I VALDESI
la storia degli eretici,
seguaci di Valdo
La comunità valdese, storicamente consolidata, è poco
percepibile all’esterno, per la sua completa integrazione
con la società locale.
La minoranza walser è molto caratterizzata sul territorio,
anche se appare in declino. La crisi di questa civiltà
storica è visibile anche in un declino dei sedimenti
materiali che la connotano.
D’altro canto, fino a pochi anni fa, le Istituzioni non
hanno mostrato particolare interesse nella promozione di
azioni di tutela di queste civiltà storiche.
Da qualche decennio a questa parte, l’attribuzione di un
valore positivo alle minoranze si è sviluppato
parallelamente agli interventi istituzionali e legislativi
di salvaguardia linguistica e religiosa.
Verso la fine del XIII sec. i seguaci del mercante di Lione,
Pietro Valdes, poi detto Valdo, che nel 1174 aveva iniziato
a predicare la povertà e la fedeltà assoluta al Vangelo,
furono costretti a rifugiarsi in zone rurali e marginali,
nelle valli del Pinerolese, per intolleranza della Chiesa di
Roma che combatteva l'eresia con l'Inquisizione.
Il movimento dei “poveri di Lione”, o valdesi, poneva alla
base della propria dottrina il principio evangelico di
“ubbidire a Dio, anzichè agli uomini”, rifiutando, così le
gerarchie ecclesiastiche, Papa compreso.
Nel 1215 il IV Concilio Laterano bollò definitivamente i
Valdesi come eretici e diede inizio a processi di
inquisizione e condanne al rogo.
La prima vittima valdese in Italia, arsa sul rogo a Pinerolo
nel 1312, fu una donna.
Nel Medioevo la maggior parte delle valdesi venne bruciata
con l'accusa di stregoneria: la parola 'valdesia'
significava 'stregoneria'.
La donna venne demonizzata come creatura malefica, bugiarda,
ribelle e, quindi, facile preda del demonio.
Ma le accuse di stregoneria nei confronti delle donne
valdesi, che predicavano ed insegnavano, erano spesso
motivate da invidie ed interessi personali, per colpire
personaggi scomodi, donne con idee innovatrici ed originali,
che guarivano le malattie utilizzando erbe medicinali.
La persecuzione contro la stregoneria si confuse a quel
tempo con quella contro l’eresia.
Nel 1532 i Valdesi aderirono alla Riforma protestante,
soprattutto alla teologia di Calvino, uscendo così dalla
clandestinità in cui vivevano, tollerati, in quanto
rappresentavano un'utile forza lavoro.
Il valdismo ebbe un importante ruolo propulsore nella
diffusione della Riforma protestante di Lutero. Ministri,
predicatori itineranti ed emissari (detti “Barba”, zii)
predicavano il loro credo in vari luoghi, subendo
persecuzioni e condanne a morte.
Vissero tra tolleranza e persecuzione, ma sempre uniti nella
fede, fino al 17 febbraio del 1848, quando il re Carlo
Alberto concesse ai Valdesi i diritti civili e politici. Ma
il loro culto fu solo tollerato. Da quel momento essi
parteciparono alla vita nazionale, prodigandosi soprattutto
nel campo dell'istruzione; fondarono molte opere sociali:
ospedali, orfanotrofi, case per anziani, scuole; costruirono
templi ed estesero la loro azione di evangelizzazione.
Se nelle valli piemontesi il culto valdese (caratterizzato
da due elementi: grande semplicità e uso della lingua
parlata dai fedeli) conviveva pacificamente con
quello cattolico, nelle comunità del sud Italia, sotto il
predominio spagnolo, nel 1561 si registrò un’orrenda
carneficina delle comunità valdesi stanziate nei territori
intorno a Montalto, in Calabria.
Il ricchissimo patrimonio culturale di queste popolazioni è
fatto non solo di codici linguistici, ma anche di usi,
costumi e tradizioni, dalle matrici mediterranee. Il mare
tra le terre è stato mediatore di civiltà; ha messo in
comunicazione genti di lingua e culture diverse.
Il Mediterraneo, infatti, è stato il crocevia di processi di
civiltà greci, latini, bizantini, arabi, normanni, spagnoli
che restano indelebili nel vissuto delle popolazioni
calabre.
Quelle terre tra Scalea e San Lucido nel XIV sec. furono in
contatto commerciale con i Catalani (anch’essi di lingua
occitana) richiamati dal commercio del vino e della seta.
Tracce di queste istanze sono leggibili nella cultura delle
comunità di minoranza etnico-linguistica.
Il popolo valdese (che parlava la
lingua d’oc) in Calabria, fino quasi alla fine del
Cinquecento, visse in rapporti pacifici e di collaborazione
con la popolazione indigena, praticando la propria fede
prudentemente, dal momento che l’inquisizione cattolica
controllava le forme di culto attraverso sportellini
(spioncini),
apribili dall’esterno, posti sulle porte d’ingresso delle
abitazioni.
I calabro-valdesi difesero la loro identità etnica ed il
loro credo religioso per molto tempo.
In cambio della cosiddetta “tolleranza”, subivano una serie
di vessazioni e di imposte da parte della Chiesa Cattolica,
da parte del governo spagnolo e dei feudatari.
La situazione mutò nel 1559 quando giunse presso le comunità
valdesi di Calabria il predicatore Gian Luigi Pascale, per
alimentare la fiamma dello spirito evangelico. Ma la tenacia
ed il misticismo della professione di fede del Barba destò
sospetti nelle autorità ecclesiastiche e civili, tanto da
iniziare una feroce repressione che culminò, prima
nell’arresto e conseguente condanna a morte del Pascale, e
poi nell’eccidio del 1561. In quell’anno nel giro di pochi
giorni da San Sisto a Guardia, a Montalto, a Cosenza, furono
trucidati duemila eretici.
Dalla seconda metà del ‘500 alla metà del ‘600, questa
comunità eretica dovette far fronte a tre acerrimi nemici:
la Chiesa, i Feudatari e le comunità autoctone.
Quando, infatti, la lotta all’eresia si era allentata,
questi eretici erano avversati e controllati (soprattutto
nella sfera religiosa) dai comuni cittadini, vicini di casa,
con lo scopo di proteggere la moralità della popolazione.
In queste realtà, è chiaro come la comunità valdese,
impossibilitata a spostarsi, per l’enorme difficoltà di
comunicare e per l’isolamento geografico, nel tempo, fu
costretta ad uniformarsi alle regole della Chiesa cattolica.
Mentre le Comunità delle valli alpine, vicine ai territori
“riformati” dell’Europa occidentale, potevano meglio gestire
la loro autonomia e preservare il loro credo religioso.
Le comunità calabro-valdesi, invece, nel tempo furono
costrette ad abiurare e persero anche l’uso della loro
lingua madre, che restava appannaggio della fascia più
anziana della popolazione.
I Valdesi in terra di Calabria,
vivevano in un rapporto cordiale in campo lavorativo con le
comunità autoctone, ma non ne condividevano le pratiche
religiose che essi perpetuavano in clandestinità, fingendo
di essersi uniformati alla regola cattolica.
Erano una comunità (con lingua, religione ed usi propri)
dentro la comunità cattolica. In sostanza, mancava la
coesione sociale, il senso di solidarietà nella popolazione,
di cui i valdesi facevano parte. Tutto ciò è testimoniato
dai testamenti calabro-valdesi, redatti dal notaio valdese
Filippo Urselli che visse a Guardia. Dall’analisi degli atti
emerge una caratteristica importante, ai fini della
rilevazione della coscienza etnica della comunità valdese.
I valdesi mantenevano una stretta endogamia matrimoniale e
nella trasmissione del patrimonio, generalmente,
suddividevano in parti uguali i beni tra gli eredi, cosicchè
la donna non veniva penalizzata, come nel Diritto romano. La
dote era per la donna la risorsa indispensabile per
contrarre matrimonio; ed era uguale per tutte, ricche o
povere, di 10 ducati. Con questa dote scarsa venivano
scoraggiati eventuali matrimoni con persone di etnia
diversa.
La coesione etnica si rileva, altresì, dalla clausola
adottata per raggirare l’ordinanza della Chiesa che imponeva
di lasciare parte dei loro beni agli ordini religiosi del
territorio di appartenenza: gli eretici stabilirono di
rispettare tale obbligo, solo in caso di morte di tutti i
membri della famiglia; e riservavano, caritatevoli e
solidali all’interno del loro stesso gruppo, parte dei loro
beni alle persone bisognose.
Il territorio intorno al casale di Guardia, aveva avuto un
forte incremento demografico durante il ‘500; questo fattore
aggraverà la crisi economica e sociale del secolo
successivo.
Infatti, nel secolo buio per la Calabria, che non aveva
saputo assicurasi indipendenza economica e la cui
produzione, per la maggior parte, veniva gestita dai mercati
stranieri, la zone collinari sopra i 330 metri di
altitudine, abitate dai valdesi, erano tenute a pascolo,
tranne una fascia ristretta del litorale tirrenico, a
ridosso del mare, era riservata alle colture specializzate,
come agrumi, cedro, fichi, gelsi. Non esisteva una coltura
estensiva di frumento e legumi che potesse soddisfare le
esigenze della popolazione.
L’attività prevalente era quella agricola. In quel
territorio erano fiorenti le piantagioni di gelsi, per la
produzione della seta (attività che a San Sisto sopravvisse
fino agli anni Trenta del ‘900), e abbondanti i vigneti, in
ragione di un clima tipicamente mediterraneo.
Le coltivazioni della vite, dell’ulivo, con le quali – come
afferma Tucidide – i popoli del Mediterraneo uscirono dalla
barbarie, furono il punto di forza dell’economia dei Greci
in terra di Calabria; e la coltura del gelso fu introdotta
dai monaci orientali, anche in quella zona, vicina al
Mercurion, il centro più importante del monachesimo
basiliano.
Agricoltura, pastorizia e artigianato erano le attività del
popolo che fino al XV sec. aveva fatto parte dell'impero
bizantino.
La presenza documentata di migliaia di alberi produttivi
restituisce un'immagine della Calabria bizantina ricca,
prima che le guerre e gli scontri continui con gli arabi le
facessero perdere la sua centralità nel Mediterraneo.
Resta a testimonianza di tanta barbarie la torre di vedetta
che serviva d’avvistamento delle scorrerie saracene, che ha
dato il nome a Guardia.
Nel censimento dei fuochi di San Sisto, riportato
dall’Amabile ne “Il Santo Officio della Inquisizione in
Napoli” del 1892, risulta che, intorno al 1561, alcune
famiglie possedevano una casetta, piantagioni di gelsi, di
olive e la vigna con il palmento dentro; e che Guardia prima
della strage era abitata da 1200 persone. Sette mesi dopo,
nel gennaio 1562 contava circa 158 fuochi.
Le condizioni di vita di quelle comunità rurali, dopo
l’eccidio, erano ancor più misere, soprattutto inseguito
alla confisca dei beni dei valdesi da parte dell’autorità
regia e al clima instauratosi nella popolazione quando fu
stabilito un compenso di 10 ducati per ogni eretico
catturato. Allora, in tempi di miseria e di fame nera,
quella taglia rappresentava una ricchezza, capace di
innescare una spietata “caccia all’eretico”.
Gran parte dei beni confiscati a Guardia e San Sisto,
valutati intorno ai 5000 ducati, andarono a rimpinguare i
possedimenti del marchese Spinelli e dei possidenti del
luogo e non verranno restituiti agli eretici, legittimi
proprietari, che ne chiedevano la restituzione dopo aver
abiurato alla propria fede.
L’accusa di
“nicodemismo” (partecipare alle pratiche religiose del
cattolicesimo, mantenendo nei propri animi la propria fede
interiore) era la giustificazione ai soprusi ed alle
persecuzioni nei confronti dei valdesi, che culmineranno
nell’eccidio del 1561, così come testimonia la porta
principale di Guardia, detta
Porta del Sangue,
e la piazza di Cosenza, che da allora si chiama piazza dei
Valdesi.
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