Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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I VALDESI

la storia degli eretici, seguaci di Valdo


La comunità valdese, storicamente consolidata, è poco percepibile all’esterno, per la sua completa integrazione con la società locale.

La minoranza walser è molto caratterizzata sul territorio, anche se appare in declino. La crisi di questa civiltà storica è visibile anche in un declino dei sedimenti materiali che la connotano.

D’altro canto, fino a pochi anni fa, le Istituzioni non hanno mostrato particolare interesse nella promozione di azioni di tutela di queste civiltà storiche.

Da qualche decennio a questa parte, l’attribuzione di un valore positivo alle minoranze si è sviluppato parallelamente agli interventi istituzionali e legislativi di salvaguardia linguistica e religiosa.  

Verso la fine del XIII sec. i seguaci del mercante di Lione, Pietro Valdes, poi detto Valdo, che nel 1174 aveva iniziato a predicare la povertà e la fedeltà assoluta al Vangelo, furono costretti a rifugiarsi in zone rurali e marginali, nelle valli del Pinerolese, per intolleranza della Chiesa di Roma che combatteva l'eresia con l'Inquisizione.

Il movimento dei “poveri di Lione”, o valdesi, poneva alla base della propria dottrina il principio evangelico di “ubbidire a Dio, anzichè agli uomini”, rifiutando, così le gerarchie ecclesiastiche, Papa compreso.

Nel 1215 il IV Concilio Laterano bollò definitivamente i Valdesi come eretici e diede inizio a processi di inquisizione e condanne al rogo.

La prima vittima valdese in Italia, arsa sul rogo a Pinerolo nel 1312, fu una donna.

Nel Medioevo la maggior parte delle valdesi venne bruciata con l'accusa di stregoneria: la parola 'valdesia' significava 'stregoneria'.

La donna venne demonizzata come creatura malefica, bugiarda, ribelle e, quindi, facile preda del demonio.

Ma le accuse di stregoneria nei confronti delle donne valdesi, che predicavano ed insegnavano, erano spesso motivate da invidie ed interessi personali, per colpire personaggi scomodi, donne con idee innovatrici ed originali, che guarivano le malattie utilizzando erbe medicinali.

La persecuzione contro la stregoneria si confuse a quel tempo con quella contro l’eresia.

         Nel 1532 i Valdesi aderirono alla Riforma protestante, soprattutto alla teologia di Calvino, uscendo così dalla clandestinità in cui vivevano, tollerati, in quanto rappresentavano un'utile forza lavoro.

Il valdismo ebbe un importante ruolo propulsore nella diffusione della Riforma protestante di Lutero. Ministri, predicatori itineranti ed emissari (detti “Barba”, zii) predicavano il loro credo in vari luoghi, subendo persecuzioni e condanne a morte.  

Vissero tra tolleranza e persecuzione, ma sempre uniti nella fede, fino al 17 febbraio del 1848, quando il re Carlo Alberto concesse ai Valdesi i diritti civili e politici. Ma il loro culto fu solo tollerato. Da quel momento essi parteciparono alla vita nazionale, prodigandosi soprattutto nel campo dell'istruzione; fondarono molte opere sociali: ospedali, orfanotrofi, case per anziani, scuole; costruirono templi ed estesero la loro azione di evangelizzazione.

Se nelle valli piemontesi il culto valdese (caratterizzato da due elementi: grande semplicità e uso della lingua parlata dai fedeli) conviveva pacificamente con quello cattolico, nelle comunità del sud Italia, sotto il predominio spagnolo, nel 1561 si registrò un’orrenda carneficina delle comunità valdesi stanziate nei territori intorno a Montalto, in Calabria.

Il ricchissimo patrimonio culturale di queste popolazioni è fatto non solo di codici linguistici, ma anche di usi, costumi e tradizioni, dalle matrici mediterranee. Il mare tra le terre è stato mediatore di civiltà; ha messo in comunicazione genti di lingua e culture diverse.

Il Mediterraneo, infatti, è stato il crocevia di processi di civiltà greci, latini, bizantini, arabi, normanni, spagnoli che restano indelebili nel vissuto delle popolazioni calabre.

Quelle terre tra Scalea e San Lucido nel XIV sec. furono in contatto commerciale con i Catalani (anch’essi di lingua occitana) richiamati dal commercio del vino e della seta.

Tracce di queste istanze sono leggibili nella cultura delle comunità di minoranza etnico-linguistica.

Il popolo valdese (che parlava la lingua d’oc) in Calabria, fino quasi alla fine del Cinquecento, visse in rapporti pacifici e di collaborazione con la popolazione indigena, praticando la propria fede prudentemente, dal momento che l’inquisizione cattolica controllava le forme di culto attraverso sportellini (spioncini), apribili dall’esterno, posti sulle porte d’ingresso delle abitazioni.

I calabro-valdesi difesero la loro identità etnica ed il loro credo religioso per molto tempo.

In cambio della cosiddetta “tolleranza”, subivano una serie di vessazioni e di imposte da parte della Chiesa Cattolica, da parte del governo spagnolo e dei feudatari.

La situazione mutò nel 1559 quando giunse presso le comunità valdesi di Calabria il predicatore Gian Luigi Pascale, per alimentare la fiamma dello spirito evangelico. Ma la tenacia ed il misticismo della professione di fede del Barba destò sospetti nelle autorità ecclesiastiche e civili, tanto da iniziare una feroce repressione che culminò, prima nell’arresto e conseguente condanna a morte del Pascale, e poi nell’eccidio del 1561. In quell’anno nel giro di pochi giorni da San Sisto a Guardia, a Montalto, a Cosenza, furono trucidati duemila eretici.

Dalla seconda metà del ‘500 alla metà del ‘600, questa comunità eretica dovette far fronte a tre acerrimi nemici: la Chiesa, i Feudatari e le comunità autoctone.

Quando, infatti, la lotta all’eresia si era allentata, questi eretici erano avversati e controllati (soprattutto nella sfera religiosa) dai comuni cittadini, vicini di casa, con lo scopo di proteggere la moralità della popolazione.

In queste realtà, è chiaro come la comunità valdese, impossibilitata a spostarsi, per l’enorme difficoltà di comunicare e per l’isolamento geografico, nel tempo, fu costretta ad uniformarsi alle regole della Chiesa cattolica. Mentre le Comunità delle valli alpine, vicine ai territori “riformati” dell’Europa occidentale, potevano meglio gestire la loro autonomia e preservare il loro credo religioso.

Le comunità calabro-valdesi, invece, nel tempo furono costrette ad abiurare e persero anche l’uso della loro lingua madre, che  restava appannaggio della fascia più anziana della popolazione.

I Valdesi in terra di Calabria, vivevano in un rapporto cordiale in campo lavorativo con le comunità autoctone, ma non ne condividevano le pratiche religiose che essi perpetuavano in clandestinità, fingendo di essersi uniformati alla regola cattolica.

Erano una comunità (con lingua, religione ed usi propri) dentro la comunità cattolica. In sostanza, mancava la coesione sociale, il senso di solidarietà nella popolazione, di cui i valdesi facevano parte. Tutto ciò è testimoniato dai testamenti calabro-valdesi, redatti dal notaio valdese Filippo Urselli che visse a Guardia. Dall’analisi degli atti emerge una caratteristica importante, ai fini della rilevazione della coscienza etnica della comunità valdese.

I valdesi mantenevano una stretta endogamia matrimoniale e nella trasmissione del patrimonio, generalmente, suddividevano in parti uguali i beni tra gli eredi, cosicchè la donna non veniva penalizzata, come nel Diritto romano. La dote era per la donna la risorsa indispensabile per contrarre matrimonio; ed era uguale per tutte, ricche o povere, di 10 ducati. Con questa dote scarsa venivano scoraggiati eventuali matrimoni con persone di etnia diversa.

La coesione etnica si rileva, altresì, dalla clausola adottata per raggirare l’ordinanza della Chiesa che imponeva di lasciare parte dei loro beni agli ordini religiosi del territorio di appartenenza: gli eretici stabilirono di rispettare tale obbligo, solo in caso di morte di tutti i membri della famiglia; e riservavano, caritatevoli e solidali all’interno del loro stesso gruppo, parte dei loro beni alle persone bisognose.

Il territorio intorno al casale di Guardia, aveva avuto un forte incremento demografico durante il ‘500; questo fattore aggraverà la crisi economica e sociale del secolo successivo.

Infatti, nel secolo buio per la Calabria, che non aveva saputo assicurasi indipendenza economica e la cui produzione, per la maggior parte, veniva gestita dai mercati stranieri, la zone collinari sopra i 330 metri di altitudine, abitate dai valdesi, erano tenute a pascolo, tranne una fascia ristretta del litorale tirrenico, a ridosso del mare, era riservata alle colture specializzate, come agrumi, cedro, fichi, gelsi. Non esisteva una coltura estensiva di frumento e legumi che potesse soddisfare le esigenze della popolazione.

L’attività prevalente era quella agricola. In quel territorio erano fiorenti le piantagioni di gelsi, per la produzione della seta (attività che a San Sisto sopravvisse fino agli anni Trenta del ‘900), e abbondanti i vigneti, in ragione di un clima tipicamente mediterraneo.

Le coltivazioni della vite, dell’ulivo, con le quali – come afferma Tucidide – i popoli del Mediterraneo uscirono dalla barbarie, furono il punto di forza dell’economia dei Greci in terra di Calabria; e la coltura del gelso fu introdotta dai monaci orientali, anche in quella zona, vicina al Mercurion, il centro più importante del monachesimo basiliano.

Agricoltura, pastorizia e artigianato erano le attività del popolo che fino al XV sec. aveva fatto parte dell'impero bizantino.

La presenza documentata di migliaia di alberi produttivi restituisce un'immagine della Calabria bizantina ricca, prima che le guerre e gli scontri continui con gli arabi le facessero perdere la sua centralità nel Mediterraneo.

Resta a testimonianza di tanta barbarie la torre di vedetta che serviva d’avvistamento delle scorrerie saracene, che ha dato il nome a Guardia.

Nel censimento dei fuochi di San Sisto, riportato dall’Amabile ne “Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli” del 1892, risulta che, intorno al 1561, alcune famiglie possedevano una casetta, piantagioni di gelsi, di olive e la vigna con il palmento dentro; e che Guardia prima della strage era abitata da 1200 persone. Sette mesi dopo, nel gennaio 1562 contava circa 158 fuochi.

Le condizioni di vita di quelle comunità rurali, dopo l’eccidio, erano ancor più misere, soprattutto inseguito alla confisca dei beni dei valdesi da parte dell’autorità regia e al clima instauratosi nella popolazione quando fu stabilito un compenso di 10 ducati per ogni eretico catturato. Allora, in tempi di miseria e di fame nera, quella taglia rappresentava una ricchezza, capace di innescare una spietata “caccia all’eretico”.

Gran parte dei beni confiscati a Guardia e San Sisto, valutati intorno ai 5000 ducati, andarono a rimpinguare i possedimenti del marchese Spinelli e dei possidenti del luogo e non verranno restituiti agli eretici, legittimi proprietari, che ne chiedevano la restituzione dopo aver abiurato alla propria fede.

L’accusa di “nicodemismo” (partecipare alle pratiche religiose del cattolicesimo, mantenendo nei propri animi la propria fede interiore) era la giustificazione ai soprusi ed alle persecuzioni nei confronti dei valdesi, che culmineranno nell’eccidio del 1561, così come testimonia la porta principale di Guardia, detta Porta del Sangue, e la piazza di Cosenza, che da allora si chiama piazza dei Valdesi.

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