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DIALETTO DI CALABRIA E LINGUE MINORITARIE

 

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il Dialetto

 

 

 

 

 

Dialetto di Calabria e lingue minoritarie

Tra Antropologia e Letteratura


 

pubblicato il 29 giugno 2010

Identità nazionale tra dialetti e lingue minoritarie

Nella consapevolezza di una storia unificante

 di Pierfranco Bruni

 

Ci sono “piccole” e “grandi” identità? Un interrogativo quasi banale ma che si pone in un contesto in cui il rapporto tra identità nazionale e culture minoritarie (dalle minoranze linguistiche storiche alla presenza di un mondo articolato di culture e dialetti che vivono una realtà territoriale come una precisa consapevolezza identitaria) rappresenta non solo una chiave di lettura antropologica ma diventa un fattore fondamentale nella sfera dei processi “ideologici” del nostro tempo.

Quali sono o quali potrebbero essere queste identità? Ogni comunità che vive il territorio si autotutela con due precisi elementi: la lingua (il dialetto non è lingua ufficiale ma potrebbe costituire l’alternativa ad un richiamo di omologazione) e le tradizioni. È chiaro che intorno a questi elementi si sviluppano una serie di manifestazioni che mettono in campo la storia di una comunità che si sente ed è popolo ed essendo tale o avvertendo di essere tale il richiamo alle radici diventa un fatto di estrema necessità, ma anche di possibile salvezza nei confronti di uno sradicamento che si vive all’interno di una cultura nazionale.

 

La lingua è il tramite attraverso il quale la comunicazione si fa trasmissione non solo di un vocabolario reale e metaforico ma si focalizza come recupero di valori. Per affermare questi valori entrano in gioco le tradizioni con la convinzione di affermare un etnos le cui matrici hanno richiamo a volte inspiegabili ma si considerano come tasselli di un mosaico ancestrale.

Allora, la piccola identità, che è quella della comunità ristretta, entra nella grande identità che è quella geograficamente più estesa e politicamente più sezionata in una dimensione nazionale. Ma a questo punto occorrerebbe fare una distinzione o per lo meno porre una riflessione. Io non parlerei più di identità, piccola o grande che possa essere nella sua fisionomia geografica, territoriale, etno – antropologica, ma userei un altro concetto che mi sembra più pertinente ed è quello di appartenenza.

 

L’identità resterebbe quella geograficamente e culturalmente all’interno di una visione nazionale mentre ogni comunità è l’espressione di una appartenenza che segna il suo tempo in quelle radici territoriali definite localmente.

In un contesto di cittadinanze “multiple” la distinzione tra identità e appartenenza diventa qualificabile e giustificabile sia sul piano di una interpretazione territoriale sia in un processo di incontri tra culture diversificate e percorsi antropologici veri e propri.

Il discorso che interessa le minoranze linguistiche o le presenze minoritarie non è soltanto una questioni che possa riguardare la lingua o le lingue (ed è errato continuare ad usare soltanto il termine linguistico) ma deve sempre più toccare gli aspetti di una storia che ha le sue eredità in quella che usiamo chiamare antropologia delle comunità.

 

L’Italia ha chiaramente la sua identità ma vive costantemente negli intrecci linguistici e antropologici che ci riportano ad una antropologia delle radici. Ciò non significa che bisognerebbe tendere ad una disarticolazione delle culture attraverso la eterogeneità delle lingue e dei linguaggi. Occorre prendere atto che c’è l’identità di una Nazione che convive con le diverse appartenenze storiche ben scavate nelle realtà territoriali.

Ma questo è un fatto che resta come fenomeno antropologico e quindi come storia di una civiltà. Il problema della difesa delle lingue minoritarie e della tutela dei dialetti non può e non deve infingere l’identità nazionale. Questo deve essere un “patto” certo in una cultura unificante e non in una geografia disarticolata e divisoria.

 

Noi siamo stati e siamo un popolo contaminato ma parimenti siamo stati e siamo contaminanti. Mi pare che si tratti di una premessa necessaria per continuare a discutere sul valore della identità e delle appartenenze.

È chiaro che andrebbe separato, ed è separato, il discorso riguardante le lingue minoritarie e quello concernente i dialetti. Ma il riconoscimento vero, al di là della Legge di Tutela sulle minoranze linguistiche in Italia, avviene sul piano culturale e non può essere diversamente in quanto le minoranze linguistiche, con tutta la loro storia, e i codici dialettali sono patrimonio culturale. Ovvero sono garanti di una storicità sul territorio e quindi costituiscono la vera rappresentanza di un bene culturale.

 

Proprio in virtù di ciò la lingua delle minoranze soltanto come capacità di salvaguardia di una comunità mi sembra fuorviante. È anche vero, comunque, che quando una comunità perde la propria lingua ha un destino segnato. Ciò può essere il presupposto che ci permette di legare la lingua a tutta una complessità di sistemi che provengono dall’appartenenza ad una eredità fatta di letteratura, di arte, di costumi, di musica. C’è una “grammatica” più vasta che supera la stessa focalizzazione di pensare alla tutela di una minoranza insistendo con forza vitale sulla lingua.

La lingua è una parte della complessità dei processi etno – antropologici di una comunità. Il dialetto è già di per sé componente essenziale di una lingua madre ed assorbe il disegno socializzante di un territorio nelle sue direttrici storiche e moderne.

Credo che la letteratura o le letterature possano aprire prospettive per una comprensione più adeguata al rapporto tra identità nazionale e appartenenze geografiche sia linguistiche che culturali tout court. Ecco perché insisto sul fatto che non può esserci rottura tra il concetto di identità e quello delle appartenenze, come non è possibile pensare a piccole o grandi identità.

Le minoranze etno – linguistiche (ed uso il termine più appropriato) sono un bene culturale e come tale vanno argomentate e trattate nei vari passaggi: dalla conoscenza alla tutela, dalla valorizzazione alla fruizione. I beni culturali vanno difesi perché ci parlano, ci raccontano, tracciano sentieri, perché ci riportano, nella metafora del ritorno e del nostos, ad una antica memoria che è quella della civiltà delle origini.

 

L’antropologia aiuta una lingua a non smarrirsi e a non morire. Da sola la lingua correrebbe il rischio di porsi in competizione. Si tratta di un discorso che non può essere posto in questi termini perché nella lingua ci sono le ramificazioni di una civiltà ma bisogna essere anche consapevoli che la lingua è la parte e non il tutto di un processo di identificazioni di un popolo.

Non ci sono piccole o grandi “patrie” linguistiche ma c’è un unico comune denominatore che è quello di saper dare consapevolezza all’incontro sia della cultura delle parole, con un preciso vocabolario, sia  delle culture strutturate tra l’immateriale e il definito come modello storico.

Nella storia di una comunità il sentimento dell’appartenenza non scompare, non si smarrisce, non muore ma si definisce. Ed è questo il principio portante che porta a considerare la realtà delle minoranze etno – linguistiche come il portato di un bene culturale che è sempre più espressione di un incontro tra identità e appartenenza.

 

Mi pare che intorno a queste riflessioni si possa aprire una convergenza non dimenticando che la lingua è patrimonio culturale di una comunità ma il patrimonio culturale sta nell’insieme di un processo in cui identità, appartenenza ed eredità costituiscono una voce unificante.

Se tutto questo ruota intorno al tema della conoscenza valorizzante le minoranze etno – linguistiche, con tutta la loro memoria, resteranno riferimenti nel patrimonio di una Nazione. I dialetti sono modelli già definiti nella nel processo antropologico di una civiltà territoriale pur nelle possibile e sicure varianti. Questo è una ricchezza nella consapevolezza che c’è, comunque, una unica identità nazionale.

 

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pubblicato il 29 giugno 2010

Il dialetto un bene culturale da tutelare

Intervento di presentazione del Festival del Dialetto

 di Egidio Chiarella

  Prima parte 

Il dialetto è un patrimonio culturale che va tutelato, ma non solo  per amore di conservazione o di una malcerta identità,  bensì perché una lingua, qualsiasi essa sia, è un bene soprattutto per comunicare.

 Il linguista Tullio De Mauro è convinto che la pluralità linguistica non è un accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per la specie e le comunità umane. Chiunque tenti di soffocarla deve sapere che contribuisce a spegnere il cuore pulsante della stessa umanità

 C’è oggi chi vorrebbe utilizzare il dialetto per chiudere virtualmente dei confini, in nome di una identità magari ritenuta superiore; c’è anche chi lo guarda con l’animo del cantore medievale fine a se stesso, pronto a rimetterlo in gioco nelle “giostre” moderne, necessarie a toccare con nostalgia, magari per esigenze spettacolari o pseudo romantiche, il nostro passato e con esso il nostro dialetto.

  Io prendo le distanze, con il dovuto rispetto, da entrambe le posizioni, perché considero il dialetto un Bene Culturale a tutti gli effetti.

   Sono qui infatti, sicuramente per il piacere di relazionare assieme agli autorevoli amici del tavolo della presidenza e salutare con affetto tutti   voi presenti in questo importante convegno, ospitato nella bella e importante città di Castrovillari, alla quale mi sento legato per i miei numerosi trascorsi, in campo istituzionale e culturale; ma sono anche qui principalmente, perché proprio l’antropologa prof.ssa  Maria Zanoni, cultrice autentica del dialetto calabrese, dai toni raffinati e letteralmente avanzati, nonchè rigorosamente scientifici, ha speso un tratto significativo della sua vita per difendere la nostra lingua locale, come appunto bene culturale, al pari degli altri innumerevoli beni, che fanno parte dell’importante patrimonio culturale calabrese.

  Lo ha fatto con equilibrio e alto senso del rispetto, proprio verso le determinazioni che lo Stato Italiano ha ufficialmente espresso nel 1967, dopo tre anni di lavoro, attraverso la Commissione Franceschini, proponendo per la prima volta la definizione di patrimonio culturale e quindi di bene culturale:

 “Appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi come riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i Beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”.

L’ultima opera della Zanoni, Castrovillari nel ‘900 e gli antichi mestieri va in questa direzione. Un’opera singolare, anche perché scritta a quattro mani, assieme alla figlia Claudia, che oltre ad essere una esperta di Statistica ed informatica, ha da tempo assunto con autorevolezza la giovane personalità di una capace e preparata consulente editoriale e componente di gruppi di lavoro, che hanno prodotto incontri e studi antropologici, in cui i beni culturali, il dialetto e le minoranze linguistiche sono stati al centro della ricerca svolta, con risultati apprezzati a diversi livelli.

Quest’ultimo lavoro riesce mirabilmente a far passare un messaggio forte e di grande significato sociale e culturale, presentando le attività tradizionali nei vari campi produttivi del territorio Castrovillarese, non come un mondo museale, ma come un filo forte e sottile, che tiene ancorati  passato e presente, avvolgendo molte delle iniziative imprenditoriali, artigianali, agricole di oggi. Le numerose foto dell’opera di Maria Zanoni e di Claudia Rende presentano infatti l’immagine viva, in diversi casi, di una trasformazione locale, strutturale, culturale ed economica, che risponde al progresso attuale, senza spazzare via il lavoro e le iniziative degli antenati del posto.

Vorrei però ritornare al concetto di bene culturale, riferito al nostro dialetto, anche per mandare un messaggio chiaro, da questo autorevole consesso, a quei miei colleghi che vedono in questa mia affermazione, che grazie a Dio condivido, assieme alla Zanoni, con moltissimi studiosi del settore, una stoltezza letteraria o persino una provocazione, se non una superficiale esagerazione, in quanto non riconoscono al nostro dialetto la tribuna eletta dei beni culturali.

Devo perciò ricordare a tutti, che oltre alla convenzione dell’Aja del 14 maggio              1954, in cui si definisce materiale un bene culturale fisicamente tangibile, come le opere architettoniche, pittoriche e scultoree, c’è da sottolineare il lavoro della Convenzione di Parigi del 17 ottobre della stesso anno, che definisce immateriale un bene culturale che non è fisicamente tangibile come il dialetto, una manifestazione folklorica, una ricetta culinaria ecc.

Quindi i beni culturali possono essere materiali e immateriali ed essendo il dialetto un bene immateriale, entra a pieno titolo, come è stato sancito nella Convenzione di Parigi nel grande patrimonio culturale nazionale e nel nostro caso in quello calabrese.

Le due Convenzioni citate sono state sicuramente alla base dell’iniziativa          istituzionale dell’allora Presidente Spadolini, quando nel 1974 istituì il Ministero dei Beni Culturali, per gestire l’immenso patrimonio culturale italiano, assicurandogli un’organica tutela e sottraendolo ad una politica che fino a quel momento aveva posto nell’improvvisazione o in una programmazione saltuaria, il destino dei nostri giacimenti materiali ed immateriali, tra cui il nostro dialetto.

 

Seconda  Parte 

  Il dialetto come bene culturale da tutelare”

 E’ necessario, se parliamo del dialetto come valore letterario e sociale, fissare due considerazioni centrali nel nostro ragionamento a difesa del dialetto come bene culturale da tutelare. La prima sta proprio nel fatto che il dialetto, malgrado i punti di vista diversi da quello qui espresso, alla luce di quanto abbiamo sostenuto nella prima parte della relazione, è da considerarsi un bene culturale a tutti gli effetti.

In un’epoca infatti in cui giustamente si è riconosciuto il valore dei beni monumentali e ambientali, e si cerca di tutelarli nel modo più incisivo possibile, è necessario che lo stesso avvenga per la nostra parlata. Se ogni nostra comunità perdesse il proprio dialetto, sarebbe come se un gigantesco incendio mandasse in fumo tutti i nostri  boschi, o se si seccassero tutte le sorgenti.

Un pezzo incommensurabile della nostra storia, della nostra cultura millenaria andrebbe perduto. Andrebbe perduto quel meraviglioso insieme di sensazioni, sonorità, profumi, emozioni che solo il dialetto ci sa mettere nell’animo. Si perderebbe l’anima della nostra regione. Il nostro dialetto porta dentro di sé la nostra storia di millenni, le nostre radici.

Dunque, il primo passaggio è riconoscere nel dialetto un bene culturale da conservare con la più grande cura.

La seconda considerazione nasce per tentare umilmente di contribuire a far crollare il pregiudizio che ci fa pensare al dialetto come a una “lingua di serie B” rispetto all’italiano. Il dialetto, da un punto di vista glottologico, è un idioma a sé stante. Non è una derivazione dell’italiano, come molti ancora credono, ma una lingua di pari dignità all’italiano, che si è evoluta parallelamente a questo, direttamente dal latino
Il dialetto calabrese, pur nelle sue differenze e sfumature, è una lingua a tutti gli effetti e completa, in grado di esprimere ogni tipo di emozione e di sentimento. Con il dialetto, scusatemi se sembra banale quello che dico, si può far ridere, ma anche commuovere, con esso intere generazioni hanno con dignità calcato il tempo e la storia delle nostre comunità.

Occorrerebbe dunque, proprio in quanto consapevoli di ciò, procedere ad una tutela incisiva di quanto è esistente, parallelamente ad un rilancio. Non dunque un lavoro proteso esclusivamente verso il passato, ma con lo sguardo avanti, verso le generazioni future.

Si tratta, cioè, di non trasformare il dialetto in un bene da riporre in un museo da visitare nei giorni di festa, ma in un patrimonio da tramandare e da far apprezzare in tutta la sua ricchezza e valenza culturale.

Cosa dunque concretamente fare in questa direzione?

Innanzitutto, parlare in dialetto senza vergogna, senza timore di sembrare “poco colti”: parlando in calabrese o in un altro dialetto  si parla una lingua con tutti i crismi. Si padroneggia uno strumento linguistico autonomo. E occorre parlarlo anche con i giovani!

Poi, lasciare che i giovani provino a parlarlo, senza deriderli, correggerli sì, ma incoraggiandoli a parlare in dialetto.

Catalogare i termini, i modi di dire autenticamente dialettali, e che rischiano l’estinzione: fissandoli sulla carta, sarà possibile riutilizzarli sottraendoli alla    dimenticanza. E’ giusto poi che ogni luogo, ogni paese parli e conservi il proprio dialetto, la propria variante.

Inoltre, non è azzardato proporre nelle scuole dei corsi extracurriculari di dialetto, rivolti non solo a chi già lo parla, ma anche a chi lo voglia imparare ex novo; i    fondi comunitari lo permettono e la regione può impostare una  programmazione. Ci sono già esperienze del genere. A Bologna ogni settimana riuniscono 90 persone, in gran parte giovani, e provenienti dalla città, ma anche da altre zone d’Italia.

A Budrio si fa fa altrettanto, con Corsi di dialetto budriese organizzati dal Comune, cui partecipano numerosi bambini e ragazzi. Anche a Bentivoglio si tengono corsi di bentivogliese. Questo è un modo di proiettare il dialetto nel futuro, per dargli una speranza di essere vitale anche tra le giovani generazioni. Tra l’altro, proprio i giovani, se stimolati nel modo giusto, potrebbero manifestare un grande interesse per la loro lingua locale: non solo con la folta partecipazione ad eventuali corsi organizzati nei propri comuni, ma anche con delle iniziative telematiche su internet, in grado di catturare l’interesse di un numero considerevole di giovani navigatori. Dal canto loro, le Amministrazioni Pubbliche Locali dovrebbero per quanto possibile sostenere queste attività, da un punto di vista organizzativo ed economico.

Si potrebbe poi affiancare ai nomi delle strade, dei paesi, il nome dialettale, come giustamente avviene in tante comunità, considerate minoranze linguistiche. Occorre, dunque, fare tutto il possibile per salvare e ridare nuova vita al nostro dialetto, per fare in modo che la nostra parlata, che tanto ci riempie di profumo di autenticità, di sentimento, non diventi solo un vecchio ricordo nella memoria.  Sia  invece un bene da tutelare, come parte integrante del patrimonio culturale della nostra regione e della nostra nazione, capace, in quanto anima profonda della nostra storia e di quella dei nostri padri, di accompagnare il progresso economico, sociale e civile, nonchè la qualità della vita delle nostre popolazioni.

 

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pubblicato il 30 maggio 2009

Tutelare i dialetti in un’Italia dei dialetti e non solo le lingue minoritarie “etniche”. Si apre una interessante discussione per una proposta normativa.

 

di Pierfranco Bruni

 

“Credo che sia necessario, sottolinea Pierfranco Bruni, Presidente dell’Istituto di Cultura delle Lingue del CSR, ripensare alla cultura dei dialetti non solo attraverso una chiave di lettura antropologica ma anche grazie ad un percorso giuridico, che ponga le basi per una vera e propria legge di tutela sui dialetti, che non sia la stessa che tuteli le cosiddette lingue minoritarie”.

L’Italia è una Nazione, che si caratterizza culturalmente proprio per la varietà delle forme dialettali da non confondersi con “altre lingue”. Il dialetto è parte integrante del costume e della tradizione di una Regione ma anche di territori all’interno di una stessa Regione.  Ci sono varianti  nei dialetti della lingua italiana, che mostrano la vera storia di una comunità ben definita all’interno della comune identità ed eredità nazionale. Ecco perché occorre puntare ai dialetti come patrimonio culturale, partendo da un presupposto preciso che è quello che devono restare, i dialetti stessi, dei modelli in una visione tra recupero delle tradizioni e letture antropologiche.

Conoscere i dialetti non è la stessa cosa di tutelare etnie o lingue minoritarie. I dialetti sono, comunque, appartenenza della cultura italiana. Questo deve essere chiaro, soprattutto, alla luce di una nuova dialettica sulle lingue minoritarie e sulle particolarità etniche.

 

“Il dialetto, dichiara Pierfranco Bruni, nasce nel contesto del tessuto culturale nazionale e quindi tutelarlo significa anche rafforzare la stessa lingua italiana, la quale nasce, appunto, da modulazioni dialettali. Ogni Regione presenta le sue caratteristiche e, dal punto di vista linguistico, si pone con delle precise koinè espressive.

Il dialetto è altro rispetto ai processi linguistici ed etnici delle presenze minoritarie anche perché ad essere interessato è tutto il tessuto nazionale. D’altronde c’è una straordinaria letteratura dialettale che si mostra con una sua freschezza e interessa il Nord come il Sud dell’Italia con degli incisivi aspetti per i dialetti “isolani”. Si  riapre un capitolo anche sulla questione del sardo”.

Bruni si ripropone l’antico interrogativo: “Il sardo è una lingua o un dialetto? Il Friulano pone la stessa questione. Perché non dovrebbero porlo il siciliano e il napoletano? Quindi scientificamente sgombriamo il campo da equivoci. C’è una legge di tutela sulle lingue minoritarie, che va necessariamente riconsiderata e rivista in molti aspetti e ci sono dei dialetti da considerare come veri manifesti del mosaico linguistico della Nazione, che vanno salvaguardati per la loro importanza storica, per il loro contributo letterario, per il loro arricchire l’eredità della stessa lingua nazionale”.

Naturalmente alla base di una discussione su tali materie resta una norma fondante che è quella della lingua italiana senza cadere però  nell’accettazione di una lingua che possa perdere la sua struttura originaria per favorire inserti, che provengono da altre forme di “meticciato” linguistico.

“La lingua italiana, afferma ancora Bruni, è lingua nazionale di un popolo con le “dovute” varianti. Ma non si può parlare di bilinguismo “etnico” o storico ad oltranza. Ci sono casi da riconsiderare e fenomeni che andrebbero riletti come la presenza, non solo culturale, ma linguistica della lingua albanese in alcuni centri italo – albanesi, presenti addirittura in sette Regioni dell’Italia centro – meridionale.

Qui si pone un problema molto serio. Un conto è definire il rapporto tra etnia albanese presente in Italia e tutela della lingua albanese. Un altro dato invece è tutelare l’albanese come lingua.

Si dovrebbe ridefinire la contestualità attraverso una marcata distinzione tra l’arbereshe (italo – albanese) e lingua albanese. Il paradosso è che in alcune Università non si insegna l’arbereshe ma la lingua albanese come modello tutelante in Italia”.

Con forza Pierfranco Bruni insiste: “Non si possono naturalmente, con tutto il rispetto per i sapere avanzati, condividere sia culturalmente che giuridicamente queste scelte ma l’errore iniziale sta nella legge, che tutela le lingue minoritarie perché parla di lingua albanese e non di arbereshe. Una correzione va fatta urgentemente e tutta la normativa va rivista anche perché si entra in un groviglio di confusioni, che sono apparentemente culturali ma che si impongono come elementi meramente giuridici e non è poca cosa.

In virtù di ciò non dispiacerebbe aprire un serio dibattito sui dialetti italiani ma  i due aspetti, anche sul piano giuridico, vanno trattati in modo chiaramente distinti. Puntiamo alla tutela della cultura dei dialetti perché solo così si rafforzerà la storia, la tradizione e le culture nazionali della civiltà italiana.

Il dialetto, cesella sempre Bruni, è patrimonio condiviso di una Nazione ed è parte integrante nei processi integrativi tra lingua, storia e identità. Ben altra cosa sono le lingue minoritarie, che vanno, chiaramente, tutelate ma  andrebbero giuridicamente regolamentate.

Non capisco, conclude Bruni, perché anche dal punto di vista economico le lingue minoritarie possono attingere a contributi e la cultura dei dialetti resta ancora un campo sommerso, che non presenta alcuna forma di garanzia giuridica”.

Campi, ovviamente, distinti ma da riconsiderare e ricontestualizzare. I dialetti sono dentro la storia della Nazione e hanno fatto la lingua italiana. Partiamo da questo presupposto senza confondere gli aspetti ma con delle idee precise e con una volontà, che possa puntare sia alla tutela che alla valorizzazione. 

 
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