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EDITORIALI
Arte
pag. 2
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Editoriali,
recensioni e saggi di arte
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pubblicato il 15 luglio 2010
Il Trionfo d’Amore di Mattia Preti torna alla
pubblica fruizione.
Il dipinto, appartenuto a collezioni private
italiane e straniere, rientrato in Italia, passando
per il mercato antiquario, è stato affidato in
custodia giudiziale alla Soprintendenza per i Beni
Storici, Artistici ed Etnoantropologici della
Calabria, in seguito a recenti indagini per il
recupero dell’opera condotte dal Comando Carabinieri
Tutela del Patrimonio Culturale dei Nuclei di Torino
e Cosenza.
La tela sarà esposta nella Galleria Nazionale di
Cosenza, dove andrà ad aggiungersi al considerevole
nucleo di opere del Cavalier Calabrese, già
in mostra.

La tela, che documenta le forti influenze neovenete
nell’attività di Mattia Preti intorno al
quinto decennio del Seicento, propone un’eccellente
trattazione del tema dell’Amor omnia vincit.
La complessa struttura iconografica suggerita dal
committente, l’abate Antonio degli Effetti, nobile
erudito e collezionista d’arte della Roma barocca,
mostra al centro della scena Cupido con occhi
bendati mentre incede vittorioso sul carro
trionfale, incurante delle conseguenze procurate dai
suoi dardi nella circostante moltitudine di coppie
sopraffatte dalla passione amorosa, un corteo
sconfinato di personaggi biblici, mitologici, epici,
di filosofi e letterati che testimonia la resa della
ragione e della forza all’ineluttabile potere
dell’amore.
L’opera è esposta nell’ala ovest di Palazzo Arnone,
in una sala appositamente dedicata, adiacente ai
nuovi spazi espositivi che hanno da poco accolto la
ricca collezione di dipinti di Banca Carime.
L’allestimento, in linea con i moderni
criteri museali già adottati, asseconda l’esigenza
di un’efficace comunicazione e valorizzazione del
dipinto, prevedendo quinte sceniche in pvc,
pannelli didattici e proiezioni video.
Ufficio stampa:
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed
Etnoantropologici della Calabria
Silvio Rubens Vivone
- Patrizia Carravetta
Tel.: 0984 795639 fax 0984 71246
E-mail: sbsae-cal.ufficiostampa@beniculturali.it
ph.
di Attilio Onofrio
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pubblicato l'8 maggio 2009
PROPOSTE 2009 - SOLO AL FEMMINILE
"Sanmicheleinisola" - Mostra di Gabriella Di Trani
5 - 22
maggio '09
- Studio Arte Fuori
Centro - Roma
di
Ivana D’Agostino
L’installazione Sanmicheleinisola aggiunge
allo sperimentalismo artistico di Gabriella Di
Trani un ulteriore e maturo tassello con cui
definire in modo sempre più totalizzante la sua idea
di evento espositivo, da lei concepito da sempre
come un oltre che travalica i fini di una
riduttiva esposizione di quadri.
 Premesse
precoci d’altronde si diedero già con la
performance del 1981 Narciso allo specchio e
i suoi dodici libri di legno; un’operazione in
nuce già installativa e orientata al coinvolgimento
dello spazio, che prevedeva l’artista seduta su di
un alto trono di legno, il cui volto, riprodotto in
un immagine, si rifletteva specularmente nel
teschio dipinto in uno specchio posto di fronte.
Approfondimenti ulteriori, tra gli altri, si ebbero
anche con Il viaggio di Serapide, un evento
espositivo complesso del 2000, che lungo il percorso
a più ambienti della galleria, spaziava dai dipinti
all’azione performativa ai costumi e alle
attrezzerie di scena, progettati dall’artista
artefice, inoltre, delle Macchine del Tempo.
Già allora, chi scrive ebbe a dire, a proposito del
lungo budello pensato dalla Di Trani come elemento
scenico dal quale come a forza entravano e uscivano
i danzatori, che era come se, attraverso di esso,
venisse ripercorso il travaglio della vita e della
morte.
 Le
considerazioni sul trascorrere del tempo da cui
derivare la conseguente ciclicità del rapporto
vita-morte attraverso una rigenerazione costante,
sono argomenti di riflessione attorno ai quali ruota
gran parte della ricerca di questa raffinata e
cerebrale artista, il cui lavoro da sempre va
coniugando livelli culturali di comunicazione
alti con altri intenzionalmente bassi ed
allusivamente dissacratori. È così che al linguaggio
neo-pop da sempre praticato, esaltativo di immagini
di comunicazione di massa brillantemente colorate,
anche in questa occasione l’artista affida, quasi
irriverente, una personale riflessione catartica sul
dualismo vita-morte, reso più fluido, e meno
oppositivo nel definire confini troppo certi,
dalla persistenza della memoria che li sovrappone
e confonde ininterrottamente.
San
Michele, cimitero monumentale di Venezia cinto da
imponenti mura che lo rendono misterioso, separato
dalla città in quanto creato su di un isola che si
raggiunge oggi col vaporetto per Murano, e anni
addietro in gondola, come mostrano le foto del
trasporto delle spoglie di Diaghilev nell’isola
dei morti della Laguna, nell’acqua, che ne
dichiara simbolicamente il confine che lo disgiunge
dal mondo, identifica il principio e la fine
della vita.
In
Sanmicheleinisola, ultima dimora di grandi
artisti internazionali come Stravinskij, Diaghilev,
Ezra Pound, Emilio Vedova, Felice Carena, Luigi
Nono, l’atmosfera si carica di vibrazioni perenni,
percepibili nell’aria nel continuo divenire di
segni e forme, frasi musicali e poetiche che “si
muovono [e si muoveranno] intorno a noi per
sempre”.
Da
questa percezione del luogo, vivo perché vivo e
attuale è il contributo dato all’arte dai grandi
artisti citati, la Di Trani ha maturato il senso
della sua installazione: tre muri di lapidi,
ordinate, tutte uguali coi loro nomi scritti con gli
stessi caratteri, macchiate a tratti di macchie
verdastre di muffa, perimetrano tre lati dello
spazio espositivo simulando l’affaccio sul grande
giardino quadrato, costruito sull’area del convento
camaldolese sul cui impianto fu edificato il
cimitero monumentale di San Michele. Un’icona,
questa, al cui stato di composta, malinconia e
intima riflessione fanno eco le musiche originali
di Luigi Parravicini, Composizione d’acqua.
Alle
immagini provocate visivamente da questo montaggio
musicale realizzato registrando e rielaborando
suoni e rumori di temporali, scrosci d’acqua,
gocce di pioggia che cadono, mulinelli di torrenti
e ruscelli, corrispondono i vari toni della voce,
più acuti o più bassi in ragione dell’altezza dei
suoni, con cui la Di Trani recita ritualmente ed
in modo oracolare suoi versi onomatopeici ispirati
al fluire dell’instabile e sfuggente elemento.
Queste
musiche ispirate all’acqua di Parravicini, e la voce
recitante dell’artista che in triplice tonalità gli
si accorda, stabiliscono insieme la sequenza di
immagini da proiettare, in scansione incrociata, sui
tre muri di lapidi dell’installazione, filtrandole
attraverso il tremolìo vibrante di un effetto
acqua, che mano a mano, colorandosi di giallo,
magenta, viola e verde annulla il grigiore
marmoreo e cimiteriale del luogo. Accesa così dai
vivacissimi colori delle proiezioni,
Sanmicheleinisola si trasforma in un’esperienza
polisensoriale, capace di acquisire a sé anche i
“rumori e gli odori che attraversano
l’isola”.
La
dimora del sonno eterno, pur non perdendo il suo
intrinseco significato di riflessione sulla
transitorietà della vita, così come non disattende,
col suo portato simbolico, considerazioni sulla
infinita persistenza della memoria, trova oggi
nuova espressione nell’ esorcizzante vanitas
contemporanea, realizzata dalla Di Trani secondo il
suo caratteristico e riconoscibile stile, già dagli
esordi interessato a queste riflessioni, come si è
appunto riscontrato nel suo citato Narciso allo
specchio.
In
luogo della policromia sontuosa e teatrale dei
marmi delle macchine sceniche dei monumenti funebri
barocchi, l’artista utilizza le immagini proiettate
con effetto discoteca dei suoi fulmini saettanti in
cieli disseminati di coloratissime e macroscopiche
nubi. L’acqua, uno dei temi portanti di questo
progetto, lo è anche della sequenza proiettata.
Alternati i fulmini con il fluire d’immagini
allusive alla vita che si forma sospesa nel liquido
amniotico, e alla sua perdita, cui sottendono i
volti di persone care indefiniti nei tratti per lo
scorrere dell’acqua – si tratta di un dipinto del
1995 di recente ripubblicato dall’artista nel
Codice Di Trani -, le conclusive immagini
della serie - fiori eccessivi rigorosamente
sgargianti, e annaffiatoi altrettanto colorati che
simulano fiotti d’acqua scroscianti su odorosi
omaggi floreali portati a coloro che non sono più –
scongiurano la paura della morte dissacrandola ai
nostri occhi con un segno estremo, assolutamente
beffardo.
La
composta malinconia del grigiore marmoreo del luogo
esorcizza la sua destinazione di ultima dimora in un
ironico e caleidoscopico esercizio neo-pop, tangente
certe esperienze, tese a scuotere gli animi dei
presenti, caratteristiche del teatro e dei films
surrealisti.
La
catarsi di San Michele, contraltare veneziano ed
altrettanto crepuscolare della böckliniana Isola
dei morti avviene attraverso l’esplosione
gioiosa, estranea al senso della misura, del prato
verde smaccatamente finto, che punteggiato di
sovradimensionati e coloratissimi fiori altrettanto
gilardianamente finti, perimetra come un tappeto i
tre lati dell’installazione di Sanmicheleinisola.
Rigoglioso nel denunciare la sua natura
spudoratamente artificiale, il prato e i fiori
richiamano alla mente la funzione energetica e
vitalistica dell’acqua , a cui alludono
annaffiatoi elogiativi di un kitsh
coloratissimo e infiorettato, paradossali nella
loro assoluta e meravigliosa incongruenza al
luogo, disposti molto ironicamente sul fondo
dell’installazione, sorretti da una minimale
stuttura in ferro.
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pubblicato il 3 maggio 2009
Il mare tra le brughiere e i fiumi tra le luci e le
ombre nella pittura
di Salvatore Carrozzo.
di
Marilena Cavallo
 Il
mare e le brughiere, l’acqua e le mareggiate, i
ponti e il fiume, lo scorrere del tempo tra le maree
che sono paesaggio e si fanno immagine in una
visione in cui lo specchio è un ricamo dell’anima
oltre che una definizione di una realtà nella
geografia del territorio e poi i fiori che sono
colore in un intrecciarsi di scorci che richiamano
gli oblii: il tutto in uno scenario che fa di
Salvatore Carrozzo un riferimento pittorico nella
temperie di questo nostro quotidiano.
Quattro
momenti (fiumi, mare, fiori, scorci) segmentano la
ricerca di Carrozzo che si definisce soprattutto nel
colore che ha sfumature e nelle ombre offerte da una
tavolozza che si confronta costantemente con il
cangiare delle stagioni. Ci sono di mezzo sempre le
stagioni. Non sono soltanto le stagioni che
accompagnano la ciclicità del nostro vivere. Ci sono
anche quelle stagioni che decorano il sentimento del
percepibile nell’indefinibile. Sembrerebbe tutto
definito ma nell’artista non c’è nulla di scontato e
tanto meno di definibile.
Le
mareggiate sono l’inquieto scorrere delle ore tra i
silenzi che si aggomitolano nell’immobilità – non
fissità dell’esistere e il colore e la forma
costituiscono l’estetica del pensiero che si fissa
sulla tela. Ma può esistere una pittura, come questa
di Carrozzo, senza l’esercizio armonico della
musica.
La
musicalità non è soltanto nella parola. È nel
linguaggio. I linguaggi sono anche dentro l’onda,
sono un ramoscello, sono il vento, il principio
dell’angolo di quei “Sentieri bagnati” che
raccontano con il ritmo, appunto, del colore che
recita intorno ai “Balconi sui Sassi” o tra le case
di un Sud che non ha nenie ma scavi
nell’antropologia del cuore o nelle “intermittenze”
proustiana che richiamano echi mai mascherati e
sempre vissuto come meteore che si raccolgono nel
nostro non perdere la carezza di una mimosa che
ondeggia o “venteggia” tra i glicini, i garofani e
la pioggia che è acqua.
L’acqua, dunque. Ovvero “Giochi d’acque” tra le
“correnti” i “riflessi” e i “miei” fiumi
ungarettiano che hanno il respiro dell’erba nelle
“trasparenze” che danno un senso al “Meriggio sul
fiume”. Ma l’acqua non è soltanto riposo, attesa,
pazienza, alba o crepuscolo. L’acqua è il marinaio
che osserva, è la scogliera che si lascia squarciare
o ferire, è un “Gioco di azzurri” nello spazio che
montalianamente accoglie il “meriggiare” che cade
sulle litoranea nonostante il sollievo delle nubi
che si lascia attraversare dai “capricci”.
Le nubi
hanno sempre capricci. Certo. Ma Carrozzo ha
“trasparenze”, anzi la sua pittura vive nelle
trasparenze che non sono solo i colori ma i
paesaggi. Tutto, alla fine, diventa paesaggio. Anche
il Sele è scenario di un paesaggio, anche la
“mareggiata” è il paesaggio che penetra la battigia
portando sulla spiaggia i cocci del primo mattino.
La costiera è nel tramonto e il tramonto è un
disegno nel semicerchio del golfo. Il colore è
dunque musica. Nel tocco di una corda di chitarra e
nel leggero danzare delle dita che delineano la
forma di una sabiana “Città vecchia”.
Un
raccordare la vita non nella storia soltanto ma in
quella clessidra delle immagini che solca il nostro
stare tra le fotografie e il narrare la fotografia
che ci portiamo dentro. Ciò che abbiamo visto, ciò
che vediamo, ciò che osserviamo non ci abbandona
nella fuga. Anche in un piccolo frammento o
filamento segna il pendolo del nostro sguardo.
L’artista ha bisogno di questo pendolo. Non per
misurare le ore. Ma per non perdere ciò che ha visto
– vissuto. E tutto resta negli occhi. L’immagine –
realtà sta oltre il nostro sguardo.
Così le
marine o i fiumi, i paesaggi e il profumo dei fiori
sono una “trasparenza”. Non possiamo fare a meno di
questo andare tra le acque e la terra o le terre. La
pittura è in questo intrecciare, in una armonia –
disarmonia, lo spazio al tempo tra i granelli di
terra e le gocce d’acqua. Si ritorna al senso del
sentiero originario.
Salvatore Carrozzo raccoglie i “sensi incantati” di
uno straordinario guardare dal di dentro il di
fuori. L’arte non è solo nel visibile. Carrozzo lo
sa. L’invisibile è stato visibile e disegna ciò che
noi viviamo nell’ascolto di un silenzio percepito.
Il percepire per rendere forma. Una estetica della
filosofia dell’arte che è racconto. Con il colore si
dà forma e dando forma, Carrozzo, certamente
racconta.
Nella
foto da sin: Marilena Cavallo e la giornalista
Carmen Lasorella
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pubblicato il 27 marzo 2009
LA DONNA NELL’ARTE DI BOCCIONI
di Adriana de Gaudio*

la madre
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L'antigrazioso
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Ignoto, abisso, inconscio, immenso, luce, sole,
fiamma: sette note-chiave che si rilevano dal
contesto delle teorie di Umberto Boccioni (Reggio
Calabria 1882 - Verona 1916), epigone del Futurismo;
note che, pur nella loro sonorità timbrica, di eco
marinettiana, permettono di far captare, nella
complessa rapsodia dei vari manifesti e trattati,
l’autenticità del tono di voce del Boccioni
prefuturista, artista portato alla ricerca di
definizioni, propenso a cogliere e ad assimilare le
varie suggestioni di esperienze culturali diverse
(Balla, Previati, l’Impressionismo, l’Espressionismo
tedesco, il pensiero evoluzionistico di Bergson, il
superomismo nietzscciano), per poi, nella fase
futurista, operare una sintesi dinamica di forme e
spazio, percepiti simultaneamente attraverso linee-
forza, colori -forza.
Prima di orchestrare questi elementi sporadici in
una pittura e scultura d’avanguardia, Boccioni nel
periodo formazionale e preparatorio, si sofferma su
temi iconograficamente tradizionali, ma che servono
all’artista per creare “stati d’animo”: un’esigenza
di natura romantica che Boccioni sentirà anche dopo
che Martinetti, ostile ad ogni sorta di
sentimentalismo, acclamerà “la bellezza della
velocità nello spazio”. Dal rapporto arte-scienza
Boccioni, nella prima maniera, evade con temi più
intimisti: la figura della donna, tanto oltraggiata
da Martinetti, attirando, invece, il suo interesse,
trova l’ archetipo nella rappresentazione della
madre. Soggetto molto caro e ripetuto nell’arte
bocconiana, l’immagine materna segna l’iter
spirituale ed estetico dell’artista, destinata a
sanare i salti stilistici e a recuperare il filo
logico, concettuale e strutturale nella continuità
evolutiva del segno.
Ne La madre che lavora a maglia (1907)
Boccioni mostra il travaglio disegnativo e
coloristico, volto a definire il volume per mezzo
della linea e del colore. Ripresa nell’interno della
casa, in un cantuccio solitario, accanto al tavolo,
di fronte alla finestra, la donna è ripresa di tre
quarti, dal basso, in una prospettiva quasi a
sghembo che permette, attraverso le sporgenze e le
rientranze dei volumi,di seguire la gradazione della
luce, la quale smorza i colori e rende l’atmosfera
più calda, più intima, familiare. Composizione che
richiamerebbe la spiritualità del Fattori nel
ritratto La mamma che cuce (1871), se
non si evidenziassero scampoli stilistici
dell’Impressionismo.
Più vicino all’arte di Balla per la taccheggiatura
rapida del colore, Boccioni nel Ritratto della
pittrice Adriana Bisi Fabbri (1907) colloca il
busto della donna in primo piano; spostandolo verso
sinistra, inquadra la pittrice tra un covone e un
tronco d’albero che lasciano intravedere lo sfondo
degli alberi. La nota di spicco è data dal grande
cappello viola in sintonia col colletto della
camicetta anch’esso viola, colore che emerge dalla
gamma dei complementari binari giallo-verde,
verde-azzurro. L’accensione coloristica, solare,
rende la sensibilità della pittrice, sensibilità
velata di tristezza, stato d’animo messo in luce
dalla velatura d’ombra creata dalla falda del
cappello.
Di stato d’animo diverso appare La maestra di
scena (1909). In quest’opera Boccioni,
servendosi di colori accesi, d’estrazione
espressionista, rivela particolari decorativi,
liberty, la suggestione che vuole creare attorno al
soggetto, il quale annulla l’ambiente, assorbendolo.
Rapporto, dunque, di soggetto con l’ambiente che nel
periodo milanese approfondisce con risultato già
dinamico. La lezione del divisionismo di Balla, la
conoscenza di Previati e subito dopo del
neo-impressionismo francese rendono Boccioni più
sensibile alla luce.
In Studio di testa femminile del 1909,
iconograficamente Boccioni ricorda Profumo di
Russolo, ma il pittore calabrese svela la sua
segreta inclinazione per le scienze occulte. Come in
una specie di ectoplasma, filamenti di colori
avvolgono il volto della donna, che viene fuori da
una lingua di fiamma, la quale tende a convogliarla
nel buio, fuori del quadro. Predomino, nel fuoco
artificiale dei colori, lampi giallo-verde, rosso
viola-blu. Da quest’opera si evince che Boccioni
cerca, quale novello Tranquillo Cremona, di
raggiungere coloristicamente e luministicamente
effetti emozionali, senza però cadere nello
sdolcinato.
Nel ritratto La signora Massimino ( 1909), l’
opera forse più apprezzabile del periodo milanese,
Boccioni dimostra di essere un eccellente
disegnatore e un bravo colorista.
In questo dipinto il rapporto forma-spazio,
soggetto-oggetto si fa più serrato. Come nel
ritratto della madre che cuce, la signora Massimino
sta seduta nell’interno di una stanza, ha un libro
tra le mani, non legge; il suo sguardo fissa un
punto lontano, fuori del quadro; la finestra, che
occupa buona parte della parete di fondo, immette
l’ambiente esterno nell’interno, occupato solo dal
soggetto che diventa parte integrante. La conoscenza
del neo-impressionismo si avverte nella resa dello
spazio-luce dell’esterno e dalla polverizzazione dei
colori tenui. La nota dinamica bocconiana si coglie
invece nelle sagome dei viandanti nella strada,
figurine riprese mentre camminano isolatamente e in
direzione diverse, incomunicabili tra loro. In
questa dimensione spazio-temporale il particolare(
le case, la carrozza, il camion, la gente, la
Signora Massimino), fermato nel tempo, diventa
universale. Questo ritratto porta già i semi
dell’evoluzionismo bergsoniano che tanto dovrà
influire nell’opera futurista del Boccioni.
Richiami espressionisti si evidenziano ne Il
lutto (1910) e in Idolo moderno (1911).
L’assunto noldiano emerge nella prima opera dove
permangono residui dell’arte simbolista; i
colori sono accesi, l’espressività grottesca delle
figure raggiunge il macabro della maschera. Due sono
le donne che si scapigliano e piangono, ma
inquadrate nella loro gestualità teatrale pare che
si moltiplichino in altre immagini. Effetto virtuale
che serve per poter raggiungere al climax del
dramma, ma il dolore si stempera in una sorta di
seduta spiritica; si notino lo svolazzio delle fulve
chiome, mosse come da una presenza extrasensoriale
mentre lievitano nel buio insieme con le mani, in
mezzo a enormi fasci di fiori sgargianti.
Il gusto per l’ignoto, per l’abisso si manifesta
anche in Idolo moderno. Boccioni sfoggia la
sua bravura di luminista, giocando con il
complementarismo dei colori; crea delle dissonanze
tra di loro, fino ad arrivare all’effetto dei
particolari decorativi: l’ovale della donna,
proiettato in primo piano da una traiettoria di luci
metalliche, è messo in evidenza dalla linea di
contorno viola, dal rosso scarlatto delle labbra,
dallo sguardo spiritato. Il tocco magico è dato
ancora una volta dal cappello, non più esemplificato
come quello della pittrice Bisi, ma reso ancor più
vistoso dai fiori sgargianti che risaltano sopra le
falde vibranti di luce. Una Circe che s’affaccia dal
suo antro, misteriosa, malefica,incantatrice.
Ė l’ultima opera questa, in cui la linea, il colore
e la luce compiono la loro missione lirica. In
Madre che legge(1910) Boccioni va alla
ricerca dei valori plastici; il ricordo cézanniano
affiora dalla struttura vigorosa della figura, che
occupa con la sua dimensione il primo piano e
annulla lo spazio. Il disegno molto più incisivo e
la luce molto più diretta sono impiegati a costruire
il volume. Quest’opera si può considerare
prefuturista, in quanto anticipa quel che è scritto
nel Manifesto del 1910: “Per dipingere una figura
non bisogna farla, bisogna farne l’atmosfera.” Se
l’atmosfera qui si avverte, nel Ritratto della
madre a mezza figura seduta (1911) si respira.
La figura della madre perde le caratteristiche
fisionomiche per seguire la legge della
scomposizione facciale, mediante piani orizzontali.
Uno sgranarsi di volumi nella luce che penetra come
lama nella materia, lasciando emergere dalle pieghe
l’ombra, componente essenziale allo scavo
psicologico. In quest’opera affiorano accenti
picassiani e grisiani, destinati a confluire nella
scultura e a trovare un’impronta autentica dello
stile futurista del Boccioni. In Antigrazioso
(La Madre, 1912) la penetrazione nell’inconscio
porta l’artista alla ricerca razionale del es.
L’opera vede il raffronto madre-figlio non più sotto
la tradizionale forma di pietà michelangiolesca,
pietà che, in Michelangelo, da semplice
compianto-dimostrazione, diventa tramite d’ascesi al
divino, divino che Boccini non cerca mai di
raggiungere, preso com’è a definire la materia, a
penetrare nel sub-materia, per giungere fino
all’origine: il grembo materno.
Un viaggio a ritroso, tutto interiore, regressivo,
fino alla fase prenatale; a questo punto viene
istintivo porre un parallelo con il protagonista di
Aracoeli di Elsa Morante, per quel che di
ambiguo affiora nel rapporto madre-figlio, ma nel
romanzo della Morante persiste, se bel vediamo
nell’iter narrativo, una tensione eroica di riscatto
morale, in Boccioni, come scrive Calvesi, madre e
materia sono un tutt’uno e si tratta di una
materia “cozzante, metallica,artificiale da cui non
si risale all’idea di madre-natura, ma piuttosto di
una madre artificiosità:un’artificiosità che ha in
comune con il caos primigenio lo stato germinale.”
E così che Boccioni approda, con tutte le sue
implicazioni e complicazioni estetiche e
filosofiche, al futurismo.
Per essere autore del suo tempo sa che deve
integrarsi nella civiltà tecnologica ed industriale
e lo fa, acclamando il progresso, la bellezza della
velocità, anche se questa ucciderà il tempo e lo
spazio e soprattutto il pensiero. Svuotato dall’io
pensante, l’uomo-grido di Munch è diventato in
Boccioni un robot, destinato a vivere forse nel
tremila in una città, dove non si noteranno più
“quelli che restano” perché a restare non saranno
neanche le donne, né “ quelli che vanno” perché in
una società alienata e mistificata, non si può
sapere se si va verso la distruzione o, dopo tutto
questo caos, si va verso la palingenesi.
Boccioni con la scultura Antigrazioso (1912),
opera davvero inquietante dal punto di vista
concettuale più che da quello formale, suggerisce
una particolare lettura e conclusione:
l’aggrovigliarsi dei piani plastici che si tendono e
si ritraggono nel cavo materno sotto una pulsazione
lenta, materica, fa pensare ad un rapporto
incestuale ab-initio tra madre-figlio,
rapporto che si potrebbe verificare con la
fecondazione artificiale in vitro, risultato non
assurdo, ma verosimile, mirato a sanare la
lacerazione del distacco ombelicale e a facilitare
l’emancipazione eugenica, ma a scapito del valore
umano e dell’eticità del sentimento.
-
Questo
breve saggio è inserito insieme agli articoli di
Calvesi, Apuleio e Grisi in L’antico e il nuovo
in Umberto Boccioni, edito dal “Centro Studi
Corrado Alvaro - Roma”, giugno 1984 -
*
Critico d’Arte
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pubblicato il 13 marzo 2009
Caravaggio ospita Caravaggio
Mostra - BRERA 1809-2009 -
dal 17 gennaio al 29 marzo 2009
di Adriana De Gaudio
Compie
duecento anni la Pinacoteca di Brera, inaugurata per
la prima volta il 15 agosto del 1809, in occasione
del genetliaco di Napoleone Bonaparte, re di Italia.
In verità, esisteva già dal 1778 una prima raccolta
di opere e disegni ad opera di Carlo Bianconi, primo
segretario dell’Accademia di Brera, a cui si
aggiunsero altre opere confiscate in tutta Italia
agli ordini religiosi, per ordine di Napoleone nel
1805. Si deve all’artista Andrea Appiani, allora
commissario governativo delle Belle Arti, l’aver
successivamente ordinato cronologicamente la
collezione di capolavori provenienti da tutta Italia
che oggi arricchiscono la galleria.
Questa ricorrenza viene festeggiata con un
susseguirsi di mostre interessanti che si snoderanno
per tutto l’arco del 2009 .
La nostra attenzione si concentra sulla prima
affascinante esposizione che mette a confronto
quattro opere di Michelangelo Merisi, detto
(Caravaggio, Bergamo, 1573- PortoErcole, Grosseto,
1610). Affiancano il celebre dipinto la Cena
in Emmaus (foto) (1606), presente a
Brera fin dal 1939, altre tre stupende opere,
appartenenti alla produzione giovanile: Il
ragazzo col canestro di frutta
(1593-1594), proveniente dalla Galleria Borghese di
Roma; Il Concerto (1594-95) concesso dal
Metropolitan Museum di New York; la prima versione
della Cena in Emmaus (1596), giunta
dalla National Gallery di Londra.
La differenza stilistica tra la prima e la seconda
produzione artistica del grande pittore lombardo si
coglie dal confronto tra le due Cene. Diversa
l’atmosfera in cui si svolge la scena, diverso lo
stile e il linguaggio. Nell’opera giovanile
londinese si respira il clima dell’arte lombarda,
influenzata dal luminismo del Lotto, del Savoldo e
del Peterzano, con rimandi anche ai veneti e ai
manieristi fiamminghi. Caravaggio indugia sui
dettagli, enfatizza i gesti di stupore, rivelati
dalla luce chiara che avvolge le figure senza
renderne i volumi. Il Cristo risorto siede al centro
del tavolo, coperto da una candida tovaglia. Si
presenta imberbe “dal volto androgino, tra il
maschile e il femminile come le immagini
paleocristiane del Buon Pastore, non già in quelle
di un uomo maturo come richiederebbe la sua età.
La giovinezza è un segnale della vita eterna, di
cui il Cristo fa dono ai fedeli…” (Calvesi). L’atto
benedicente del Risorto è rivolto, al cibo posto
sulla tovaglia e ai discepoli che subito riconoscono
il Maestro. L’inatteso svelamento del Risorto
suscita diverse reazioni. Il discepolo, che vediamo
seduto di spalle, incredulo, si solleva sui
braccioli, nell’atto di alzarsi dalla seggiola;
l’altro, seduto accanto a Gesù, spalanca le braccia,
quasi mimando la croce. Sulla giacca porta appuntato
una conchiglia, la quale connota il discepolo come
pellegrino “ in viaggio per fede”. L’oste, non
menzionato nei Vangeli, avvalora la convinzione di
Caravaggio che Dio si manifesta agli umili. Ė in
piedi, bloccato dall’emozione. La resa espressiva
dei volti trova un forte riscontro nell’analisi
realistica dei particolari: i vestiti laceri dei
discepoli, i segni della loro vecchiezza, la
splendida “natura morta” costituita dal pane, una
rosetta, dal cappone, dalle brocche di acqua e di
vino, dal magnifico canestro di frutta, visto in un
ardito trompe-l’oeil. Il canestro siglerà altre
opere giovanili del Merisi, per essere a se stante
nel dipinto(1597), sito nella pinacoteca ambrosiana
di Milano.
Nella seconda Cena il linguaggio di Caravaggio
mostra una profonda maturità stilistica, dovuta a
episodi drammatici che hanno segnato la sua vita.
Diversamente dalla precedente, la scena evangelica
si svolge in un ambiente buio. La luce, guidata in
senso registico, parte da un punto impreciso del
dipinto, scava i volti delle figure, illumina la
mensa, lascia in ombra il resto. Il Cristo, pensoso,
solleva la bellissima mano in atto di benedire il
pane spezzato. La natura morta qui è limitata
all’essenziale. Il pane e il vino evocano
l’Eucarestia, il piatto di insalata suggerisce
l’ambiente misero della locanda, dove sono presenti
l’oste e una serva. Particolarmente caratterizzato,
il volto rugoso e scarno dell’anziana donna è reso
con realistica forza espressiva.
Il ragazzo col canestro di frutta
è secondo alcuni un autoritratto eseguito allo
specchio, invece penso che sia un modello,
utilizzato in altri dipinti. Colpisce il “furor
lunare” che fa schiudere le labbra carnose del
giovane, interpretato da alcuni studiosi come
languido spasmo d’amore. Il tema coniuga giovinezza
e natura in un accordo armonioso di elevata fattura
stilistica. La luce morbidamente accarezza la
figura, lasciando alle sue spalle una vellutata
penombra. Si apprezza la composizione anche per
l’armonizzarsi dei colori: il nero della ricciuta
chioma del ragazzo si sintonizza con quello degli
occhi, dei chicchi lucidi di uva, dei fichi rugosi;
il rosso delle mele con quello delle ciliegie; il
verde delle foglie digrada tonalmente.
Il Concerto,
opera commissionata dal cardinale Del Monte, è
un’allegoria musicale.
Un suonatore di liuto e uno di corno stanno per
provare gli strumenti, prima di iniziare il
concerto. Un altro giovane tiene in mano lo spartito
mentre il suo strumento musicale, il violino, è
adagiato sul tavolo insieme agli altri spartiti. I
giovani vestono abiti classici. A quanto si dice,
per questo dipinto hanno posato gli stessi musici,
ospiti nel palazzo Giustiniani. I modelli si sono
prestati per altri dipinti: Bacco,1596-97(
Firenze,Uffizi), Il fanciullo col canestro di
frutta, sopra esaminato.
Il suonatore di corno si suppone sia l’autoritratto
di Caravaggio. Al trio musicale si unisce un quarto
giovane che sembra eludersi da contesto: è curvato
in avanti, in atto di prendere un grappolo d’uva.
Alle spalle del giovane si intravedono le ali e al
suo fianco la faretra:entrambi attributi di Cupido,
la cui presenza motiva la destinazione amorosa del
concerto. Di solito Cupido è raffigurato con l’arco
in mano non con una manciata di acini. Nell’Iconologia
di Cesare Ripa, opera dedicata al Cardinale Del
Monte, si legge che sia la musica sia il vino
aiutano a sollevare lo spirito. Se osserviamo bene
il dipinto,però, l’atmosfera che si respira non è
affatto allegra, anzi si coglie un senso di
spossatezza dai giovani corpi e un velo di
malinconia dai loro sguardi umidi.
INFO: Pinacoteca di Brera - Via
Brera, 28 Milano
Orario:8,30- 19,15
Chiuso il lunedì
Biglietto: 10 euro
Per informazioni e prenotazioni:
02 72263204 |
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pubblicato il 9
marzo 2009
UMBERTO BOCCIONI INNAMORATO DELLA PRINCIPESSA
VITTORIA COLONNA.
PUBBLICATE LE LETTERE
DI UN AMORE E DI UNA STORIA INCOMPIUTA
di Pierfranco Bruni
È
tempo di celebrazioni futuriste. Il Futurismo non
solo come modello di cultura o come proposta di una
innovazione linguistica ma anche come “esigenza”
esistenziale.
Si è futuristi se si ama il rischio. Si è futuristi
se la concezione della vita è una costante impresa
fatta di rivoluzioni nelle idee. Si è futuristi se
il colore supera il suono della parola o se le ombre
dei colori attraversano il “metallico” delle parole.
Si è futuristi alla Marinetti ma anche alla
D’Annunzio. Gli amori di D’Annunzio sono stati amori
futuristi? D’Annunzio certamente amava la
rivoluzione ma sapeva che l’amore ha bisogno della
tradizione. E non spazzavano via i sentimenti, gli
imbrogli amorosi, i tradimenti. L’amore non è
soltanto dare o religiosamente donare ma gli amori
tra gli amanti diventa colore e, dunque, impresa.
Per i futuristi non era naturale avere un amante o
una amante ma l’amore diventa, in modo trasgressivo,
passione. Ho detto passione e non ossessione.
Ebbene, questo amore futurista non conosce
ricompense ma neppure nostalgie o rimpianti, perché
lo si vive nella “penetrazione” fulminea, nella luce
abbagliante, nel sentiero che non si fa orizzonte,
nella durata che è parentesi ma mai fine. Ancora
D’Annunzio ci ha insegnato che gli amori si vivono
superando le romanticherie.
Il teatro diventa fondamentale. L’amore futurista ha
bisogno di teatro e proprio il Gabriele nazionale ha
messo in piazza i suoi amori. Uno tra tutti: quello
di Eleonora Duse. Un amore inquieto ma riposante. Un
amore-recita ma un intenso.
D’Annunzio anticipa il teatro futurista proprio
mettendo in piazza e nel teatro della vita e non
solo della finzione i suoi amori e quello con
Eleonora diventa un “fuoco” mai spento anche se la
cenere riesce a mascherare ma il bravo attore sa
tenere la scena. E i futuristi sapevano che
bisognava tenere la scena e custodire il retroscena
consapevoli che la ribalta va gestita.
Cosa è stato l’amore di Umberto Boccioni con
Vittoria Colonna?
Un futurista emblematico che è riuscito a portare il
colore nello sfrecciare dello spazio senza mai
misurare il tempo e disperdendo i tratti e i segni.
Cosa è stato questo amore? Una parentesi. Lo dice
molto bene un libro (tutto da leggere) di Mariella
Caracciolo Chia che racconta proprio questa passione
– risorgimento dell’anima tra l’artista e una
principessa.
Appunto Boccioni che era nato a Reggio Calabria
quando incontra la principessa Vittoria Colonna,
sposata, da quindici anni, con Leone Caetani di
Teano, ha trentatrè anni. La principessa ha due anni
più dell’artista.
Un incontro fulminante. Proprio, come si dice oggi,
una attrazione fatale? Una parentesi dunque.
Il titolo del libro che raccoglie le lettere tra i
due amanti racconta il loro viaggio: “Una
parentesi luminosa – L’amore segreto fra Umberto
Boccioni e Vittoria Colonna” edito da Adelphi.
Boccioni ha un destino tragico. Siamo nel 1916.
L’ultimo incontro con Vittoria avviene il 23 luglio.
Boccioni muore tragicamente a causa di una caduta da
cavallo il 17 agosto. Tra il 23 luglio e il 17
agosto non ci sarà alcun altro incontro tra i due ma
delle lettere.
L’ultima lettera di Vittoria viene trovata
addirittura nel portafogli di Umberto quando la
tragedia lo colse. Il futurista innamorato della
principessa. Quel rivoluzionario del colore e delle
forme si innamora perdutamente di una principessa e
la principessa si tuffa in quell’amore smanioso e
pazzesco come sono tutti i grandi amori che vivono
di lune e di tramonti e sanno che la realtà esiste.
Umberto e Vittoria non si smarriscono nel sogno.
Sono disperatamente innamorati e si stringono tra i
silenzi e i graffi della passione.
Umberto in una lettera importante dirà alla sua
Vittoria: “Quello che c’è tra noi è una profonda
realtà, è nato come realtà. Per quanto poco prima ci
siamo conosciuti poi simpatizzato, poi… poi c’è il
nostro segreto quel meraviglioso crescendo che ci ha
condotto di castità in castità alla nostra casta
voluttà! Oh! Le nostre notti! Il tuo pallore,
il tuo smarrimento, il mio terrore la nostra
infinita comunione di corpo e di spirito. Divina
mia, lo sento che mi vuoi bene, un po’ più di quando
me lo misuravi con avarizia sulla punta del ditino…
Rammenti? Come sono tuo! Come ti sono fratello e
amico, come ti ammiro, sempre, ad ogni respiro,
sempre! Sempre!”.
Certo, si tratta di una intensità di passione e
cuore. Il futurista che sapeva amare con il sapere
che non può conoscere le ragioni ma la grazia del
cuore. E questo futurista che è rimasto nella storia
dell’arte e che ha tracciato il viaggio più incisivo
di una avanguardia culturale ha saputo amare fino in
fondo sempre condividendo il legame tra arte e vita
e mai confondendo la vita e l’arte.
Non si tratta di una recita che entra nella vita o
viceversa ma di una realtà. È questo il punto.
Vittoria apprende della morte di Umberto il giorno
dopo e lo apprenda addirittura dai giornali in un
trafiletto che portava questo titolo: “Il pittore
futurista Boccioni muore cadendo da cavallo”.
Qualche giorno dopo Vittoria scrive al marito
iniziando la lettera così: “Amore mio…”.
Umberto era morto il 17 agosto e Vittoria il 22
agosto scrive al marito chiamandolo amore mio. Oltre
il futurismo c’è il destino. È proprio vero che i
futuristi il senso dell’ironia (o della beffa) lo
vivevano intrecciandolo a quello del tragico
disperatamente cercando di “uccidere” quel chiaro
di luna che resta a fare ombra tra le attese e i
cammini del viaggio.
Boccioni ha saputo essere futurista sempre
disperatamente e la sua morte tragica e l’amore con
la principessa Vittoria restano il segno tangibile
di un attore che non ha mai saputo indossare
maschere, convinto che la vita è nell’arte e l’arte
è nel colore che dà forma alla vita. |
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pubblicato l'11 marzo 2009
L’ANIMA PITTORICA DI MATTEO CURCIO
Questo
giovane catanzarese, privo di diplomi di Accademie e
di Istituti o Licei
d'Arte,
munito della sola Licenza di Scuola Media Statale,
con una breve esperienza presso l'Istituto
Alberghiero di Soverato e, ancor di più, con una
notevole "concimazione di vita" acquisita nei due
anni in cui ha vestito il Saio di Postulante presso
il Convento di San Francesco in Paola, possiede il
meraviglioso dono, concessogli da Madre Natura con
la benedizione di Nostro Signore, di saper dipingere
in maniera veramente eccellente al punto da poter
essere annoverato negli appositi elenchi dei
"Guinness", visto che le sue mani, i suoi occhi, la
sua mente e soprattutto la sua ANIMA, fanno
"roteare" pennelli e colori partorendo opere d'arte
pregevoli, preziose, inestimabili e che mandano
letteralmente in tilt chi si sofferma ad ammirarle,
rimirarle, soppesarle sotto tutti gli aspetti
possibili, da ogni angolazione ammissibile. Dipinge
tutto, di tutto e di più ed ogni suo capolavoro ti
parla, ti descrive minuziosamente come è...venuto
fuori....ti dice che quei "titoloni" accademici che
altri artisti posseggono e ne fanno gran sfoggio,
sono soltanto "pezzi di carta" di fronte ad un
pittore di tale portata naturale, ad un giovane
che...non lo ho domandato nè a lui nè ai suoi cari
genitori...forse dipingeva con un ditino nel mentre
era accoccolato nel grembo materno.
Al di
là delle tante Mostre cui ha partecipato e dei mille
e mille paramenti sacri realizzati per gli Altari
del Santuario di Paola, le 12 TELE rappresentanti
gli ultimi momenti della Vita di San Francesco di
Paola, destinate, poi, ad "incorniciare" il famoso
CALENDARIO PER IL QUINTO CENTENARIO DELLA MORTE DEL
GRANDE TAUMATURGO CALABRESE, sono un autentico,
solenne, estasiante incanto e gli occhi di San
Francesco ne sono fieri, il Suo Sacro Bastone sembra
lo scettro più prezioso del mondo, il Suo Saio su
cui attraversò lo Stretto di Messina appare come un
approdo di pace e serenità, quella Barba bianca ed
incolta che discende dalle rughe della saggezza e
santità è come uno sprazzo di neve che parla d'amore
umano, bontà e benevolenza ed accende pensieri di
fratellanza allontanando odio, invidie, gelosie,
pene e sofferenze, circondandoti in una immensità di
calore. Al caro Matteo gli auguri più sinceri per il
raggiungimento di vertici altissimi, per il
posizionamento superbo sui giusti Altari della Vita,
per la urgente conquista di mete ambìte, meritate, e
degne di poter ospitare il suo sorriso, il suo
ingegno, le sue mani che sprizzano colori e natura
da ogni pur misero poro!!!
N.B:
Matteo ha dipinto il Calendario sul Cinquecentenario
di San Francesco di Paola, in assoluto stato di
semicecità in quanto in quel periodo venne colpito
da una preoccupante "ulcera settica corneale".
dott.
Vito Curcio
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