Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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Letteratura  pag. 6


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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 

pubblicato il 28 gennaio 2010

Sibilla Aleramo a Cinquant’anni dalla morte

Una pubblicazione sul valore dell’amore

 

 di Marilena Cavallo

 

 Cinquant'anni fa moriva Sibilla Aleramo (Rina Faccio). Una poetessa nella femminilità degli incontri e degli spazi tra le parole e il tempo. Si ritorna a parlare della Aleramo tra la fisicità dell’amore e la metafora dell’amore stesso. È di questi giorni un libro di Monika Antes dal titolo "Amo, dunque sono. Sibilla Aleramo, pioniera del femminismo in Italia" (pp. 144, euro 15) pubblicato da Mauro Pagliai nella collana "Italianistica nel mondo". Si tratta di un volume pubblicato in Germania e tradotto e tradotto in italiano da Riccardo Nanini.  La poesia, con la sua epifania e con il suo misterioso giorno incastonato nella vita, resta sempre un indefinibile sentiero graffiato dalle parole e nelle parole. Ma sono le parole che danno vita. La poesia è solitudine nel silenzio notturno o adamantino dell’ora antelucana.

      Non so se Sibilla Aleramo è silenzio nella notte o silenzio nell’ora che annuncia l’alba. Un gioco non ad incastro. Ma un gioco, comunque, che sa di voci e di ritmi musicali. Siamo a volte al valzer e a volte al tango. Ma Sibilla Aleramo sembra danzare i passi del tango in un giravolta in cui le parole sono lame e riposo. Quella poesia che è solitudine e grido non è una metafora ma un colpo violento assestato ai ricordi che però si dipanano lungo i giorni. E di ricordi la sua vita è piena e sono questi ricordi che cessano la vita. Ma prima di essere ricordi le immagini e il vissuto sono stati viaggi nella vita.

      La poesia e la vita sono leggibili tra i fili di un erotismo sottile e pervasivo che resta intagliato nei gorghi delle giornate che si consumano con le battaglie della delizia. “Fra il mio seno/e il petto forte che amo/sta una rosa,/sola”. Non la prosa che descrive ma la poesia che travalica il movimentismo letterario per rendersi movimentismo esistenziale. Perché tutta la vita di Sibilla Aleramo è un cercare  non la parola che racconta ma il linguaggio che si fa diario.

      Il suo romanzo dal titolo “Una donna” è una di quelle testimonianze emblematiche che lasciano il segno e lacerano  la coscienza.  Viene pubblicato nel 1906. Lei era nata nel 1876 ad Alessandria. È morta a Roma il 13 gennaio del 1960. Una vita vissuta  nella ricerca (o nella richiesta o nell’offerta) di un amore che lo si legge tra gli intagli del suo linguaggio.

      Dall’incipit del suo romanzo: “La mia fanciullezza fu libera e gagliarda. Risuscitarla nel ricordo, farla riscintillare dinanzi alla mia coscienza, è un vano sforzo”. Recuperare una vita dentro la letteratura. Ma arte e letteratura per la Aleramo resta un binomio inscindibile perché in ogni goccia di vita e in ogni goccia d’amore vi campeggia sempre una profonda mobilitazione letteraria.

      I suoi amori con Cardarelli, Campana, Cena, Papini, Godetti sono frammenti di una esistenza che trova la sua compiutezza in un dialogo forte e pressante sempre con la letteratura. Bene ha fatto a sottolineare Silvio Raffo nel suo saggio introduttivo a Tutte le poesie (Mondadori, 2004). Infatti ha così sottolineato: “ Se cerchiamo un modello letterario del ventesimo secolo in cui il binomio ‘ arte-vita’, per di più coniugato al femminile, si presenta e si mantenga inscindibile superando qualsiasi ostacolo e resistendo a qualsiasi tentazione di normalità, c’è solo un nome che soddisfa il nostro desiderio: Sibilla Aleramo”.

      D'altronde questa melodia o questa fragile tragedia diventa per Sibilla Aleramo un viaggio che non è soltanto da chiamarsi amore (così come il suo amore per Dino Campana) ma da definirsi nel contesto delle grandi inquietudini che hanno campeggiato nella agonia umanamente e letterariamente belligerante del ‘900. ma è l’eros che è passione indefinibile che travolge la sua vita e la sua poesia. Tutto scompare e tutto riappare sotto quelle forme che sono insistenti penetrazioni del linguaggio.

      Certo non ci sono dubbi lei è una donna tango non valzer. Una donna attrazione fatale e come tale anche evanescente, fuggevole su un mare di onde di carta o di vento. Fuggente. Come la sua poesia o come le onde che invadono la

sua poesia che si fanno tenerezza ma anche angoscia, si fanno notte ma anche alba, si fanno luna e si fanno stella. Il suo amore immenso o l’immenso amore che cercava con Cardarelli, il poeta della malinconia, o con Campana, il poeta della follia…Malinconia e follia sono dentro quel pellegrinaggio disperante ma anche giocoso che è stato la sua vita-poesia o la sua poesia-vita. Si ascolta: “ Era il tuo riso/fuggente/come il lucido raso delle acque…”.

      Ecco il verseggiare di Sibilla che non deve e non può cadere nel prosastico perché se così fosse svanirebbe tutta quella ebbrezza che custodisce il mistero di una sola parola. Aveva ragione Cardarelli quando in una lettera del maggio 1915 le aveva scritto : “…pensa che tu sei esalazione assoluta e che non puoi permetterti composizioni, per così dire, strofiche. Allora cadi nel vieto e nel falso…”. Eh si perché la rarefazione della parola trova nella esalazione il maggiore accento di quel rapporto tra arte e vita. Ciò le permette di non scivolare nella retorica perché la retorica appunto uccide la poesia. Bisogna parlare nel caso di Aleramo di bellezza inquietudine soprattutto quando si focalizza l’attenzione sulla poesia. Si ascolta: “…tu mio bene segreto, tu che mio non sei,/ tu alto sovra quanto amai,alto amore,/ e dal ungi il tuo sorriso di carità dolce/ vita e morte ugualmente mi illumina,/ colme e preziose di pianto e gloria”.

      I suoi versi come i suoi amori. I suoi amori come i suoi versi. Da una lettera della Aleramo a Dino Campana : “ I nostri corpi sulle zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo” (risalente al 6-7 agosto 1916). Una donna immensa in una poesia ritagliata tra le pieghe della sua vita e degli amori. Amata e amante di Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Jullius Evola, Franco Matacotta. Dove finisce allora il tempo della parola e dove inizia il tempo della vita? Forse la certezza del dubbio infervora i cuori e lascia tutto sospeso come quel finale del suo romanzo Una donna, che sottolinea : “O io forse non sarò più…non potrò più raccontargli la mia vita, la storia della mia anima…e dirgli che lo ho atteso per tanto tempo?/ ed è per questo che scrissi. Le mie parole lo raggiungeranno”. Ma il suo pensare nella vita stava nella bellezza maledetta della vita stessa tanto che aveva posto come paesaggio questo inciso: “Io sono certa di vivere come devo. Questa certezza mi fa superiore alla maggioranza, ed e' [una certezza] costante”.

 

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pubblicato il 28 gennaio 2010

L’uomo falco Navajo e la donna aquila  Arrapaho

nella profezia della luna

  

di Pierfranco Bruni

 

Un amore può vivere di foglie gialle perse tra i viali dell’inverno?

Si sono cercati lungo gli orizzonti del mare e hanno recitato, insieme, la profezia della luna.

Amami perdendomi. Gli pronunciò, proprio nel momento in cui il faro illuminava, in un mezzo giro, l’ansa del porto. Le mani non si intrecciarono.

Lei guardò fisso il fascio di raggi. Luci nel tramonto. Tutto finì? In ogni fine c’è un inizio.

Lei era una indiana della tribù degli Arrapaho e si lasciava andare nelle Danze dello Scalpo. Bella, con gli occhi penetranti nel verde dei giorni marini.

Lui apparteneva agli antichi sciamani Navajo e si raccontava ritrovandosi nei giorni dell’infanzia tra il lancio delle frecce e i riposi lungo le sponde dei fiumi. Ogni freccia lanciata somigliava ad una parola portata via dal vento. Ogni passo nel cerchio della danza sembrava un gesto per sfuggire il presente.

Ma può esistere il presente nel filo smagliato che intreccia il passato con ciò che sarà?

“Vedi quel raggio di luce? È un’incisione nella tua memoria. Si perde e ricompare. Un gioco nel girotondo. I bambini hanno fretta di crescere. E quella luce gira, gira velocemente senza mai infrangersi. Di giorno non c’è, soltanto perché non la vediamo con il chiarore. La si ritrova se il giorno cede alle tenebre, al buio, alle tempeste che scuriscono. Ma il faro gira. Gira sempre. Io sto qui seduto da anni. Potrei dirti da una vita. Anche se spesso sono andato via. Ma è come se non fossi mai partito. E forse non sono mai partito. Resto qui perché ho bisogno di leggere fino in fondo i fasci di questi raggi che il faro proietta. Ecco perché sono un maestro nel lanciare frecce. Ho passato il mio tempo nella pazienza di trovare la freccia più bella. Forse l’ho trovata ma adesso è come se mi mancasse la forza di tirare l’arco. Mi alleno come quando ero ragazzo. Ascolto. Leggo nello scorrere del fiume e cerco i tuoi passi. Anzi chiedo ai tuoi passi di farsi sentire nella danza dei sogni”. Così disse lo sciamano Navajo.

“Io non danzo la danza dei sogni. La mia storia tu la conosci. Ho cercato sempre i sogni ma molte volte hanno incendiato i miei capelli tanto che porto ancora delle strisce rosse e mi ricordano il fuoco, la cenere, il pianto. Ho sempre creduto o forse sperato nella possibilità che in ogni fine ci possa essere un inizio. Io non credo al caso. Appartengo alla famiglia degli Arrapato e mi porto dentro i riti e le tradizioni. Come te che sei sciamano negli occhi. Un po’ guaritore, un po’ fingitore, un po’ sognatore, un po’ viandante. Anch’io ho avuto tanta pazienza nel disegnare i passi nelle danze. E le mie non sono state danze dei sogni ma io sono stata la danzatrice degli Scalpi. Un rito che tu conosci bene. Non puoi non conoscerlo. Ma so che ci vuole molta pazienza”. Così parlò la danzatrice Arrapato.

Ma un amore può vivere di foglie gialle perse tra i viali del tramonto?

“L’amore non vive nei tramonti. E neppure tra le ore della nostalgia. Il tramonto e la nostalgia segnano la fine di un amore. Io resto, comunque, un tiratore di frecce. Non lo dimenticare. E ho bisogno della perfezione. Ancora oggi. Ma tu sei la mia freccia o il mio arco?”.

“Io sono il tuo incantesimo. Ti meravigli? Sotto la luna continuo a recitare le danze. Le mie gambe hanno l’agilità delle tue frecce. Dirti che ti amo soltanto non è possibile. Dirti che mi appartieni è sconvolgente. Dirti che sei la mia pazzia è poco. Ma resto nel mio campo. A sera danzerò. Come un tempo i canti sono portati dal vento ed è il vento che modula le voci”.

“Ogni parola è una lacerazione”.

“Sì, le parole sono passi”.

“Il mio sguardo è una freccia che si perde nella tua danza”.

“La mia danza è fatta di passi che mi portano a te”.

“Ma non possiamo intrecciare i nostri destini sino a smarrirci oltre il fascio di luci del faro. Come fare a congiungere le nostre attese alle nostre pazienze consumate? Io parto. Lascio l’arco e le frecce sono, quelle che rimangono, nella faretra. Non porto nulla con me se non la tua danza. La tua danza dentro di me”.

“Lanciami la freccia. L’ultima. Poi  giocherò la mia ultima danza e consegnerò ai crepuscoli gli intrecci della mia vita. La mia vita con te. Tu sciamano, io danzatrice. Tu lanciatore di frecce. Io danzo il Ballo dello Scalpo per assentarmi e guarire tra le tue mani”.

Si sono cercati e si sono ritrovati.

Ci sono gli orizzonti del mare e il mare all’imbrunire è un orizzonte. I deserti sono distanze e le praterie sono spazi lasciati agli allevatori di bisonti e cavalli.

“Porto con me lo spirito del mio popolo. Porto con me il sogno. Gli uomini bianchi non conoscono la verità del mistero. Mi lascio guidare dal falco e ti vengo incontro lanciando l’ultima mia freccia sotto una luna di vento”.

“Aspettami. Mi conduce a te la mia aquila. Ho sciolto i miei capelli e sono radici che hanno odore di erba e di terra. Penetro i tuoi segreti. I tuoi segreti che sono anche miei. Stasera danzerò solo per te. Sul tuo scialle ci ameremo. Il falco e l’aquila intrecceranno i loro voli nel vento della luna”.

Così l’uomo falco Navajo e la donna aquila  Arrapaho  hanno recitato la profezia della luna.

Nel cerchio dei falò la recita ha voci antiche.

 

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pubblicato il 28 gennaio 2010

ALBERT CAMUS MORIVA IL 4 GENNAIO DI 50 ANNI FA

DAL MARXISMO ALL’ESISTENZIALISMO DELL’UMANESIMO

UNO SCRITTORE IN RIVOLTA

 

 di Marilena Cavallo

 

 Il 4 gennaio di cinquant’anni fa (1960)  moriva Albert Camus. Era nato a Mondovi il 7 novembre del 1913. Uno scrittore consacrato alla letteratura attraverso una visione di esistenzialismo prima considerato ateo, poi laico, poi semplicemente esistenzialismo legato al pensiero dell’umanesimo e della classicità intrecciata tra mito e simboli. Prima marxista. Successivamente forte contestatore del materialismo storico. Era nato in Francia ma si trasferisce, dopo la morte del padre, insieme alla madre ad Algeri.

Uno scrittore sempre in bilico tra il senso dell’assurdo e i paradigma di una filosofia del dubbio e della costante ricerca aggrappata agli scogli dell’attesa. Uno scrittore contro che ha saputo però ben capire l’inquietudine del tempo moderno che non conosce né riconciliazioni né patti con la speranza ma soltanto accordi con ciò che non può essere vissuto nella reticenza del quotidiano. Oltre ogni reticenza. È questa la misura di ogni frontiera che non si serve soltanto della scrittura – linguaggio ma della vita. La vita è sempre una coincidenza con il tempo. Con il tempo dell’indefinibile ma anche con il tempo delle sconfitte.

 

Il suo esistenzialismo, dopo la rottura con Sartre o forse anche prima, si legge come modello di una cultura libertaria. I suoi scritti sono una testimonianza emblematica di un fiume che si metaforizza in un mare di intense trascrizioni con il mito. Ma l’uomo resta sempre un uomo in rivolta. La rivolta che si porta dentro e che lacera la crosta del religioso silenzio dell’attesa.

In Camus non si vive l’attesa e tanto meno si lacera il tempo nella ricerca della speranza. Anzi è il dubbio che taglia la storia per incunearsi nel possibile dell’esistenza che diventa amore. L’esistenza è possibile viverla soltanto se si incide con il solco dell’amore. C’è un concetto chiave che va oltre il tempo stesso ed è quello che recita con queste parole: “Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non amare”.

 

Nel 1947 pubblica “Lo straniero”. Un testo che si presenta ancora oggi di sicura  e necessaria attualità. Nello stesso anno esce “La peste”. Nel 1956 “La caduta”. Studioso di Plotino e di Sant’Agostino si inserisce in quel quadro filosofico che ha una segreta spiritualità attraverso la quale non può che porsi un altro problema che è quella certamente della rivolta ma  soprattutto della “croce”. È suo un adattamento teatrale ricavato da Pedro Calderón de la Barca dal titolo: “La devozione della croce”. Come è suo un adattamento de “I Demoni” di Dostoevskij realizzato un anno prima della morte dal titolo “Les Possédés”.

“L’uomo in rivolta” esce in Italia nel 1962 e in Francia, invece, aveva visto la luce nel 1951 mentre “Il mito di Sisifo” era stato pubblicato nel 1942. Perché Camus si cerca in Plotino e Sant’Agostino? C’è una inquietudine letteraria che si vive in Camus e che non può essere scissa da quella filosofica e umana. Letteratura e filosofia sono l’algebra di un umanesimo che si pone come centralità tra l’uomo e il sentiero dell’assoluto. Oltre ogni schema.

Proprio in “Il mito si Sisifo” si può leggere: “Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.

 

Bisogna  immaginare. E in questo immaginare la vita non è un resto. È piuttosto la supremazia dell’assoluto. In questa direzione  si potrebbe offrire una chiave di lettura di un Camus certamente esistenzialista ma dichiaratamente proteso verso quel segno del destino che ha inciso tutto il suo esistere tra l’inquieto, il dolore, il mistero e un kafkiano gioco della provvisorietà e dell’imprevedibilità.

Muore in un incidente stradale dopo aver detto, qualche tempo prima, che morire in un incidente stradale è la cosa più sciocca che possa capitare. Nelle sue tasche gli viene trovato un biglietto ferroviario. Quel giorno doveva viaggiare con il treno. Chissà perché decide di incamminarsi con l’auto lungo la strada di Villeblevin,. Insieme a lui muore anche il suo editore Gallimard.

In “L’uomo in rivolta”, qualche anno prima, aveva scritto: “Oggi nessuna saggezza può pretendere di dare di più. La rivolta cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio. L'uomo può signoreggiare in sé tutto ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo”.

Questo sentire il dolore del mondo è nell’intreccio tra la caduta e la rivolta. Per vivere il senso della rivolta bisogna comprendere fino in fondo il senso della caduta. Per ripetere ciò che è stato detto: tutto ha un seno. Per  Camus, leggerlo oggi, gli orizzonti metafisici non sono più un assurdo. Plotino e Sant’Agostino sono nella rivolta di un esistenzialismo che ha una voce nell’umanesimo della vita. Tre anni prima della morte, Camus è premio Nobel per la letteratura.

 

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pubblicato il 28 gennaio 2010

LA SCOMPARSA DELLO SCRITTORE FRIULANO CARLO SGORLON

OLTRE IL REALISMO MAGICO E DENTRO UN TEMPO SACRO

 

di Pierfranco Bruni

 

 C’è una poetica sottile nelle maglie del linguaggio di Carlo Sgorlon ( Casacco, Udine, 26 luglio 1930 – Udine 25 dicembre 2009) che è quella del ritorno ai miti. Un ritorno al mito ancestrale o primordiale che si intreccia con le eredità della tradizione di una terra, di una civiltà contadina e di un popolo che è stato attraversato dalla favola ed ha attraversato l’immaginario rituale di una memoria che riecheggia con  elementi di profonda nostalgia.

Non c’ è soltanto il paesaggio geografico che parla con la nostalgia dei sensi. C’è il paesaggio nel tempo che si fa memoria e lancia la sua sfida con gli occhi della malinconia. Una malinconia ammaliatrice e accompagna il trascorso dei personaggi, i ricordi che sono pezzi di vita, la magia del luogo che ha sempre una marcata interiorizzazione nei nomi dei personaggi stessi, i quali diventano protagonisti, figure e controfigure.

Carlo Sgorlon ha fatto del suo narrato una poetica che penetra l’intreccio tra tessuto dei luoghi, che diventa, però, territorio dell’anima e metafora della storia (da “La luna color ametista” del 1972 a “La conchiglia di Anataj” del 1983). La storia e le storie non vengono narrate o raccontate ma sono certamente assorbite all’interno di un processo mitico – simbolico che è espressione di un raccordo tra una fase sacrale e una entratura nei percorsi magico – antropologici del mondo contadino (da “I sette veli” del 1986 a “Le tribù” del 1990; da “Il patriarcato della luna” del 1991 a “La malga di Sir” del 1997”).

Nella scrittura di Sgorlon la parola stessa è da sottolineare come modello religioso. Non c’è impostazione o proposta di immagine (e di immagini) senza la struttura religiosa che raccoglie sia le istanze del linguaggio, e quindi delle parole o della Parola, sia il mosaico del percorso narrante. È una scrittura nei simboli. Gli stessi personaggi sembrano coordinati intorno a dei simboli chiave (si pensi a “La tredicesima notte” del 2001, a “Il velo di Maya” del 2006, a “L’alchimista degli strati” del 2008, o ai racconti straordinari che si leggono in “Il quarto Re mago” del 1986, a ancora ai “Racconti della terra di Canan” del 1989).

 

Così la lingua (penso all’intreccio che si vive in “La carrozza di rame” del 1979 o a “Il calderas” del 1988) come fenomeno non solo comunicativo ma come scavo nelle radici di un popolo. Il suo popolo, quello friulano, ha una matrice etnica che non si riversa soltanto nelle forme di una cultura della tradizione (spesso il richiamo de “Gli dei torneranno” del 1977 è emblematico) ma soprattutto nell’incastonare la lingua in una diretta visione che richiama il senso dell’archeologia della parola come infanzia di un territorio (penso a “La contrada” del 1981). La sua poetica è il mistero del cammino della parola che si sprigiona di quella inconsapevolezza dialogica per lasciarsi catturare dal sentimento della memoria che caratterizza tutto il vissuto stesso della nostalgia dell’uomo.

Una poetica dei simboli (ritornano “I sette veli” del 1986) che si forma nei segni presenti in una realtà territoriale. La realtà scompare come scompare la storia. Ma resta la pagina del territorio e la storia si dipana lungo il tempo ed è, appunto, il tempo che recita la meraviglia, il dolore, il tragico, la fisicità, l’onirico, il misterioso, l’incanto – magia (ci sono echi che rimandano costantemente a “L’alchimista degli strati” del 2008 o a “Il velo di Maya” del 2006 o a “Il filo di seta” del 1999). Tutti tasselli che danno vita a quel senso dell’identità che è dentro il legame civiltà – tempo.

Comunque, più di un realismo magico si dovrebbe parlare di un magico sentiero della nostalgia o di un tempo sacro. Cosa c’è di realismo in Sgorlon? La storia è una realtà, anzi è stata una realtà, in quanto la storia vive nel consumato o meglio nel “già stato”. Il paesaggio è una realtà, anzi è un passaggio di realtà nella cosmografia delle stagioni. I personaggi sono in bilico tra il reale e la fantasia, anzi diventano sia memoria che destino e quindi la realtà si perde nel vento delle finzioni. La lingua può essere una realtà? (mi riferisco, a tal proposito, a “Prime di sere” del 1979 e a “Il Dolfin” del 1982). Direi di no, perché in Sgorlon la parola assume sempre la versione e visione allegorica. Un linguaggio allegorico? Certo, fino a quando l’allegoria non si trasforma in vera e propria metafora del tempo.

 

C’è il magico ma non il realismo. Perché ad insistere è il tempo e non si tratta di un tempo storico ma di un tempo mitico. Parlerei piuttosto di un tempo magico e non di un realismo magico. È proprio questo tempo che si incastra tra i personaggi ma anche è stato ben incastrato nella vita di un mondo popolare che ha formato l’uomo e lo scrittore Sgorlon. Non manca l’ironia. L’ironia è nel Kafka ben analizzato e studiato da Sgorlon (“Kafka narratore” del 1961, Sgorlon, d’altronde, si è laureato con una tesi su Kafka). Un’ironia che è nel dialetto friulano al quale lo scrittore ha dedicato la sua attenzione nella comprensione dei moduli di ricerca di una identità delle radici. Una ironia che non cede al comico o al sarcasmo ma va nel profondo di quelle strutture mentali che ci conducono al sacro, al magico, all’archetipo.

L’io narrante è sempre nel di dentro di questi passaggi e di questi processi che si assumono come rivelazione poetica ma non dimenticano la tessitura antropologica. Ed è come se la poetica di Sgorlon assumesse in sé la capacità di leggere antropologicamente i fenomeni del tempo magico (sottolineo ancora “Il velo di Maya” o romanzi come “Regina di Saba” del 1975 o “Il tono di legno” del 1973) espresso sia dalle avventure narrate sia dai personaggi che vivono dentro il gioco infinito del raccontare. Lo stesso Sgorlon ebbe a dire, parlando della sua narrativa, “Io possiedo un forte istinto narrativo, e a quello mi abbandono. È una specie di bussola incorporata nel mio inconscio. Seguo i grandi archetipi del narrare”.

 

In questi archetipi del narrare i miti, le fiabe, i riti disegnano tracciati indelebili con i quali è la scrittura a fare i conti ma anche l’anima dello scrittore. La parola e la fantasia. I sogni e il mistero. Un rapporto inscindibile che ha fatto di Carlo Sgorlon uno scrittore dentro la religiosità della tradizione. Religiosità e tradizione: due riferimenti che restano modelli interpretativi in una poetica, in cui il senso del primitivo è una ricerca costante, che va oltre la storia per ridefinirsi nella sensualità della favola e del mondo onirico di una civiltà che solca i passi di una eredità e di un pathos non solo immaginari ma vivi dentro la nostra esistenza.

 

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pubblicato il 27 gennaio 2010

Giacinto Spagnoletti e la coscienza del letterato

A 90 anni dalla nascita

Da Renato Serra a Raffaele Carrieri

 

di Marilena Cavallo

  

Tra il filo del romanzo mai descrittivo e sempre calato all’interno di una psicologia dell’anima, le venature poetiche di una nostalgia che non lo ha mai allontanato dalla sua Taranto e dai luoghi della Magna Grecia e la critica letteraria costantemente legata alla ricerca dell’interiorità degli scrittori e dei poeti l’opera di Giacinto Spagnoletti (Taranto 1920 – Roma 2003) costituisce un punto di sicuro riferimento per comprendere un Novecento letterario che continua ad occupare gran parte dello scenario dei nostri giorni.

Come si è accostato alla storia della letteratura una personalità come Spagnoletti? Il suo incontro con gli autori italiani e francesi, soprattutto, è partito non dall’analisi storica o critica ma da un legame che lo ha condotto ad esplorare il linguaggio del Novecento come mosaico articolato di una sempre crescente creatività, fantasia e poetica della metafora. Da scrittore e poeta si è avvicinato alla storia della letteratura.

Credo che questo sia stato un merito e un pregio soprattutto se si pensa già ai suoi primi studi e al suo lavoro dedicato a Renato Serra. Su Serra ha lavorato molto tanto che ha sviluppato la sua tesi di laurea alla cattedra di Natalino Sapegno. Ma Spagnoletti è stato sempre lontano da incastellature ideologiche tanto che il suo ruolo, parallelo quasi a quello cattedratico, è stato caratterizzato dal suo considerarsi ed essere un critico militante.

D’altronde Spagnoletti nasce culturalmente come scrittore di una pagina in cui la psicologia della scrittura si incontra con la prosa d’arte. I suoi autori amati sono stati Renato Serra, appunto, e poi scrittori come Italo Svevo, Pierpaolo Pasolini, Sandro Penna passando attraverso Baudelaire e il suo “splen” e il futurista Aldo Palazzeschi mai dimenticando le grandi lezioni di Giacomo Debenedetti e Angelo Maria Ribellino.

Proprio grazie alle lezioni di Debenedetti (sempre l’avventura e il personaggio senza la prevalenza della rappresentazione del reale e dello storicismo) ha potuto esprimersi con una prosa incisiva nei suoi tasselli lirici con 'Tenerezza' (1946), 'Le orecchie del diavolo' (1954), 'Il fiato materno' (1971), e il fortemente lirico e nostalgico  'A mio padre, destate' (1953), 'Poesie raccolte' (1990).

Da Verlaine a Danilo Dolci Spagnoletti ha indicato alcune strade da percorrere per tentare di entrare in un Novecento poetico abbastanza ampio e mai omogeneo. Intorno a questi autori si è soffermato sulla prevalenza della grecità e ionicità in autori come Raffaele Carrieri o come Michele Pierri in cui l’universalismo lirico ha permesso di portarlo nel di dentro di una contestualizzazione europea delle poetiche del Novecento sino a proporre una chiave di lettura di Alda Merini. Ma in Spagnoletti non c’è mai una caduta nella provincialità o provincialismo o nel tentativo di difesa dei poeti delle radici o matrici sommerse.

I suoi scritti su Raffaele Carrieri hanno una visione articolata e ci propongono una lettura tout court della poesia del Novecento che, necessariamente, deve potersi confrontare con le poetiche europee. Il Carrieri dei viaggi, il Carrieri della contaminazione artistica, il Pierri della “religiosità pavesiana”, il Pierri contemplante, il Lorenzo Calogero della corda del misterioso e il recupero del dialetto come lingua della poesia tra Sud e Nord sono incisi indelebili.

I suoi studi ultimi, quelli dedicati alla poesia e al dialetto della poesia, offrono una visione importante e ad intreccio tra la cultura italiana quella mitelleuropea e quella direttamente recitata da Verlaine. Spagnoletti, comunque, non ha mai cessato di essere l’allievo di Renato Serra.

Infatti i suoi scritti richiamano spesso la grande visione di un Serra che ha raccontato la funzione dello scrittore e della letteratura in un “esercizio” umano che è quell’esame costante della “coscienza del letterato”.

Spagnoletti ha inserito il suo mestiere di scrittore e di storico del Novecento poetico italiano nella coscienza del letterato. Forse sarebbe auspicabile una meditazione sul legame che Spagnoletti ha avuto con gli scritti di Renato Serra. Un legame che lo ha accompagnato sino ad inserirlo nella modernità linguistica di Raffaele Carrieri.

 

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pubblicato il 22 dicembre 2009

Nella notte di Natale due pescatori si incontrano

accompagnati da una stella tra il sacro e l’alchimia sciamana

 

di Pierfranco Bruni

 

In un paese chiamato Athsyu. In una piazza affollata. Due pescatori di parole si giocano il tempo. È la notte di Natale.

Il primo pescatore si chiama Lakota. Ha una storia antica. Ha viaggiato per deserti lasciando ombre sulla sabbia e pieghe di emozioni lungo le strisce di cielo consegnate all’orizzonte. Sapeva leggere i tramonti, in giovinezza, e con gli anni ha abbandonato questo mestiere per dedicarsi alla lettura delle albe. Ma per anni il suo viaggio è stato tra le dune e il blu dei suoi sciallati costumi. Uomo del deserto. Appartiene alla famiglia degli uomini blu, ovvero dei tuareg. Il secondo pescatore si chiama Nuvola che non teme il Mare. Appartiene ad una famiglia che ha abitato le foreste e che poi si è trasferita lungo le coste. Ha vissuto una vita tra porti, tra scogliere ed ha viaggiato a lungo, anche lui smarrendosi tra le alte maree e il vento d’altura.

Lakota vive custodendo ricordi, sogni, camminamenti e porta dentro di sé un paziente amore che ritorna spesso tra i tramonti e le albe. Ha sempre vissuto per questo unico amore e per una donna di nome Luna di Fuoco.

Nuvola che non teme il Mare, invece, è stato un amante imperfetto. Ha sofferto nell’inquieto scorrere dei giorni e ha trepidato per ogni donna consegnata alle ferite del suo cuore. Ma anche lui è rimasto affascinato dal mistero di una donna chiamata Donna Sorgente.

Questi due personaggi hanno camminato, il primo, e hanno viaggiato, il secondo, mai incontrandosi se non nella notte di Natale. Entrambi hanno cercato di seguire una stella ma non sono dei Re Magi e seguendola o inseguendola sono giunti al centro di una piazza. Ma non so se hanno seguito o inseguito la stella o sono stati catturati dalla stella. Forse è stata la stella ad afferrare i loro destini.

Allora. Notte di Natale. Un silenzio ovattato. E poi le parole.

“Non so chi ci ha condotto in questa piazza, dice Lakota, ma siamo giunti puntuali ed è come se fossimo arrivati spinti dalla forza della natura. Tutto è spazio. Perché in questa notte? La notte di Natale. Gesù sta per nascere. E noi siamo qui. Perché dobbiamo disputarci il tempo?”.

E Nuvola che non teme il Mare risponde: “Ho abbracciato tutte le eresie. Ho cercato di capire il Cristo della Resurrezione ma mi sono sempre fermato al Cristo della nascita. La rivelazione è una illuminazione che non cerco. Voglio essere cercato dalle parole dell’illuminazione anche se sono considerato un pescatore di parole”.

Lakota: “Noi siamo pescatori di parole. C’è un mistero che mi inquieta. Come siamo giunti qui, io e te, questa sera? Non ci si interroga davanti a ciò che consideriamo mistero. E proprio nella notte in cui nasce il Cristo noi ci disputiamo il tempo”.

Nuvola che non teme il Mare: “Ma quale tempo? Io non mi porrò mai il problema del tempo”.

Lakota: “Ognuno di noi è lacerato dalle passioni. C’è, comunque, la grande Passione che è fatta di sacrificio, sofferenza, dolore e resurrezione. Ma non credere che nel nostro quotidiano non ci siano le quotidiani passioni. Il tempo è dentro questa piega che fa del nostro essere un segno impercettibile, a volte illeggibile ma sempre presente pur nella inafferrabilità”.

Nuvola che non teme il Mare: “Tutto si ritrova nella notte di Natale. Tu con la tua certezza da eretico, io con i miei dubbi da profeta del mare che aspetta una chiamata. Tu che misuri i granelli di sabbia stabilendoti un metodo per ogni caduta di granello. Io che non riesco a stringere l’acqua e mi illudo che ogni goccia possa contenere tutti i mari possibili. Però siamo qui per disputarci il tempo…”.

Lakota: “Io non ho dentro di me timori. E la mia Luna di Fuoco non è solo un ricordo perché il ricordo scompare se lo lasci scorrere come sabbia. Il ricordo è nella mia pelle, nel mio corpo, nei miei capelli. Tutto questo può consumarsi nel tempo? Il tempo è sempre al di là di noi? Vedi, questo fuoco si alza con le sue fiamme e punta il cielo in questa notte. È come se cercasse la stella che ci ha condotto qui. Noi siamo pescatori di parole. Lo siamo stati e ora custodiamo queste parole nella notte di Natele per dire che tutte le parole e tutto il tempo possibile e impossibile non conoscono nome. La nascita di Cristo è una passione inarrestabile”.

Nuvola che non teme il Mare: “Una passione inarrestabile... Perché Cristo non può vivere il tempo. È nell’infinito che si intreccia con l’eterno ma è quel personaggio che porta l’amore. Quando c’è l’amore non può esserci il peccato, quando l’amore trionfa non può esserci la richiesta di perdono perché il perdono è nella teologia e noi, invece, siamo nel mistero, nella sacralità dell’amore, nella sacralità di due corpi che si cercano e si amano e si tramandano futuro. Nella magia. Cristo non è passato, non è presente, non è futuro. Cristo è. Quindi non vive nel tempo. Ti dirò di più: non conosce il tempo. Dove c’è il tempo non c’è Cristo. Noi siamo stati portati qui per giocarci il tempo? Io non mi gioco alcun tempo. Se  vuoi posso darti la partita vinta. Mi ritiro e mi pongo non in attesa ma in ascolto”.

Lakota: “Cosa facciamo allora? Trasgrediamo chi ci ha condotto fino a qui? La stella?”.

Nuvola che non teme il Mare: “Io sono qui e mi metto in ascolto del fuoco, della luna e ripenso al mio mare e ai miei viaggi. Chiedo al mare di svelarmi misteri  custodendo sempre i segreti. Ma i misteri possono essere svelati?”.

Lakota: “Ma anch’io non sono interessato a questa partita. Il falò è un crepitio di stelle luminose. Ci sono distanze. Cerco di vivere non più il tempo ma lo spazio che mi lega al bisogno di rivelazione. La stella? È stata una sfida, posso dirti che ci ha sfidato. Senza finzioni, però. Noi non sapevamo ma la stella ci ha condotto qui pensando ad una nostra battaglia. Ma sul tempo non possono consumarsi guerre. La stella… Che meravigliosa luce. E Cristo? In questa notte di Natale la passione è una rivoluzione e la piazza è il teatro delle recite incompiute…”.

Nuvola che non teme il Mare: “Siamo due pescatori di parole? O forse siamo due viaggiatori di pensieri? Non mi stupisce il fatto che ci siamo incontrati. Nella notte di Natale. Non ho più meraviglia di nulla. Ormai. Mi catturano i segreti. Cristo è un segreto? No. Resta però un mistero. La sua nascita è una rivelazione più potente della sua Passione. Più della Croce. L’incanto è una alchimia. Anche se sono dentro la linea del destino. A quale tempo dovrei appartenere? Sono qui, in questa piazza dell’infinito, a celebrare la polvere delle onde. E ascolto le onde anche se sono distanti mille echi. Questa polvere che ha parola e acqua è dentro di me. Resto con il mio silenzio. A contemplare gli occhi della mia Donna Sorgente”.

Lakota: “Domani. Ai primi bagliori partirò per il mio deserto. Camminatore di pensieri. Nella notte di Natale recito le mie preghiere indiane. La mia Luna di Fuoco danza intorno al falò. Il mio popolo ha sotterrato l’ascia. Tu riparti per i tuoi mari. Io entrerò nella mia tenda. Ma la stella che mi ha condotto sino a te è un segno di profezia. Siamo giunti come pescatori di parole e ripartiamo come naviganti di pensieri. Ma in tutto ciò perché la presenza di Cristo? Noi apparteniamo al destino degli sciamani. Siamo stregoni. Voci nelle magie, nelle alchimie, nei miti, negli archetipi che recitano la vita e l’oltre. Ma siamo al di là del tempo. Pescatori, naviganti, giocatori di tempo. Dentro di noi Cristo è uno sciamano che prega nel sortilegio delle lune ferite e viaggia i mari con le vele spiegate. Cosa ci chiederemo ancora… Siamo nella magia. E nel sacro”.

In un paese chiamato Athsyu due personaggi di nome Lakota e Nuvola che non teme il Mare si salutano. Senza abbracci. Senza più parole. Il loro sguardo è un inciso di vento e di terra. Il fuoco continua ad ardere. La piazza si spopola. Il centro resta un cerchio. Un girotondo.

È ancora notte. Notte di Natale. Il gioco è finito. Anzi non è mai cominciato. Le parole sono nel tracciato del sogno che indica la voce che giunge da lontano come un passato che non esiste e un’attesa che dovrà essere nel dono che arriverà.

 

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pubblicato il 19 dicembre 2009

“Ti amerò fino ad addormentarmi nel rosso del tuo meriggio”

In una storia di destini tra profezia, sensualità e nostalgie

 

È il romanzo di un amore in versi. La poesia che si intreccia in una storia d’amore profonda che ha atmosfere magiche sul filo di un gioco in cui l’attesa e la profezia diventano modelli profetici in una duplice contesa tra lettura sciamanica e viaggio religioso. 

Si tratta del nuovo libro di Pierfranco Bruni dal titolo: “Ti amerò fino ad addormentarmi nel rosso del tuo meriggio”, in questi giorni in libreria.

Un romanzo d’amore in versi attraverso 40 capitoli che spaziano tra doloranti fughe e profetiche nostalgie.

L’amore, in questo nuovo libro di Pierfranco Bruni, è un raccordare la quotidianità tra una sfuggente donna che appare, scompare, riappare e si fa orizzonte in una metafora costante che è il mare nell’universalità e nella personalizzazione del sentimento di viaggio e un io “narrante” che si trova costantemente in un dissidio tra ricerca e pienezza, tra una forte diaspora e una voce interiore che richiama i cammini degli antichi sciamani.

Il conflitto  si vive nelle parole, nel verso, nella poesia come completezza e incompiutezza, nello stesso contesto, di una meditazione in cui si verifica uno scontro lacerante tra il tempo che recita i passi dell’amore e quel tempo che segna il passaggio delle stagioni.

Ci sono capitoli (o poemetti) lacerati da un dolore che non è apparenza stilistica o scenario lirico ma restano piuttosto una avventura tra il tentativo di ricucire un atto quasi sacrale, qual è l’amore nella sacralità dell’incontro, e uno sguardo proiettato verso la dimensione dell’onirico che rimanda ad una cultura dell’alchimia, della magia, del mistero tra mito, nostalgia e coerente ulissismo.

È un libro, questo di Bruni, che si pone fuori dal laico concetto di poesia e di amore perché insiste su due coordinate: l’amore come eros, come passione, come fisicità e l’amore come rivelazione, come illuminazione e come destino. Un vero e proprio “cantico dei cantici”, in una esplosione quasi di sortilegi che hanno radici sia nella profezia che nel concetto di provvidenza.

Una religiosità compatta in una amore fuori dalle convenzioni e dalle regole ma l’amore si racconta proprio per una selvaggia e mitica coincidenza di sensi e di intermittenze sentimentali. Fa da sfondo la dimensione della memoria che raccoglie il vissuto non in una visione romantica e tanto meno in un atteggiamento di rimpianto. Mai affiora il concetto di peccato. Anzi emerge che l’amore, tra eros e contemplazione, non tocca mai le corde del peccato.

Tante sono le immagini proiettate nello specchio delle emozioni e sono queste emozioni che fanno di “Ti amerò fino ad addormentarmi nel rosso del tuo meriggio” un romanzo nel quale la poesia si articola in poemetti e il narrato ha sempre un filo conduttore  dettato dal concetto che soltanto l’amore è bellezza e che la bellezza ha il compito di salvarci.

Una lezione che emerge sia da San Paolo che da Dostoeviskij ma anche dai canti Navajo che recitano le loro avventure attraverso la voce della pioggia in una inarrestabile danza. Una abbinata coraggiosa che rende questo romanzo in versi di Bruni affascinante ed è tutto giocato in un contrasto di sguardi, di interpretazioni, di un mosaico che riesce a custodire i ricordi con la tensione mai dei presente e sempre della speranza, del futuro, di ciò che accadrà. C’è, in realtà, tutto  il percorso onirico del viaggio di Pierfranco Bruni nell’oscillare tra linguaggio poetico e una potente visione sciamanica della vita..

L’io narrante sembra ascoltare gli echi e leggere i segni in una trascrizione che è fuori ogni tessuto di realtà perché la realtà, in questo libro, non c’è, come non c’è una verità ma soltanto un bisogno di capire le distanze, le lontananze, i distacchi. L’io narrante è come se restasse a guardare il mare e l’orizzonte e si trova, invece, ad osservare un falò non completamente spento e intorno a questo falò custodisce segreti che affida al vento e ai tramonti.

Fortemente lirico, nella conta dei giorni l’incontro tra poesia, magia e mistero traccia non solo il profilo di una storia d’amore ma anche le nostalgie di un io narrante che vive con distacco il tutto, compreso il senso meditativo sulla morte, tranne che la passione nell’amore e l’amore nella passione.

In questo io narrante, tracciato da Pierfranco Bruni, c’è l’incontro con una donna  straordinaria un po’ strega, un po’ magicamente predestinata, a volte marcatamente misteriosa ma sicuramente legata alla religiosità di un tempo mai completamente inafferrabile.

Un libro che raccoglie i dubbi, la provvisorietà, i simboli in un linguaggio originale mai scontato. Un romanzo d’amore in versi. Una storia d’amore in versi in uno scavo coraggioso dove il rischio della parola vale il rischio dell’esistenza.

 

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pubblicato il 26 novembre 2009

 

Nazhim Kalim Dakota Abshu

Gli inediti di un poeta tra la spiritualità dei Sufi e il Cristo in Croce

 

 

di Pierfranco Bruni

  

 

Di Nazhim Kalim Dakota Abshu si conosce poco. Un poeta di origini tunisine che ha intrecciato un modello culturale proveniente da una scuola musulmana ben radicata nella tradizione dei sufi e dei dervisci danzanti (o rontanti). Il mistico che abbraccia il pensiero dei sufi e la fede cristiana è dentro il poeta. La sua parola sembra un teatro di emozioni e di suggestioni oniriche recitate da un profeta. Sono venuto a conoscenza di questo poeta e sono in possesso di una manciata di poesie che sottolineano una espressività ricca di modelli sia antropologici che puramente poetici, i quali rimandano ad una tradizione che è quella del mistico eretico – ortodosso con una accentuazione della presenza della spiritualità dei sufi.

La mia attenzione è ormai focalizzata su questi temi e, in modo particolare, su questo poeta, che è una espressione forte della “dinamica” spirituale tra modelli occidentali e pensiero di un mediterraneo islamico, sul quale mi accingo, ormai, a scrivere un saggio con una analisi dei testi da me ritrovati. Qui voglio tracciare alcune linee segmentando alcune coordinate. La presenza di Cristo e della Croce, in Abshu, ha una simbolicità singolare: “Croce, Cristo; il mio Cristo/in Croce; la Croce o la Passione;/vado verso l’alto, ma ho una distesa di orizzonti”.

Fede e pensiero sono, dunque, l’intreccio che non vuole chiarire ma porsi costantemente in ascolto: “Ho ascoltato la notte; nel silenzio/il cuore mi ha portato il mare; ho recitato/Cristo, semplicemente. L’inizio/ non coincide con la fine; Cristo,/ti vivo per la Croce/che porto”. Oppure: “Illuminante silenzio; vestiti di bianco/in un cerchio,/danzano la vita e il mistero/per ritrovarsi nell’infinito”. La danza, l’infinito, il mistero e la presenza del misticismo cristiano sono tasselli nella poesia di Abshu. La presenza dei dervisci resta fondamentale.

Chi sono i dervisci? Sono chiaramente i “discepoli” di comunità islamiche che vivono in piena povertà e sono catturati da una spiritualità profonda che rimanda ad una cultura dell’ascesi. Vivono distaccati dalle passioni terrene anche se sono attraversati da un forte sentimento dell’amore. È molto pregnante il loro confronto con i cristiani mendicanti che pongono al centro il sentimento della povertà e l’assoluto spirituale come riferimento.

I dervisci sono i cosiddetti cercatori di porte, ovvero cercano di andare oltre il senso materiale della vita e del tempo stesso. La danza è la focalizzazione della loro ricerca. I dervisci danzando (ruotando velocemente) cercano di raggiungere dio aiutati da un maestro, o meglio, in turno viene ad essere identificato come il saggio o il vecchio.

A questa tradizione appartiene Nazhim Kalim Dakota Abshu anche se il concetto di divino resta molto complesso e lo si legge attraverso alcune contraddizioni, che restano contraddizioni per noi Occidentali, che diventano, però, per il poeta elementi di ascesi vera e propria. I suoi maestri letterari sono indubbiamenti Rumi e le sue poesie mistiche, ‘Omar Khajjam e le sue “Quartine” e soprattutto Kahlil Gibran. Uno dei filtri, non solo poetici e letterari, è chiaramente anche Tagore (il Tagore che scrive le pagine dedicate a “Il Cristo”). Tra questi poeti c’è uno spazio temporale abbastanza rilevante.

Infatti con Rumi siamo  tra il 1207 e 1273, in una geografia che abbraccia l’attuale Afghanistan e la Turchia (è uno dei più grandi poeti persiani). Con Khajjam siamo ad un’età precedente, ovvero tra il 1050 e il 1130 in una terra che è quella della Persia nord – orientale.  Con Gibran, invece, tocchiamo quasi la sua contemponeatità. Gibran nasce nel Libano settentrionale il 1883 e muore nel 1931. Così con Tagore, nato a Calcutta nel 1861 e morto nel 1941. Tra i poeti europei amati e studiati da Abshu c’è lo spagnolo Gustavo Adolfo Becquer nato a Siviglio il 1836 e morto a Madrid nel 1870. Abshu non si è mai distaccato dalla presenza di questi poeti da lui definiti maestri del pensiero e della parola. Maestri dell’amore. Abshu scrive, infatti, anche delle poesie d’amore, anzi delle potenti poesie d’amore: “In basso la tua verginità;/solo io ti appartengo;/il pensiero, il corpo;/nessuno potrà violarti; alcuna parola, alcun corpo ti violerà./Il mio pensiero, il mio corpo,/ e tu”.

Ma chi è Nazhim Kalim Dakota Abshu. Nato a Tunisi  nel 1900 da una famiglia di commercianti che praticava il mestiere di tessitori di tappeti, e poi mercanti di stoffe e di tappeti.  Della sua vita si sa molto poco. Vissuto per i primi venti anni a Tunisi. Si è formato, come già sottolineato, alla scuola dei sufi, ma è stato un autodidatta ed è stato un grande lettore di testi cristiani occidentali e indiani. Portava con sé spesso sia i Vangeli Apocrifi che le Lettere di San Paolo. Ha studiato con attenzione la storia degli indiani d’America approfondendo il rapporto tra Occidente ed Oriente. Grazie ad una lettura della cultura del popolo indiano dei  Dakota

Ha scritto poesie e testi in prosa. Molta della sua produzione è andata smarrita. All’età di trent’anni va in Francia, poi in Italia e nuovamente a Tunisi. Lascia definitivamente la Tunisia intorno agli anni Quaranta e si stabilisce prima a Istanbul e successivamente a Nizza, dopo aver viaggiato e conosciuto i luoghi del Mediterraneo: “Solamente per amore ho vissuto la chiamata/e non mi sono accorto dei luoghi che mi hanno ospitato”.

Ha approfondito gli studi sulla cultura sciamana, ma la sua vera passione è rimasta sempre la poesia ed è stato sempre convinto che il vero poeta deve essere anche uno sciamano e che la poesia è una grazia e non è mai costruzione: “Forse, nelle mie tasche,/ho ancora la sabbia del deserto;/nelle mie mani, mi è rimasto tutto lo stupore del mare;/nei miei occhi la terra e l’acqua”.

Infatti ha sempre sostenuto che il poeta è un “miracolato”. Ha cercato di intrecciare  Maometto, Cristo e Budda ma il suo percorso è stato sempre quello di confrontarsi con il Cristo in Croce senza cedere alla tentazione delle spiegazioni o giustificazioni teologiche: “Se Cristo mi dicesse: ‘ti perdonerò dei tuoi peccati’,/ coprirei il suo viso di foglie di alloro/ e dimenticherei la sua voce”. Ancora: “Non credo che Cristo avesse parole;/Cristo è semplicemente un gesto,/e danza tra i fuochi e la pioggia”.

Le sue poesie rispecchiano questa visione della vita che ha un marcato senso della spiritualità e di un misticismo che rimanda sia alla fede cristiana sia il pensiero gibraniano vero e proprio con precisi inserti alla cultura del misticismo islamico.  Non ha mai accettato la religione o le religioni in visioni assolutizzanti e tanto meno è stato colpito dalla cultura cattolica. Ma non si è neppure posto davanti alla questione con delle certezze precostituite.

Ha sempre seguito l’illuminazione dettata dal mistero della creazione. Il suo perno centrale è stata la figura di Cristo e della Croce cercando di interpretare la fede con il mistero degli sciamani e con la dimensione mistica dei dervisci. Forse una contraddizione che lo ha posto però sempre in ascolto e mai nel definire verità. Ha lasciato alcuni testi in prosa inediti e  libri di poesie. Ha scritto anche in lingua italiana.

È morto a Nizza, improvvisamente, la notte di Natale  del 1955. Un mistico che ha abbracciato la fede e il pensiero in una tensione spirituale che lo ha posto al di fuori di qualsiasi teologia, perché il poeta non ha teologie ma soltanto si lascia nutrire di schegge di mistero e di una sottile alchimia che si testimonia tra la parole e la sua presenza nella vita.

 

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pubblicato il 25 novembre 2009

L’attualità delle fiabe di Luigi Capuana a 170 anni dalla nascita

La cultura popolare e la modernità del linguaggio

  

di Marilena Cavallo

 

Di Luigi Capuana si riparla grazie al mondo delle favole. A 170 anni dalla nascita dello scrittore che porta in scena la Sicilia, (Mineo, 1839 – Catania, 1915). Così: “ ‘Fiabe nuove non ce n’è più; se n’è perduto il seme!’ Come e perché, cari bambini, lo saprete facilmente quando sarete più grandi”.

      È la chiusa de Il raccontafiaba di Luigi Capuana (le fiabe sono state pubblicate nelle edizioni di Acquarelli con l’antico titolo di C’era una volta i Re, la Gente, la magia.

      Un viaggio nel mondo incantato della fantasia popolare. Una fantasia che si racconta attraverso i contadini, i re (ovvero i reucci), e le reginette, le fate, gli orchi, i castelli, la natura e una simbologia fatta di immagini e di numeri.

      Luigi Capuana ci offre tutta una atmosfera particolare ed emerge da queste pagine uno scrittore che pur avendo vissuto la stagione del Naturalismo e del Verismo ha sempre cercato nella memoria sommersa dei sogni e dei misteri i segreti del vivere quotidiano.

      La sua prima raccolta di fiabe risale al 1882 e portava, appunto, il titolo di C’era una volta…, mentre al 1894 risale Il Raccontafiabe.

      La fiaba non è soltanto l’espressione di una profonda liricità ma è in modo particolare un modello letterario che non vuole nascondere la realtà anzi la cerca di decodificare raccontando la fantasia.

      Capuana che è l’autore de Il marchese di Roccaverdina (del 1901) trova nella fiaba un modello sperimentale sia in termini di scrittura che di tematicità.

      Giulio Cattaneo ebbe a scrivere che le fiabe di Capuana “rimangono forse l’opera più felice di Capuana, come una prosa svelta, semplificata al massimo, ricche di ritornello, cadenze e cantilene, hanno un incanto singolare e una originale cifra stilistica”. Cattaneo inoltre, sottolinea l’interesse fantastico di queste fiabe e mette in evidenza un fatto importante, che porta alla luce la ricerca stessa di Capuana. Cattaneo sottolinea che le fiabe “non sono nate da un interesse per il patrimonio folkloristico siciliano favorito dalle tendenze positivisti a raccogliere favole e leggende come documenti della psicologia popolare ma invenzioni, frutto di ‘un’esaltazione nervosa che aveva dell’allucinazione’”.

      Giulio Ferroni, invece, dà un’altra versione in merito al Capuana delle fiabe e scrive che “lo scrittore compose attingendo al vasto repertorio del folclore siciliano: nella schematicità e nel ritmo ripetitivo della tradizione fiabesca popolare Capuana inserisce una delicata ironia e un’allegra invenzione fantastica che fanno di queste sua fiabe (…) dei veri e propri capolavori”.

      Ma è lo stesso Capuana che ci consegna questa dichiarazione: “…io assistevo a quella inattesa fioritura di fiabe come a uno spettacolo fuori di me. Appena scritte le sacramentali parole di uso : C’era una volta… i miei fantastici personaggi si mettevano in moto, si impigliavano allegramente in quelle loro intricatissime avventure senza che io avessi punto avuto coscienza di contribuirvi per nulla”.

      Il mondo fantastico di Capuana allora è un mondo fortemente intriso di poesia, di leggenda e di mito. Un mondo che parla e si dichiara con i codici della parola, del ritmo, dei ritornelli, della musicalità. È un mondo di fantasie .

      La cultura popolare è il regno della fantasia. Soprattutto, quando ci sono radici il cui mondo contadino è ben rappresentato. Identità popolare e identità contadina sono il tessuto di una creatività fantastica nella quale il mito è una tradizione, che ci conduce inevitabilmente e forse inavvertitamente agli albori della civiltà. Il discorso diventa, certamente, molto impegnativo perché ci si trova davanti a due strade: quella antropologica, che può avere letture illuministe e quella fantastica, che sconfina nel mistero. Indubbiamente, posto in questi termini, il discorso che riguarda Capuana si sposta verso la seconda strada. I testi sono la dimostrazione più veritiera.

      Al di là della concezione di fiabe vere o veriste o di quella sottoscritta da Italo Calvino, il quale afferma che “le fiabe sono vere”, in Capuana, le fiabe restano la fantasia, il sogno, la simbolicità, appunto. Nella pagine de Il raccontafiabe chi fa da padrona è la Fata Fantasia. Una metafora che esprime in questo caso il vero della sua ricerca e della sua proposta espressiva.

      Il fiabesco e il popolare in Capuana non sono solo rappresentazioni liriche o letterarie ma assumono una valenza esistenziale. La assumono sul piano della scrittura ma anche nella struttura del racconto o nella proposte delle storie.

      Le fiabe entrano in quel concetto di autocoscienza sul Naturalismo siciliano perché in esse la rottura con il Verismo è una valorizzazione, appunto, del fantastico. Mi sembra importante la cesellatura di Gianni Contini sul Capuana: “il più anziano dei naturalisti catanesi, (…) è assai stimabile come narratore in proprio(…) ma non è meno rilevante come rappresentante dell’autocoscienza critica del naturalismo siciliano”.

      Le fiabe rientrano in questa riflessione. Ma restano “una forma di arte così spontanea, così primitiva e perciò tanto contraria al carattere dell’arte moderna”. È una sottolineatura di Capuana del giugno 1882 che ci fa capire l’importanza che avesse, per Capuana stesso, la fiaba . Considerata come arte certamente ma soprattutto come “strumento” per recuperare una tradizione e confrontarla con il moderno.

      In fondo è un raccontare ciò che la realtà nega. Ecco l’autocoscienza rispetto al Naturalismo. L’arte che recupera il fantastico. È questo il messaggio di Luigi Capuana che emerge dalle sue favole. Ovvero del C’era una volta che diventa un Raccontafiabe.

 

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pubblicato il 2 novembre 2009

Illuminante e maledetta poesia

Alda Merini dentro il segno della Passione

 di Pierfranco Bruni

 Il tempo è un assoluto che si intreccia nella misura delle parole e nelle parole che recitano la metafora dell’imprigionamento della vita e della morte. È come se fosse sempre una assenza a far da labirinto dentro la nostra anima e questo labirinto trova la sua compostezza nella consapevolezza proprio di essere labirinto.

Così la poesia che si recita nelle maglie dell’insoluto. Come per dire, o come per dirsi, che tutto si è perduto, tutto si perde o tutto si perderà tra gli scogli dell’indefinibile. Così è la poesia di Alda Merini (Milano  21 marzo 1931 – 1 novembre 2009).

 

Una poesia che non chiede, come la poesia che è impenetrabile e indifendibile nelle “giustificazioni”, di viversi nelle spiegazioni, nei commenti, nelle delucidazioni ma è completamente intrisa di illuminazioni. La poesia come illuminante attesa di ciò che verrà vivendo il vissuto. Un tracciato oltre ogni dimensione della storia. Questa maledetta storia che cerca di penetrare le parole.

 

La storia non vuole riconoscere la pazzia della poesia perché  chiede costantemente di dare un senso alla vita che è stata. Ma quale storia può raccontarsi nelle illuminazioni di una poetica dell’amore, della passione, della sconfitta, della perdizione, della resurrezione, del “Magnificat” di Alda Merini? Può esserci storia. È come se chiedessimo al mistero del poetico di trasformarsi in ragione. È come se chiedessimo all’amore o meglio agli amanti di parlarsi e di definirsi attraverso la razionalità dei fatti e non attraverso la magia dell’incanto.

 

Alda Merini è stata, nell’intreccio delle fantasie, una voce – destino di un Novecento letterario non solo inquieto e assorbente in un “vortice” di sciagurata pietà ma è l’indice di una follia d’amore che ha contemplato le tristezze e le doloranti incertezze in un verso in cui, nonostante l’agonia e l’angoscia, l’ironia tragica ha fatto da scenario.

 

C’è uno scenario anche nella poesia dell’esistenza che non è l’esistenza stessa ma la maledizione come dettato lirico di una rimbaoudiana avversione al tutto scontato. La poesia non è nel tutto scontato. Quella che recita la tensione della morte nella vita e fa dare al verso quest’immagine: “Ho acceso un falò/nelle mie notti di luna/per richiamare gli ospiti/come fanno le prostitute/ai bordi di certe strade,/ma nessuno si è fermato a guardare/e il mio falò si è spento”. Sono versi che risalgono al 1984 e appartengono alla raccolta “La Terra Santa”. Ma tutto il viaggio di Alda Merini è un andare alla ricerca di una terra promessa. Un recitativo poetico che conosce la possibilità degli approdi ma spesso dimentica l’infaticabilità delle partenze.

 

Ci sono partenze nella sua poesia? Ci sono arrivi nella sua disperante voce e nei suoi occhi di fede sgusciata dalle conchiglie di primavera? Non credo che ci sono, oggi che si dovrebbe parlare con il passato tra i battiti delle dita. Non credo che mai ci saranno. Sono convinto che mai ci sono stati. I suoi amori trepidanti sempre in squarci di passione.

 

Giorgio, Salvatore, Michele, Paolo… Che orizzonte possono avere i nomi nella vita tragica di un poeta? Che orizzonti possono avere gli amori quando smettono di essere amore? Gli amori nel segno di una scavata nostalgia restano come “una pioggia spenta”. Già, è così. “Adesso sono una pioggia spenta/dopo che l’orma del tuo cammino/si è fermata ai miei occhi./Che ciglio devastante il tuo!/Come mi penetri le ossa!/Se piangessi, tu verresti a riprendermi./Ma io ho bisogno del mio dolore/per poterti capire” (da “La volpe e il sipario”). Ma quale dolore si è scontato nella vita di Alda Merini? Quello chiaramente della passione o delle passioni. Bisogna andare dentro le parole non per capirle ma per tentare di catturarle.

 

So. Ci sono diversi modi per accostarsi ad un poeta ma da poeta come si può pensare di proporre una contestualizzazione o una pur minima impostazione strutturale o storicista di un poeta. Credo che il dato più serio è quello di definirsi in un confronto. Accostarsi alla poesia non è fare storia della poesia. È ascoltare i passi della poesia in una lettura che è sempre respiro d’anima.

 

Certo. Alda Merini è il destino poetico di un Novecento poetico italiano intrigante che va da Cristina Campo ad Antonia Pozzi, da Sibilla Aleramo ad Amalia Rosselli. Una vita dentro la parola passando con quegli echi al maschile che vanno da Dino Campana a Vincenzo Cardarelli, da Carlo Michelstadter a Cesare Pavese. La dannazione della poesia che è religiosità flebile nel nome di una cristianità raggiunta e infuocata come un fuoco grande e mai fatuo.

 

Maledetta poesia che naviga nei cuori forti che sanno della consapevolezza della vita. Il poeta conosce il crepuscolo prima dell’alba. Non c’è una Venere Alata a far da luce. Tutto è una finzione. Persino la finzione si inventa il poeta. Pur di non vivere nella vita ma di morire vivendo la vita. Come stregati. Ma il poeta è uno stregone e la poesia è una strega.

 

Da “Titano amori intorno” nei versi di “Non voglio dimenticarti, amore”: “La strega segreta che ci ha guardato/ha carpito la nudità del terrore,/quella che prende tutti gli amanti/raccolti dentro un’ascia di ricordi”. Si può vivere al di fuori di questa ascia di ricordi? Aprirsi alle attese proprio mentre queste attese si fanno rivelazione.

 

Il passo verso la Croce, il suo colloquiare con Maria, con Cristo, il suo “Magnificat” non tracciano più passioni ma sono il tempo della Passione dentro il quale la poesia di Alda Merini si è raccolta, si raccoglie, continuerà ad affascinare dalla “casa” dei maledetti che con i loro occhi sanno penetrare le nebbie, le nuvole, le ombre e osservano il vento nel tagliare il filo dell’orizzonte che separa o che unisce, nella pazienza, le solitudini, i sogni, le lontananze.

Essere dentro il sogno della Passione è varcare la soglia restando nella speranza. Così nella poesia di Alda Merini.

 

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