e muore nel 1931. Così con Tagore, nato
a Calcutta nel 1861 e morto nel 1941. Tra i
poeti europei amati e studiati da Abshu c’è
lo spagnolo Gustavo Adolfo Becquer nato a
Siviglio il 1836 e morto a Madrid nel 1870.
Abshu non si è mai distaccato dalla presenza
di questi poeti da lui definiti maestri del
pensiero e della parola. Maestri dell’amore.
Abshu scrive, infatti, anche delle poesie
d’amore, anzi delle potenti poesie d’amore:
“In basso la tua verginità;/solo io ti
appartengo;/il pensiero, il corpo;/nessuno
potrà violarti; alcuna parola, alcun corpo
ti violerà./Il mio pensiero, il mio corpo,/
e tu”.
Ma chi è Nazhim Kalim Dakota Abshu. Nato a
Tunisi nel 1900 da una famiglia di
commercianti che praticava il mestiere di
tessitori di tappeti, e poi mercanti di
stoffe e di tappeti. Della sua vita si sa
molto poco. Vissuto per i primi venti anni a
Tunisi. Si è formato, come già sottolineato,
alla scuola dei sufi, ma è stato un
autodidatta ed è stato un grande lettore di
testi cristiani occidentali e indiani.
Portava con sé spesso sia i Vangeli Apocrifi
che le Lettere di San Paolo. Ha studiato con
attenzione la storia degli indiani d’America
approfondendo il rapporto tra Occidente ed
Oriente. Grazie ad una lettura della cultura
del popolo indiano dei Dakota
Ha scritto poesie e testi in prosa. Molta
della sua produzione è andata smarrita.
All’età di trent’anni va in Francia, poi in
Italia e nuovamente a Tunisi. Lascia
definitivamente la Tunisia intorno agli anni
Quaranta e si stabilisce prima a Istanbul e
successivamente a Nizza, dopo aver viaggiato
e conosciuto i luoghi del Mediterraneo:
“Solamente per amore ho vissuto la
chiamata/e non mi sono accorto dei luoghi
che mi hanno ospitato”.
Ha approfondito gli studi sulla cultura
sciamana, ma la sua vera passione è rimasta
sempre la poesia ed è stato sempre convinto
che il vero poeta deve essere anche uno
sciamano e che la poesia è una grazia e non
è mai costruzione: “Forse, nelle mie
tasche,/ho ancora la sabbia del
deserto;/nelle mie mani, mi è rimasto tutto
lo stupore del mare;/nei miei occhi la terra
e l’acqua”.
Infatti ha sempre sostenuto che il poeta è
un “miracolato”. Ha cercato di intrecciare
Maometto, Cristo e Budda ma il suo percorso
è stato sempre quello di confrontarsi con il
Cristo in Croce senza cedere alla tentazione
delle spiegazioni o giustificazioni
teologiche: “Se Cristo mi dicesse: ‘ti
perdonerò dei tuoi peccati’,/ coprirei il
suo viso di foglie di alloro/ e
dimenticherei la sua voce”. Ancora: “Non
credo che Cristo avesse parole;/Cristo è
semplicemente un gesto,/e danza tra i fuochi
e la pioggia”.
Le sue poesie rispecchiano questa visione
della vita che ha un marcato senso della
spiritualità e di un misticismo che rimanda
sia alla fede cristiana sia il pensiero
gibraniano vero e proprio con precisi
inserti alla cultura del misticismo
islamico. Non ha mai accettato la religione
o le religioni in visioni assolutizzanti e
tanto meno è stato colpito dalla cultura
cattolica. Ma non si è neppure posto davanti
alla questione con delle certezze
precostituite.
Ha sempre seguito l’illuminazione dettata
dal mistero della creazione. Il suo perno
centrale è stata la figura di Cristo e della
Croce cercando di interpretare la fede con
il mistero degli sciamani e con la
dimensione mistica dei dervisci. Forse una
contraddizione che lo ha posto però sempre
in ascolto e mai nel definire verità. Ha
lasciato alcuni testi in prosa inediti e
libri di poesie. Ha scritto anche in lingua
italiana.
È morto a Nizza, improvvisamente, la notte
di Natale del 1955. Un mistico che ha
abbracciato la fede e il pensiero in una
tensione spirituale che lo ha posto al di
fuori di qualsiasi teologia, perché il poeta
non ha teologie ma soltanto si lascia
nutrire di schegge di mistero e di una
sottile alchimia che si testimonia tra la
parole e la sua presenza nella vita.
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pubblicato il 25 novembre 2009
L’attualità delle
fiabe di Luigi Capuana a 170 anni dalla
nascita
La cultura popolare
e la modernità del linguaggio
di Marilena Cavallo
Di Luigi Capuana si
riparla grazie al mondo delle favole. A 170
anni dalla nascita dello scrittore che porta
in scena la Sicilia, (Mineo, 1839 – Catania,
1915). Così: “ ‘Fiabe nuove non ce n’è più;
se n’è perduto il seme!’ Come e perché, cari
bambini, lo saprete facilmente quando sarete
più grandi”.
È la chiusa de
Il raccontafiaba di Luigi Capuana (le
fiabe sono state pubblicate nelle edizioni
di Acquarelli con l’antico titolo di
C’era una volta i Re, la Gente, la magia.
Un viaggio nel
mondo incantato della fantasia popolare. Una
fantasia che si racconta attraverso i
contadini, i re (ovvero i reucci), e le
reginette, le fate, gli orchi, i castelli,
la natura e una simbologia fatta di immagini
e di numeri.
Luigi Capuana ci
offre tutta una atmosfera particolare ed
emerge da queste pagine uno scrittore che
pur avendo vissuto la stagione del
Naturalismo e del Verismo ha sempre cercato
nella memoria sommersa dei sogni e dei
misteri i segreti del vivere quotidiano.
La sua prima
raccolta di fiabe risale al 1882 e portava,
appunto, il titolo di C’era una volta…,
mentre al 1894 risale Il Raccontafiabe.
La fiaba non è
soltanto l’espressione di una profonda
liricità ma è in modo particolare un modello
letterario che non vuole nascondere la
realtà anzi la cerca di decodificare
raccontando la fantasia.
Capuana che è
l’autore de Il marchese di Roccaverdina
(del 1901) trova nella fiaba un modello
sperimentale sia in termini di scrittura che
di tematicità.
Giulio Cattaneo
ebbe a scrivere che le fiabe di Capuana
“rimangono forse l’opera più felice di
Capuana, come una prosa svelta, semplificata
al massimo, ricche di ritornello, cadenze e
cantilene, hanno un incanto singolare e una
originale cifra stilistica”. Cattaneo
inoltre, sottolinea l’interesse fantastico
di queste fiabe e mette in evidenza un fatto
importante, che porta alla luce la ricerca
stessa di Capuana. Cattaneo sottolinea che
le fiabe “non sono nate da un interesse per
il patrimonio folkloristico siciliano
favorito dalle tendenze positivisti a
raccogliere favole e leggende come documenti
della psicologia popolare ma invenzioni,
frutto di ‘un’esaltazione nervosa che aveva
dell’allucinazione’”.
Giulio Ferroni,
invece, dà un’altra versione in merito al
Capuana delle fiabe e scrive che “lo
scrittore compose attingendo al vasto
repertorio del folclore siciliano: nella
schematicità e nel ritmo ripetitivo della
tradizione fiabesca popolare Capuana
inserisce una delicata ironia e un’allegra
invenzione fantastica che fanno di queste
sua fiabe (…) dei veri e propri capolavori”.
Ma è lo stesso
Capuana che ci consegna questa
dichiarazione: “…io assistevo a quella
inattesa fioritura di fiabe come a uno
spettacolo fuori di me. Appena scritte le
sacramentali parole di uso : C’era una
volta… i miei fantastici personaggi si
mettevano in moto, si impigliavano
allegramente in quelle loro intricatissime
avventure senza che io avessi punto avuto
coscienza di contribuirvi per nulla”.
Il mondo
fantastico di Capuana allora è un mondo
fortemente intriso di poesia, di leggenda e
di mito. Un mondo che parla e si dichiara
con i codici della parola, del ritmo, dei
ritornelli, della musicalità. È un mondo di
fantasie .
La cultura
popolare è il regno della fantasia.
Soprattutto, quando ci sono radici il cui
mondo contadino è ben rappresentato.
Identità popolare e identità contadina sono
il tessuto di una creatività fantastica
nella quale il mito è una tradizione, che ci
conduce inevitabilmente e forse
inavvertitamente agli albori della civiltà.
Il discorso diventa, certamente, molto
impegnativo perché ci si trova davanti a due
strade: quella antropologica, che può avere
letture illuministe e quella fantastica, che
sconfina nel mistero. Indubbiamente, posto
in questi termini, il discorso che riguarda
Capuana si sposta verso la seconda strada. I
testi sono la dimostrazione più veritiera.
Al di là della
concezione di fiabe vere o veriste o di
quella sottoscritta da Italo Calvino, il
quale afferma che “le fiabe sono vere”, in
Capuana, le fiabe restano la fantasia, il
sogno, la simbolicità, appunto. Nella pagine
de Il raccontafiabe chi fa da padrona
è la Fata Fantasia. Una metafora che esprime
in questo caso il vero della sua ricerca e
della sua proposta espressiva.
Il fiabesco e il
popolare in Capuana non sono solo
rappresentazioni liriche o letterarie ma
assumono una valenza esistenziale. La
assumono sul piano della scrittura ma anche
nella struttura del racconto o nella
proposte delle storie.
Le fiabe entrano
in quel concetto di autocoscienza sul
Naturalismo siciliano perché in esse la
rottura con il Verismo è una valorizzazione,
appunto, del fantastico. Mi sembra
importante la cesellatura di Gianni Contini
sul Capuana: “il più anziano dei naturalisti
catanesi, (…) è assai stimabile come
narratore in proprio(…) ma non è meno
rilevante come rappresentante
dell’autocoscienza critica del naturalismo
siciliano”.
Le fiabe
rientrano in questa riflessione. Ma restano
“una forma di arte così spontanea, così
primitiva e perciò tanto contraria al
carattere dell’arte moderna”. È una
sottolineatura di Capuana del giugno 1882
che ci fa capire l’importanza che avesse,
per Capuana stesso, la fiaba . Considerata
come arte certamente ma soprattutto come
“strumento” per recuperare una tradizione e
confrontarla con il moderno.
In fondo è un
raccontare ciò che la realtà nega. Ecco
l’autocoscienza rispetto al Naturalismo.
L’arte che recupera il fantastico. È questo
il messaggio di Luigi Capuana che emerge
dalle sue favole. Ovvero del C’era una
volta che diventa un Raccontafiabe.
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pubblicato il 2 novembre 2009
Illuminante e
maledetta poesia
Alda Merini
dentro il segno della Passione
di Pierfranco Bruni
Il
tempo è un assoluto che si intreccia nella
misura delle parole e nelle parole che recitano
la metafora dell’imprigionamento della vita e
della morte. È come se fosse sempre una assenza
a far da labirinto dentro la nostra anima e
questo labirinto trova la sua compostezza nella
consapevolezza proprio di essere labirinto.
Così la poesia che si recita nelle maglie
dell’insoluto. Come per dire, o come per dirsi,
che tutto si è perduto, tutto si perde o tutto
si perderà tra gli scogli dell’indefinibile.
Così è la poesia di Alda Merini (Milano 21
marzo 1931 – 1 novembre 2009).
Una poesia che non chiede, come la poesia che è
impenetrabile e indifendibile nelle
“giustificazioni”, di viversi nelle spiegazioni,
nei commenti, nelle delucidazioni ma è
completamente intrisa di illuminazioni. La
poesia come illuminante attesa di ciò che verrà
vivendo il vissuto. Un tracciato oltre ogni
dimensione della storia. Questa maledetta storia
che cerca di penetrare le parole.
La storia non
vuole riconoscere la pazzia della poesia perché
chiede costantemente di dare un senso alla vita
che è stata. Ma quale storia può raccontarsi
nelle illuminazioni di una poetica dell’amore,
della passione, della sconfitta, della
perdizione, della resurrezione, del “Magnificat”
di Alda Merini? Può esserci storia. È come se
chiedessimo al mistero del poetico di
trasformarsi in ragione. È come se chiedessimo
all’amore o meglio agli amanti di parlarsi e di
definirsi attraverso la razionalità dei fatti e
non attraverso la magia dell’incanto.
Alda Merini è
stata, nell’intreccio delle fantasie, una voce –
destino di un Novecento letterario non solo
inquieto e assorbente in un “vortice” di
sciagurata pietà ma è l’indice di una follia
d’amore che ha contemplato le tristezze e le
doloranti incertezze in un verso in cui,
nonostante l’agonia e l’angoscia, l’ironia
tragica ha fatto da scenario.
C’è uno
scenario anche nella poesia dell’esistenza che
non è l’esistenza stessa ma la maledizione come
dettato lirico di una rimbaoudiana avversione al
tutto scontato. La poesia non è nel tutto
scontato. Quella che recita la tensione della
morte nella vita e fa dare al verso
quest’immagine: “Ho acceso un falò/nelle mie
notti di luna/per richiamare gli ospiti/come
fanno le prostitute/ai bordi di certe strade,/ma
nessuno si è fermato a guardare/e il mio falò si
è spento”. Sono versi che risalgono al 1984 e
appartengono alla raccolta “La Terra Santa”. Ma
tutto il viaggio di Alda Merini è un andare alla
ricerca di una terra promessa. Un recitativo
poetico che conosce la possibilità degli approdi
ma spesso dimentica l’infaticabilità delle
partenze.
Ci sono
partenze nella sua poesia? Ci sono arrivi nella
sua disperante voce e nei suoi occhi di fede
sgusciata dalle conchiglie di primavera? Non
credo che ci sono, oggi che si dovrebbe parlare
con il passato tra i battiti delle dita. Non
credo che mai ci saranno. Sono convinto che mai
ci sono stati. I suoi amori trepidanti sempre in
squarci di passione.
Giorgio,
Salvatore, Michele, Paolo… Che orizzonte possono
avere i nomi nella vita tragica di un poeta? Che
orizzonti possono avere gli amori quando
smettono di essere amore? Gli amori nel segno di
una scavata nostalgia restano come “una pioggia
spenta”. Già, è così. “Adesso sono una pioggia
spenta/dopo che l’orma del tuo cammino/si è
fermata ai miei occhi./Che ciglio devastante il
tuo!/Come mi penetri le ossa!/Se piangessi, tu
verresti a riprendermi./Ma io ho bisogno del mio
dolore/per poterti capire” (da “La volpe e il
sipario”). Ma quale dolore si è scontato nella
vita di Alda Merini? Quello chiaramente della
passione o delle passioni. Bisogna andare dentro
le parole non per capirle ma per tentare di
catturarle.
So. Ci sono
diversi modi per accostarsi ad un poeta ma da
poeta come si può pensare di proporre una
contestualizzazione o una pur minima
impostazione strutturale o storicista di un
poeta. Credo che il dato più serio è quello di
definirsi in un confronto. Accostarsi alla
poesia non è fare storia della poesia. È
ascoltare i passi della poesia in una lettura
che è sempre respiro d’anima.
Certo. Alda
Merini è il destino poetico di un Novecento
poetico italiano intrigante che va da Cristina
Campo ad Antonia Pozzi, da Sibilla Aleramo ad
Amalia Rosselli. Una vita dentro la parola
passando con quegli echi al maschile che vanno
da Dino Campana a Vincenzo Cardarelli, da Carlo
Michelstadter a Cesare Pavese. La dannazione
della poesia che è religiosità flebile nel nome
di una cristianità raggiunta e infuocata come un
fuoco grande e mai fatuo.
Maledetta
poesia che naviga nei cuori forti che sanno
della consapevolezza della vita. Il poeta
conosce il crepuscolo prima dell’alba. Non c’è
una Venere Alata a far da luce. Tutto è una
finzione. Persino la finzione si inventa il
poeta. Pur di non vivere nella vita ma di morire
vivendo la vita. Come stregati. Ma il poeta è
uno stregone e la poesia è una strega.
Da “Titano
amori intorno” nei versi di “Non voglio
dimenticarti, amore”: “La strega segreta che ci
ha guardato/ha carpito la nudità del
terrore,/quella che prende tutti gli
amanti/raccolti dentro un’ascia di ricordi”. Si
può vivere al di fuori di questa ascia di
ricordi? Aprirsi alle attese proprio mentre
queste attese si fanno rivelazione.
Il passo verso
la Croce, il suo colloquiare con Maria, con
Cristo, il suo “Magnificat” non tracciano più
passioni ma sono il tempo della Passione dentro
il quale la poesia di Alda Merini si è raccolta,
si raccoglie, continuerà ad affascinare dalla
“casa” dei maledetti che con i loro occhi sanno
penetrare le nebbie, le nuvole, le ombre e
osservano il vento nel tagliare il filo
dell’orizzonte che separa o che unisce, nella
pazienza, le solitudini, i sogni, le lontananze.
Essere dentro
il sogno della Passione è varcare la soglia
restando nella speranza. Così nella poesia di
Alda Merini.
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