Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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Etnie  pag. 4


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editoriali, recensioni e saggi su Etnie

le minoranze etnico-linguistiche storiche in Italia

Etnie di Calabria

pubblicato il 31 gennaio 2011

 

Gli Armeni: una presenza etno - religiosa

tra Oriente ed Occidente

Un popolo profondamente cristiano

 

di Pierfranco Bruni

 

 La cultura armena č una di quelle presenze etniche che andrebbe studiata con pił attenzione e con un particolare riguardo soprattutto ai processi antropologici e religiosi che hanno una profonda matrice cristiana. Non puņ essere pił non considerata una cultura a sé rispetto a quelle che vengono normalmente tutelate da una legge che salvaguarda e valorizza le lingue minoritarie (ma con le lingue chiaramente entrano in gioco anche gli aspetti etno – antropologici e letterari.

Mi riferisco certamente ad una cultura che ha antiche radici e ad una “minoranza” che va considerata storica. Ha un patrimonio artistico e letterario abbastanza consistente e considerevole anche dal punto di vista di una letteratura che ha saputo esprimere una forte tensione sia politica che esistenziale.

Il pił delle volte la presenza armena in Italia e in Europa la si fa risalire intorno ai primi decenni del Novecento in riferimento al massacro e al genocidio degli armeni riferito al 1915 (c’č da precisare che il termine “genocidio” risale al 1943 e il termine fu creato da Raffaele Lemkel e si riferiva, allora, esclusivamente allo sterminio degli armeni durante la prima guerra mondiale) ma in Italia la loro presenta la si puņ registrare anche in quel patrimonio storico – artistico che č diventato un dato tangibile di una testimonianza che parla attraverso una griglia simbolica.

Uscendo dalla storia e dalla tragedia della storia del genocidio (fatto e dato che comunque resta sempre profondo e determinante nell’anima di un popolo) la dimensione cristiana del popolo armeno č dentro una manifestazione espressa dalle strutture che rappresentano il cammino o la diaspora di un popolo che si č trovato a vivere tutti i passaggi della temperie ottomana, musulmana e turca.

Gli armeni, una piccola geografia tra i paesi russi e turchi, ha sempre cercato di integrarsi all’interno di un mondo profondamente euro – occidentale. Un dialogo mai interrotto tra la lingua e l’etnia e ciņ lo si evince proprio dai codici letterari che costituiscono una delle chiavi di lettura pił importanti per tentare di capire la spiritualitą e la tensione umana dei passaggi epocali vissuti dal popolo armeno.

In “Pietre sul cuore – Diario di Varvar, una bambina scampata al genocidio degli armeni”, a cura di Alice Tachadjian (Sperling), si puņ leggere: “…quando ancora ero una fanciulla/e ho cominciato a parlarti,/mia lingua armena,/a partire da quel giorno/come un gioiello ti ho stretto al cuore”.

La lingua come fenomeno condizionante in un processo in cui l’elemento etnico č dentro una identitą cristiana e la lingua č la rappresentazione di una ereditą che non puņ perdersi, che non puņ andare persa, che vive dentro i luoghi del pensare di una civiltą.

In fondo č una questione che tocca tutte le minoranze. I due riferimenti certi per non disperdere il vero valore de un popolo č nella tradizione e la tradizione si esplica sia grazie alla religione sia grazie alla lingua. Ancora nel testo citato si legge: “…in esilio, la religione e la lingua sono la garanzia della sopravvivenza di un popolo”. Dove vengono meno questi due “porti” viene meno la matrice ereditaria anche se alcune volte č necessario condividere una osservazione che recita: “Cerca di dimenticare, perché, se ricorderai, non potrai pił campare.

La nostalgia č la pił grave delle malattie, per noi immigrati”. La nostalgia č un concetto chiave nella visione antropologica delle minoranze. Perché queste minoranze non vivranno pił realmente la geografia del ritorno. E il ritorno stesso diventa una “assonanza” mitica nell’esistere dei popoli minoritarie che hanno abbandonato il proprio Paese di origine. Il popolo armeno č stato attraversato da passaggi tragici. Non vanno dimenticati. Restano in una memoria le cui radici hanno una profonditą fortemente cristiana.

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pubblicato il 13 dicembre 2010

Risorgimento, Etnie e contributo delle minoranze linguistiche

nel Regno di Napoli

 di Pierfranco Bruni

 

 In un tempo di processi storici e di riletture intorno all’Unitą d’Italia e le sue celebrazioni insiste un legame che ha una sua valenza particolare e tocca aspetti relativi alla lingua e alla funzione identitaria di un popolo, ma non si puņ prescindere da quelle valenze etniche che hanno formato le culture e la civiltą nazionale di un popolo. La civiltą del popolo italiano nasce intorno ad un intreccio di percorsi etnici e di fattori strettamente antropologici.

Il concetto di Tradizione resta centrale in quel passaggio nevralgico tra la cultura post rinascimentale e pre risorgimentale. Le pressioni proveniente dall’Illuminismo sono tutte dentro i primi anni del 1800, ovvero nel legame tra cultura delle Insorgenze e Risorgimento post unitario. Le lingue, le koinč, le etnie e il concetto stretto di etnos sono elementi formativi nella cultura nazionale. Dentro questa cultura storia e letteratura si intrecciano. Risorgimento, Unitą d’Italia e Minoranze linguistiche. Un percorso che ha una sua precisa valenza sia sul piano istituzionale che su quello direttamente culturale. Ed č proprio su questa tematica che le riflessioni hanno una loro particolare incidenza nella dialettica storica.

Mi pare incontrovertibile ridiscutere sul ruolo sia di Garibaldi tra le comunitą Italo – Albanesi sia di Francesco Crispi, statista di origini Arbereshe della Sicilia. Sono due punti di riferimento. Come resta un punto di riferimento la discussione intorno alla problematica inerente il brigantaggio, le insorgenze e il ruolo di Francesco II e Maria Sofia all’interno del Regno delle Due Sicilie e alla difesa ultima di Gaeta.

La domanda che spesso ci siamo posti e non smettiamo di  sottolineare č ancora quella che riguarda il contributo delle minoranze linguistiche dato alla “costruzione” dell’Unitą d’Italia.

Un fatto č certo. Soprattutto gli Italo – Albanesi hanno visto nel Risorgimento una continuitą spirituale e politica del concetto di identitą e di appartenenza. Ma il Risorgimento in sé non significa immediatamente Unitą d’Italia.

Ed č proprio su questo argomentare che stiamo sviluppando una serie di incontri e di confronti. Ecco perché la mostra “Il contributo delle minoranze linguistiche nell'Unitą d'Italia", č un progetto del Ministero per i Beni e le Attivitą Culturali sul quale siamo lavorando alla luce di una rilettura di un processo sia storico che letterario, costituisce uno stimolo per aprire una vasta dialettica su due elementi centrali: Risorgimento e identitą nazionale.

 “Il contributo delle minoranze linguistiche nell'Unitą d'Italia" č, comunque, anche il tema di una Mostra pannellare con un percorso bibliografico ragionato, nella ricorrenza dei 150 anni dell'Unitą d'Italia, in corso di svolgimento nella Sala di Carosino (Ta) del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, organizzata dall'IRAL e dal Ministero per i Beni e le Attivitą Culturali - Direzione Generale per le Biblioteche, gli Istituti Culturali e il Diritto d'Autore, (direttore Maurizio Fallace) in collaborazione con l'Assessorato alla Cultura del Comune di San Marzano di San Giuseppe (Comunitą di lingua Arbereshe). Infatti, la mostra si sposterą nel mese di gennaio 2011 nei saloni del Palazzo della Cultura di San Marzano.

 La mostra prende in considerazione personalitą storiche e letterarie del mondo Italo - Albanese che hanno contribuito all'identitą nazionale. Si tratta di un argomentare importante in quanto sono proprio personalitą che vivono la cultura del bilinguismo ad aver rafforzato l'idea nazionale italiana.

 La mostra č divisa in pannelli con immagini e particolari storici con elementi didattici e una rappresentazione significativa di testi storici, con bibliografia, che documentano il rapporto tra minoranze Arbereshe e Unitą d'Italia. Una Mostra tra immagini, commento e libri storici e letterari.

 Nella Mostra sono stati puntualizzati aspetti su personaggi come Francesco Crispi (di origine Arbereshe della Sicilia, nato il 1818 e morto il 1901), statista di grande fama e per due volte Presidente del Consiglio dei Ministri, Guglielmo Tocci (1827 - 1916), Pasquale Scura (Calabrese di Vaccarizzo Albanese, nato il 1791 e morto il 1868 a Napoli, fu Ministro di Grazia e Giustizia con Garibaldi) sino a due costituzionalisti contemporanei quali Costantino Mortati (1892 - 1985, uno dei padri della attuale Costituzione) e Gennaro Cassiani (1903 - 1978), pił volte Ministro della Repubblica Italiana.

 Ma l'attenzione č rivolta anche alla presenza di Giuseppe Garibaldi tra gli Italo - Albanesi, i quali parteciparono numerosi alle imprese garibaldine. L'obiettivo č anche quello di rileggere il quadro storico pre Unitą d'Italia e il coinvolgimento nel progetto risorgimentale delle comunitą di lingua e di etnia arbereshe. Queste comunitą, pur portandosi dietro una appartenenza culturale e valoriale importante, sono riuscite a svolgere un compito di estrema importanza e di collante con i Paesi Italo - Albanesi, tanto che Garibaldi trovņ ospitalitą in queste comunitą all'insegna del tricolore.

 Il Ministero per i Beni e le Attivitą Culturali svolge un ruolo pregnante in questa occasione perché non č soltanto la storia una chiave di lettura, ma la storia della diaspora di queste comunitą diventa storia unitaria sotto un'unica bandiera puntando alla difesa della lingua e al confronto tra culture. Lo Mostra offre dei frammenti in un percorso che si apre a ventaglio sulla problematica unitaria all'insegna anche delle celebrazione del 150 anniversario dell'Unitą d'Italia.

 Nel corso della serata si č svolta, tra l'altro, una relazione scientifica sul tema: "Da Pasquale Scura a Francesco Crispi. Due statisti Italo - Albanesi nella storia dell'Unitą d'Italia". Un particolare suggestivo e stimolante per una prospettiva dialettica sia sul piano storico, sia su quello giuridico che culturale in senso pił generale. La storia, all’interno della nostra ricerca, viaggia insieme ai processi antropologici. C’č un valore etnico che interessa sia la lingua che le ereditą che toccano direttamente il Regno di Napoli e successivamente il Regno delle Due Sicilie.

Una Mostra e un incontro, su un itinerario istituzionale, all'insegna della consapevolezza e della comprensione delle minoranze linguistiche in un raccordo con la temperie del Risorgimento. Napoli ha rappresentato sempre una geografia complessa all’interno dei rapporti tra identitą nazionale e monarchia.

Napoli, dunque, come Regno di Napoli ma anche come Regno delle Due Sicilie. All’interno di questa geografia gli Italo – Albanesi hanno giocato un ruolo significativo che tuttora ha una sua valenza istituzionale se si pensa agli assetti territoriali sia letterari che linguistici. Le minoranze linguistiche hanno dato un contributo proprio nella capacitą di un dialogo tra ereditą e appartenenza. Scrittori come Girolamo De Rada č riuscito a far dialogare la storia del Regno di Napoli con l’Albania.

Un’Albania e un Regno di Napoli che hanno sempre raccordato valenze non solo culturali ma anche economiche. Questa storia č nella continuitą di un dialogo costante tra la civiltą del Sud e il Mediterraneo. Se l’Unitą d’Italia č stata realizzata con il contributo delle minoranze linguistiche non possiamo neppure dimenticare che l’azione popolare di un Risorgimento incompiuto che passa attraverso le Insorgenze e Francesco II e Maria Sofia annobvera personalitą proveniente anche da quelle culture minoritarie. Ciņ che Giordano Bruno Guerri chiama “guerra civile” del Risorgimento vive dentro quei processi etnici che sono incontro e scontro di processi storici.

 

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pubblicato il 7 Settembre 2010

ieri era la tipica famiglia arbėreshė,  oggi sono le imprese plurifamiliari

moter u nėnghė thė garova nč thė garņgnhė

di Atanasio Pizzi

La famiglia arbėreshė del 1476 si caratterizza per le modalitą qui di seguito elencate:

per ampiezza, considerevolmente maggiore;

per struttura, ottenuta dalla fusione di pił nuclei coniugali  in un unico complesso, detto esteso;

per natura, quale comunitą di vita oltreché di lavoro, unitą produtti­va e affettiva.

Caratteristiche che nel corso di cinque secoli sono man mano sbiadite.

La famiglia arbėreshė che basava la sua economia nella pastorizia e le risorse agricole, da numeroso gruppo familiare, essendo nel tempo cambiato il modello di vita e le risorse non sono pił quelle di allora, oggi ha assunto la tipica formula di famiglia urbana.

L'ampiezza della famiglia pastorale e agricola arbėreshė, appare storicamente deter­minata da un complesso di fattori, fondamentale era, infatti, l'influenza della struttura familiare, estesa e quindi della condizione sociale: le forme familiari essendo particolarmente legate alla conduzione di terre, in affitto o anche in piccola proprietą.

Indiscutibilmente, le famiglie arbėreshė a formula plurifamiliare presenta notevoli vantaggi sotto il profilo della razionalitą.

Non pił tre stalle, non pił tre vigneti, non pił tre dispersi appezzamenti per la coltura di pieno campo: e soprattutto non pił tre coltivatori costretti ad un assurdo enciclopedismo.

Il primo di essi potrą quindi specializzarsi nell’allevamento, il secondo nelle colture arboree, il terzo nelle altre vegetali.

Senza contare che le ingrandite dimensioni economiche della famiglia arbėreshė solleciteranno pił facilmente l'introduzione di una metodica contabilitą, nonché una pił intensa presenza negli organismi di mercato.

Di qui una occasione per interessare ad assumere responsabilitą, nella presenza dei mercati e degli scambi.

In pratica molte difficoltą devono essere scontate, ripartire i compiti e le responsabilitą tra gli uomini e donne non č impresa da poco, ma tutti sapendo e riconoscendo l’indubbio bene che si fa nei confronti di tutto il gruppo, assolvono con religiosa dedizione il proprio compito.

Un compito puņ essere pił qualificato di un altro, onde la eventualitą di stabilire norme precise che diano ad ogni componente il giusto peso e alla specializzazione di ogni competenza.

Non si tratta solo di regolare l'amor proprio; si tratta di ottenere il benessere del gruppo familiare: operazione che nel credo e nella forma mentis degli arbėreshė ha fatto la loro forza.

Essi furono i veri protagonisti della realizzazione di quel antico progetto pensato e messo in atto dal Principe Luca Sanseverino di Bisignano, ovvero rendere fertile e produttivo il territorio della Calabria Citra, ma solo un popolo caparbio e solidale come quello arbėreshė, ligio a quelle antiche regole non scritte, poteva fare si che divenisse realtą.

 

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pubblicato il 7 Settembre 2010

PALAZZO BUGLIARI A S. SOFIA D'EPIRO

e trapėsa

 di Atanasio Pizzi

Spazio ideale per i giochi estivi, conca naturale riconosciuta dai sofioti come Trapėsa, qui affacciava con tutto il suo splendore architettonico Palazzo Bugliari.

Costruito intorno al 1835 utilizzando manovalanze Bisignanesi la quale utilizzava le migliori metodologie di costruzione in quell’epoca.

Incastonato nel naturale declivio aveva nei fronti esposti a sud e ad ovest il giardino posto alla stessa quota del piano nobile.

Il giardino rendeva unico il palazzo, essenze arboree, i vialetti attraverso percorsi floreali e la fontana circolare con i cigni,  era il luogo tra i pił suggestivi del paese.

L’edificio a pianta pressoché quadrata conteneva nel prospetto principale, esposto a est, tutti gli elementi architettonici tipici dei palazzi nobiliari di inizio ottocento.

A piano terra erano collocati l’androne, da cui attraverso una scala in pietra si accedeva al piano nobile, i depositi per le derrate alimentari e le cantine.

Nel primo piano la distribuzione interna conteneva lo studio, le stanze da letto, il grande soggiorno con il camino e la cucina.

Gli arredi e la imponente libreria conservavano ancora indelebili i segni di vita vissuta di una delle famiglie pił nobili di Santa Sofia.

L’edificio del personale di servizio, annesso al palazzo, si sviluppava in due livelli: a piano terra il ricovero per i cavalli e al primo piano il personale.

Il supportico realizzato nella connessione tra i due manufatti collegava la piazza con via Epiro, oltre a consentire il passaggio all’accesso di servizio posto nella parte posteriore, qui era collocato anche il locale di accumulo del carbone.

Il palazzo per pił di centocinquanta anni č stato testimone delle vicende del nostro paese, imperturbabile e attento osservatore, ha visto le trasformazioni edilizie ed orografiche al suo intorno e su largo trapėsa.

Ha visto trasformarsi il corpo adibito al personale di servizio a sede dell’Amministrazione Comunale.

Le vecchie stalle diventare i laboratori della nascente Scuola Media, dedicata all’illustre compaesano Pasquale Baffi.

Palazzo Bugliari č stato il modello architettonico a cui hanno tratto ispirazione nolte famiglie del centro albanofono, che agli inizio dell’ottocento elevando il loro potere economico realizzavano pił dignitose residenze.

Quando l’edificio fu donato alla comunitą sofiota, si auspicava che avesse avuto una degna destinuazione d’uso e continuare ad essere punto di riferimento per la cultura e la formazione arėreshė.

Da prima abbandonato, poi sede di edilizia popolare, in seguito interventi di restauro e recupero funzionale lo hanno modificato strutturalmente ed architettonicamente.

Davanti all’ingresso il piccolo e utile manufatto realizzato in calce e pietra: sieti, č stato barattato con un anonimo e singolare marciapiede (!).

Realizzando l’adeguamento funzionale della sede Comunale sono stati copiati verosimilmente tutti i suoi elementi architettonici della facciata su largo Trapėsa.

Gli accessi, le vie di esodo, i portali, le finestre, i cornicioni e naturalmente gli infissi hanno assunto gli stessi tratti architettonici dell’antico manufatto, creando un clima di confusione che ha fatto perdere ogni tipo di riferimento.

In poche parole tutto quello che nella carta del restauro non č menzionato.

Anche il giardino, č stato oggetto di un radicale stravolgimento, tale da interrompere ogni riferimento con l’antico e storico palazzo.

Ora finalmente č sede definitiva del Museo del Territorio e del Costume Arbėreshė; ma purtroppo ancora oggi non riesce ad emergere sotto la nuova veste, poichč mancano i fondi e soprattutto le persone fisiche che sappiano dare alla struttura il giusto dinamismo e saperlo condurre nei circuiti etnici che contano.

A mio parere manca la persona che sappia organizzare il museo adeguatamente, con specifica qualifica museale e sappia mettere in risalto le eccellenze sartoriali e tessili, prodotte dai sofioti tra l’ottocento e il novecento.

Non si puņ continuare inesorabilmente ad affidarsi all’inventiva o a mirate, singole e remote visite, cosģ il museo non avrą mai un idoneo rilancio.

Ne il suo inestimabile patrimonio fatto di abiti, di tessuti, corredi, ecc., ecc. che tante famiglie, fidandosi della struttura, hanno sapientemente donato avra la ribalta che si palesava.

Il museo con i suoi bauli di storia rappresenta una pietra miliare per l’etnia albanofona di Calabria Citra e non solo.

Sėn Sofia non puņ continuare ad essere fanalino di coda d’Arberia, le sue eccellenze non possono essere riassunte in un’anonima porta azzurra, nei taralli, alle prospettive interne della chiesa e stoglitė, queste ultime pur mancanti dei raffinati e fondamentali elementi decorativi che le caratterizzano; preferendoli ad inutili e sterili personalismi.

Noi sofioti abbiamo una nobile storia, fatta di illustri personaggi grazie ai quali l’etnia arbėreshė č conosciute in tutta Europa.

Cosģ facendo si offendono i figli di Sofia che per le giuste cause hanno dato in cambio la loro stessa vita.

Sofioti con il solo bagaglio fatto di specifica preparazione hanno visto aperte le porte dei pił rinnomati istituti di formazione d’Italia o invitati a presiedere alte cariche istituzionali.

E’ a questi personaggi che abbiamo il dovere di ispirarci in quanto modelli ideali Sofioti.

Illustri personaggi che attendono ancora di avere l’icona o l’epigrafe giusta in loro ricordo, abbiamo il dovere di meditare con adeguata preparazione storica a chi assegnare o dedicare le sedi istituzionali(!), per non parlare delle curiose cittadinanze onorarie.

A questi va tutto il nostro rispetto e stima, ma non sono loro che con le proprie vicende personali hanno fatto o fanno la storia del paese che vale e ci onora.

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pubblicato l' 11 Agosto 2010

GJITONIA, IERI, OGGI E DOMANI

gjiriu te triesa……. gjitoni te shėmėra

di Atanasio arch. Pizzi

L’origine delle genti d’Albania rimane ancora avvolta in un alone di mistero, gli stessi storici, a tutt’oggi non hanno ancora chiarito definitivamente la discendenza e l’origine di questo popolo.

Di cui si scriveva: Non che ponessero in libri alcuna legge, ma ad imitazione di Licurgo piantavano gli statuti ne' costumi e nella disciplina per l'eternitą.

La loro vita era regolata dalle leggi tramandate oralmente, di generazione in generazione per secoli e di seguito unificate dal principe Lekė Dukagjini.

Il Kanun, riportato in forma scritta dal padre francescano Shtjefėn Kostantin Gjeēovsotto nel XX secolo,poi passate alle stampe nel 1933; diviso in dodici volumi in cui la cellula su cui si fonda l’organizzazione sociale della comunitą č rappresentata dalla famiglia.

Essa č concepita come una piccola repubblica che esercita la sua autonomia all’interno del proprio cotile dove si affaccia il tugurio.

La famiglia, composta di due o pił fratelli in coabitazione, negli spazi appena descritti, con le proprie mogli, figli e genitori: il clan, a capo del quale non sempre era insediata la persona pił anziana ma il pił delle volte la pił carismatica, da cui dipendeva ogni cosa che potesse interessare il clan.

Gli albanesi all’interno del loro spazio, condividendo le ric­chezze agricole, pastorali, gli animali da soma e domestici, otre ad imprimere nella mente dei pił giovani, sani principi morali a beneficio del gruppo familiare.

Le prime notizie sulle migrazioni albanesi in Italia, non riguardano nč profughi nč esuli ma soldati. A partire dal XV secolo quando il re di Napoli, Alfonso I d’Aragona, fece venire drappelli di mercenari dall’Albania per contrastare le rivolte dei baroni locali e per sconfiggere lo stesso Renato d’Angiņ.

Agli albori del 1400 la Calabria, come la Sicilia, faceva parte del Regno di Napoli; scenari di rivolte dei feudatari contro il governo angioino; gli albanesi si interposero per fornire i loro servizi militari ora all’una ora all’altra fazione in lotta.

Alfonso d’Aragona ricorse spesso ai servizi di Demetrio Reres tra gli anni 1416 e 1442; il nobile condottiero albanese, portņ con se tre gruppi di soldati, comandati oltre che da lui dai suoi due figli.

L’intervento dell’esercito albanese fu determinante ai fini dall’equilibrio politico di allora, tanto che lo stesso Reres fu nominato governatore della provincia di Reggio e molti suoi uomini, si stabilirono a nord della Calabria Ultra ed in Sicilia, ricevendo come ricompensa alcuni territori in donazione.

Nel 1461, fu Giorgio Castriota Skanderbeg, il riconosciuto eroe nazionale albanese ad impegnarsi nell’organizzare una spedizione militare per sostenere Ferrante I d’Aragona, re di Napoli.

Il Ferrante per accrescere le proprie difese contro l’esercito angioino, chiese ed ottenne l’aiuto delle eccellenti truppe del principe albanese Skanderbeg.

Nella localitą compresa tra Greci, Orsara di Puglia e Troia, furono teatro del pił duro scontro fra i due eserciti, la dove, gli Aragonesi vinsero grazie alla caparbietą dell’esercito Albanese facendo sģ che la loro azione segnasse profondamente gli assetti politico-istituzionali del regno Aragonese.

Fu comunque la morte di Scanderbeg, avvenuta a Lezha alla etą di 63 anni, ad opera dei turchi, questo determinņ un forte esodo dalle loro terre dei profughi albanesi, poiché fortemente perseguitato dai vincitori; e il regno di Napoli divenne il rifugio ideale per quegli esuli.

Gli albanesi che da questo momento vengono individuati come Arbėreshė, accolti a popolare zone aspre, insi­cure, insalubri e senza idonee vie di comunicazione, ma grazie alla loro esperienza agricola e pastorale seppero migliorare quei territori.

In oltre insedian­dosi in quelle terre vi trapiantarono usi e costumi del loro Paese d’origine, il che per la diversitą con quelli locali, li portņ a vivere isolati e ad avere solo gli essenziali contatti con le popolazioni autoctone.         

Tra il 1470 e il 1530, gli arbėreshė per sfuggire alle esose gabelle imposte dai principi e dai vescovi che avevano i diritti di quelle terre, erano soliti distruggere o bruciare i loro pagliai scegliendo la vita nomade, per evitare gli esattori che periodicamente si recavano a riscuotere il dovuto.

Acquisito il diritto, di edificare e di ereditą dei loro beni immobili; intorno alla seconda metą del XVI secolo, si stabilirono definitivamente abbandonando quel modo di vivere da precari.

Intorno al 1564 i rappresentanti istituzionali dei vari agglomerati urbani di etnia arbėreshė, furono ufficialmente informati dal viceré, pena cinque anni di galera, di realizzare cinte murarie a coronamento degli agglomerati urbani; solo al loro interno era concesso di circolare a cavallo o portare con se qualsiasi tipi di arma.

Perņ il terremoto che di li a poco interessņ la valle del Crati e la carestia conseguente, fece disattendere tali disposizioni, solo in parte messe in atto dagli albanofoni.

L'abitazione era in primo luogo un rifugio, spazio addomesticato e difeso, sottratto alle intemperie; che in seguito acquisterą la necessaria qualitą edilizia.

Esse, si realizzava in base a principi consuetudinari, con tecniche e materiali naturali, stabilendosi spontaneamente un rapporto di conformitą tra la fabbrica e l'ambiente.

I primi insediamenti, erano realizzati nei pressi di anfratti naturali, grotte o realizzando i cosi detti pagliai, in Arbėreshė caglive, attorno a cui si recintava uno spazio condiviso da tutta la famiglia.

Carlo Maria Occaso li descriveva cosģ: gli Albanesi della Calabria del Nord, ovvero quelli di Calabria Citra, non conoscevano differenze di ceti e tutti raccolti in tuguri di paglia esercitavano la pastorizia.

La recinzione del cortile (Scesci), realizzata con tronchi infissi nel terreno a cadenze irregolare, questi reggevano la recinzione vera e propria realizzata con rami di robinia, che rendevano di difficile accesso l’area.

Il tugurio o il pagliaio assolveva alla funzione di deposito delle derrate alimentari, di ricovero per gli animali e da dormitorio per i componenti della famiglia.

Nella zona posteriore del tugurio o nei pressi del cortile gli arbėreshė realizzavano un area idonea a recapitare quello che oggi si identifica in una discarica (copėshėti).

I nuclei familiari cosģ organizzati si posizionavano uno nei pressi dell’altro, a ridosso dei tracciati viari collinari.

I tracciati seguivano quella linea ideale mai posta al di sotto di 350m., sul livello del mare, preservandosi dalle punture delle anofele particolarmente efficaci nelle zone poste a valle, lungo le pianure e le coste.

Dalla strada grande, arteria di comunicazione secondaria, viottoli ad uso esclusivo dei vari gruppi familiari, collegavano i scesci dove si svolgeva la loro vita sociale.

Secondo la posizione che le famiglie occupavano rispetto a questi tracciati, si identificavano in: la superiore "dregliarti", quella inferiore "dreshjimi", tale che avessero il controllo totale sulla via di comunicazione.

Quando le disponibilitą economiche dei gruppi familiari e le capitolazioni nei confronti dei rappresentanti istituzionali, diedero pił certezze agli arbėreshė, riconoscendo ad essi gli stessi diritti delle popolazioni autoctone, il tugurio venne sostituito dal catoio, (Katoki), modulo edilizio realizzato in muratura, mentre il cortile e l’area di recapito rimasero concettualmente le stesse.

I rapporti di scambio pur se limitati, hanno sempre creato motivo di socializzazione tra le popolazioni arbėreshė e quelle autoctone; č in questa fase che gli albanofoni cominciarono a cambiare i loro modello di vita; incentrato sullo spazio del cortile (scesci), sul cui affaccio si apprestavano ad aggregare il modulo edilizio: il Katoio.

Le difficoltą logistiche, consentivano agli arbėreshė di realizzare i modelli edilizi, incidendo il meno possibile sulla orografia del terreno, oltre che da antichi legami determinanti l’aggregazione,  producendo cosģ un’apparente e irrazionale schema.

Esso č facilmente riconoscibile in due tipologie urbanistiche, ad andamento lineare o complesso.

Questo rappresenta un momento importante della comunitą albanofona, infatti, č in questa fase che si tracciano le basi per quei modelli urbanistico sociale che vene identificato nella Gjitonia.

Essa non č altro che l’antico cortili, su cui non affaccia pił l’unico tugurio ma una serie di Katoi, residenze delle famiglie, non pił intese come descritte nel Kanun; ma formata dal marito, la moglie, i figli e i genitori, materni o paterni; pur sempre mantenendo i fraterni legami di sangue con i componenti la famiglia del antico gruppo.

Alla cui guida rimaneva sempre la persona pił carismatica, che attribuiva alla gjitonia il proprio nome, facilitando ancor oggi, a noi arbėreshė a individuare quei storici ameni siti.

 

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pubblicato il 27 luglio 2010

Il rito bizantino: storia e struttura

Convegno a Greci

 

a cura di Merita Sauku Bruci

 

In occasione della ricorrenza dei 300 anni dalla fondazione della Chiesa Madre di Greci (AV), intitolata a S. Bartolomeo apostolo (1710-2010), l’amministrazione comunale, in collaborazione con la parrocchia, il 1 luglio 2010 ha organizzato un Convegno sul rito bizantino, che per i primi due secoli dalla immigrazione dall’Albania era praticato, come in tutte le altre comunitą arbёreshe, anche a Greci.

 

Prof. Don Antonio Porpora: storia e struttura del rito bizantino.

 

 Nella sua relazione il Prof. Porpora, della Facoltą Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli, ha inteso mettere in evidenza che la chiesa cattolica non si puņ identificare con la chiesa latina,  come spesso avviene, perché abbraccia anche Chiese orientali di rito bizantino, copto, etiopico, siro, armeno, maronita. La tendenza all’identificazione della chiesa cattolica con la latina č frutto del processo di latinizzazione innescato dalla chiesa di Roma con vari provvedimenti ispirati al concetto di praestantia latini ritus (superioritą del rito latino sugli altri).

Ci sarebbe voluto il Concilio Vaticano II per affermare con decisione che anche le chiese di rito bizantino cattolico “godono di pari dignitą”.

Il relatore ha, quindi, espresso il concetto secondo cui i riti non sono una somma di cerimonie sacre, ma l’espressione di una cultura, di una teologia, di una visione della vita spirituale, e, pertanto, l’espressione di una comunitą, e della sua storia, l’espressione cioč di una chiesa, della sua spiritualitą liturgica. In questa prospettiva si puņ comprendere meglio l’essenza della varietą dei riti: da quello latino a quello copto, al siro-occidentale e siro-orientale, al rito armeno e a quello bizantino.

Don A. Porpora č passato, in seguito, a presentare le caratteristiche della struttura delle chiese  da un punto di vista architettonico, accennando ai lineamenti delle chiese greche (Salonicco), ispirate alla Basilica di Costantinopoli, alle chiese russe, alla loro struttura interna (nartece, navata, santuario delimitato dall’iconostasi), e sottolineando i valori simbolici dei colori: oro dedicato a Cristo, azzurro alla Madonna, verde alla Trinitą, rosso ai santi.

Il relatore ha trattato anche della liturgia, del suo significato nel percorso spirituale che interessa l’intero ciclo dell’anno. Diverse sono state le tradizioni nella formazione dei testi liturgici che attualmente si riducono essenzialmente a tre: la liturgia di S. Giacomo, l’unica che si celebra fuori dall’iconostasi, la liturgia di S. Basilio, la pił lunga, e quella di S. Giovanni Cristostomo, la pił usata durante tutto il ciclo dell’anno. L’eucologio, considerato come il libro delle preghiere liturgiche, nel corso dei secoli ha visto svilupparsi pił tradizioni: la costantinopolitana,  e quelle monastiche del Monte Sinai, dell’Italia meridionale e del Monte Athos.

Il prof. Porpora ha attirato l’attenzione anche sulle maggiori funzioni liturgiche giornaliere: l’esperinon, preghiera della sera, l’apodipnon, del dopocena, il mesoniktikon, funzione della mezzanotte, l’orthros, o mattutino, la divina liturgia o messa, e l’ufficio delle ore; e sulle ricorrenze delle celebrazioni dell’anno liturgico del ciclo fisso e di quello mobile.

A conclusione il relatore ha ribadito che il rito bizantino contiene una grande ricchezza di contenuti e di forme che meritano di essere conosciute, anche in occidente, e possibilmente vissute.

 

Prof. Italo Costante Fortino: latinizzazione della maggior parte delle comunitą arbёreshe.

 

 Greci (AV), il paese formato da immigrati arbёreshё, che si innestņ su un’antica comunitą gią di rito bizantino, č passato al rito latino nella seconda metą del XVII secolo. Come Greci, i due terzi delle comunitą arbёreshe di rito bizantino sono trasmigrati al rito latino nello stesso periodo: Portocannone, Montecilfone, Campomarino, Ururi, Casalvecchio, Casalnuovo, Chieuti, Barile, Ginestra, Maschito, Cerzeto, Cavallerizzo, Cervicati, S. Martino di Finita, S. Giacomo di Cerzeto, Mongrassano, Rota Greca, S. Caterina Albanese, Falconara Albanese, S. Lorenzo del Vallo, Spezzano Albanese, Amato, Andali, Caraffa, Gizzeria, Marcedusa, Vena di Maida, Zangarona, Carosino, Faggiano, Fragagnano, Monteiasi, Montemesola, Monteparano, Roccaforzata, S. Crispieri, S. Giorgio Ionico, S. Marzano di S. Giuseppe, Galatina, S. Cristina Gela, Biancavilla, Bronte, S. Michele di Ganzaria, S. Angelo Muxaro ecc. In sintesi le comunitą passate al rito latino sono 65, quelle che hanno resistito e ancora oggi mantengono il rito bizantino sono 26.

Il prof. Fortino ha ricordato che gli arbёreshё quando si stanziarono nel Regno di Napoli (sec. XV-XVI ) seguivano il rito bizantino ed erano in perfetta armonia con la chiesa latina di Roma, anche perché il Concilio di Firenze (1439) aveva sancito l’unione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. In forza di ciņ, tutte le comunitą arbёreshe d’Italia da un punto di vista canonico, con l’accordo del Patriarca di Costantinopoli e del Papa di Roma, dipendevano dal Patriarcato di Ocrida (Macedonia) che nominava un metropolita con sede ad Agrigento, in Sicilia, e con giurisdizione sugli albanesi e greci di rito bizantino residenti in Italia. Al primo metropolita di Agrigento, Giacomo, successe Pafnuzio di Cipro, a questi Timoteo di Korēa, e infine, l’ultimo, Acacio Casnesio, originario di Corfł.

Illuminanti rimangono i provvedimenti pontifici (Accepimus nuper) di Papa Leone X (1521) a tutela delle peculiaritą del rito bizantino in Italia. Ma appena qualche decennio dopo, con le deliberazioni restrittive del Concilio di Trento (1563), si ebbero conseguenze gravissime che danneggiarono il rito bizantino: Papa Pio IV col documento Romanus Pontifex (1564) annullņ il diritto riconosciuto  a Ocrida e Costantinopoli e sottopose le comunitą arbёreshe di rito bizantino ai vescovi latini, con “la volontą di sopprimere o, almeno, di favorire l’estinzione per esaurimento del rito greco in Italia” (V. Peri) come ribadito dal successore Papa Pio V nel documento pontificio Providentia Romani Pontificis (1566). I deliberazioni del Concilio di Trento, attuati dai due succitati Papi, hanno aperto una falla che avrebbe latinizzato i due terzi delle comunitą arbёreshe dell’Italia meridionale. I concili provinciali successivi, - basti citare solo quello di Benevento (1567) e quello di Bisignano (1571) - , interpretando con sospetto le usanze rituali bizantine, favorivano forme di latinizzazione all’interno del rito stesso. Nel 1742, poi, Papa Benedetto XIV esplicitando la tesi della superioritą del rito latino su tutti gli altri, col documento Etsi pastoralis collocava il rito bizantino in uno stato di inferioritą rispetto al rito latino. I succitati provvedimenti mirarono a cancellare il concetto di chiesa cattolica bizantina e a ridurlo a sole forme rituali bizantine.

Cosģ ridimensionata la comunitą arbёreshe di rito bizantino, la chiesa cattolica latina di Roma prendeva, tuttavia, provvedimenti a favore di quanti avevano resistito alla latinizzazione: Papa Gregorio XIII fondava nel 1577 il Collegio Greco di Roma dove risiedeva un vescovo ordinante anche per il clero arbёresh, nel 1732, su sollecitazione di esponenti della famiglia Rodotą, Papa Clemente XII creava a S. Benedetto Ullano il Collegio “Corsini”, e finalmente nel 1919 Papa Benedetto XV creava l’Eparchia di Lungro e nel 1937 Pio IX quella di Piana degli Albanesi. Il secondo sinodo intereparchiale – Lungro, Piana degli Albanesi e Monastero di Grottaferrata – celebratosi di recente (2005-2006), ha posto le basi per una configurazione pił autentica della chiesa cattolica bizantina in Italia secondo il Diritto Canonico delle Chiese Cattoliche Orientali.

 

GREĒI: Konferencė me temė “Riti bizantin: historia dhe struktura”

hartuar nga Merita Sauku Bruci

 

 Me rastin e festimeve pėr 300 vjetorin e themelimit tė Kishės Mėmė tė Greēit (Avellino), kushtuar Shėn Bartolomeut apostull (1710-2010), administrata komunale, nė bashkėpunim me famullinė, mё 1 korrik 2010 organizuan njė konferencė pėr ritin bizantin, i cili ka qenė praktikuar nė Greēi, ashtu si edhe nė tė gjitha ngulimet arbėreshe, gjatė tė dy shekujve tė parė tė emigrimit nga Shqipėria.

 

Prof. Don Antonio Porpora: historia dhe struktura e ritit bizantin.

 

 Nė kumtesėn e tij, Prof. Porpora, i Fakultetit Teologjik tė Italisė Jugore nė Napoli u pėrpoq tė theksojė se kisha katolike nuk mund tё njejtёsohet me kishėn latine, siē ndodh shpesh, pasi kisha katolike pėrfshin edhe kishat lindore tė ritit bizantin, kopt, etiopian, sirian, armen, maronit. Tendenza pėr njejtėsim tė kishės katolike me atė latine ėshtė frut i procesit tė latinizimit tė ndėrmarrė nga kisha e Romės e tė mbėshtetur nga njė numėr masash e vendimesh, qė u frymėzuan nga koncepti i  praestantia latini ritus (superioriteti i ritit latin mbi tė tjerėt).

U desh tė mblidhej Konēili i II i Vatikanit, pėr tė pohuar me forcė se edhe kishat e ritit bizantin katolik “godono di pari dignitą” (gėzojnė tė njёjtin dinjitet).

Kumtuesi qartėsoi konceptin sipas tė cilit ritet nuk janė njė shumėsi ceremonish tė shenjta, por shprehja e njė kulture, e njė teologjie, e njė vizioni tė jetės shpirtėrore, janė shprehja e njė komuniteti, e historisė sė tij; janė pra shprehja e njė kishe, e spiritualitetit liturgjik tė saj. Parė nė kėtė perspektivė mund tė kuptohet mė mirė larushia e riteve: nga ai latin tek ai kopt, siro-perėndimor e siro-lindor, nga riti armen tek ai bizantin.

Don  A. Porpora, kaloi mė pas tek paraqitja e karakteristikave tė strukturės sė kishave nga pikpamja arkitektonike, duke u ndalur tek linjat e kishave greke (Selanik), qė janė frymėzuar nga Bazilika e Kostandinopojės, tek kishat ruse, me strukturėn e brėndshme (narteēe, anijatё, shenjtore qė kufizohet nga ikonostasi), dhe nėnvizoi dhe vlerėn simbolike tė ngjyrave me tė cilėn janė veshur sė jashtmi kupolat: e artė kur kisha i dedikohet Krishtit, e kaltėr kur i dedikohet Sh. Mėrisė, e gjelbėr nė rastin kur i kushtohet Trinisė sė Shenjtė dhe e kuqe kur i kushtohet shenjtorėve.

Kumtuesi foli edhe pėr liturgjinė, pėr vendin qė zė nė tėrė rrugėtimin shpirtėror gjatė tė gjithė cikleve tė vitit. Traditat  e formimit tė teksteve liturgjike janė tė ndryshme, aktualisht kufizohen nė tri: Liturgjia e Sh. Japkut, e vetmja qė celebrohet jashtė ikonostasit, liturgjia e Sh. Vasilit, mė e gjata, dhe ajo e Sh. Janj Krizostomit, mė e pėrdorura gjatė gjithė ciklit tė vitit. Eucologji, ose libri i lutjeve liturgjike, gjatė shekujve ka ndjekur zhvillimin e shumė traditave: atė tė Kostandinopojės, atė tė murgjėve tė Malit Sinai, tė Italisė sė Jugut e atė tė Malit Athos.

Prof. Porpora tėrhoqi vėmendjen edhe mbi funksionet liturgjike mė tė rėndėsishme ditore si: esperinon ose lutja e mbrėmjes, apodipnon ose lutja e pas darkės, mesoniktikon ose shėrbesa e mesnatės, l’orthros ose shėrbesa e mėngjesit, mė pas liturgjia e shenjtė ose mesha, shėrbesa e lutjeve si edhe festimet e vitit liturgjik, festat e fiksuara dhe ato tė spostueshme.

Nė fund kumtuesi saktėsoi qė riti bizantin ėshtė shumė i pasur nė pėrmbajtje dhe nė forma qė meritojnė tė njihen, edhe nė perėndim, e pse jo edhe tė pėrjetohen.

   

Prof. Italo Costante Fortino: latinizimi i pjesės mė tė madhe tė komuniteteve arbėreshe.

 

 Greēi (AV), katund i formuar nga emigrantė tė hershėm arbėreshė, mbi bazėn e  njė komuniteti ekzistues tė ritit bizantin, kaloi nė ritin latin nė gjysmėn e dytė tė shekullit XVII. 2/3 e komuniteteve arbėreshe tė ritit bizantin, ashtu si Greēi kaluan nė ritin latin nė tė njejtėn periudhė: Portocannone, Montecilfone, Campomarino, Ururi, Casalvecchio, Casalnuovo, Chieuti, Barile, Ginestra, Maschito, Cerzeto, Cavallerizzo, Cervicati, S. Martino di Finita, S. Giacomo di Cerzeto, Mongrassano, Rota Greca, S. Caterina Albanese, Falconara Albanese, S. Lorenzo del Vallo, Spezzano Albanese, Amato, Andali, Caraffa, Gizzeria, Marcedusa, Vena di Maida, Zangarona, Carosino, Faggiano, Fragagnano, Monteiasi, Montemesola, Monteparano, Roccaforzata, S. Crispieri, S. Giorgio Ionico, S. Marzano di S. Giuseppe, Galatina, S. Cristina Gela, Biancavilla, Bronte, S. Michele di Ganzaria, S. Angelo Muxaro ecc. Nė total komunitetet e kaluara nė ritin latin janė 65, kurse ato qė rezistuan dhe ende sot ruajnė ritin bizantin janė 26.

Prof Fortino kujtoi se arbėreshėt kur u vendosėn nė Mbretėrinė e Napolit (shek. XV-XVI) praktikonin ritin bizantin dhe ishin nė harmoni tė plotė me kishėn latine tė Romės, edhe pėr faktin se Konēili i Firences (1439) kishte vendosur bashkimin e Kishės Katolike dhe ortodokse. Nė mbėshtetje tė kėtij fakti, tė gjitha komunitetet arbėreshe tė Italisė nga pikpamja kanonike, me marrėveshjen e Patriarkut tė Kostandinopojės dhe tė Papės sė Romės, vareshin nga Patrikana e Ohrit (Maqedoni) qė emėronte njė metropolit me seli nė Agrixhento (Siēili), dhe me juridiksion mbi shqiptarėt e grekėt e ritit bizantin tė vendosur nė Itali. Pas metropolitit tė parė tė Agrixhentos, Japkut, vijoi nė kėtė detyrė Pafnuzio i Qipros, mė pas Timoteo i Korēės, dhe pėrfundoi me Acacio Agnesio-n, me origjinė nga Korfuzi.

Tė rėndėsishme pėr largpamėsinė e tyre mbeten vendimet papnore (Accepimus nuper) tė marra  nga Papa Leoni X (1521) pėr ruajtjen e veēantive tė ritit bizantin nė Itali. Por disa dekada mė pas, me vendimet kufizuese tė Konēilit tė Trentit (1563), riti bizantin u shkatėrrua keqas: Papa Piu IV me dokumentin Romanus Pontifex (1564) anuloi tė drejtėn qė ju njoh Ohrit dhe Kostandinopojės dhe ia nėnshtroi komunitetet arbėreshe tė ritit bizantin peshkopėve latinė, nisur nga “la volontą di sopprimere o, almeno, di favorire l’estinzione per esaurimento del rito greco in Italia” (vullneti pėr tė hequr, ose tė paktėn pėr tė favorizuar shuarjen e ritit grek nė Itali pėr shkak shterimi - V.Peri) ashtu siē shkruhet nga pasuesi Papa Piu V nė dokumentin papnor Providentia Romani Pontificis (1566). Vendimet e Konēilit tė Trentit, tė zbatuara nga tė dy Papėt e cituar mė lart, krijuan njė ēarje qė solli me kohė latinizimin e 2/3 tė komuniteteve arbėreshe tė Italisė sė Jugut. Konēilet krahinore tė mėvonshėm, - mjafton tė citojmė vetėm atė tė Beneventos (1567) dhe atė tė Biznjanit (1571) -, duke interpretuar me dyshim praktikat rituale bizantine, favorizuan edhe forma tė latinizimit nė brendėsi tė vetė ritit. Mė  pas, nė 1742, Papa Benedeto XIV doli hapur me tezėn e superioritetit tė ritit latin mbi gjithė tė tjerėt, me dokumentin Etsi pastoralis duke e vendosur ritin bizantin nė njė pozitė inferiore nė raport me atė latin. Vendimet e sipėrcituara synuan tė fshinin konceptin e kishės katolike bizantine dhe ta reduktonin vetėm nė forma ritualesh bizantine.

Edhe pasi pёsuan kėtė dimension tė ri komunitetet arbėreshe tė ritit bizantin, kisha katolike latine e Romės, megjithatё, vazhdoi tė merrte masa  nė favor tė atyre qė i rezistuan latinizimit: Papa Gregori XIII themeloi nė 1577 Kolegjin Grek tė Romės, ku kishte selinė njė peshkop urdhėrues edhe pėr klerin arbėresh; po kėshtu nė 1732, me nxitjen e eksponenteve tė familjes Rodotą, Papa Klementi XII themeloi nė Sh. Benedikt Ulan Kolegjin “Korsini” dhe mё nė fund nė 1919 Papa Bendedikti XV krijoi Eparkinė e Ungrės (Lungro) dhe nė 1937 Piu IX do tė krijonte atė tė Horės sė Arbėreshёve (Piana degli Albanesi). Sinodi i dytė ndėreparkial – Ungra, Hora e Arbėreshve dhe Manastiri i Grotaferratės, qė u mbajt para pak vitesh (2005-2006), vuri themelet pėr njė konfigurim mė autentik tė kishės katolike bizantine nė Itali sipas tė Drejtės Kanonike tė Kishave Katolike Lindore.

 

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 pubblicato il 15 luglio 2010

IL FUTURO PER I NOSTRI CENTRI STORICI

Mėma e sėrith ēimiter ……….e kisė lėk!

 

di Atanasio Pizzi

 

Il nucleo consolidato nei secoli di luoghi ove gli uomini si riducono a stare insieme, costituisce la componente essenziale del patrimonio culturale dei nostri paesi e ad essi si deve il contributo pił determinante, all'identitą dei centri albanofoni.

Questa consapevolezza generalmente diffusa, cosģ come la conseguente esigenza di tutela degli insediamenti storici, conservati perché lģ si vuole ancora stare insieme oggi.

In linea di principio la richiesta conservativa si pone con le me­desime ragioni cosģ per il centro storico della grande cittą co­me per i centri minori, stretto dentro le espansioni, invaso dall'edilizia di brutta periferia, che gli fa perdere la sua forma e non consente pił di ridisegnarne i vecchi confini.

Nello specifico dei paesi albanofoni non mantengono intatto il rapporto con il circostante ambiente, ne conserva il ruolo di caposaldo paesaggistico nelle molteplici prospettive; soffrono dell'abban­dono indotto dalle radicali trasformazioni dell'economia agri­cola di cui era stata per secoli la diretta espressione.

Animare il dibattito sul senso del centro storico co­me organismo insediativo unitario, come unico monumento appunto, che č sede di vita collettiva e al mantenimento delle condizioni di vita, č legata la sua conservazione e la sua sopravvivenza.

Restauro e risanamento conservativo delle strutture fisiche edili e della morfologia urbana assieme al recupero delle tradizionali funzioni che alimentavano la loro sopravivenza.

Negare all'architettura moderna l'idoneitą a intervenire nei con­testi storici non implica un pregiudizio nei suoi confronti, ma al contrario, quella negazione si fonda sul riconoscimento dei pił autentici valori dell'architettura di oggi che sono di rot­tura della tradizione e che la rendono perciņ incompatibile con il principio di spazialitą prospettica al quale obbediva l'archi­tettura del passato.

Č la coscienza storica del passato, che ci impone di rispettare la spazialitą dei centri storici e di rifiutare la reciproca contaminazione tra i modi tra­dizionali di costruire e gli stilemi dell'architettura con­temporanea.

Insomma la conservazione dei centri storici č la vera innova­zione, siamo moderni perché rifiutiamo di comportarci come era legittimo nel passato.

E’ moderna la concezione del centro storico co­me organismo complesso che non č fatto soltanto della successione delle singole architetture e deve la sua unitą all'integra­zione degli elementi compositivi di diversa natura, valendo gli spazi inedificati (siano strade, piazze orti e giardini) quanto le strutture costruite.

Ed č moderna la conservazione, del risanamento con­servativo, non solo del singolo edificio ma del complessivo or­ganismo urbano.

Il rapporto tra antico e moderno nella cittą si pone per incompatibili accostamenti, perché il risanamento dei centri storici e la costruzione della cittą moderna sono operazioni diverse nel metodo, essendo la vitalitą dell'insediamento storico direttamente condizionata dalla corretta organizzazione e delle rispettive funzioni, con i relativi servizi e le funzioni della centralitą tradizionale, agli architetti di oggi č affidato il compito arduo, che ancora attende di essere adempiuto e di riscattare i pił re­centi insediamenti urbani.

Perché č nell'urbanistica la condizione essenziale della tutela dei centri storici che la legge del 1967 (la prima inci­siva riforma della legge urbanistica del 1942) prescrive di regi­strare e perimetrare nei piani regolatori e di disciplinare secon­do criteri prevalentemente conservativi che si adegui ai materiali e sistemi costruttivi che li caratterizzano.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (approvato nel 2004 e vagliato in due consecutive ripassi 2006 e 2008) conferma quanto gią era acquisito nel vigore della precedente normativa e cioč che il centro storico puņ essere oggetto di tutela paesaggistica nel rapporto con il contesto ambientale di cui costituisce un polo visivo, ma essi esigono una tute­la ben penetrante, oltre il profilo paesaggistico, che recuperi funzioni analoghe, innanzitutto di stabile residenza, a quelle per le quali quei centri furono costituiti.

Indicazioni specifiche nel percorso dell’autostrada A3, relativo al tratto che attraversa i paesi albanofoni di Calabria Citra.

Indicazioni di quattro itinerari etnici ben definiti, con appropriata cartellonistica stradale.

Realizzare punti di accoglienza mirata, quali: l'albergo diffuso, museo delle tradizioni e dei mestieri, musei multimediali interattivi, reti wireless all’interno del centro storico, nominativi della gjitonie, tali che possano invogliare i visitatori a intrattenersi negli scenari dalle innumerevoli leggende che avvolgono ogni gjitonia  albanofona.

Sia dichiarato l'interesse culturale all'intero centro storico dei paesi minoritari arbėrėshe, il cui recupero, associato a sistemi itineranti multimediali, possano interagire con il visitatore che, fornito di PC, apprende la storia di quella determinata gjitonia, le eccellenze che la distinguevano in campo artistico, conserviero gastronomico, enologico, tessile, sartoriale etnico e culinario; allargando il sistema ai paesi della comunitą albanofona dei quattro itinerari, fornendo cosģ in tempo reale comparazioni e informazioni storiografiche, delle innumerevoli eccellenze.

 

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