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DIALETTO DI CALABRIA E LINGUE
MINORITARIE
approfondimenti
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Dialetto di Calabria e
lingue minoritarie
Tra
Antropologia e Letteratura
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pubblicato il 29
giugno 2010
Identità nazionale
tra dialetti e lingue minoritarie
Nella consapevolezza
di una storia unificante
di
Pierfranco Bruni
Ci sono
“piccole” e “grandi” identità? Un interrogativo
quasi banale ma che si pone in un contesto in cui il
rapporto tra identità nazionale e culture
minoritarie (dalle minoranze linguistiche storiche
alla presenza di un mondo articolato di culture e
dialetti che vivono una realtà territoriale come una
precisa consapevolezza identitaria) rappresenta non
solo una chiave di lettura antropologica ma diventa
un fattore fondamentale nella sfera dei processi
“ideologici” del nostro tempo.
Quali sono o quali
potrebbero essere queste identità? Ogni comunità che
vive il territorio si autotutela con due precisi
elementi: la lingua (il dialetto non è lingua
ufficiale ma potrebbe costituire l’alternativa ad un
richiamo di omologazione) e le tradizioni. È chiaro
che intorno a questi elementi si sviluppano una
serie di manifestazioni che mettono in campo la
storia di una comunità che si sente ed è popolo ed
essendo tale o avvertendo di essere tale il richiamo
alle radici diventa un fatto di estrema necessità,
ma anche di possibile salvezza nei confronti di uno
sradicamento che si vive all’interno di una cultura
nazionale.
La lingua è il
tramite attraverso il quale la comunicazione si fa
trasmissione non solo di un vocabolario reale e
metaforico ma si focalizza come recupero di valori.
Per affermare questi valori entrano in gioco le
tradizioni con la convinzione di affermare un etnos
le cui matrici hanno richiamo a volte inspiegabili
ma si considerano come tasselli di un mosaico
ancestrale.
Allora, la piccola
identità, che è quella della comunità ristretta,
entra nella grande identità che è quella
geograficamente più estesa e politicamente più
sezionata in una dimensione nazionale. Ma a questo
punto occorrerebbe fare una distinzione o per lo
meno porre una riflessione. Io non parlerei più di
identità, piccola o grande che possa essere nella
sua fisionomia geografica, territoriale, etno –
antropologica, ma userei un altro concetto che mi
sembra più pertinente ed è quello di appartenenza.
L’identità
resterebbe quella geograficamente e culturalmente
all’interno di una visione nazionale mentre ogni
comunità è l’espressione di una appartenenza che
segna il suo tempo in quelle radici territoriali
definite localmente.
In un contesto di
cittadinanze “multiple” la distinzione tra identità
e appartenenza diventa qualificabile e
giustificabile sia sul piano di una interpretazione
territoriale sia in un processo di incontri tra
culture diversificate e percorsi antropologici veri
e propri.
Il discorso che
interessa le minoranze linguistiche o le presenze
minoritarie non è soltanto una questioni che possa
riguardare la lingua o le lingue (ed è errato
continuare ad usare soltanto il termine linguistico)
ma deve sempre più toccare gli aspetti di una storia
che ha le sue eredità in quella che usiamo chiamare
antropologia delle comunità.
L’Italia ha
chiaramente la sua identità ma vive costantemente
negli intrecci linguistici e antropologici che ci
riportano ad una antropologia delle radici. Ciò non
significa che bisognerebbe tendere ad una
disarticolazione delle culture attraverso la
eterogeneità delle lingue e dei linguaggi. Occorre
prendere atto che c’è l’identità di una Nazione che
convive con le diverse appartenenze storiche ben
scavate nelle realtà territoriali.
Ma questo è un
fatto che resta come fenomeno antropologico e quindi
come storia di una civiltà. Il problema della difesa
delle lingue minoritarie e della tutela dei dialetti
non può e non deve infingere l’identità nazionale.
Questo deve essere un “patto” certo in una cultura
unificante e non in una geografia disarticolata e
divisoria.
Noi siamo stati e
siamo un popolo contaminato ma parimenti siamo stati
e siamo contaminanti. Mi pare che si tratti di una
premessa necessaria per continuare a discutere sul
valore della identità e delle appartenenze.
È chiaro che
andrebbe separato, ed è separato, il discorso
riguardante le lingue minoritarie e quello
concernente i dialetti. Ma il riconoscimento vero,
al di là della Legge di Tutela sulle minoranze
linguistiche in Italia, avviene sul piano culturale
e non può essere diversamente in quanto le minoranze
linguistiche, con tutta la loro storia, e i codici
dialettali sono patrimonio culturale. Ovvero sono
garanti di una storicità sul territorio e quindi
costituiscono la vera rappresentanza di un bene
culturale.
Proprio in virtù
di ciò la lingua delle minoranze soltanto come
capacità di salvaguardia di una comunità mi sembra
fuorviante. È anche vero, comunque, che quando una
comunità perde la propria lingua ha un destino
segnato. Ciò può essere il presupposto che ci
permette di legare la lingua a tutta una complessità
di sistemi che provengono dall’appartenenza ad una
eredità fatta di letteratura, di arte, di costumi,
di musica. C’è una “grammatica” più vasta che supera
la stessa focalizzazione di pensare alla tutela di
una minoranza insistendo con forza vitale sulla
lingua.
La lingua è una
parte della complessità dei processi etno –
antropologici di una comunità. Il dialetto è già di
per sé componente essenziale di una lingua madre ed
assorbe il disegno socializzante di un territorio
nelle sue direttrici storiche e moderne.
Credo che la
letteratura o le letterature possano aprire
prospettive per una comprensione più adeguata al
rapporto tra identità nazionale e appartenenze
geografiche sia linguistiche che culturali tout
court. Ecco perché insisto sul fatto che non può
esserci rottura tra il concetto di identità e quello
delle appartenenze, come non è possibile pensare a
piccole o grandi identità.
Le minoranze etno
– linguistiche (ed uso il termine più appropriato)
sono un bene culturale e come tale vanno argomentate
e trattate nei vari passaggi: dalla conoscenza alla
tutela, dalla valorizzazione alla fruizione. I beni
culturali vanno difesi perché ci parlano, ci
raccontano, tracciano sentieri, perché ci riportano,
nella metafora del ritorno e del nostos, ad una
antica memoria che è quella della civiltà delle
origini.
L’antropologia
aiuta una lingua a non smarrirsi e a non morire. Da
sola la lingua correrebbe il rischio di porsi in
competizione. Si tratta di un discorso che non può
essere posto in questi termini perché nella lingua
ci sono le ramificazioni di una civiltà ma bisogna
essere anche consapevoli che la lingua è la parte e
non il tutto di un processo di identificazioni di un
popolo.
Non ci sono
piccole o grandi “patrie” linguistiche ma c’è un
unico comune denominatore che è quello di saper dare
consapevolezza all’incontro sia della cultura delle
parole, con un preciso vocabolario, sia delle
culture strutturate tra l’immateriale e il definito
come modello storico.
Nella storia di
una comunità il sentimento dell’appartenenza non
scompare, non si smarrisce, non muore ma si
definisce. Ed è questo il principio portante che
porta a considerare la realtà delle minoranze etno –
linguistiche come il portato di un bene culturale
che è sempre più espressione di un incontro tra
identità e appartenenza.
Mi pare che
intorno a queste riflessioni si possa aprire una
convergenza non dimenticando che la lingua è
patrimonio culturale di una comunità ma il
patrimonio culturale sta nell’insieme di un processo
in cui identità, appartenenza ed eredità
costituiscono una voce unificante.
Se tutto questo
ruota intorno al tema della conoscenza valorizzante
le minoranze etno – linguistiche, con tutta la loro
memoria, resteranno riferimenti nel patrimonio di
una Nazione. I dialetti sono modelli già definiti
nella nel processo antropologico di una civiltà
territoriale pur nelle possibile e sicure varianti.
Questo è una ricchezza nella consapevolezza che c’è,
comunque, una unica identità nazionale.
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pubblicato il 29
giugno 2010
Il dialetto un bene culturale da
tutelare
Intervento di presentazione del
Festival del Dialetto
di Egidio Chiarella
Prima
parte
Il dialetto è un patrimonio culturale
che va tutelato, ma non solo per amore di
conservazione o di una malcerta identità, bensì
perché una lingua, qualsiasi essa sia, è un bene
soprattutto per comunicare.
Il linguista Tullio De Mauro è
convinto che la pluralità linguistica non è un
accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per
la specie e le comunità umane. Chiunque tenti di
soffocarla deve sapere che contribuisce a spegnere
il cuore pulsante della stessa umanità.
C’è oggi chi vorrebbe utilizzare il
dialetto per chiudere virtualmente dei confini, in
nome di una identità magari ritenuta superiore; c’è
anche chi lo guarda con l’animo del cantore
medievale fine a se stesso, pronto a rimetterlo in
gioco nelle “giostre” moderne, necessarie a toccare
con nostalgia, magari per esigenze spettacolari o
pseudo romantiche, il nostro passato e con esso il
nostro dialetto.
Io prendo le distanze, con il
dovuto rispetto, da entrambe le posizioni, perché
considero il dialetto un Bene Culturale a tutti gli
effetti.
Sono qui infatti, sicuramente per
il piacere di relazionare assieme agli autorevoli
amici del tavolo della presidenza e salutare con
affetto tutti voi presenti in questo importante
convegno, ospitato nella bella e importante città di
Castrovillari, alla quale mi sento legato per i miei
numerosi trascorsi, in campo istituzionale e
culturale; ma sono anche qui principalmente, perché
proprio l’antropologa prof.ssa Maria Zanoni,
cultrice autentica del dialetto calabrese, dai toni
raffinati e letteralmente avanzati, nonchè
rigorosamente scientifici, ha speso un tratto
significativo della sua vita per difendere la nostra
lingua locale, come appunto bene culturale, al pari
degli altri innumerevoli beni, che fanno parte
dell’importante patrimonio culturale calabrese.
Lo ha fatto con equilibrio e alto
senso del rispetto, proprio verso le determinazioni
che lo Stato Italiano ha ufficialmente espresso nel
1967, dopo tre anni di lavoro, attraverso la
Commissione Franceschini, proponendo per la prima
volta la definizione di patrimonio culturale e
quindi di bene culturale:
“Appartengono
al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni
aventi come riferimento alla storia della civiltà.
Sono assoggettati alla legge i Beni di interesse
archeologico, storico, artistico, ambientale e
paesistico, archivistico e librario ed ogni altro
bene che costituisca testimonianza materiale avente
valore di civiltà”.
L’ultima opera della Zanoni, Castrovillari nel
‘900 e gli antichi mestieri va in questa
direzione. Un’opera singolare, anche perché scritta
a quattro mani, assieme alla figlia Claudia, che
oltre ad essere una esperta di Statistica ed
informatica, ha da tempo assunto con autorevolezza
la giovane personalità di una capace e preparata
consulente editoriale e componente di gruppi di
lavoro, che hanno prodotto incontri e studi
antropologici, in cui i beni culturali, il dialetto
e le minoranze linguistiche sono stati al centro
della ricerca svolta, con risultati apprezzati a
diversi livelli.
Quest’ultimo lavoro riesce mirabilmente a far
passare un messaggio forte e di grande significato
sociale e culturale, presentando le attività
tradizionali nei vari campi produttivi del
territorio Castrovillarese, non come un mondo
museale, ma come un filo forte e sottile, che tiene
ancorati passato e presente, avvolgendo molte delle
iniziative imprenditoriali, artigianali, agricole di
oggi. Le numerose foto dell’opera di Maria Zanoni
e di Claudia Rende presentano infatti l’immagine
viva, in diversi casi, di una trasformazione locale,
strutturale, culturale ed economica, che risponde al
progresso attuale, senza spazzare via il lavoro e le
iniziative degli antenati del posto.
Vorrei però ritornare al concetto di bene culturale,
riferito al nostro dialetto, anche per mandare un
messaggio chiaro, da questo autorevole consesso, a
quei miei colleghi che vedono in questa mia
affermazione, che grazie a Dio condivido, assieme
alla Zanoni, con moltissimi studiosi del settore,
una stoltezza letteraria o persino una provocazione,
se non una superficiale esagerazione, in quanto non
riconoscono al nostro dialetto la tribuna eletta dei
beni culturali.
Devo
perciò ricordare a tutti, che oltre alla convenzione
dell’Aja del 14 maggio 1954, in cui si
definisce materiale un bene culturale fisicamente
tangibile, come le opere architettoniche, pittoriche
e scultoree, c’è da sottolineare il lavoro della
Convenzione di Parigi del 17 ottobre della stesso
anno, che definisce immateriale un bene culturale
che non è fisicamente tangibile come il dialetto,
una manifestazione folklorica, una ricetta culinaria
ecc.
Quindi i beni culturali possono essere materiali e
immateriali ed essendo il dialetto un bene
immateriale, entra a pieno titolo, come è stato
sancito nella Convenzione di Parigi nel grande
patrimonio culturale nazionale e nel nostro caso in
quello calabrese.
Le
due Convenzioni citate sono state sicuramente alla
base dell’iniziativa istituzionale
dell’allora Presidente Spadolini, quando nel 1974
istituì il Ministero dei Beni Culturali, per gestire
l’immenso patrimonio culturale italiano,
assicurandogli un’organica tutela e sottraendolo ad
una politica che fino a quel momento aveva posto
nell’improvvisazione o in una programmazione
saltuaria, il destino dei nostri giacimenti
materiali ed immateriali, tra cui il nostro
dialetto.
Seconda Parte
Il
dialetto come bene culturale da tutelare”
E’
necessario, se parliamo del dialetto come valore
letterario e sociale, fissare due considerazioni
centrali nel nostro ragionamento a difesa del
dialetto come bene culturale da tutelare. La prima
sta proprio nel fatto che il dialetto, malgrado i
punti di vista diversi da quello qui espresso, alla
luce di quanto abbiamo sostenuto nella prima parte
della relazione, è da considerarsi un bene culturale
a tutti gli effetti.
In
un’epoca infatti in cui giustamente si è
riconosciuto il valore dei beni monumentali e
ambientali, e si cerca di tutelarli nel modo più
incisivo possibile, è necessario che lo stesso
avvenga per la nostra parlata. Se ogni nostra
comunità perdesse il proprio dialetto, sarebbe come
se un gigantesco incendio mandasse in fumo tutti i
nostri boschi, o se si seccassero tutte le
sorgenti.
Un
pezzo incommensurabile della nostra storia, della
nostra cultura millenaria andrebbe perduto. Andrebbe
perduto quel meraviglioso insieme di sensazioni,
sonorità, profumi, emozioni che solo il dialetto ci
sa mettere nell’animo. Si perderebbe l’anima della
nostra regione. Il nostro dialetto porta dentro di
sé la nostra storia di millenni, le nostre radici.
Dunque, il primo passaggio è riconoscere nel
dialetto un bene culturale da conservare con la più
grande cura.
La
seconda considerazione nasce per tentare umilmente
di contribuire a far crollare il pregiudizio che ci
fa pensare al dialetto come a una “lingua di serie
B” rispetto all’italiano. Il dialetto, da un punto
di vista glottologico, è un idioma a sé stante. Non
è una derivazione dell’italiano, come molti ancora
credono, ma una lingua di pari dignità all’italiano,
che si è evoluta parallelamente a questo,
direttamente dal latino
Il dialetto calabrese, pur nelle sue differenze e
sfumature, è una lingua a tutti gli effetti e
completa, in grado di esprimere ogni tipo di
emozione e di sentimento. Con il dialetto, scusatemi
se sembra banale quello che dico, si può far ridere,
ma anche commuovere, con esso intere generazioni
hanno con dignità calcato il tempo e la storia delle
nostre comunità.
Occorrerebbe dunque, proprio in quanto consapevoli
di ciò, procedere ad una tutela incisiva di quanto è
esistente, parallelamente ad un rilancio. Non dunque
un lavoro proteso esclusivamente verso il passato,
ma con lo sguardo avanti, verso le generazioni
future.
Si
tratta, cioè, di non trasformare il dialetto in un
bene da riporre in un museo da visitare nei giorni
di festa, ma in un patrimonio da tramandare e da far
apprezzare in tutta la sua ricchezza e valenza
culturale.
Cosa
dunque concretamente fare in questa direzione?
Innanzitutto, parlare in dialetto senza vergogna,
senza timore di sembrare “poco colti”: parlando in
calabrese o in un altro dialetto si parla una
lingua con tutti i crismi. Si padroneggia uno
strumento linguistico autonomo. E occorre parlarlo
anche con i giovani!
Poi,
lasciare che i giovani provino a parlarlo, senza
deriderli, correggerli sì, ma incoraggiandoli a
parlare in dialetto.
Catalogare i termini, i modi di dire autenticamente
dialettali, e che rischiano l’estinzione: fissandoli
sulla carta, sarà possibile riutilizzarli
sottraendoli alla dimenticanza.
E’ giusto poi che ogni luogo, ogni
paese parli e conservi il proprio dialetto, la
propria variante.
Inoltre, non è azzardato proporre nelle scuole dei
corsi extracurriculari di dialetto, rivolti non solo
a chi già lo parla, ma anche a chi lo voglia
imparare ex novo; i fondi comunitari lo
permettono e la regione può impostare una
programmazione. Ci sono già esperienze del genere.
A Bologna ogni settimana riuniscono 90 persone, in
gran parte giovani, e provenienti dalla città, ma
anche da altre zone d’Italia.
A
Budrio si fa fa altrettanto, con Corsi di dialetto
budriese organizzati dal Comune, cui partecipano
numerosi bambini e ragazzi. Anche a Bentivoglio si
tengono corsi di bentivogliese. Questo è un modo
di proiettare il dialetto nel futuro, per dargli una
speranza di essere vitale anche tra le giovani
generazioni. Tra l’altro, proprio i giovani, se
stimolati nel modo giusto, potrebbero manifestare un
grande interesse per la loro lingua locale: non solo
con la folta partecipazione ad eventuali corsi
organizzati nei propri comuni, ma anche con delle
iniziative telematiche su internet, in grado di
catturare l’interesse di un numero considerevole di
giovani navigatori. Dal canto loro, le
Amministrazioni Pubbliche Locali dovrebbero per
quanto possibile sostenere queste attività, da un
punto di vista organizzativo ed economico.
Si
potrebbe poi affiancare ai nomi delle strade, dei
paesi, il nome dialettale, come giustamente avviene
in tante comunità, considerate minoranze
linguistiche. Occorre, dunque, fare tutto il
possibile per salvare e ridare nuova vita al nostro
dialetto, per fare in modo che la nostra parlata,
che tanto ci riempie di profumo di autenticità, di
sentimento, non diventi solo un vecchio ricordo
nella memoria. Sia invece
un bene da tutelare, come parte integrante del
patrimonio culturale della nostra regione e della
nostra nazione, capace, in quanto anima profonda
della nostra storia e di quella dei nostri padri, di
accompagnare il progresso economico, sociale e
civile, nonchè la qualità della vita delle nostre
popolazioni.
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pubblicato il 30 maggio 2009
Tutelare i dialetti in un’Italia dei dialetti
e non solo le
lingue minoritarie “etniche”.
Si apre una interessante
discussione per una proposta normativa.
di Pierfranco Bruni
“Credo che sia necessario, sottolinea Pierfranco
Bruni, Presidente dell’Istituto di Cultura delle
Lingue del CSR, ripensare alla cultura dei dialetti
non solo attraverso una chiave di lettura
antropologica ma anche grazie ad un percorso
giuridico, che ponga le basi per una vera e propria
legge di tutela sui dialetti, che non sia la stessa
che tuteli le cosiddette lingue minoritarie”.
L’Italia è una Nazione, che si caratterizza
culturalmente proprio per la varietà delle forme
dialettali da non confondersi con “altre lingue”. Il
dialetto è parte integrante del costume e della
tradizione di una Regione ma anche di territori
all’interno di una stessa Regione. Ci sono
varianti nei dialetti della lingua italiana, che
mostrano la vera storia di una comunità ben definita
all’interno della comune identità ed eredità
nazionale. Ecco perché occorre puntare ai dialetti
come patrimonio culturale, partendo da un
presupposto preciso che è quello che devono restare,
i dialetti stessi, dei modelli in una visione tra
recupero delle tradizioni e letture antropologiche.
Conoscere i dialetti non è la stessa cosa di
tutelare etnie o lingue minoritarie. I dialetti
sono, comunque, appartenenza della cultura italiana.
Questo deve essere chiaro, soprattutto, alla luce di
una nuova dialettica sulle lingue minoritarie e
sulle particolarità etniche.
“Il dialetto, dichiara Pierfranco Bruni, nasce nel
contesto del tessuto culturale nazionale e quindi
tutelarlo significa anche rafforzare la stessa
lingua italiana, la quale nasce, appunto, da
modulazioni dialettali. Ogni Regione presenta le sue
caratteristiche e, dal punto di vista linguistico,
si pone con delle precise koinè espressive.
Il dialetto è altro rispetto ai processi linguistici
ed etnici delle presenze minoritarie anche perché ad
essere interessato è tutto il tessuto nazionale.
D’altronde c’è una straordinaria letteratura
dialettale che si mostra con una sua freschezza e
interessa il Nord come il Sud dell’Italia con degli
incisivi aspetti per i dialetti “isolani”. Si
riapre un capitolo anche sulla questione del sardo”.
Bruni si ripropone l’antico interrogativo: “Il sardo
è una lingua o un dialetto? Il Friulano pone la
stessa questione. Perché non dovrebbero porlo il
siciliano e il napoletano? Quindi scientificamente
sgombriamo il campo da equivoci. C’è una legge di
tutela sulle lingue minoritarie, che va
necessariamente riconsiderata e rivista in molti
aspetti e ci sono dei dialetti da considerare come
veri manifesti del mosaico linguistico della
Nazione, che vanno salvaguardati per la loro
importanza storica, per il loro contributo
letterario, per il loro arricchire l’eredità della
stessa lingua nazionale”.
Naturalmente alla base di una discussione su tali
materie resta una norma fondante che è quella della
lingua italiana senza cadere però nell’accettazione
di una lingua che possa perdere la sua struttura
originaria per favorire inserti, che provengono da
altre forme di “meticciato” linguistico.
“La lingua italiana, afferma ancora Bruni, è lingua
nazionale di un popolo con le “dovute” varianti. Ma
non si può parlare di bilinguismo “etnico” o storico
ad oltranza. Ci sono casi da riconsiderare e
fenomeni che andrebbero riletti come la presenza,
non solo culturale, ma linguistica della lingua
albanese in alcuni centri italo – albanesi, presenti
addirittura in sette Regioni dell’Italia centro –
meridionale.
Qui si pone un problema molto serio. Un conto è
definire il rapporto tra etnia albanese presente in
Italia e tutela della lingua albanese. Un altro dato
invece è tutelare l’albanese come lingua.
Si dovrebbe ridefinire la contestualità attraverso
una marcata distinzione tra l’arbereshe (italo –
albanese) e lingua albanese. Il paradosso è che in
alcune Università non si insegna l’arbereshe ma la
lingua albanese come modello tutelante in Italia”.
Con forza Pierfranco Bruni insiste: “Non si possono
naturalmente, con tutto il rispetto per i sapere
avanzati, condividere sia culturalmente che
giuridicamente queste scelte ma l’errore iniziale
sta nella legge, che tutela le lingue minoritarie
perché parla di lingua albanese e non di arbereshe.
Una correzione va fatta urgentemente e tutta la
normativa va rivista anche perché si entra in un
groviglio di confusioni, che sono apparentemente
culturali ma che si impongono come elementi
meramente giuridici e non è poca cosa.
In virtù di ciò non dispiacerebbe aprire un serio
dibattito sui dialetti italiani ma i due aspetti,
anche sul piano giuridico, vanno trattati in modo
chiaramente distinti. Puntiamo alla tutela della
cultura dei dialetti perché solo così si rafforzerà
la storia, la tradizione e le culture nazionali
della civiltà italiana.
Il dialetto, cesella sempre Bruni, è patrimonio
condiviso di una Nazione ed è parte integrante nei
processi integrativi tra lingua, storia e identità.
Ben altra cosa sono le lingue minoritarie, che
vanno, chiaramente, tutelate ma andrebbero
giuridicamente regolamentate.
Non capisco, conclude Bruni, perché anche dal punto
di vista economico le lingue minoritarie possono
attingere a contributi e la cultura dei dialetti
resta ancora un campo sommerso, che non presenta
alcuna forma di garanzia giuridica”.
Campi, ovviamente, distinti ma da riconsiderare e
ricontestualizzare. I dialetti sono dentro la storia
della Nazione e hanno fatto la lingua italiana.
Partiamo da questo presupposto senza confondere gli
aspetti ma con delle idee precise e con una volontà,
che possa puntare sia alla tutela che alla
valorizzazione. |
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