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EDITORIALI
Arte
pag. 1
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Editoriali,
recensioni e saggi di arte
|
pubblicato il 1 Apr 2007
MUSEO
DELLE ICONE E DELLA TRADIZIONE BIZANTINA
Frascineto
Piazza Albania

Frascineto si
arricchisce di un altro prezioso bene culturale: il
Museo delle Icone e della Tradizione Bizantina.
Unico, nel suo genere, in Calabria, e tra i
pochissimi in Italia, il Museo offre per la prima
volta alla portata del pubblico la ricca collezione,
oltre 500 pezzi, dell'Archimandrita Paolo Lombardo
di Roma, oltre alla nutrita "Raccolta Ferrari"
costituita da un congruo numero di elementi.
Il Museo, sorto per volere
dell'Amministrazione Comunale arbëreshe guidata dal
sindaco Domenico Braile, d’intesa con l’Assessorato
regionale alla Cultura, guidato da Sandro Principe,
rappresenterà un polo di attrazione culturale
dedicato all'arte, alla spiritualità, alla storia ed
alla liturgia bizantina.
L'intento dell'istituzione non è solo espositivo ma
anche informativo sulla funzione delle arti in
rapporto al culto secondo i criteri voluti
dall'organizzatore, il prof. Gaetano Passarelli
(Docente di Storia e Civiltà Bizantina, UniRoma
Tre).
Il Museo costituisce perciò il primo momento di
acquisizione delle conoscenze strettamente legate
all'ambiente circostante italo-albanese di
tradizione bizantina. Il percorso è, infatti,
interno ed esterno. Quello interno è articolato sui
tre livelli che materialmente costituiscono
l'edificio. Il primo presenta un carattere
propedeutico e didascalico che introduce nel mondo
bizantino. Nel secondo vi sono esposte le icone. Non
mancano particolarità e pezzi rari. Il terzo livello
ha diversi settori: icone in bronzo usate dai
Vecchio-credenti russi e su smalto, arredi sacri e
paramenti liturgici di foggia greca e russa. Vi sono
esposte anche rare edizioni di libri liturgici dei
secoli XVII-XX.
Il percorso esterno permette di vedere tradotte
nella realtà quotidiana le conoscenze acquisite
sull'icona e la tradizione bizantina. Si possono
visitare, quindi, la chiesa attigua dell'Assunta
(sec. XVIII), la chiesa di San Basilio ad Ejanina e
la chiesa di San Pietro, monumento nazionale (secc.
X-Xl /XVII).
Emblema del Museo è l'aquila bicipite imperiale
bizantina con inciso sul petto la scritta IC XC NIKA
(Gesù Cristo vince), testimone dell'identità
cristiana dell'Impero, per sottolineare la
continuità di legame e di fede con i propri
antenati.
Le icone
Le icone non sono opere d'arte secondo il concetto
occidentale, ma opere destinate attraverso il
disegno e la simbologia dei colori a trasmettere un
messaggio sacro ed essere venerate.
Il loro raggruppamento è stato perciò fatto per
tematica al fine di sottolineare il principio base
dell'iconografia espresso al Concilio Niceno II
(787) in cui si dice che l'arte è del pittore, ma
quel che è rappresentato è compito della Chiesa.
Questo perché fedeli di ambiti geografici e lingue
diverse potessero cogliere quanto raffigurato pur
nella varietà degli stili.
La collezione di icone esposta è di oltre 250 pezzi,
provenienti da varie località della Russia,
Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia. Presentano stili
e maestranze diversi, fatture di alto livello e
popolari. Vi sono icone da chiesa e di devozione
familiare espresse in forme e dimensioni varie.
Si possono così contemplare icone semplici e
popolareggianti accanto quelle impreziosite da
cornici e rivestimenti metallici (rize); icone
dipinte secondo la tecnica tradizionale (tempera e
uovo) accanto a quelle dipinte a tecnica mista
(tempera-olio); icone su legno e su smalto; di
bronzo o su tela dipinta ad olio. Si tratta in gran
parte di icone che coprono un arco di tempo che va
dal XVII agli inizi del XX secolo.
Paramenti e arredi
La tradizione bizantina è suggestiva nelle
celebrazioni liturgiche perché presenta accanto ad
una ricchezza di testi, una grande espressività
pregna di simbolismo e di mistica orientale.
Questo perché la liturgia terrena deve essere un
riflesso di quella celeste. I paramenti diaconali e
sacerdotali con i loro colori, ricami e stoffe
particolari, appaiono vicino agli austeri abiti
clericali in modo da permettere di avere un'idea
dell'abbigliamento quotidiano e di quello rituale
nella sua composizione. Sono esposti modelli greci e
russi cuciti negli anni '30 e '40 dal sarto, maestro
Francesco Ferrari, di felice memoria, per suo
fratello, papàs Sepa, già parroco di Frascineto. Vi
sono calici russi, patene, incensieri, lampade e
arredi liturgici in argento provenienti dall'ambito
balcanico, spesso finemente cesellati secondo le
tradizioni dei vari popoli o dovuti a maestranze che
operavano sotto influssi stilistici ottomani. La
loro disposizione permette non solo di ammirarne la
fattura ma soprattutto di conoscere il significato e
il loro uso.
Il medagliere
All'ingresso del Museo è stato esposto anche un
altro settore della grande collezione
dell'Archimandrita Lombardo comprendente 280
medaglie celebrative di vari avvenimenti civili e
religiosi (centenari, commemorazioni,
beatificazioni, canonizzazioni, ecc.),
essenzialmente pontificie che abbracciano vari
pontificati (da Clemente XIII -1773- a Giovanni
Paolo II -2005). Vi sono perciò medaglie coniate
dalla Zecca dello Stato, dalla Scuola Vaticana e da
rinomati laboratori italiani ad opera di grandi
maestri.
Il settore presenta una sorta di introduzione dei
vari passaggi che portano alla creazione, alla
elaborazione e alle tecniche di confezione di una
medaglia per permettere poi una maggiore
consapevolezza del valore artistico e compositivo di
ogni pezzo.
Si tratta di una raccolta rara e inconsueta, posta
in espositori originali che permettono la visione di
ambedue le facciate. Pur non avendo un legame
diretto con la peculiarità del Museo, è stata
esposta per arricchire il patrimonio espositivo e
trasmettere lo spirito del collezionista spesso non
dedito a raccolta di opere di un solo settore.
Nella foto a sin: Il sindaco di Frascineto Braile
e l'assessore Principe inaugurano il Museo delle
icone bizantine, dopo la benedizione del Papas
Bellusci.
Nella foto a dex: Il prof. Gaetano Passarelli con
l'assessore Principe e la Prof.ssa Zanoni nelle sale
del Museo. |
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pubblicato il 23 giugno 2006
LA
PRIMAVERA NELL'ARTE
La
primavera nell’arte – petali in poesia (2006) – di
Adriana De Gaudio
è voce del cuore che illumina 77 pagine patinate
(17X24) in cui convivono, in perfetta simbiosi,
espressioni di comunicazione solo apparentemente
diverse: pittura e poesia.
Rigoroso, chiaro e coinvolgente può essere definito
il libro di un’intelligente e sensibile studiosa su
un tema amato da artisti di tutte le epoche (poeti,
pittori, musicisti): la primavera, mito arcaico di
bellezza e rinnovamento.
La stagione dell’energia che si rinnova,
rappresentata ora in chiave descrittiva, realistica,
ora in chiave simbolica, metaforica, astratta, fa
bella mostra in un “percorso virtuale” di cui
l’Autrice stabilisce le coordinate temporali.
Nelle pagine del saggio rivivono capolavori d’Arte
che la De Gaudio indaga con grande acume critico,
guidando il lettore alla conoscenza dei loro diversi
aspetti (iconografici, iconologici, stilistici,
attributivi).
E lo fa con la consapevolezza di chi sa di parlare
anche ad un pubblico di “non addetti ai lavori”,
sempre più spesso giovani, che hanno sempre relegato
la storia dell’Arte in un’area riservata a pochi
intenditori.
Questo testo, con forte impatto visivo e
comunicativo, con chiarezza particolare, ci offre
l’opportunità di viaggiare nel mondo dell’Arte,
scoprendone i suoi significati nascosti, enigmatici,
di non sempre facile lettura.
Maria Zanoni |
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pubblicato il 13 Feb 2006
L’EROS
ASCENDE AL DIVINO
L’ultima
produzione di Ulrico Schettini Montefiore
di Adriana De
Gaudio
Nel
distinguere la capacità pratica dell’homo faber, che
produce “quanto gli necessita”, da quella
intellettiva dell’homo sapiens, portato a
visualizzare ciò che pensa e contempla attraverso il
disegno, Ulrico Schettini Montefiore
(Castrovillari,1932), molti anni addietro si era
chiesto,dopo una lunga dissertazione, (Addio Jonia!,
1990) se “la sapienza viene prima della capacità
grafica, se ne è il preludio, la condizione, il
veicolo, la causa efficiente”. A questo suo
postulato potrei dare una risposta solo oggi, dopo
aver seguito molto da vicino l’evolversi dell’arte
di Schettini Montefiore dall’immanente al
trascendente. Da temi più disparati a quelli sacri.
Senza alcun dubbio ritengo Montefiore un grande
disegnatore. Il disegno è il mezzo espressivo che
caratterizza la sua formazione stilistica; l’io
pensante guida la mano dell’artista che, attraverso
il tratto della matita o del pennello, fissa nella
forma la sintesi del processo selettivo mentale e
visivo, dal quale scaturisce l’idea. Dall’immediato
abbozzo grafico incipit l’opera che poi viene
elaborata e perfezionata nel tocco finale.
Montefiore, da questo punto di vista, è homo sapiens
nel significato di assaporare, derivante dal verbo
latino sàpere. Egli infatti ha la capacità di
percepire le cose nel profondo, di coglierne e
gustare il valore.
La sapienza, essendo uno dei sette doni dello
Spirito, precede e accompagna l’atto del suo
disegnare. Gitano per il mondo, Montefiore compie
quotidianamente esperienze sia sul piano speculativo
che su quello etico. Ha alle spalle una vasta
cultura artistica e una profonda conoscenza umana,
che gli consentono di creare un rapporto vero con la
realtà. La realtà, che egli trascrive, non è solo
quella che vediamo, controlliamo e tocchiamo con
mano, ma anche l’altra che spesso ci sfugge. Grazie
a questo suo saper vedere e sentire, Montefiore
interpreta, in modo personale ed originale, i
soggetti che rappresenta.
Da qui l’autenticità del segno e del linguaggio di
Ulrico, la cui personalità si esplicita proprio
attraverso il disegno, ideogramma straordinario, che
registra le pulsioni emotive, spesso parossistiche,
causate dal furore dell’eros. Ma l’eros, che è alle
radici della sua arte, non è generato dall’istinto
carnale, che predomina sulla ragione, al contrario
ascende al divino. Montefiore è un credente
cattolico; mosso da una fede profonda, non sconfessa
la ragione ma la integra. I suoi disegni, ispirati
ai testi sacri, il Vecchio e il Nuovo Testamento, lo
confermano.
Per comprenderne la validità, bisogna premettere che
il nostro Artista, pur conoscendo la “storia” del
disegno, attraverso lo studio dei grandi maestri,
non è molto ossequioso verso le regole. Egli non
persegue, infatti, la perfezione formale, ma la resa
espressionista. La figurazione, eseguita in modo
sommario ed immediato, con una scrittura che
asseconda la mutazione di stati d’animo, presenta
una volumetria spesso prorompente e sproporzionata,
a tutto vantaggio dell’espressività intensa dei
volti. Molti sarebbero gli esempi da citare, mi
limito ad un accenno sui lavori condivisi:
l’“Evangelo secondo San Luca” nella versione di
Giovanni Diodati (Lucca, 1576-1649), pastore
calvinista protestante, considerato eretico dalla
Chiesa e ultimamente riabilitato. In questi tempi di
apertura al dialogo interreligioso,
l’interpretazione grafica dei passi più
significativi di questo testo del Seicento, di
eccezionale valore linguistico, messo all’indice nel
1617, per una correzione calvinista riscontrata
(L’Annunciazione, Luca, 1,28), attesta come tra
l’artista Montefiore e il biblista Diodati si
stabilisce, per affinità elettiva, un rapporto
paritario di sintesi espressiva.
Diodati adopera la lingua toscana d’origine,
accessibile ed avvincente per l’immediatezza e per
l’efficacia della parola, Montefiore un linguaggio
sonoro e greve, scevro da idealismi formali, mirato
a comunicare concetti teologici in forma leggibile.
I disegni risultano acuti e penetranti (la linea di
contorno si presenta ora mordente, ora incisiva, ora
dolce ed evocativa), in simbiosi con la scrittura di
Diodati.
Altra preziosa sua rappresentazione grafica spicca
nella selezione di opere pittoriche di artisti del
passato e del Novecento, a fianco delle mie poesie,
ispirate alle Donne della Bibbia (Donne Bibliche
nell’Arte: un’interpretazione poetica, 1993). Con
vigoroso ed essenziale tratto di penna, Montefiore
schizza le figure femminili più note, toccandone
anche l’aspetto psicologico. Emergono dal suo album
di donne: Eva, la moglie di Lot, Giaele, Giuditta,
Rut, Susanna, la donna innamorata del Cantico dei
Cantici, ripresa con soavità di sentimento, nelle
sequenze dei versetti (7,3-8,5). Riguardo alle
protagoniste del Nuovo Testamento, egli dà
un’interpretazione non in chiave metafisica ma
umana. La sua grafica scarna ed essenziale, nella
scena delle pie donne al Sepolcro, porta soprattutto
a riflettere sulla tomba vuota del Cristo e ad
accettare per fede la Verità salvifica della
Resurrezione.
In ultima analisi, quando Montefiore combina il
disegno con i colori, realizza opere di pittura di
grande suggestione. Restando nell’ambito della
tematica religiosa, mi piace ricordare la serie
delle “sue” Madonne in trono col Bambino. In questi
dipinti la linea, condotta in modo armonioso e
fluida, ha valore funzionale e decorativo. Da un
lato, mettendo in risalto la corposità dei Soggetti,
valorizza l’aspetto umano, dall’altro campisce i
colori nel percorso armonioso e pacato della
pennellata. Un omaggio all’iconografia tradizionale,
per quanto riguarda l’impianto prospettico, ma
Montefiore punta non sulla regalità della Vergine,
posta sul trono, ma sulla maternità in senso
universale, resa molto teneramente. In questi
dipinti l’eros si evolve in agape. L’amore materno
della Vergine, nel dono ablativo di sé al Figlio, si
trasforma in divino.
La variazione sullo stesso tema, proposta da
Montefiore in più versioni, mi richiama le sequenze
di una meravigliosa poesia di Jean Paul Sartre: “È
fatto di me”. Ne riporto alcune strofe,
riconducibili alle sunnominate icone: (La Vergine)
“lo guarda e pensa: questo Dio è il mio bambino/
Questa carne divina è la mia carne./Egli è fatto di
me, ha i miei occhi,/ e questa forma della bocca è
la forma della mia,/mi assomiglia: Egli è Dio e mi
assomiglia./ E nessuna donna ha avuto il suo Dio per
sé sola,/ un Dio piccolino che si può prendere tra
le braccia….”
In attesa della Parusia
Cartone disegnato di Ulrico Schettini Montefiore
Dacché Ulrico S. Montefiore si è iniziato all’arte
sacra, gli si è aperta una visione più ampia e
luminosa della vita. I soggetti, tratti dalla
Bibbia, non sono una stereotipa raffigurazione
episodica ma comunicano, con grande forza ed
efficacia stilistica, concetti didascalici,
sapienziali o teologici. Nel raffigurare vetrate,
Montefiore inalvea il fuoco dell’ispirazione nelle
immagini, realizzandole, con destrezza magistrale,
in una raffinatissima grafica, congiunta alla
pittura.
Grande successo ha riscontrato, nel dicembre scorso,
l’inaugurazione ad Osimo della vetrata Tobia e
l’arcangelo Raffaele che Montefiore ha eseguito per
il Salone Pisana Grimani. La storia biblica,
scandita in tre tempi, si visualizza in una sinfonia
di linee e di colori che ammaliano lo sguardo per
l’eleganza decorativa ed il ritmo della linea
flessuosa e continua, per l’accordo tonale dei
colori brillanti, che manifestano la presenza del
divino. I volti dei protagonisti presentano
un’espressione intensamente dolce, pacata anche
nella sofferenza.
Un vero capolavoro, attestante la maturità
stilistica di Montefiore e la profondità della sua
fede religiosa, è il cartone disegnato a Lima per
una finestra centrale: un’opera grandiosa, non messa
in opera a causa delle vetrerie locali, sfornite di
materiali pregiati.
Il tema sacro, che ancora una volta Ulrico affronta,
è una sintesi alta del Vangelo, interpretato
dall’artista in chiave personale, sociale e
antropologica, per essere fruito da etnie diverse
del Perù, paese povero, ma fervidamente credente,
dell’America del Sud.
La vetrata della finestra (53 mq), che doveva essere
istoriata, presenta nel progetto la forma di una
croce rovesciata. Nella parte estrema del braccio
longitudinale prende forma umana La Trinità: Uno in
tre Persone uguali e distinte, le quali siedono in
posa ieratica, in uno spazio tripartito, con le mani
congiunte, immobili nel tempo. Al centro, Dio Padre,
contraddistinto dal triangolo dietro al capo; alla
sua destra il Figlio, con la corona di spine; alla
sua sinistra lo Spirito Santo, connotato dalla
colomba sul capo. Sul piano visivo le tre Persone
sono identiche, sul piano della fede si dà per certa
la consustanzialità, secondo il dogma. Montefiore
come i peruviani, non ha ombre di dubbio, crede
nella rivelazione. Il legame tra loro si evince
dalla base del triangolo, attributo di Dio Padre, il
cui lato orizzontale idealmente coordina il Figlio e
lo Spirito. Altre relazioni si individuano nello
svolgersi degli episodi evangelici sapientemente
concatenati.
Sul lato corto orizzontale della croce, a sinistra
dell’osservatore, è raffigurato il miracolo della
moltiplicazione dei pani e dei pesci. Cristo, in
piena luce, sulla sponda del mare, con le braccia
alzate, ha l’aspetto di un orante. Per terra si
vedono cesti di vimini colmi di pani e di pesci.
Sorpresi e felici, gruppi di persone, con costumi
tradizionali peruviani, esternano, con ampi gesti
delle mani e col suono di strumenti musicali, la
loro gratitudine. Il disegno a carboncino traduce
con adeguatezza le diverse reazioni emotive degli
astanti, la dinamica del racconto miracoloso,
indugiando sulla descrizione decorativa degli abiti
peruviani e su quella naturalistica dei cesti. Un
particolare attrae l’attenzione: la donna peruviana
con la sua bambina attorno ad un cesto di pani. Lo
stato di miseria in cui versano, le isola dal resto
della folla. Montefiore, particolarmente partecipe,
ritrae l’umile mamma, con gli occhi chiusi, avvolta
nel suo mantello, con un cappello a cloche sul capo.
All’esaltazione dell’evento soprannaturale,
successivo al completo abbandono degli affamati alla
divina Provvidenza, fanno da contraltare i simboli
del male e della violenza, raffigurati sul braccio
destro della croce, in relazione all’episodio del
Cristo deriso. In un angolo, i soldati con le armi
puntate, su cavalli imbizzarriti, sembrano
scagliarsi contro il Cristo alla colonna. La
fisionomia delle gigantesche figure, deformate fino
alla bestialità da un disegno espressionista forte
ed incisivo, esprime l’ottusità umana, riconducibile
allo stile mordente di H. Bosch. L’istinto, non
sorretto dalla ragione, determina il manifestarsi
del male, contraddetto però dalla pietas delle donne
penitenti, vestite in morado, abito di color viola
che esse indossano nella solenne processione di fine
ottobre. Sono figure femminili macilenti, poste in
disparte, con lo sguardo smarrito, rivolto al
Cristo, portano ceri. Cristo, Figlio dell’Uomo, è
una figura nitidamente vigorosa, vittima innocente
che, assumendo su di sé i peccati del mondo, assolve
il compito per cui è stato mandato da Dio sulla
terra: redimere, attraverso il suo olocausto,
l’umanità.
Il messaggio di Montefiore nel suo “poema”
evangelico figurato va oltre la morte: la
risurrezione di Cristo lascia aperta in tutti i
credenti la speranza del suo ritorno, alla fine dei
tempi. Non apocalittica la scena finale, ma un inno
gioioso che accompagna la deflagrazione della terra.
Dalle buche emergono corpi avvolti da lenzuoli
bianchi, rinati alla vita eterna. Uno scenario
toccante, di grande effetto, preludio della Parusia.
La luce della grazia copiosa scende dalla Trinità,
non sotto forma di raggi, ma di bianche colombe,
emanazione dello Spirito. |
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pubblicato l' 11
Marzo 2006
Mostra
di Antonello da Messina
di Adriana De
Gaudio
Alle
Scuderie del Quirinale in Roma dal 18 marzo al 25
giugno 2006: mostra di Antonello da Messina.
Le Figure di Vergini nella pittura di Antonello
da Messina
Considerato il più grande pittore dell’Italia
meridionale della prima metà del Quattrocento,
Antonello da Messina, figlio dello scalpellino o
marmoraro Giovanni e di Garita (Margherita), è
conosciuto anche nel campo artistico nazionale ed
internazionale.
Nasce a Messina tra il 1425-30, ivi muore nel 1479.
Lacunosa, in alcune tappe, si presenta la datazione
del suo itinerario artistico. Dalla testimonianza di
una lettera, inviata dall’umanista napoletano Pietro
Summonte al veneziano Marcantonio Michiel (1524),
pubblicata dal Nicolini nel 1925, si apprende che
Antonello riceve la prima formazione artistica
presso la bottega di Colantonio a Napoli, forse tra
il 1445 e 1455. Il trasferimento di Antonello nella
capitale del nuovo regno ha una motivazione: la
Sicilia, dopo il passato glorioso arabo-normanno,
vive un momento di arretratezza culturale rispetto
al centro Italia, dove si afferma, ad opera dei
Medici, il Rinascimento.
Napoli, invece, grazie all’insediamento del re
Alfonso d’Aragona, proprietario di opere di Jan Van
Eyck e di Rogier van der Weyden, e promotore
culturale, gode di una benefica vitalità artistica e
letteraria. Alla corte vengono ad intrecciarsi
correnti fiamminghe, spagnole e provenzali, di cui
il pittore siciliano recepisce l’influenza,
supportata anche dall’insegnamento del maestro
Colantonio, seguace dell’arte fiamminga.
La componente fiamminga, evidenziata dall’uso della
tecnica ad olio, che dà brillantezza ai colori, e
dall’ analisi dettagliata dei particolari, la
conoscenza di Piero della Francesca e di Beato
Angelico, avvenuta probabilmente a Roma prima del
1460, l’incontro a Venezia con Giovanni Bellini tra
il 1474-75, lasciano una traccia nell’opera di
Antonello, il cui stile presenta purezza e
perfezione formale, intensità cromatica, plasticità
e maestosità delle figure.
Dal corpus che assembla opere autografe e altre a
lui attribuite, emergono soggetti sacri e ritratti.
Dal primo repertorio richiama l’attenzione la figura
di Maria che l’artista messinese diversifica in più
versioni, pur tra loro correlate stilisticamente. La
Vergine annunciata (Como, Museo Civico) viene
attribuita ad Antonello dal Longhi (1953) e dal
Bologna(1977). L’opera, indubbiamente del periodo
giovanile, rivela la conoscenza dei fiamminghi.
Dipinta su tavola dorata, la Vergine ha l’aspetto
monacale per il copricapo ed il soggólo che le
incorniciano il volto, e ne fanno risaltare i
lineamenti marcati, il naso prominente e
l’espressione assorta degli occhi lievemente
asimmetrici. Somigliante, ma più viva l’immagine
della Vergine leggente (Venezia,collezione privata),
la quale plasticamente si distanzia dal fondo buio.
Questa opera giovanile è definita dal Fiocco (1950)
“una creatura pungente, dalle mani lunghe e quasi
predaci, dal volto sigillato fra le bende
tormentate…” Le mani esili, sollevate a reggere il
libro aperto, rese così “espressive”, fanno
ricordare altre mani di Vergini che Antonello fa
“parlare” invece dello sguardo. La presenza di due
angeli, con corona di gigli e mughetti, emblemi
della purezza di Maria, sospesa sul suo capo,
richiamano l’iconografia della Madonna Salting
(Londra, National Gallery). Questo dipinto giovanile
di Antonello attesta l’assimilazione stilistica dei
fiamminghi in una visione rinascimentale italiana.
La Madonna, vista di tre quarti, col Bambino tra le
mani, a posto del libro, si colloca saldamente nello
spazio. D’imponenza scultorea, il volto si precisa
in un tipo di bellezza di impronta meridionale, anzi
siciliana. I capelli neri, aderenti al capo, pongono
in risalto l’incarnato bianco, il taglio marcato
sopraciliare e degli occhi schiusi e della bocca
sottile, le rigide e perfette orecchie. Preziosa la
corona sorretta da due angeli, sontuoso l’abito nei
toni caldi del marrone, decorato con perle e pietre.
Tocco finale: una veletta bianca trasparente,
bordata, le scorre dal capo. Il dipinto su tavola
viene datato tra la fine degli anni cinquanta e
l’inizio del decennio seguente.
Di memoria pierfrancescana, per la saldezza dei
volumi e per l’astrazione formale del volto, la
Vergine leggente (Baltimora, Walters Art Gallery).
Iconograficamente riconduce alla Madonna Salting,
con la differenza che questa è ripresa nell’atto di
leggere il libro. Meno discussa dagli studiosi
l’attribuzione ad Antonello della Vergine
annunciata, 1473-74 (Monaco Bayerische
Staatsgemäldesammlungen), la quale richiama, per la
posizione incrociata delle sue mani emotive,
l’Annunciazione, 1474, tavola trasportata su tela,
molto rovinata (Siracusa, Galleria Nazionale) e, per
il rinnovamento iconografico, la Vergine annunciata,
1478-77 (Palermo, Galleria Nazionale), eseguita da
Antonello al ritorno definitivo a Messina, dopo il
soggiorno veneziano. In entrambi i dipinti la
Vergine s’imposta volumetricamente nello spazio, dal
quale si stacca per rotare leggermente in avanti.
L’Annunciata di Monaco, chiusa nel suo mantello
azzurro, sta davanti ad un libro aperto, la cui
custodia rossa, descritta nei dettagli, si vede
vuota a sinistra. Il volto, definito
geometricamente, reclinando dolcemente verso
sinistra, esprime un muto stupore, tradotto in
spavento dall’artiglio delle esili mani tremanti. La
seconda versione, frutto della maturità stilistica
del pittore messinese, è un dipinto davvero
esemplare di sintesi prospettica e spaziale, di
astrazione, di rigore geometrico, che rimanda sì a
Piero della Francesca, ma più intenso risulta il
processo di idealizzazione. La Vergine, di impianto
piramidale, si presenta scultorea, con espressione
distaccata. Perfetto è l’equilibrio compositivo tra
forma e spazio, tra luce e colore.
La linea curva, elemento modulare, definisce l’ovale
perfetto del volto della Vergine, contornato dal
manto, le sopracciglia arcuate, le palpebre
ombreggiate, le pupille, l’iride, le narici, la
bocca. In giù, il motivo curveggiante si precisa nel
dettaglio trilobato del leggio ligneo, visto di
spigolo. Con la mano destra Maria chiude il lembo
del pesante manto, con l’altra mano, portata in
avanti, pare che respinga chiunque possa disturbare
l’intimità di quello evento straordinario, riservato
solo a Lei, prescelta da Dio. Quella sua mano pare
che dialoghi con l’Invisibile, dando una risposta
immediata, ferma, obbediente. Nessuna esitazione,
nessun timore, come nella precedente versione.
“Questa Vergine intangibile nel suo isolamento
astrale, racchiusa nel manto azzurro, è come una
stella nella notte” scrive Marabottini.
Diversa l’interpretazione dello storico Adorno, il
quale coglie nel gesto della Vergine un invito
all’osservatore, il quale “si colloca nel posto
dell’angelo, diventando coprotagonista insieme alla
Vergine con la quale stabilisce un dialogo diretto,
cogliendone le reazioni, nel momento in cui riceve
l’annuncio”.
In ultima analisi va ricordata La Pala di San
Cassiano con Madonna in trono col Bambino e Santi,
1475-76 (Vienna, Kunsthistorisches Museum),
archetipo cui s’ispirano altri pittori
rinascimentali, tra cui Bellini e Giorgione.
All’interno di un’architettura “assai più solenne di
quella belliniana, derivata dall’Alberti e da Piero”
siede in trono la Vergine, la quale ha
un’espressione umana dolcissima e mesta. Possente
nella forma-colore, mostra nella mano sinistra con
il pollice arcuato, un assaggio di ciliegie, frutto
che allude al sangue versato da Cristo. La Madonna
indossa una magnifica veste damascata, che si
evidenzia sotto il mantello azzurro.
I ritratti di Antonello da Messina
Antonello da Messina rivoluziona l’iconografia
tradizionale del ritratto, ponendo i suoi soggetti
non di faccia né di profilo, ma di tre quarti, con
l’intento di mostrare, attraverso la fisiognomica
dei volti, la loro interiorità. Non soggetti,
appartenenti alla nobiltà, all’alta borghesia o agli
umanisti, ma colti per strada. Come Donatello che
raffigura uomini fiorentini, così Antonello
predilige uomini siciliani. Donatello, eludendo i
canoni classici, s’indirizza verso un realismo di
stampo popolare, verso cui propende Antonello,
distanziandosi da quello fiammingo, basato
sull’analisi fredda e dettagliata della realtà. Se
le figure di Vergini appaiono riservate,
chiuse in una pudica riservatezza e distaccate dal
mondo che le circonda, i ritratti maschili di
Antonello sono considerati dallo storico De Grada
“autoritratti”. Ognuno nel loro aspetto mostra
“quello del sopraffattore, del rivoluzionario, del
conquistatore o della vittima che si difende con
l’astuzia e la fierezza”. Ritratti dunque attuali
che documentano la tipologia dell’uomo siciliano,
interpretata con fino intuito psicologico.
Dalla galleria dei ritratti antonelliani, alcuni
personaggi balzano prepotenti dal fondo del dipinto
su tavola, quasi a voler cercare negli osservatori
l’interlocutore giusto per stabilire una complicità
d’intesa.
Il Ritratto d’ uomo, (Cefalù, Museo della Fondazione
Mandralisca) è ritento il più antico,eseguito
probabilmente tra il 1470-72. Così commenta Zeri
(1976): “è ben difficile menzionare qualcosa di più
intimamente siciliano del Ritratto di Cefalù, nel
cui sorriso tra eginetico e minatorio è condensata
l’ambigua essenza dell’isola fascinosa e terribile.”
Il Ritratto di giovane uomo (New York, The
Metropolitan Museum of Art) di incerta datazione,
posta tra il 1470-75, è ritenuto dal Bottari “una
delle più seducenti immagini antonelliane”. Seducono
infatti lo sguardo ed il sorriso compiacenti.
Espressione diversa, direi circospetta, esprime il
Ritratto d’uomo (Philadelphia, Museum of art),
eseguito attorno al 1470. Non sul fondo scuro ma sul
dorato si staglia volumetricamente l’uomo, con il
cappuccio nero con lunga banda, la quale, scendendo
verticalmente sul lato sinistro, accentua la
grossezza del naso, il gonfiore delle palpebre, la
rotondità della guancia destra ombreggiata.
Ritratto di giovane uomo, 1474 (Berlino, Staatliche
Museen), il primo dipinto datato dal pittore
messinese, presenta un’ammirevole sintesi formale.
Dal buio la figura, emergendo alla luce con la sua
volumetrica massa rossa, schiude le labbra in un
sorriso naturale.
D’influenza belliniana il Ritratto d’uomo (detto il
condottiero), 1475 (Parigi, Musée du Louvre) attesta
il soggiorno a Venezia del pittore siciliano. Si
ipotizza che l’uomo del ritratto possa essere Maria
Sforza, duca di Bari. Colpisce per l’espressione
spavalda del volto, dagli zigomi contratti, e per lo
sguardo fiero degli occhi. Anche dal fondo buio
s’affaccia, ma con aria furbesca, il Ritratto
d’uomo, 1475-76 (Roma, Galleria Borghese), dipinto
in cui la penetrazione psicologica raggiunge un
esito di straordinaria bravura. Considerato un
autoritratto, non riconosciuto dagli storici di
oggi, il Ritratto d’uomo, 1475-76 (Londra, National
Gallery) porta sul capo un berretto rosso, ha occhi
chiari e barba rasata. Dalla giacca marrone si
intravedono, nel taglio dell’apertura, il colletto
bianco e la camicia rossa. Affiora dalla resa
cromatica luminosa il ricordo della pittura veneta e
soprattutto di Giovanni Bellini. Lo sguardo che
l’uomo rivolge all’osservatore è alquanto sornione.
Enigmatico, invece, il Ritratto d’uomo, 1476, detto
Trivulzio dal nome del principe della collezione
milanese, passata poi al Museo Civico di Torino.
Ė un ritratto intenso, tra i più significativi,
ripreso dal vero, eseguito da Antonello a Venezia
oppure in Sicilia, al suo rientro a Messina.
Sorprendono i dettagli realistici: la resa dei
sopraccigli cespugliosi, lo sguardo in tralice, la
bocca stirata in un ghigno. A rendere possente il
modellato è la massa corporea.
Si differenzia dagli altri dipinti il Ritratto
d’uomo,1478 (Berlino, Staatliche Museen) per lo
sfondo paesaggistico, da cui emerge la figura, con
atteggiamento dignitoso. Longhi (1851) attribuisce
“a mano nordica” l’aggiunta della natura sul fondo
scuro; la Sricchia Santoro, non riconoscendo il
paesaggio nella visione antonelliana, ipotizza
l’intervento aggiuntivo da parte del figlio
dell’artista, Jacobello, il quale, nell’inserire
sulla tavola uno scorcio paesaggistico, non ha
badato al “coerente rapporto tra la irregolare
striscia verticale scura e la frappa del mazzocchio
che scende sulla spalla”.
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