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    Editoriali, recensioni e saggi di arte

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pubblicato il 1 Apr 2007

MUSEO DELLE ICONE E DELLA TRADIZIONE BIZANTINA

Frascineto  Piazza Albania

 

Frascineto si arricchisce di un altro prezioso bene culturale: il Museo delle Icone e della Tradizione Bizantina.
Unico, nel suo genere, in Calabria, e tra i pochissimi in Italia, il Museo offre per la prima volta alla portata del pubblico la ricca collezione, oltre 500 pezzi, dell'Archimandrita Paolo Lombardo di Roma, oltre alla nutrita "Raccolta Ferrari" costituita da un congruo numero di elementi.

Il Museo, sorto per volere dell'Amministrazione Comunale arbëreshe guidata dal sindaco Domenico Braile, d’intesa con l’Assessorato regionale alla Cultura, guidato da Sandro Principe, rappresenterà un polo di attrazione culturale dedicato all'arte, alla spiritualità, alla storia ed alla liturgia bizantina.

L'intento dell'istituzione non è solo espositivo ma anche informativo sulla funzione delle arti in rapporto al culto secondo i criteri voluti dall'organizzatore, il prof. Gaetano Passarelli (Docente di Storia e Civiltà Bizantina, UniRoma Tre).
Il Museo costituisce perciò il primo momento di acquisizione delle conoscenze strettamente legate all'ambiente circostante italo-albanese di tradizione bizantina. Il percorso è, infatti, interno ed esterno. Quello interno è articolato sui tre livelli che materialmente costituiscono l'edificio. Il primo presenta un carattere propedeutico e didascalico che introduce nel mondo bizantino. Nel secondo vi sono esposte le icone. Non mancano particolarità e pezzi rari. Il terzo livello ha diversi settori: icone in bronzo usate dai Vecchio-credenti russi e su smalto, arredi sacri e paramenti liturgici di foggia greca e russa. Vi sono esposte anche rare edizioni di libri liturgici dei secoli XVII-XX.
Il percorso esterno permette di vedere tradotte nella realtà quotidiana le conoscenze acquisite sull'icona e la tradizione bizantina. Si possono visitare, quindi, la chiesa attigua dell'Assunta (sec. XVIII), la chiesa di San Basilio ad Ejanina e la chiesa di San Pietro, monumento nazionale (secc. X-Xl /XVII).
Emblema del Museo è l'aquila bicipite imperiale bizantina con inciso sul petto la scritta IC XC NIKA (Gesù Cristo vince), testimone dell'identità cristiana dell'Impero, per sottolineare la continuità di legame e di fede con i propri antenati.

Le icone

Le icone non sono opere d'arte secondo il concetto occidentale, ma opere destinate attraverso il disegno e la simbologia dei colori a trasmettere un messaggio sacro ed essere venerate.
Il loro raggruppamento è stato perciò fatto per tematica al fine di sottolineare il principio base dell'iconografia espresso al Concilio Niceno II (787) in cui si dice che l'arte è del pittore, ma quel che è rappresentato è compito della Chiesa. Questo perché fedeli di ambiti geografici e lingue diverse potessero cogliere quanto raffigurato pur nella varietà degli stili.
La collezione di icone esposta è di oltre 250 pezzi, provenienti da varie località della Russia, Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia. Presentano stili e maestranze diversi, fatture di alto livello e popolari. Vi sono icone da chiesa e di devozione familiare espresse in forme e dimensioni varie.
Si possono così contemplare icone semplici e popolareggianti accanto quelle impreziosite da cornici e rivestimenti metallici (rize); icone dipinte secondo la tecnica tradizionale (tempera e uovo) accanto a quelle dipinte a tecnica mista (tempera-olio); icone su legno e su smalto; di bronzo o su tela dipinta ad olio. Si tratta in gran parte di icone che coprono un arco di tempo che va dal XVII agli inizi del XX secolo.

Paramenti e arredi

La tradizione bizantina è suggestiva nelle celebrazioni liturgiche perché presenta accanto ad una ricchezza di testi, una grande espressività pregna di simbolismo e di mistica orientale.
Questo perché la liturgia terrena deve essere un riflesso di quella celeste. I paramenti diaconali e sacerdotali con i loro colori, ricami e stoffe particolari, appaiono vicino agli austeri abiti clericali in modo da permettere di avere un'idea dell'abbigliamento quotidiano e di quello rituale nella sua composizione. Sono esposti modelli greci e russi cuciti negli anni '30 e '40 dal sarto, maestro Francesco Ferrari, di felice memoria, per suo fratello, papàs Sepa, già parroco di Frascineto. Vi sono calici russi, patene, incensieri, lampade e arredi liturgici in argento provenienti dall'ambito balcanico, spesso finemente cesellati secondo le tradizioni dei vari popoli o dovuti a maestranze che operavano sotto influssi stilistici ottomani. La loro disposizione permette non solo di ammirarne la fattura ma soprattutto di conoscere il significato e il loro uso.

Il medagliere

All'ingresso del Museo è stato esposto anche un altro settore della grande collezione dell'Archimandrita Lombardo comprendente 280 medaglie celebrative di vari avvenimenti civili e religiosi (centenari, commemorazioni, beatificazioni, canonizzazioni, ecc.), essenzialmente pontificie che abbracciano vari pontificati (da Clemente XIII -1773- a Giovanni Paolo II -2005). Vi sono perciò medaglie coniate dalla Zecca dello Stato, dalla Scuola Vaticana e da rinomati laboratori italiani ad opera di grandi maestri.
Il settore presenta una sorta di introduzione dei vari passaggi che portano alla creazione, alla elaborazione e alle tecniche di confezione di una medaglia per permettere poi una maggiore consapevolezza del valore artistico e compositivo di ogni pezzo.
Si tratta di una raccolta rara e inconsueta, posta in espositori originali che permettono la visione di ambedue le facciate. Pur non avendo un legame diretto con la peculiarità del Museo, è stata esposta per arricchire il patrimonio espositivo e trasmettere lo spirito del collezionista spesso non dedito a raccolta di opere di un solo settore.

Nella foto a sin: Il sindaco di Frascineto Braile e l'assessore Principe inaugurano il Museo delle icone bizantine, dopo la benedizione del Papas Bellusci.

Nella foto a dex: Il prof. Gaetano Passarelli con l'assessore Principe e la Prof.ssa Zanoni nelle sale del Museo.

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pubblicato il 23 giugno 2006

LA PRIMAVERA NELL'ARTE

La primavera nell’arte – petali in poesia (2006) – di Adriana De Gaudio
è voce del cuore che illumina 77 pagine patinate (17X24) in cui convivono, in perfetta simbiosi, espressioni di comunicazione solo apparentemente diverse: pittura e poesia.
Rigoroso, chiaro e coinvolgente può essere definito il libro di un’intelligente e sensibile studiosa su un tema amato da artisti di tutte le epoche (poeti, pittori, musicisti): la primavera, mito arcaico di bellezza e rinnovamento.
La stagione dell’energia che si rinnova, rappresentata ora in chiave descrittiva, realistica, ora in chiave simbolica, metaforica, astratta, fa bella mostra in un “percorso virtuale” di cui l’Autrice stabilisce le coordinate temporali.
Nelle pagine del saggio rivivono capolavori d’Arte che la De Gaudio indaga con grande acume critico, guidando il lettore alla conoscenza dei loro diversi aspetti (iconografici, iconologici, stilistici, attributivi).
E lo fa con la consapevolezza di chi sa di parlare anche ad un pubblico di “non addetti ai lavori”, sempre più spesso giovani, che hanno sempre relegato la storia dell’Arte in un’area riservata a pochi intenditori.
Questo testo, con forte impatto visivo e comunicativo, con chiarezza particolare, ci offre l’opportunità di viaggiare nel mondo dell’Arte, scoprendone i suoi significati nascosti, enigmatici, di non sempre facile lettura.

Maria Zanoni

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pubblicato il 13 Feb 2006

L’EROS ASCENDE AL DIVINO

L’ultima produzione di Ulrico Schettini Montefiore

di Adriana De Gaudio

Nel distinguere la capacità pratica dell’homo faber, che produce “quanto gli necessita”, da quella intellettiva dell’homo sapiens, portato a visualizzare ciò che pensa e contempla attraverso il disegno, Ulrico Schettini Montefiore (Castrovillari,1932), molti anni addietro si era chiesto,dopo una lunga dissertazione, (Addio Jonia!, 1990) se “la sapienza viene prima della capacità grafica, se ne è il preludio, la condizione, il veicolo, la causa efficiente”. A questo suo postulato potrei dare una risposta solo oggi, dopo aver seguito molto da vicino l’evolversi dell’arte di Schettini Montefiore dall’immanente al trascendente. Da temi più disparati a quelli sacri.

Senza alcun dubbio ritengo Montefiore un grande disegnatore. Il disegno è il mezzo espressivo che caratterizza la sua formazione stilistica; l’io pensante guida la mano dell’artista che, attraverso il tratto della matita o del pennello, fissa nella forma la sintesi del processo selettivo mentale e visivo, dal quale scaturisce l’idea. Dall’immediato abbozzo grafico incipit l’opera che poi viene elaborata e perfezionata nel tocco finale.

Montefiore, da questo punto di vista, è homo sapiens nel significato di assaporare, derivante dal verbo latino sàpere. Egli infatti ha la capacità di percepire le cose nel profondo, di coglierne e gustare il valore.
La sapienza, essendo uno dei sette doni dello Spirito, precede e accompagna l’atto del suo disegnare. Gitano per il mondo, Montefiore compie quotidianamente esperienze sia sul piano speculativo che su quello etico. Ha alle spalle una vasta cultura artistica e una profonda conoscenza umana, che gli consentono di creare un rapporto vero con la realtà. La realtà, che egli trascrive, non è solo quella che vediamo, controlliamo e tocchiamo con mano, ma anche l’altra che spesso ci sfugge. Grazie a questo suo saper vedere e sentire, Montefiore interpreta, in modo personale ed originale, i soggetti che rappresenta.

Da qui l’autenticità del segno e del linguaggio di Ulrico, la cui personalità si esplicita proprio attraverso il disegno, ideogramma straordinario, che registra le pulsioni emotive, spesso parossistiche, causate dal furore dell’eros. Ma l’eros, che è alle radici della sua arte, non è generato dall’istinto carnale, che predomina sulla ragione, al contrario ascende al divino. Montefiore è un credente cattolico; mosso da una fede profonda, non sconfessa la ragione ma la integra. I suoi disegni, ispirati ai testi sacri, il Vecchio e il Nuovo Testamento, lo confermano.

Per comprenderne la validità, bisogna premettere che il nostro Artista, pur conoscendo la “storia” del disegno, attraverso lo studio dei grandi maestri, non è molto ossequioso verso le regole. Egli non persegue, infatti, la perfezione formale, ma la resa espressionista. La figurazione, eseguita in modo sommario ed immediato, con una scrittura che asseconda la mutazione di stati d’animo, presenta una volumetria spesso prorompente e sproporzionata, a tutto vantaggio dell’espressività intensa dei volti. Molti sarebbero gli esempi da citare, mi limito ad un accenno sui lavori condivisi: l’“Evangelo secondo San Luca” nella versione di Giovanni Diodati (Lucca, 1576-1649), pastore calvinista protestante, considerato eretico dalla Chiesa e ultimamente riabilitato. In questi tempi di apertura al dialogo interreligioso, l’interpretazione grafica dei passi più significativi di questo testo del Seicento, di eccezionale valore linguistico, messo all’indice nel 1617, per una correzione calvinista riscontrata (L’Annunciazione, Luca, 1,28), attesta come tra l’artista Montefiore e il biblista Diodati si stabilisce, per affinità elettiva, un rapporto paritario di sintesi espressiva.

Diodati adopera la lingua toscana d’origine, accessibile ed avvincente per l’immediatezza e per l’efficacia della parola, Montefiore un linguaggio sonoro e greve, scevro da idealismi formali, mirato a comunicare concetti teologici in forma leggibile. I disegni risultano acuti e penetranti (la linea di contorno si presenta ora mordente, ora incisiva, ora dolce ed evocativa), in simbiosi con la scrittura di Diodati.

Altra preziosa sua rappresentazione grafica spicca nella selezione di opere pittoriche di artisti del passato e del Novecento, a fianco delle mie poesie, ispirate alle Donne della Bibbia (Donne Bibliche nell’Arte: un’interpretazione poetica, 1993). Con vigoroso ed essenziale tratto di penna, Montefiore schizza le figure femminili più note, toccandone anche l’aspetto psicologico. Emergono dal suo album di donne: Eva, la moglie di Lot, Giaele, Giuditta, Rut, Susanna, la donna innamorata del Cantico dei Cantici, ripresa con soavità di sentimento, nelle sequenze dei versetti (7,3-8,5). Riguardo alle protagoniste del Nuovo Testamento, egli dà un’interpretazione non in chiave metafisica ma umana. La sua grafica scarna ed essenziale, nella scena delle pie donne al Sepolcro, porta soprattutto a riflettere sulla tomba vuota del Cristo e ad accettare per fede la Verità salvifica della Resurrezione.

In ultima analisi, quando Montefiore combina il disegno con i colori, realizza opere di pittura di grande suggestione. Restando nell’ambito della tematica religiosa, mi piace ricordare la serie delle “sue” Madonne in trono col Bambino. In questi dipinti la linea, condotta in modo armonioso e fluida, ha valore funzionale e decorativo. Da un lato, mettendo in risalto la corposità dei Soggetti, valorizza l’aspetto umano, dall’altro campisce i colori nel percorso armonioso e pacato della pennellata. Un omaggio all’iconografia tradizionale, per quanto riguarda l’impianto prospettico, ma Montefiore punta non sulla regalità della Vergine, posta sul trono, ma sulla maternità in senso universale, resa molto teneramente. In questi dipinti l’eros si evolve in agape. L’amore materno della Vergine, nel dono ablativo di sé al Figlio, si trasforma in divino.

La variazione sullo stesso tema, proposta da Montefiore in più versioni, mi richiama le sequenze di una meravigliosa poesia di Jean Paul Sartre: “È fatto di me”. Ne riporto alcune strofe, riconducibili alle sunnominate icone: (La Vergine) “lo guarda e pensa: questo Dio è il mio bambino/ Questa carne divina è la mia carne./Egli è fatto di me, ha i miei occhi,/ e questa forma della bocca è la forma della mia,/mi assomiglia: Egli è Dio e mi assomiglia./ E nessuna donna ha avuto il suo Dio per sé sola,/ un Dio piccolino che si può prendere tra le braccia….”



In attesa della Parusia

Cartone disegnato di Ulrico Schettini Montefiore

Dacché Ulrico S. Montefiore si è iniziato all’arte sacra, gli si è aperta una visione più ampia e luminosa della vita. I soggetti, tratti dalla Bibbia, non sono una stereotipa raffigurazione episodica ma comunicano, con grande forza ed efficacia stilistica, concetti didascalici, sapienziali o teologici. Nel raffigurare vetrate, Montefiore inalvea il fuoco dell’ispirazione nelle immagini, realizzandole, con destrezza magistrale, in una raffinatissima grafica, congiunta alla pittura.

Grande successo ha riscontrato, nel dicembre scorso, l’inaugurazione ad Osimo della vetrata Tobia e l’arcangelo Raffaele che Montefiore ha eseguito per il Salone Pisana Grimani. La storia biblica, scandita in tre tempi, si visualizza in una sinfonia di linee e di colori che ammaliano lo sguardo per l’eleganza decorativa ed il ritmo della linea flessuosa e continua, per l’accordo tonale dei colori brillanti, che manifestano la presenza del divino. I volti dei protagonisti presentano un’espressione intensamente dolce, pacata anche nella sofferenza.
Un vero capolavoro, attestante la maturità stilistica di Montefiore e la profondità della sua fede religiosa, è il cartone disegnato a Lima per una finestra centrale: un’opera grandiosa, non messa in opera a causa delle vetrerie locali, sfornite di materiali pregiati.

Il tema sacro, che ancora una volta Ulrico affronta, è una sintesi alta del Vangelo, interpretato dall’artista in chiave personale, sociale e antropologica, per essere fruito da etnie diverse del Perù, paese povero, ma fervidamente credente, dell’America del Sud.

La vetrata della finestra (53 mq), che doveva essere istoriata, presenta nel progetto la forma di una croce rovesciata. Nella parte estrema del braccio longitudinale prende forma umana La Trinità: Uno in tre Persone uguali e distinte, le quali siedono in posa ieratica, in uno spazio tripartito, con le mani congiunte, immobili nel tempo. Al centro, Dio Padre, contraddistinto dal triangolo dietro al capo; alla sua destra il Figlio, con la corona di spine; alla sua sinistra lo Spirito Santo, connotato dalla colomba sul capo. Sul piano visivo le tre Persone sono identiche, sul piano della fede si dà per certa la consustanzialità, secondo il dogma. Montefiore come i peruviani, non ha ombre di dubbio, crede nella rivelazione. Il legame tra loro si evince dalla base del triangolo, attributo di Dio Padre, il cui lato orizzontale idealmente coordina il Figlio e lo Spirito. Altre relazioni si individuano nello svolgersi degli episodi evangelici sapientemente concatenati.

Sul lato corto orizzontale della croce, a sinistra dell’osservatore, è raffigurato il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Cristo, in piena luce, sulla sponda del mare, con le braccia alzate, ha l’aspetto di un orante. Per terra si vedono cesti di vimini colmi di pani e di pesci. Sorpresi e felici, gruppi di persone, con costumi tradizionali peruviani, esternano, con ampi gesti delle mani e col suono di strumenti musicali, la loro gratitudine. Il disegno a carboncino traduce con adeguatezza le diverse reazioni emotive degli astanti, la dinamica del racconto miracoloso, indugiando sulla descrizione decorativa degli abiti peruviani e su quella naturalistica dei cesti. Un particolare attrae l’attenzione: la donna peruviana con la sua bambina attorno ad un cesto di pani. Lo stato di miseria in cui versano, le isola dal resto della folla. Montefiore, particolarmente partecipe, ritrae l’umile mamma, con gli occhi chiusi, avvolta nel suo mantello, con un cappello a cloche sul capo.

All’esaltazione dell’evento soprannaturale, successivo al completo abbandono degli affamati alla divina Provvidenza, fanno da contraltare i simboli del male e della violenza, raffigurati sul braccio destro della croce, in relazione all’episodio del Cristo deriso. In un angolo, i soldati con le armi puntate, su cavalli imbizzarriti, sembrano scagliarsi contro il Cristo alla colonna. La fisionomia delle gigantesche figure, deformate fino alla bestialità da un disegno espressionista forte ed incisivo, esprime l’ottusità umana, riconducibile allo stile mordente di H. Bosch. L’istinto, non sorretto dalla ragione, determina il manifestarsi del male, contraddetto però dalla pietas delle donne penitenti, vestite in morado, abito di color viola che esse indossano nella solenne processione di fine ottobre. Sono figure femminili macilenti, poste in disparte, con lo sguardo smarrito, rivolto al Cristo, portano ceri. Cristo, Figlio dell’Uomo, è una figura nitidamente vigorosa, vittima innocente che, assumendo su di sé i peccati del mondo, assolve il compito per cui è stato mandato da Dio sulla terra: redimere, attraverso il suo olocausto, l’umanità.

Il messaggio di Montefiore nel suo “poema” evangelico figurato va oltre la morte: la risurrezione di Cristo lascia aperta in tutti i credenti la speranza del suo ritorno, alla fine dei tempi. Non apocalittica la scena finale, ma un inno gioioso che accompagna la deflagrazione della terra. Dalle buche emergono corpi avvolti da lenzuoli bianchi, rinati alla vita eterna. Uno scenario toccante, di grande effetto, preludio della Parusia. La luce della grazia copiosa scende dalla Trinità, non sotto forma di raggi, ma di bianche colombe, emanazione dello Spirito.

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pubblicato l' 11 Marzo 2006

Mostra di Antonello da Messina

di Adriana De Gaudio

Alle Scuderie del Quirinale in Roma dal 18 marzo al 25 giugno 2006: mostra di Antonello da Messina.


Le Figure di Vergini nella pittura di Antonello da Messina

Considerato il più grande pittore dell’Italia meridionale della prima metà del Quattrocento, Antonello da Messina, figlio dello scalpellino o marmoraro Giovanni e di Garita (Margherita), è conosciuto anche nel campo artistico nazionale ed internazionale.

Nasce a Messina tra il 1425-30, ivi muore nel 1479.

Lacunosa, in alcune tappe, si presenta la datazione del suo itinerario artistico. Dalla testimonianza di una lettera, inviata dall’umanista napoletano Pietro Summonte al veneziano Marcantonio Michiel (1524), pubblicata dal Nicolini nel 1925, si apprende che Antonello riceve la prima formazione artistica presso la bottega di Colantonio a Napoli, forse tra il 1445 e 1455. Il trasferimento di Antonello nella capitale del nuovo regno ha una motivazione: la Sicilia, dopo il passato glorioso arabo-normanno, vive un momento di arretratezza culturale rispetto al centro Italia, dove si afferma, ad opera dei Medici, il Rinascimento.

Napoli, invece, grazie all’insediamento del re Alfonso d’Aragona, proprietario di opere di Jan Van Eyck e di Rogier van der Weyden, e promotore culturale, gode di una benefica vitalità artistica e letteraria. Alla corte vengono ad intrecciarsi correnti fiamminghe, spagnole e provenzali, di cui il pittore siciliano recepisce l’influenza, supportata anche dall’insegnamento del maestro Colantonio, seguace dell’arte fiamminga.

La componente fiamminga, evidenziata dall’uso della tecnica ad olio, che dà brillantezza ai colori, e dall’ analisi dettagliata dei particolari, la conoscenza di Piero della Francesca e di Beato Angelico, avvenuta probabilmente a Roma prima del 1460, l’incontro a Venezia con Giovanni Bellini tra il 1474-75, lasciano una traccia nell’opera di Antonello, il cui stile presenta purezza e perfezione formale, intensità cromatica, plasticità e maestosità delle figure.

Dal corpus che assembla opere autografe e altre a lui attribuite, emergono soggetti sacri e ritratti. Dal primo repertorio richiama l’attenzione la figura di Maria che l’artista messinese diversifica in più versioni, pur tra loro correlate stilisticamente. La Vergine annunciata (Como, Museo Civico) viene attribuita ad Antonello dal Longhi (1953) e dal Bologna(1977). L’opera, indubbiamente del periodo giovanile, rivela la conoscenza dei fiamminghi. Dipinta su tavola dorata, la Vergine ha l’aspetto monacale per il copricapo ed il soggólo che le incorniciano il volto, e ne fanno risaltare i lineamenti marcati, il naso prominente e l’espressione assorta degli occhi lievemente asimmetrici. Somigliante, ma più viva l’immagine della Vergine leggente (Venezia,collezione privata), la quale plasticamente si distanzia dal fondo buio.

Questa opera giovanile è definita dal Fiocco (1950) “una creatura pungente, dalle mani lunghe e quasi predaci, dal volto sigillato fra le bende tormentate…” Le mani esili, sollevate a reggere il libro aperto, rese così “espressive”, fanno ricordare altre mani di Vergini che Antonello fa “parlare” invece dello sguardo. La presenza di due angeli, con corona di gigli e mughetti, emblemi della purezza di Maria, sospesa sul suo capo, richiamano l’iconografia della Madonna Salting (Londra, National Gallery). Questo dipinto giovanile di Antonello attesta l’assimilazione stilistica dei fiamminghi in una visione rinascimentale italiana.

La Madonna, vista di tre quarti, col Bambino tra le mani, a posto del libro, si colloca saldamente nello spazio. D’imponenza scultorea, il volto si precisa in un tipo di bellezza di impronta meridionale, anzi siciliana. I capelli neri, aderenti al capo, pongono in risalto l’incarnato bianco, il taglio marcato sopraciliare e degli occhi schiusi e della bocca sottile, le rigide e perfette orecchie. Preziosa la corona sorretta da due angeli, sontuoso l’abito nei toni caldi del marrone, decorato con perle e pietre. Tocco finale: una veletta bianca trasparente, bordata, le scorre dal capo. Il dipinto su tavola viene datato tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio del decennio seguente.

Di memoria pierfrancescana, per la saldezza dei volumi e per l’astrazione formale del volto, la Vergine leggente (Baltimora, Walters Art Gallery). Iconograficamente riconduce alla Madonna Salting, con la differenza che questa è ripresa nell’atto di leggere il libro. Meno discussa dagli studiosi l’attribuzione ad Antonello della Vergine annunciata, 1473-74 (Monaco Bayerische Staatsgemäldesammlungen), la quale richiama, per la posizione incrociata delle sue mani emotive, l’Annunciazione, 1474, tavola trasportata su tela, molto rovinata (Siracusa, Galleria Nazionale) e, per il rinnovamento iconografico, la Vergine annunciata, 1478-77 (Palermo, Galleria Nazionale), eseguita da Antonello al ritorno definitivo a Messina, dopo il soggiorno veneziano. In entrambi i dipinti la Vergine s’imposta volumetricamente nello spazio, dal quale si stacca per rotare leggermente in avanti.

L’Annunciata di Monaco, chiusa nel suo mantello azzurro, sta davanti ad un libro aperto, la cui custodia rossa, descritta nei dettagli, si vede vuota a sinistra. Il volto, definito geometricamente, reclinando dolcemente verso sinistra, esprime un muto stupore, tradotto in spavento dall’artiglio delle esili mani tremanti. La seconda versione, frutto della maturità stilistica del pittore messinese, è un dipinto davvero esemplare di sintesi prospettica e spaziale, di astrazione, di rigore geometrico, che rimanda sì a Piero della Francesca, ma più intenso risulta il processo di idealizzazione. La Vergine, di impianto piramidale, si presenta scultorea, con espressione distaccata. Perfetto è l’equilibrio compositivo tra forma e spazio, tra luce e colore.

La linea curva, elemento modulare, definisce l’ovale perfetto del volto della Vergine, contornato dal manto, le sopracciglia arcuate, le palpebre ombreggiate, le pupille, l’iride, le narici, la bocca. In giù, il motivo curveggiante si precisa nel dettaglio trilobato del leggio ligneo, visto di spigolo. Con la mano destra Maria chiude il lembo del pesante manto, con l’altra mano, portata in avanti, pare che respinga chiunque possa disturbare l’intimità di quello evento straordinario, riservato solo a Lei, prescelta da Dio. Quella sua mano pare che dialoghi con l’Invisibile, dando una risposta immediata, ferma, obbediente. Nessuna esitazione, nessun timore, come nella precedente versione. “Questa Vergine intangibile nel suo isolamento astrale, racchiusa nel manto azzurro, è come una stella nella notte” scrive Marabottini.

Diversa l’interpretazione dello storico Adorno, il quale coglie nel gesto della Vergine un invito all’osservatore, il quale “si colloca nel posto dell’angelo, diventando coprotagonista insieme alla Vergine con la quale stabilisce un dialogo diretto, cogliendone le reazioni, nel momento in cui riceve l’annuncio”.
In ultima analisi va ricordata La Pala di San Cassiano con Madonna in trono col Bambino e Santi, 1475-76 (Vienna, Kunsthistorisches Museum), archetipo cui s’ispirano altri pittori rinascimentali, tra cui Bellini e Giorgione. All’interno di un’architettura “assai più solenne di quella belliniana, derivata dall’Alberti e da Piero” siede in trono la Vergine, la quale ha un’espressione umana dolcissima e mesta. Possente nella forma-colore, mostra nella mano sinistra con il pollice arcuato, un assaggio di ciliegie, frutto che allude al sangue versato da Cristo. La Madonna indossa una magnifica veste damascata, che si evidenzia sotto il mantello azzurro.

I ritratti di Antonello da Messina

Antonello da Messina rivoluziona l’iconografia tradizionale del ritratto, ponendo i suoi soggetti non di faccia né di profilo, ma di tre quarti, con l’intento di mostrare, attraverso la fisiognomica dei volti, la loro interiorità. Non soggetti, appartenenti alla nobiltà, all’alta borghesia o agli umanisti, ma colti per strada. Come Donatello che raffigura uomini fiorentini, così Antonello predilige uomini siciliani. Donatello, eludendo i canoni classici, s’indirizza verso un realismo di stampo popolare, verso cui propende Antonello, distanziandosi da quello fiammingo, basato sull’analisi fredda e dettagliata della realtà. Se le figure di Vergini appaiono riservate,

chiuse in una pudica riservatezza e distaccate dal mondo che le circonda, i ritratti maschili di Antonello sono considerati dallo storico De Grada “autoritratti”. Ognuno nel loro aspetto mostra “quello del sopraffattore, del rivoluzionario, del conquistatore o della vittima che si difende con l’astuzia e la fierezza”. Ritratti dunque attuali che documentano la tipologia dell’uomo siciliano, interpretata con fino intuito psicologico.

Dalla galleria dei ritratti antonelliani, alcuni personaggi balzano prepotenti dal fondo del dipinto su tavola, quasi a voler cercare negli osservatori l’interlocutore giusto per stabilire una complicità d’intesa.
Il Ritratto d’ uomo, (Cefalù, Museo della Fondazione Mandralisca) è ritento il più antico,eseguito probabilmente tra il 1470-72. Così commenta Zeri (1976): “è ben difficile menzionare qualcosa di più intimamente siciliano del Ritratto di Cefalù, nel cui sorriso tra eginetico e minatorio è condensata l’ambigua essenza dell’isola fascinosa e terribile.”

Il Ritratto di giovane uomo (New York, The Metropolitan Museum of Art) di incerta datazione, posta tra il 1470-75, è ritenuto dal Bottari “una delle più seducenti immagini antonelliane”. Seducono infatti lo sguardo ed il sorriso compiacenti. Espressione diversa, direi circospetta, esprime il Ritratto d’uomo (Philadelphia, Museum of art), eseguito attorno al 1470. Non sul fondo scuro ma sul dorato si staglia volumetricamente l’uomo, con il cappuccio nero con lunga banda, la quale, scendendo verticalmente sul lato sinistro, accentua la grossezza del naso, il gonfiore delle palpebre, la rotondità della guancia destra ombreggiata.
Ritratto di giovane uomo, 1474 (Berlino, Staatliche Museen), il primo dipinto datato dal pittore messinese, presenta un’ammirevole sintesi formale. Dal buio la figura, emergendo alla luce con la sua volumetrica massa rossa, schiude le labbra in un sorriso naturale.

D’influenza belliniana il Ritratto d’uomo (detto il condottiero), 1475 (Parigi, Musée du Louvre) attesta il soggiorno a Venezia del pittore siciliano. Si ipotizza che l’uomo del ritratto possa essere Maria Sforza, duca di Bari. Colpisce per l’espressione spavalda del volto, dagli zigomi contratti, e per lo sguardo fiero degli occhi. Anche dal fondo buio s’affaccia, ma con aria furbesca, il Ritratto d’uomo, 1475-76 (Roma, Galleria Borghese), dipinto in cui la penetrazione psicologica raggiunge un esito di straordinaria bravura. Considerato un autoritratto, non riconosciuto dagli storici di oggi, il Ritratto d’uomo, 1475-76 (Londra, National Gallery) porta sul capo un berretto rosso, ha occhi chiari e barba rasata. Dalla giacca marrone si intravedono, nel taglio dell’apertura, il colletto bianco e la camicia rossa. Affiora dalla resa cromatica luminosa il ricordo della pittura veneta e soprattutto di Giovanni Bellini. Lo sguardo che l’uomo rivolge all’osservatore è alquanto sornione. Enigmatico, invece, il Ritratto d’uomo, 1476, detto Trivulzio dal nome del principe della collezione milanese, passata poi al Museo Civico di Torino.

Ė un ritratto intenso, tra i più significativi, ripreso dal vero, eseguito da Antonello a Venezia oppure in Sicilia, al suo rientro a Messina. Sorprendono i dettagli realistici: la resa dei sopraccigli cespugliosi, lo sguardo in tralice, la bocca stirata in un ghigno. A rendere possente il modellato è la massa corporea.
Si differenzia dagli altri dipinti il Ritratto d’uomo,1478 (Berlino, Staatliche Museen) per lo sfondo paesaggistico, da cui emerge la figura, con atteggiamento dignitoso. Longhi (1851) attribuisce “a mano nordica” l’aggiunta della natura sul fondo scuro; la Sricchia Santoro, non riconoscendo il paesaggio nella visione antonelliana, ipotizza l’intervento aggiuntivo da parte del figlio dell’artista, Jacobello, il quale, nell’inserire sulla tavola uno scorcio paesaggistico, non ha badato al “coerente rapporto tra la irregolare striscia verticale scura e la frappa del mazzocchio che scende sulla spalla”.

 

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