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EDITORIALI
Etnie pag.
2
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editoriali, recensioni e saggi su Etnie
le minoranze
etnico-linguistiche storiche in Italia
Etnie di Calabria
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pubblicato il 3 dicembre 2009
A come Architettura (Arbëreshe?)
di
Atanasio arch. Pizzi
e Maria Palma dott.Tateo
La Legge 482/99
sulla tutela delle minoranze etnico-linguistiche,
dopo un decennio di applicazione, ha sicuramente
messo in risalto i valori culturali delle comunità,
facendo emergere al tempo stesso dei limiti in essa
contenuti per cui andrebbe sicuramente rivista,
nella sua struttura riscrivendola alla luce delle
esperienze acquisite.
E’ importante
riconsiderare il fatto che le nostre, mi riferisco
agli arbëreshe di Calabria Citra, non sono minoranze
ma “presenze” minoritarie; infatti si
definiscono lingue minoritarie, quelle tramandate da
una generazione all'altra, solitamente accanto alla
lingua o alle
lingue ufficiali dello Stato, elemento,
questo di non irrilevante importanza che diversifica
la questione sotto l’aspetto politico, giuridico e
culturale.
Gli Sportelli
Linguistici, nati per informare e divulgare gli
aspetti caratterizzanti le comunità sono da subito
apparsi limitati e il più delle volte con personale
poco motivato o senza adeguata preparazione e quindi
non hanno risposto in modo adeguato alle tematiche
di cui si erano fatto carico, pertanto il personale
andrebbe adeguatamente formato e messo in condizioni
per svolgere meglio la loro funzione.
Una tematica
completamente evasa dalla legge, se non nella
enunciazione, è quello relativo agli aspetto
urbanistici ed architettonici, mai valorizzati e
difesi in nessun senso, infatti è in atto un
decadimento diffuso dei centri storici arbëreshe
tale da renderli irriconoscibili.
Le comunità
minoritarie hanno espresso il loro patrimonio
culturale in contesti urbanistici ed architettonici
che hanno consentito lo svolgersi degli eventi;
grazie ai quali è possibile leggere le modificazioni
temporali con conseguente rilettura della storia
degli arbëreshe; ad esempio i sistemi aggregativi,
che si attuavano con sistemi ad asse unico, di tipo
complesso nel primo periodo e in un secondo momento
ad asse simmetrico, aiutano a delineare l’evoluzione
economica e sociale delle comunità.
Occorre studiare e
quindi analizzare il rapporto con il territorio nel
quale hanno trovato dimora i nostri avi, le
dinamiche che hanno determinato il loro
insediamento, il momento storico, politico,
economico e geografico di quella determinata
regione.
Se l’incontro tra le
diverse civiltà ha prodotto la nascita di nuovi
modelli nel corso dei secoli, viene spontaneo
chiedersi in che misura l’evoluzione ha modificato
la vita degli arbëreshe con il loro bagaglio
consuetudinario trascritto nel Kanun.
Nonostante i paesi
d’arberia abbiano subìto devastanti terremoti,
dovuti all’orografia e alla conformazione geologica
del territorio, le loro genti hanno sempre saputo
ricostruire con sapienza e metodo adeguandosi alle
risorse di quei tempi.
Oggi non si può
rimanere indifferenti alla trasformazione di dimore
storiche in semplici unità abitative popolari, di
vecchie sorgenti in anfiteatri, allo sventramento di
centri storici, alla costruzione di centri sportivi
a ridosso di conventi testimoni degli eventi che
hanno portato all’unità d’Italia; all’apposizione su
scenari naturalistici di variopinti centri culturali
frutto di pseudo modelli innovativi, tutto ciò
definibile più catastrofico dei terremoti del
passato.
Le manomissioni
ancora in atto, oltre a far perdere il valore
storico ai manufatti ed ai contesti dove essi si
trovano collocati, li spogliano della loro identità
culturale, per cui sarebbe auspicabile dare risalto
alle emergenze architettoniche nella eventuale
riscrittura della legge 482 e realizzare opportune
convenzioni con gli ordini professionali e le
Soprintendenze per tutelare e salvaguardare in modo
appropriato i nostri centri storici. |
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pubblicato il 25 novembre 2009
Difesa della lingua
italiana e “revisione” della normativa sulla tutela
delle minoranze linguistiche in Italia a dieci anni
dalla emanazione
Tra le lingue e le culture storiche che occorre
tutelare bisogna necessariamente inserire anche
quelle Armene, Rom e Sinti
di Pierfranco Bruni
Occorre
difendere la lingua italiana sia dal punto di vista
culturale che giuridico. C’è un dibattito in corso
che interessa la tutela della lingua italiana. Un
dibattito che parte da molto lontano. Occorre
ristabilire una dialettica sia giuridica che
culturale sulla modifica dell’Articolo 12 della
costituzione. In un tale contesto credo che sia
necessario rivedere e quindi riconsiderare anche la
Legge (la 482/99) sulla tutela delle minoranze
etnico – linguistiche storiche.
Una Legge che va rivista nella sua struttura, va
riconsiderata alla luce di un decennio che ha visto
diverse trasformazioni nel campo delle minoranze
linguistiche in Italia e andrebbe riscritta. O
meglio va ricontestualizzata. Ci sono alcuni motivi
di fondo.
Prima di tutto (ovvero primo elemento) è necessario
parlare di “presenze” minoritarie e non di
minoranze vere e proprie. Il discorso è sottile ma
qualifica e diversifica la questione sia politica
che giuridica e culturale.
Secondo elemento non può interessare soltanto la
lingua e le culture o la Pubblica Istruzione ma deve
creare la possibilità di comparazioni altre e questo
nonostante il successivo Regolamento non si evince
con chiarezza.
Terzo elemento: bisogna alleggerirla e aprirla ad un
confronto con le identità nazionali. Non la si può
circoscrivere ad una tutela e ad una promozione
della tutela soltanto delle minoranze non tenendo
conto che queste minoranze sono “presenze” nel
contesto territoriale italiano, regionale e
provinciale. Contesto che ha già un suo dialetto.
Quarto elemento: le 12 minoranze linguistiche di cui
parla la normativa sono ampiamente superate anche se
ci si riferisce ai livelli storici. Un solo esempio:
è necessario inserire nella tutela la lingua e la
cultura armena come è da riconsiderare le culture e
le lingue dei rom e dei sinti presenti sul
territorio italiano.
Quinto elemento: non può essere considerata come un
serbatoio dove attingere economie per una tutela
che, a volte, è abbastanza mediocre dal punto di
vista della proposta culturale.
Quindi occorre rivederla nella sua struttura e nella
sua complessità. Gli stessi Sportelli Linguistici,
nei territori interessati, dovrebbero avere una
funzione di forte incisività culturale e invece sono
molto limitati. D’altronde il dibattito sulla
modifica dell’Articolo 12 va a cambiare logicamente
la Legge in questione e perciò occorre
necessariamente ricontestualizzare la tutela delle
minoranze storiche sulla base della difesa della
lingua italiana e dell’identità italiana. Una
riflessione di altro tipo, comunque, va rivolta a
questa normativa sulla base di alcuni principi.
La presenza delle minoranze etnico-linguistiche in
Italia, riconosciute come tali, va considerata
almeno secondo tre aspetti.
Il primo aspetto è, certamente, storico in
quanto occorre capire e analizzare il rapporto tra
la loro provenienza e la contestualità territoriale
nella quale le stesse minoranze si sono stanziate.
In tale aspetto rientra certamente una meditazione e
una valutazione delle influenze che si sono
verificate nel momento in cui le minoranze si sono
insediate all’interno dello stesso territorio
italiano e all’interno di un particolare assetto
geografico. Perché un loro insediamento ha
contribuito a creare una rete estesa di legami e di
rapporti con le popolazioni già esistenti sul
territorio e nelle strette vicinanza e quindi
essendo state popolazioni aggiuntive al territorio
si è verificato un incontro tra storia, modelli di
civiltà e tra assetti territoriali stessi. Proprio
per questo è necessario approfondire quelle valenze
storiche che nel corso dei secoli hanno portato alla
luce modelli di identità.
Il secondo aspetto è, chiaramente, quello che
riguarda gli elementi giuridici. In realtà una
minoranza linguistica per resistere su un
determinato territorio o all’interno dell’intero
Paese Italia ha necessità di essere tutelata grazie
a precise normative che devono garantire la
salvaguardia della loro presenza attraverso apposite
leggi stabilite sia a livello nazionale sia a
livello regionale ovvero locale. Su questo tema si
sono sviluppati diversi dibattiti ma resta
fondamentale ciò che stabilisce la Costituzione
della Repubblica Italiana. O meglio occorre far
riferimento costantemente all’articolo 6 della
Costituzione nel quale si sottolinea : “La
Repubblica tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche”. Eravamo nel 1948, da allora la
discussione sia giuridica, istituzionale e
parlamentare è stata abbastanza articolata e vasta.
Proprio partendo dall’articolo 6 alcune regioni
nelle quali ricadono le presenze minoritarie si sono
sentite in dovere di proporre e attuare delle
normative e delle leggi in grado di tutelare e
promuovere le realtà etnico-linguistiche ricadenti
,certamente, nel territorio di competenza. Sulla
scorta di una discussione che è continuata per anni
soltanto nel 1999 è stata promulgata una legge che
sancisce “Norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche”.
La legge in questione è del 15 dicembre 1999 n.482
ed è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.297
del 20 dicembre 1999, il cui regolamento di
attuazione è andato in vigore il 28 settembre 2001.
In questa legge si sancisce come recita l’articolo 2
: “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione
e in armonia con i principi generali stabiliti dagli
organismi europei e internazionali la Repubblica
tutela la lingua e la cultura delle popolazioni
albanesi, catalane, germaniche, greche e slovene e
croate e di quelle parlanti il francese, il
franco-provenzale, il friulano, il ladino,
l’occitano e il sardo”. La legge che è costituita da
20 articoli punta, certamente, a valorizzare il
patrimonio linguistico e culturale ma anche
sottolinea l’importanza della valorizzazione della
lingua e delle culture. Quindi non solo tutela la
lingua ma anche il tessuto culturale di cui le
minoranze sono portatrici. C’è da ribadire,comunque,
un dato significativo sul quale la discussione è di
estrema attualità : l’articolo 1 di questa legge
ribadisce “La lingua ufficiale della repubblica è
l’italiano”. In virtù di tali elementi si è aperta
la discussione, di recente, proprio sull’articolo 12
della Costituzione in materia di riconoscimento
dell’italiano quale lingua ufficiale della
repubblica. È necessario ,chiaramente, approfondire
i risultati che hanno portato la legge n.482/ ’99
non solo dal punto di vista giuridico ma anche dal
punto di vista storico e proporre che tipo di
incidenza politico-culturale nel corso degli anni si
è innescato anche alla luce della autonomia
regionale.
Il terzo aspetto è prettamente culturale e
interessa in modo particolare la ricostruzione di
queste presenze e della loro incidenza
storico-sociale. Ciò ha portato ad una discussione
sul concetto di etnia, ovvero della valenza storica
dell’etnia in Italia a partire sia dall’Unità
d’Italia e successivamente dal 1948 alla L.n. 482/
’99. La questione riguarda le presenze minoritarie
storiche e si guarda con attenzione a quelle
presenze definite stanziali e non migratorie. Un
inciso che è prettamente culturale in quanto si
ribadisce il fatto che si tratta di presenze
minoritarie all’interno di culture nazionali e non
tout court di minoranze linguistiche. Ogni realtà di
presenza minoritaria ha vissuto un impatto
particolare con il territorio sia in termini di
incisività storica sia sul piano culturale
attraverso usi, costumi, tradizioni ed elementi
etno-antropologici e letterari che andrebbero
analizzati sia sotto il profilo storico sia sulla
base di moduli normativi sia attraverso una
residuale presenza linguistica e perciò culturale.
Detto ciò bisogna ritornare sul dettato sottolineato
all’inizio. Occorre porre al centro la tutela della
lingua italiana. Bisogna difendere l’Italiano e
l’italianità nella lingua e nella cultura, nella
storia e nelle eredità. Oggi più che mai va difeso
il concetto stesso di italianità perché rimanda
all’idea vera di Nazione. Senza nulla togliere alla
presenze delle “isole” minoritarie ma bisogna avere
la consapevolezza forte che restano delle isole
linguistiche. Attenzione a non confondere il valore
antropologico con quello storico, il valore di una
letteratura nazionale con quello di una
frammentazione “etnica”.
Ci sono realtà che vanno salvaguardate perché sono
il portato di una storicità che va ben oltre il
1861. E’ necessario riflettere su tali questioni
perché è necessario difendere una lingua e con la
lingua l’eredità nazionale.
Le presenze minoritarie devono essere certamente
tutelate ma all’interno di una tale temperie. Ecco
perché la normativa del 1999 diventa ormai quasi
obsoleta sia sul piano culturale sia sul versante di
una analisi storica sia su quello giuridico.
L’Articolo 6 della Costituzione è un riferimento
certamente ma il dibattito e le posizioni sulla
modifica dell’Articolo 12 impongono un diverso modo
di approccio allo stesso Articolo 6 che riguarda,
appunto, le minoranze linguistiche ed etniche
storiche.
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pubblicato il 16 ottobre 2009
Cultura albanese e cultura arberesh. Una nuova
ricerca per meglio comprendere l’appartenenza ad un
territorio
di
Micol Bruni
Minoranze e territorio. Ovvero rapporto tra popoli
altri e appartenenza ad una cultura, che
caratterizza i luoghi, i costumi e le tradizioni di
mondi lontani. In Italia le culture altre sono
tutelate dalla L. n. 482 / '99 che detta le norme in
materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche.
L’articolo 2 di tale legge specifica le presenze
minoritarie in essa tutelate anche se tali presenze,
dal punto di vista della realtà antropologica e in
una dimensione geopolitica che insistono sul
territorio, sono molte di più.
A norma dell’articolo 2 si legge : “In
attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in
armonia con i principi generali stabiliti dagli
organismi europei e internazionali, la Repubblica
tutela la lingua e la cultura delle popolazioni
albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e
croate e di quelle parlanti il francese, il franco –
provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il
sardo”.
È necessario, per tutelare una minoranza
partire da un dato di sicuro spessore che è quello
giuridico. Perché tutelare non significa
necessariamente e unicamente promozione culturale
delle tradizioni di queste realtà, ma deve portare
alla luce, attraverso l’analisi dei testi e le
ricerche storiche, alla nascita di tali culture e
alla loro integrazione nel territorio italiano.
Pertanto, sarebbe interessante analizzare le
singole minoranze all’interno di un territorio
storico, antropologico e giuridico.
Gli Arbereshe, cioè gli Italo – albanesi , in
questo caso specifico, hanno una particolare
singolarità che si è sviluppata nei vari percorsi
storici. Gli Arbereshe sono una delle minoranze che
ha una forza culturale e giuridica notevole. Essi
sono presenti sul territorio nazionale in numero
maggiore rispetto alle altre realtà minoritarie e
sono l’unico popolo che ha vissuto la diaspora come
fenomeno caratterizzante. Si pensi alle regioni
coinvolte. La Calabria, la Puglia, la Basilicata, la
Sicilia, il Molise, la Campania e l’Abruzzo. In
Calabria inoltre le comunità italo- albanesi
ammontano a 33 paesi. Bisogna cercare di analizzare
la storia di queste minoranze linguistiche, gli
arbereshe, non soltanto da un punto di vista
culturale o attraverso le comunità presenti in
Italia. Bisogna partire da più lontano. Ovvero da
quando gli arbereshe erano ancora albanesi. Cioè dal
loro arrivo in Italia in seguito alla morte del
condottiero e loro eroe Giorgio Castriota
Scanderbeg, avvenuta nel 1468.
Una ricerca che parte dalla analisi delle
tradizioni e delle origini permetterebbe, di
comprendere meglio le ragioni storiche e giuridiche
della presenza di queste realtà minoritarie in
Italia.
Questa operazione è possibile, nel caso degli
arbereshe, attraverso lo studio del Kanun. Se si
consulta un dizionario di lingua albanese si legge
che per Kanun si intende statuto, regolamento legge.
“Il Kanun è un alegge che è stata raccolta come i
chicchi di grano in questa grande povertà” (Ndrek
Pjetri).
In particolare mi riferisco al Kanun di Lek
Dukagjini diffuso nella montagna della Malesi e
Madhe, nella regione del Dukagjini, in quella di
Tropoje e in tutto l’arco delle montagne al confine
con l’attuale Kosovo.
Naturalmente oggi il Kanun non è più in vigore
ma attraverso la sua rilettura si può comprendere
quella che era la tradizione giuridica degli
albanesi per meglio capire quella che è la storia e
l’integrazione dei paesi oggi ancora arbereshe. In
un’opera dal titolo Kanun le basi morali e
giuridiche della società albanese ( Besa Editore)
la studiosa Patrizia Resta afferma che “la
consuetudine è stata acquisita dal popolo albanese
come norma (…) pur essendo raccolta di tradizioni va
considerato anche come codice consuetudinario (…)
pur modificati, alcune valori in esso contenuti
costituiscono il nocciolo duro della identità
albanese, sotto altre forme …sono parzialmente
accreditabili ancora oggi”.
Bisogna ricordare che tale codice è una
raccolta di leggi consuetudinarie che si sono
tramandate per secoli oralmente, un po’ come avviene
oggi per le tradizioni arbereshe. Bisogna precisare,
che a causa della frammentazione delle valli del
territorio albanese e delle difficoltà di
comunicazione che vi erano nel territorio ci furono
e si diffusero diversi Kanun anche se solo a partire
dal 1912 un padre francescano Stefano Costantino
Gjecov (Kosovo, 1874 – 1929) si preoccupò di
raccogliere tali norme e cominciò a pubblicare in
parte questa raccolta. Si ritiene che quello di Lek
Dukagjini sia il codice più attendibile anche perchè
i vari codici risultano omologhi tra loro sia in
seguito “all'articolazione del territorio, sia alle
modalità della trasmissione del testo “ (Martelli,
Capire l'Albania). Dopo la sua morte, nel 1933, i
padri della provincia francescana d’Albania decisero
di riunire l’opera. Ma perché il kanun è detto kanun
di Lek Dukagjini ( in origine Kanun delle Valli
della Mirdizia e del Massiccio del Dukagjin,
attualmenti distretti di PuKe e di Mirdite)? Secondo
fonti letterarie la prima opera di raccolta fu
realizzata dal principe Alessandro Dukagjini detto,
appunto, Lek intorno alla metà del 1400. Lek
Dukagjini viene considerato un eroe della tradizione
albanese. La storia racconta, addirittura che venne
scomunicato da Paolo II nel 1464 proprio per la
crudeltà del codice che non si ispirava ai principi
cristiani nonostante ancora oggi in Albania viene
considerato “Parola di Dio”.
Quindi è facile
comprendere come in realtà tra questi due mondi ci
sia uno scontro primordiale. Gli albanesi vedono nel
Kanun la parola di Dio, come dicevo, ma mi chiedo se
oggi gli arbereshe, che hanno radici si albanesi ma
che sono italiani e vivono in un paese cristiano
cattolico, possono condividere quelle norme e quanto
della loro identità proviene da un mondo musulmano
orientale che oggi si scontra con l’occidente
cristiano che, come si legge nell’opera di Cavanna,
Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il
pensiero giuridico. Vol.2, “…ha una certezza
elementare, la certezza fondamentale del
cristianesimo : l’idea del primato dello spirito
umano”.
Si vuole però precisare che a nord “era
in vigore il Kanun delle Montagne (Kanun i maleve),
detto anche Kanun delle Grandi Montagne (Kanun i
Malesise se Madhe), presso le tribù di Kastrati,
Hoti, Gruda, Klemendi, Kuc, Krasniqi, Gashi e
Bytyci, e applicato nelle zone fra il lago di
Scutari a Occidente e le alture di di Gjacova (...)
a Oriente (...).
“ A Sud trovava applicazione il kanun di
Scanderbeg (Kanun i Skenderbeut), detto anche Kanun
dell'Arberia ( Kanun i Arberise) diffuso nelle zone
legate alla famiglia Castriota , nelle regioni di
Dibra, Kruja, kurbin e Martanesh (attuali distretti
di Diber, Mat, Kruje Kurbin, Tirane), cidificato
negli anni Sessanta del seclo scorso da Frano Ilia.
“ Nei territori toschi si applicava il kanun
della Laberise, trascritto di recente da Ismet
Elezi, giurista dell'Università di Tirana, diffuso
nelle zone costiere di Valona, nel massiccio del
kurvelesh, di Himara, fini al 'territorio dei tre
ponti', cioè alle città di Drashovica, Tepelena e
Kalasa, al confine con la Tessaglia (attuali
distretti di Vlore, Vlore è il nome albanesee di
valona. Gjirokaster, quello di Argirocastro,
tepelene, gjirokaster e sarande).
“ Il kanun della Laberise è attribuito a
un leggendario personaggio, il sacerdote papa Zhuli,
fondatore del villaggio di Zhulat intorno al 1481
presso argirocastro. pertanto è anche conosciuto
come kanun di papa Zhuli (Kanun i Papa Zhuli )
(Elezi I, 2002)” ( A.A. V.V., Cultura giuridica
arbereshe e croata fra conservazione della
tradizione e formazione di una nuova consuetudine,
Regione Molise, Assessorato alla cultura, 2006,
pagg. 39-40)
Il Kanun oggi rappresenta quella tradizione
albanese che apparteneva a Lek Dukagjini e al suo
popolo e che padre Gjiecov è riuscito a dotarlo di
veste giuridica. Capire oggi molte delle identità
arbereshe significa rileggere il Kanun e scoprire
quali di quegli elementi che oggi identifichiamo nel
popolo arbereshe erano e appartenevano alla cultura
albanese.
Il testo, del Kanun di Lek Dukagjni, è composto
da libri che a loro volta sono suddivisi in
articoli. I libri che lo compongono sono dodici. La
Chiesa, la Famiglia, il Matrimonio, la Casa, il
Bestiame ed i poderi, il Lavoro, Prestazioni e
Donazioni, la Parola, l’Onore, i Danni, i Delitti
infamanti, il Codice giudiziario, Privilegi ed
esenzioni.
Ad una prima lettura si possono notare subito
degli elementi che oggi rimangono nella etnia
arbereshe. Innanzitutto il rito del matrimonio e
della preparazione dello stesso, soprattutto, in
quei paesi che hanno mantenuto il rito
greco-ortodosso, rimanda alle tradizioni che
vengono menzionate nel codice albanese. E questo è
un dato importante, perché ci fa comprendere come
la lingua e la religione siano elementi che fanno
comprendere che la cultura arbereshe non è una
cultura che viene poi da così lontano. Se si
leggono i libri settimo e ottavo dedicati all’onore
e alla ospitalità (art.69) e come rivivere quelle
tradizioni arbereshe che parlano di ghitonia e,
quindi, di rispetto dell’ospite e del vicinato. Il
libro decimo del Kanun inoltre istituisce la Besa
che è una parola quasi intraducibile nelle altre
lingue ma leggendo l’articolo interessato (122) si
ritrova proprio quella tradizione di alcuni paesi
arbereshe che intendono la besa come la fedeltà ad
un impegno. Se si continua la lettura del codice si
nota come negli articoli 103- 104 parlando del
concetto di “affretellarsi” o della “parentela
spirituale” si ritrova quello che oggi in arbereshe
si chiama vellamja ovvero proprio fratellanza e rito
di parentela spirituale. Senza poi parlare di tutte
quelle esenzioni riservate alla chiesa e agli uomini
appartenenti a quel mondo (art.1) o di alcune tasse
riferite alla coltivazione delle api (art.53), o
manutenzione delle acque del mulino ( art.69 – 70 –
71) , o alla terra coltivata con la scure (art.61) o
all’allevamento del pascolo (65)che si ritrovano ad
esempio nelle capitolazioni di San Demetrio,
Frascineto e Spezzano Albanese da me studiate.
Sarebbe quindi necessario compiere una attenta
mappatura di quei paesi del mezzogiorno d’Italia che
ancora oggi sono arbereshe con una analisi sulle
tradizioni e origini e poi comprendere quali sono le
identità che derivano dal mondo albanese o meglio
dal Kanun. Questo potrà servire per cercare di
ricostruire una storia del popolo arbereshe che dopo
secoli rimane ancora oggi il “popolo senza libri”.
Non si possono chiudere gli occhi e far finta
che nel nostro territorio nazionale nel nostro Stato
vivono delle realtà che cercano di rivendicare una
loro storia attraverso si una questione di minoranze
linguistiche ma anche portando ancora dietro delle
origini che sono giuridicamente appartenenti ad un
mondo opposto al nostro. L’uomo di diritto non può
rimanere inerme davanti alla coscienza storica di un
popolo che vuole vedere riconosciute le proprie
origini al fine di comprendere il reale legame che
vi è tra questi due mondi, Occidente e Oriente,
musulmani e cristiani, che sembrano così lontani.
Tutelare, quindi, per non perdere l’identità e
per rispettare quelli che sono i doveri civili di
ogni uomo.
Riconoscere ad ogni essere il proprio posto
nel mondo perché come diceva Kant nell’opera Per
la pace perpetua, “…gli esseri umani non possono
disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da
ultimo rassegnarsi a incontrarsi e coesistere” per
poi condividere doveri e diritti. E solo attraverso
la legge questa condivisione può avvenire nel
rispetto delle tradizioni, origini e identità
personali.
Riscrivere o meglio scrivere la storia del
popolo arbereshe non più pensando unicamente al loro
insediamento locale , nel Meridione d’Italia, ma
accompagnando questo dato storico ad un dato
giuridico. Il Kanun. |
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pubblicato il 28 settembre 2009
L'Arbëria come patrimonio culturale
e "Viaggio in
Arbëria"
di Margherita Celestino
Guida
attraverso gli itinerari turistico culturali dei
paesi arbëreshë
d’Italia.
di Pierfranco
Bruni
Il
dibattito recente intorno ai processi etnici diventa
sempre più importante e
si arricchisce di
nuovi significati sia istituzionali che di apertura
politico – culturale.
Si discute se considerare le minoranze linguistiche
storiche delle vere e proprie minoranze o delle
"presenze minoritarie". Un esempio emblematico resta
la storia
del territorio dell'Arbëria.
L'Arbëria,
in realtà, è il territorio dove vivono
le comunità Italo – Albanesi.
Il libro di Margherita Celestino è un ottimo contributo
per entrare in un territorio ma anche in una idea di
cultura dell'Arbëria.
L'Arbëria
non è solo un tessuto territoriale o una geografia
dentro la quale
si misurano i limiti di una realtà storica e
culturale. L'Arbëria
non circoscrive
più confini e neppure definisce luoghi o eredità o
addirittura appartenenze.
E neppure definisce soltanto comunità all'interno di
una dimensione nazionale.
Ormai il concetto di Arbéria è molto più esteso e si
incentra anche in una visione in cui storia,
letteratura, tradizione, rito sono interazioni in
una dimensione di una cultura che diventa sempre
più immateriale. Un'intuizione della Celestino che
si raccoglie leggendo il testo.
Eppure l' Arbëria
insiste come territorio. C'è un territorio reale che
è quello
dell'asse geografico che racchiude le comunità italo
– albanesi ma c'è,
altresì, un immaginario che spazia in un tempo che è
quello di un popolo in
fuga verso l'Occidente. Un popolo che ha vissuto la
diaspora e continua a
vivere (almeno
fino a qualche anno fa era più accentuato) di fughe.
Questo popolo albanese, che è stato attraversato dai
viaggi della disperazione
in nome di una difesa di un Oriente che viveva la
cristocentricità attraverso
un rito profondamente bizantino, ha trovato nel
Regno di Napoli (in
quello che è stato
il Regno di Napoli) un modello di civiltà che ha
saputo ben
accettare e accogliere sia le istanze culturali che
le emergenze storiche (tranne
alcuni casi particolari che richiamano ad una
intolleranza da parte del mondo ecclesiastico
di allora).
La dimensione
geografica dell'Arbëria,
appunto, è dentro la storia di un
Regno di Napoli
sempre più proteso ad un incontro tra i Paesi
dell'Occidente
e quelli
dell'Oriente, grazie ad una lettura articolata di un
Mediterraneo che resta costantemente una
cerniera tra le culture.
Su quattro
elementi di base si rappresenta l'Arbëria
e si consolida come
fenomeno
identitario: la lingua (che resta il dato centrale
perché una comunità che ha perso la sua koinè è
soggetta ad una costante distrazione identitaria
e non ha possibilità di tramandare quei segni
e quei simboli che solo la parola può sottolineare e
trasmettere), il rito (quindi la religiosità), la
tradizione (i
fenomeni legati ad elementi propriamente
antropologici), l'arte e la letteratura
(che costituiscono un unico percorso: almeno
dovremmo poterlo leggere
come un percorso
di integrazione tra l'immagine e l'oralità). Sono
direttrici che troviamo nel viaggio che
compie l'autrice di questo testo.
In fondo l' Arbëria
è costituita dalle comunità che abitano proprio quel
territorio che ha come riferimento una
dichiarazione di civiltà. Mi riferisco alla
costante grecità
mai venuta meno in un collegamento tra il Regno di
Napoli e i Paesi frontalieri nel versante
Adriatico.
L'Albania è l'Adriatico che entra nel Mediterraneo.
O meglio: è l'Oriente,
con la sua storia
musulmana, con la presenza islamica (che non vuol
dire anticristianità)
che penetra lo spirito occidentale e cristiano.
L'Albania è realmente il Paese delle
contraddizioni. Ma non sempre le contraddizioni sono
da ritenersi
negative. Sono nella consapevolezza di una maturità
in cui la cultura si definisce come
prioritario messaggio di un incontro.
L' Arbëria
oggi si presenta con delle manifestazioni che non
possono essere
eluse da uno sguardo attento. Da una parte c'è la
sicurezza di una integrazione
ben consolidata nei secoli (e fortemente voluta da
Giorgio Castriota
Scanderbeg, vissuto tra il 1405 e 1468) e dall'altra
ci sono elementi di eredità che possono essere
considerati dei codici di una appartenenza che oggi
si lascia leggere sotto un profilo che è
soltanto antropologico.
Credo che l'effetto antropologico si dipana come
valenza di una tutela di un patrimonio, ma è
naturale che questo riferimento prettamente etnico
(l'etnia è il
portato della memoria di un popolo che resta tale
solo se riesce a difendersi come civiltà e quindi
come necessità di radici) non può reggersi senza il
trasporto
della lingua. Ma sono due capisaldi di una cultura
che insiste in un vocabolario in cui il sentimento
dell'immateriale è fondamentale nonostante che
l'effetto antropologico sia da rintracciarsi anche
nelle forme dell'oggetto.
Come mantenere viva la testimonianza culturale del
territorio che passa sotto
il nome di Arbëria?
I quattro punti evidenziati (la lingua, il rito, la
tradizione,
l'arte-letteratura) sono la prospettiva non solo di
una appartenenza che resta dentro l'eredità
culturale di un territorio ma costituiscono un
modello di tutela.
In virtù di ciò, l'Arbëria,
tratteggiata dalla Celestino, è patrimonio non
solo culturale ma è da considerarsi come patrimonio
di una umanità soprattutto
in un legame tra Oriente ed Occidente. Ciò premesso,
va detto che l’Arbëria
è dentro quel dialogo tra cultura latina e storia
bizantina. Definendo
questi
presupposti non solo si tutela la storia ma si
valorizza una eredità in quel Regno di Napoli
che è, al di là delle metafore, sempre più
Mediterraneo. |
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pubblicato il 23 settembre 2009
L’archeologia e il legame con l’etno – antropologia
Un dibattito attuale nel concetto moderno di bene
culturale
Nella logica istituzionale del MiBAC
di Pierfranco
Bruni*
Il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali già da qualche anno ha
aperto delle interessanti finestre sulla storia
delle minoranze linguistiche storiche presenti in
Italia. Un aspetto interessante che si articola
ormai su tutti i campi della programmazione e delle
attività dei Beni culturali.
Sulla linea delle
nuove indicazioni che si è dato il ministero, nel
campo della promozione, valorizzazione e fruizione,
il rapporto tra archeologia, antropologia e
problematiche culturali legati all’editoria, alla
diffusione di modelli di ricerca e di proposte (dai
Musei alle Biblioteche) sul territorio, mi sembra un
dato fondante.
Il campo di azione
dei beni culturali diventa sempre più articolato.
Si opera ad intreccio tra i vari “saperi” che sono
presenti nella geografia delle culture territoriali
ma anche tra i “saperi” istituzionali. È su questi
tasselli che lavoriamo nelle diverse commissioni in
sede ministeriale. Gli input dati con il Codice dei
beni culturali (sul quale ho lavorato pubblicando un
recente libro) permettono, anche in fase
organizzativa, una funzione moderna della cultura o
delle culture o meglio delle strategia culturali del
Ministero.
Ha ragione il
Direttore Generale Mario Resca nel sostenere
l’importanza del dato valorizzante che permette di
entrare in un discorso di economia della cultura
vera e propria (un discorso che riprenderemo in
altra occasione) soprattutto quando si parla di
sistemi mussali e di valorizzare le culture grazie
alle innovazioni e alle strategie valorizzanti.
Nell’ambito del
rapporto archeologia – antropologia – etnologia
conoscere e approfondire la storia delle presenze
minoritarie può giocare un ruolo importante. I
territori vivono la loro identità reinventandola,
ovvero ricostruendola tassello per tassello grazie a
dei processi di scavo proprio all’interno dei
tessuti territoriali, che offrono sempre una chiave
di lettura fondamentale per definire sia la realtà
dei luoghi sia una geografia, che pongono in essere
due elementi fondanti: l’etnologia e l’archeologia.
Entrambi sono
modelli che offrono chiavi di lettura sia sul piano
scientifico (in termini di selezione e di
riselezione del materiale) sia su quello
culturalmente più articolato che tocca le sfere e
gli elementi modulari di una antropologia del
radicamento.
È chiaro che
quando si parla di etno archeologia si va nel di
dentro di quel senso storico, epidermico, che
coinvolge le eredità di un popolo all’interno di una
identità di civiltà.
Popolo e
tradizione costituiscono un profilo singolare che si
manifesta grazie ad una griglia simbolica che è data
non dalla percezione soltanto ma dal contatto
diretto con i materiali recuperati o con quelli con
i quali si è costantemente a contatto.
Ormai il concetto
di antropologia non si regge da solo perché, grazie
alle varie sperimentazioni scientifiche sul campo,
necessita di un confronto a tutto tondo con le altre
scienze. Ecco perché il legame del concetto di
ethnos si consolida con quello di storia di
archeologia, di geografia.
La vasta
dimensione del dato geografico sul territorio
incamera lo sviluppo di un pensare all’antropologia
come profonda ramificazione all’interno dei sostrati
culturali che vive o ha vissuto un intero complesso
territoriale. I legami che l’antropologia sviluppa
all’interno dei suoi processi si solidificano con un
vivere la storia sia come cronaca di un evento
accaduto sia come memoria sia come metodologia che è
in grado di congiungere la modalità degli archetipi
nell’insieme tra simboli e riti.
In questo contesto
parlare di etnie, delle quali mi occupo da alcuni
anni, significa anche scendere in quell’humus che
tiene insieme il valore dell’etno - archeologia
stessa con quella etno – storia su un versante in
cui la conoscenza dei reperti ( o del reperto in se)
depositati dai popoli che hanno abitato un
determinato territorio risultano come l’esperienza
contaminante di una eredità che si trasporta nel
tempo.
Sia l’etno –
archeologia che l’etno – storia non possono fare i
conti, appunto, con il tempo. Ma il tempo stesso è
la misura del rapporto tra popoli e civiltà.
L’antropologia deve fare costantemente i conti con
ciò che l’antropologia offre ma è anche vero che
l’archeologia, in pari misura, non può essere più
letta soltanto definendo la circoscrizione del
proprio campo ma ha bisogno di una pedagogia vera e
propria che è data dalla lettura antropologica.
Ecco perché il
territorio oggi viene ad essere studiato
analiticamente ma anche percepito grazie a due
finestre che sono rappresentate, appunto, dai
simboli e dai riti. Indagare sugli insediamenti
significa creare una rete di indagine tra
l’archeologia e la storia attraverso quel fattore
significativo che viene da una visione complessiva
del paesaggio. Così studiare i popoli nomadi
attraverso il materiale depositato sul territorio ci
porta ad una osservazione chiaramente di natura geo
– archeologica le cui strutture del pensare
partecipano con le strutture materiali.
L’archeologia è
sempre una eredità che affiora da quel territorio
che è stato che è partecipazione frequente alla
storia e le tracce diventano tracciati in un
intrecciarsi di fenomeni puramente etno– grafici.
In virtù di ciò si
ripropone l’importanza della validità delle etnie in
uno studio in cui capire la presenza di una civiltà
di un popolo su un determinato territori significa
in modo prioritario non dover prescindere da quella
griglia mitico – archetipale che è la vera chiave di
comprensione dell’intero contesto di cui ci si
occupa.
Ma parlare di
etnie vuol dire anche riconsiderare complessivamente
sia l’archeologia in sé sia l’antropologia sia la
storia e direi anche, perché non bisognerebbe
escluderla, quella linguistica, che è fatta da
codici simbolici veri e propri, che manifestano una
derivazione prioritaria che ci permette di catturare
il senso e l’orizzonte dei popoli che hanno
testimoniato una civiltà.
Le etnie in fondo
sono l’espressione più vera di un mosaico di
posizionamenti e di strutture mentali che sanciscono
la liberazione di quel nodo di Gordio insiste
ancora nello scibile e che dovrebbe essere risolto
in quei nuovi saperi che l’etno – archeologia deve
porre come confutazione di un dato recepito sul
territorio. Sostanzialmente bisogna porre al
centro, come in questo caso specifico, il valore
intrinseco ed estrinseco, dei legami che la cultura
delle etnie sottolinea nei rapporti con le altre
componenti che permettono un vero e proprio
rapporto. Un museo nazionale dedicato alla storia
delle minoranze linguistiche, in virtù di questo mio
dire e dell’incarico che svolgo all’interno del
MiBAC, sarebbe una proposta da vagliare con molta
attenzione.
Il dato
essenziale, comunque, è che studiare le etnie ci
impone una riflessione in un passaggio emblematico
che va dalla protostoria alla storia e quindi scava
nella coscienza dei tre riferimenti, spesso qui
citati, che sono le eredità, i popoli , il
territorio. Un parlarsi per definirsi e per definire
le diverse identità espresse dalle culture etno -
antropologiche. Un discorso che va sostenuto e
ricontestualizzato nella logica di un bene culturale
non solo da tutelare ma da valorizzare e far fruire.
I territori vanno fruiti. La fruizione però è data
chiaramente dalla conoscenza.
*
Responsabile Progetto Minoranze Linguistiche del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
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pubblicato il 20 settembre 2009
Kuscë nzuer silicheth
di
Atanasio Pizzi*
Eminenti studiosi
asseriscono che: la memoria dei luoghi è radicata
nelle menti di chi per ovvi motivi li ha
dovuti lasciare, mentre coloro che rimangono ne
perdono i riferimenti vivendo le mutazioni
inconsapevolmente con lo scorrere del tempo.
L’argomento su cui
vorrei porre l’attenzione sono le nuove
pavimentazioni, con cui sono stati ricoperti i
più reconditi angoli dei centri Italo-Albanesi di
Calabria citra, utilizzati in modo indiscriminato
materiali alloctoni.
Va ricordato che i
centri storici delle comunità Arbëreshe fanno
comunque parte dell'edilizia storica che pur se
influenzata dalle regole edilizie del sud Italia si
distingue nel sistema aggregativo del modulo tipo
il catoio; inconsapevolmente aggrediti nella
morfologia e nel rapporto tra costruito ed
ambiente naturale,
vanno sempre più abbandonando l’aspetto tipico che
li caratterizzava.
Il risultato……. un
freddo e asettico scenario ove non si colgono più
gli aspetti che definivano gli spazi aggregativi che
hanno fatto crescere e formare intere generazioni di
arbëreshe.
Viaggiatori del
secolo scorso descrivono i centri parzialmente
lastricati: ricostruzioni grafiche, realizzate dallo
scrivente, sono state utili a dedurre che in
prevalenza venivano protette quelle strade o spazi
ove la vorticosità delle acque meteoriche, erodeva
le superfici se lasciate senza una adeguata
protezione, inoltre, i selciati in pietra avevano la
funzione di portare a valle nei periodi di pioggia,
tutto quello che con metodo vi veniva depositato.
Lastricati in
declivio associati a comode gradinate in pietre di
cava o di fiume, venivano adagiate su cuscinetti di
terreno vegetale misto a sabbia e ben livellate tra
loro mediante la percussione di pesanti mazze,
coprendo così le superfici esposte all’erosione.
L’avventurarsi
nella riconfigurazione planimetrica, a mio avviso,
senza un’adeguata analisi storica ha prodotto errate
valutazioni nella compilazione progettuale
architettonica.
Le piazzette,
"sheshi", le strade "udeth", i vicoli "ruga", la
ideale divisione dei paesi: la superiore "Drelarti",
quella inferiore "Drehjimi", assieme alle regole
dell’approvvigionamento idrico, legate da specifici
significati economici, storici, sociali e religiosi,
hanno da sempre avuto precisa collocazione nel
vissuto quotidiano degli arbëreshe; ridurre tutto in
un unicum di colori e di materiali significa
appiattire le identità di quegli spazi conservati da
generazioni.
L’espressione
progettuale rappresentativa delle tradizioni
arbereshe, potrà emergere solo da un’adeguata
conoscenza storica delle genti e dei luoghi, cosi
facendo, potranno essere distinti dal viaggiatore
errante e riconosciuti da chi per ovvi motivi,
ritornando nei luoghi di origine li riconosca.
L’auspicio è
quello di sensibilizzare i vertici istituzionali
locali, affinché appropriati interventi di recupero
ridiano dignità a quegli spazi, per consegnarle alle
nuove generazioni in modo che siano anche per loro
il bagaglio storico-culturale che è giunto a noi
sino a pochi decenni addietro.
* Architetto arb ëresh
Foto: Archivio Pizzi |
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pubblicato il 16 giugno 2009
Eredità storiche delle comunità di minoranza
linguistica
non contemplate dalla legge di tutela
Un dibattito da riconsiderare
di
Micol Bruni*
Lo
studio delle minoranze linguistiche passa
inevitabilmente attraverso dei parametri che hanno
come elemento di base la conoscenza storica non
solo delle lingue ma anche delle culture e delle
civiltà identitarie. La loro presenza sul territorio
nazionale comporta una analisi attenta di quei
processi pedagogici che si vivono anche all’interno
del mondo scolastico che possono essere definiti
come modelli della “differenziazione”.
Tra
lingua e modello etnico ci sono passaggi che possono
essere maggiormente compresi se alla base c’è una
volontà di metodologia pedagogico che viene ad
essere supportata da precise realtà intersogettive
tra la cultura italiana e le matrici ereditarie che
si portano dietro i cosiddetti “popoli altri”
presenti sul territorio nazionale. Proprio in virtù
di ciò la scuola ha un ruolo predominante non solo
in quei contesti dove il tessuto linguistico vive di
contaminazioni articolate e le lingue assumono il
contorno di un vero e proprio bilinguismo ma anche
in quelle realtà comunitarie dove si assiste ad una
presenza non storica ma contemporanea di presenze
minoritarie.
Credo
che qui la didattica della integrazione gioca un
ruolo significativo.
È
naturale che le comunità che si mostrano con una
storia di bilinguismo rientrano in quei parametri
sanciti dalla legge di tutela ora vigente ma è anche
vero, comunque, che diventa necessario stabilire un
dialogo tra territori perché, in molte occasioni, un
Istituto superiore accoglie studenti che provengono
da comunità in cui è forte l’insistenza (in
positivo) del bilinguismo.
La
Legge di tutela (ovvero la 482 del 99) non prende in
considerazione questi casi perché si sofferma su un
aspetto giuridico riguardante le comunità o le
scuole ricadenti nelle comunità di minoranza
linguistica ma sarebbe opportuno aprire un vero
dibattito, a tutto tondo, su delle fattispecie che
insistono in alcuni Istituti scolastici che non
risiedono in dette comunità ma accolgono alunni
provenienti da situazioni di bilinguismo storico.
Il dato
relativo ad una metodologia didattica e quindi
pedagogica mi sembra che debba essere presa in
considerazione con molta delicatezza e attenzione.
Come altre situazioni riguardanti comunità che hanno
mantenuto intatti tradizioni e lingue sino a un
determinato perizio e poi hanno perso il rito e la
lingua ma sono presenti e visibili i segni di una
tangibilità culturale con matrici provenienti da
altre civiltà.
Infatti
richiamandosi alla questione Arbereshe si
riscontrano situazioni in cui molte comunità sono
stati Arbereshe sino al 1700 e successivamente è
andata perdendosi la lingua e prima della lingua il
rito pur consapevoli che ci sono segni significativi
di una identità storica albanese che è visibile
nelle strutture, nei modelli architettonici, nei
rimandi religiosi, nella tradizione di alcuni
festeggiamenti.
Ebbene,
questo fatto non può essere trascurato e nonostante
non ci sia più la lingua Arbereshe c’è da
sottolineare che i simboli comunitari della stessa
comunità hanno dei richiami precisi senza i quali è
impossibile leggere il suo territorio e la sua
essenza vera dal punto di vista sia culturale che
umano.
C’è da
precisare che il concetto di tutela è molto ampio ma
si tutela la storia e dentro la storia ed è per
questo effetto, non solo giuridico, che il rapporto
tra tutela – salvaguardia e valorizzazione –
promozione deve poter avere una articolazione che
consenta di approfondire, proprio nel campo della
tutela delle minoranze linguistiche, elementi e
modelli di importanza anche in quelle comunità che
hanno perso la lingua (si potrebbe anche dire
l’etnia) ma che sono stati e sono dentro una
identità storica in cui il valore della diversità
culturale ha lasciano segni ben individuabili.
Si
tratta di un discorso che deve sottoporsi ad una
valenza chiaramente culturale ma anche giuridica
estendendo così il concetto e la visione di tutela.
È
naturale che i riflettori devono restare puntati
sulla contemporaneità delle presenze minoritarie ma
non si possono trascurare testimonianze, che
geograficamente a volte ruotano intorno ad uno
stesso complesso territoriale, che si manifestano
sia attraverso il patrimonio culturale (diciamo beni
culturali) sia in una grigia più vasta che va dai
rimandi linguistici alle forme di etno –
antropologia. In questo senso la scuola può
inserirsi in un dibattito che può risultare
importante.
*Micol
Bruni
(Cultore di Storia del Diritto
Italiano dell’Università degli Studi di Bari) |
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pubblicato il 3 giugno 2009
Le minoranze linguistiche in Italia
Tra
storia e ricontestalizzazione giuridica
I nuovi processi culturali
di
Micol Bruni*
La
presenza di popoli stranieri sul territorio italiano
creò sempre un processo non solo di natura storica
ma anche giuridica. La storia delle minoranze
etno-linguistiche è una storia che ha vissuto
stagioni di grandi conflittualità sul piano storico
ma anche di importanti fasi in cui il senso
dell’identità viene ad essere assorbito come un
“ereditarismo” di èlite nella consapevolezza anche
di una nobiltà culturale. Le minoranze etno
linguistiche sono piccole realtà che con dignità
cercano di restituire un senso alle radici antiche
della loro appartenenza.
La presenza relativa alla tutela delle minoranze
linguistiche in Italia, oggi in vigore, nasce da un
processo di dialettica istituzionale e culturale
abbastanza variegato e articolato anche sul piano
delle valenze giuridiche. Nella realtà attuale è
ormai una certezza giuridica che le minoranze
linguistiche sono dentro una dimensione
istituzionale in cui tutela e valorizzazione
rappresentano un punto di sicuro riferimento. Alla
Legge che sancisce tale tutela, la Legge n. 482 del
15 dicembre 1999 si è giunti dopo un significativo
raccordo parlamentare che ha innescato un confronto
politico e istituzionale tra le varie scuole di
pensiero.
Il dibattito sulle minoranze etnico linguistiche
viene affrontato già nella “Commissione per gli
studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato”
nota nel linguaggio comune come Commissione Forti.
E’, in particolare, nella seduta del 2 febbraio 1946
che tale Commissione affronta il problema presentato
da Silvio Innocenti sulle minoranze. La Commissione
arriva a una distinzione precisa : suddivide le
norme generali che sono valide per tutti i
cittadini perché si tratta dei diritti di
eguaglianza e di libertà garantiti dalla
Costituzione, e norme speciali volte alla
tutela dei gruppi minoritari per salvaguardare la
lingua in modo da mantenere un contatto con gli
organi giudiziari con attenzione all’istruzione e
allo sviluppo della cultura.
Diventa quindi importante citare gli articoli 3 e 6
della Costituzione. A norma dell’articolo 3 si legge
: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e
sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali. / E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese”. Un articolo che creò non poco scompiglio
facendo riferimento a quel concetto di razza
presente nel primo comma. Ma sia Basso che Aldo Moro
tentano di spiegare quanto l’articolo cerca di
sancire. Basso faceva riferimento al fatto che una
volta individuati i principi di libertà e di
eguaglianza potevano nascere degli ostacoli di
ordine economico e sociale e quindi tutta la
legislazione italiana doveva muoversi nel tentativo
di eliminarli. Aldo Moro facendo riferimento “ad un
uguale trattamento sociale” specifica che si tratta
in realtà di un “carattere dinamico che deve avere
lo Stato democratico”.
Inoltre il dibattito sulle minoranze si è
affrontato, in seno all’Assemblea Costituente, in
una seduta del 27 giugno 1947 in cui, discutendo
sull’articolo 108, si prevedeva una autonomia
speciale alle Regioni in cui vi erano queste
presenze definite minoranze di confine, e in
un’altra seduta del 1 luglio 1947 discutendo
sull’articolo 108 - bis destinato poi a diventare
l’articolo 6 della nostra Costituzione.
Nella storia della tutela delle minoranze etnico
linguistiche è importante ricordare anche la
cosiddetta proposta Codignola e l’emendamento Lussu.
Il primo, in sostanza era contrario al sistema degli
statuti speciali, un sistema che mirava a garantire
solo alcune minoranze linguistiche. Lussu invece
cercò di riprendere in qualche modo la proposta di
Codignola e precisò il divieto per le nascenti
regioni di limitare lo sviluppo delle minoranze.
Oggi, è proprio all’interno della nostra
Costituzione, in virtù dei dibattiti affrontati
nell’Assemblea Costituente, che ritroviamo il
concetto e la tutela delle minoranze etnico
linguistiche. In particolare l’articolo 6 recita :
“ La Repubblica tutela con apposite norme le
minoranze linguistiche”. Scompare quindi il termine
etniche proprio per far risaltare i contenuti
culturali e non nazionali e,inoltre, tale norma è
una evidente applicazione dell’articolo 3, della
Costituzione stessa, citato precedentemente,
vietando,appunto, ogni forma di discriminazione ma
anche dell’articolo 2 ( “La Repubblica riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge
la sua personalità. E richiede l’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale”) poiché in attuazione dei
principi di tolleranza e di pluralismo mette in atto
una tutela positiva delle minoranze volta a
salvaguardare la loro cultura e a consentire una
partecipazione nella vita sociale del paese.
Sono tutti questi dibattiti ed è la Costituzione ad
aprire la strada ad una legge di tutela specifica
per le minoranze linguistiche che si avrà solamente
nel 1999. Un ruolo molto importante è stato giocato
dalla figura dell’Onorevole Natino Aloi che nella
seduta del 11 giugno 1998 nella Camera dei Deputati
proprio in un dibattito dedicato alla difesa delle
minoranze etnico linguistico nel rispetto
dell’unità nazionale (parafrasando il titolo di un
suo libro) e analizzando quello che diventerà
l’articolo 1 della legge 482 afferma : “…ho
presentato una serie di emendamenti che si muovono
in direzione della salvaguardia del valore centrale,
essenziale della lingua italiana. Ma abbiamo
presentato, oltre alla proposta di legge che risulta
parte integrante del testo, anche una serie di
emendamenti per salvaguardare il diritto di quelle
che non definiscono minoranze, ma presenze etnico –
linguistiche e quindi culturali. Infatti, la
presenza di un gruppo etnico in una certa area può
sembrare minoritaria, ma di fatto costituisce il
momento culturale più importante della zona e quindi
l’espressione di tradizioni, valori, tutta una serie
di elementi che ci hanno posto in condizione di
affermare che per noi si tratta di presenze etnico –
linguistico – culturali”.
In riferimento alla difesa della lingua italiana
come difesa dell’unità nazionale l’Onorevole Aloi
ancora precisa :“ A fronte di presenze etnico –
linguistiche e culturali, che non inducuno alcuna
preoccupazione in ordine a fenomeni centrifughi e
scissionistici, è importantissimo salvaguardare la
lingua italiana. È questo il motivo per cui abbiamo
fortemente voluto l’articolo 1 : la nostra lingua va
difesa anche in rapporto a tutta una serie di
‘barbarismi’ di ritorno. Ribadiamo questa posizione
nel solco della nostra tradizione, che pone l’Italia
al centro della nostra proposta politica, sociale,
culturale e morale”.
Difesa delle minoranze e tutela della cultura delle
etnie. Si tratta di una sottolineatura di sicuro
spessore che chiama in causa un rapporto e su questa
visione di idee che risulta fondamentale tra le
presenza minoritaria in sé e la
territorializzazione. Infatti la minoranza è dentro
un territorio e il confronto è sempre un incontro
tra la cultura di appartenenza e la cultura già
esistente sul territorio. Ed è su questo rapporto
che nasce la Legge n. 482 del 15 dicembre 1999 che
detta “Norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche”.
Il testo, costituito da 20 articolo con un
articolo, il 18 – bis, introdotto dall’articolo 23
della legge 23 febbraio 2001 n. 38, è quello
approvato in via definitiva dal Senato della
Repubblica il 25 novembre 1999 e pubblicato sulla
G.U. del 20 dicembre 1999. Per capire di quali
minoranze si parla e quali minoranze vengono
tutelate bisogna leggere l’articolo 2 : “ In
attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in
armonia con i principi generali stabiliti dagli
organismi europei e internazionali, la Repubblica
tutela la lingua e la cultura delle popolazioni
albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e
croate e di quella parlanti il francese, il franco –
provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il
sardo”.
Il dibattito sulla presenza minoritarie in Italia
richiama certamente un percorso che ha delle valenze
sia storiche che giuridiche. Oggi più che mai è da
riconsiderare la normativa riferita alla tutela
delle minoranze linguistiche in Italia. La legge
deve avere un ruolo di proposta culturale e non
soffermarsi soltanto su elementi riguardanti
contributi finanziari a Istituti e organismi vari.
Bisognerebbe insistere sul valore culturale e quindi
etno – antropologico con un sistema di misure che
abbiano una valenza certamente normativa ma
soprattutto progettuale. L’identità nazionale,
comunque, resta fondamentale e il rischio che questa
possa essere in un certo qual modo non messa in
discussione ma non valorizzata a sufficienza esiste.
Occorrerebbe riflettere su alcuni riferimenti di
fondo. Primo elemento. È necessario parlare di
“presenze” minoritarie e non di minoranze vere e
proprie. Il discorso è sottile ma qualifica e
diversifica la questione sia politica che giuridica
e culturale. Secondo elemento non può interessare
soltanto la lingua e le culture o la Pubblica
Istruzione e quindi le scuole ma deve creare la
possibilità di comparazioni altre e questo
nonostante il successivo Regolamento non si evince
con chiarezza. Terzo elemento: bisogna alleggerirla
e aprirla ad un confronto con le identità nazionali.
Non la si può circoscrivere ad una tutela e ad una
promozione della tutela soltanto delle minoranze non
tenendo conto che queste minoranze sono “presenze”
nel contesto territoriale italiano, regionale e
provinciale. Contesto che ha già un suo dialetto.
Quarto
elemento: le 12 minoranze linguistiche di cui parla
la normativa sono ampiamente superate anche se ci si
riferisce ai livelli storici. Un solo esempio la
presenza Armena che fine ha fatto? Oltre a quelle
che vengono considerati non stanziali e anche qui la
questione ora si pone. Quinto elemento: non può
essere considerata come un serbatoio dove attingere
economie per una tutela che, a volte, è abbastanza
mediocre dal punto di vista della proposta
culturale. Le presenze minoritarie sono estese su
tutto in territorio nazionale.
La geografia del Sud mostra le sue forti eredità:
dalla cultura grecanica a quella arbereshe, da
quella occitana a quella franco provenzale, da
quella catalana a quella armena sino a quella rom.
Quindi, la normativa, occorre rivederla nella sua
struttura e nella sua complessità proprio per
definirla nelle sue interazioni. Gli stessi
Sportelli Linguistici, nei territori interessati,
dovrebbero avere una funzione di forte incisività
culturale e invece sono molto limitati. D’altronde
il dibattito sulla modifica dell’Articolo 12 va a
cambiare logicamente la Legge in questione e perciò
occorre necessariamente ricontestualizzare la tutela
delle minoranze storiche sulla base della difesa
della lingua italiana e dell’identità italiana.
* Cultore di “Storia del Diritto Italiano” –
Università degli Studi di Bari |
inizio pagina |
pubblicato il 28 maggio 2009
Le minoranze etno-linguistiche
storiche in Italia
Ripensare la legge di tutela
di Micol Bruni
Si apre una stagione di
“ri-discussioni” sulla normativa riguardante la
tutela delle minoranze linguistiche (ed “etniche”)
storiche in Italia. Ed è anche giusto che sia così a
dieci anni dalla emanazione. La legge deve avere un
ruolo di proposta culturale e non soffermarsi
soltanto su elementi riguardanti contributi
finanziari a Istituti e organismi vari. Occorre un
progetto culturale forte con degli obiettivi precisi
che devono riguardare tutti i campi della tutela sia
in termini giuridici che prettamente culturali.
Bisognerebbe insistere sul valore culturale e
quindi etno – antropologico con un sistema di misure
che abbiano una valenza certamente normativa ma
soprattutto progettuale. L’identità nazionale,
comunque, resta fondamentale. La presenza delle
minoranze etnico-linguistiche in Italia,
riconosciute come tali, va considerata almeno
secondo tre aspetti che costituiscono la vera base
di discussione:
Il
primo certamente storico in quanto occorre
capire e analizzare il rapporto tra la loro
provenienza e la contestualità territoriale nella
quale le stesse minoranze si sono stanziate. In tale
aspetto rientra certamente una meditazione e una
valutazione delle influenze che si sono verificate
nel momento in cui le minoranze si sono insediate
all’interno dello stesso territorio italiano e
all’interno di un particolare assetto geografico.
Perché un loro insediamento ha contribuito a creare
una rete estesa di legami e di rapporti con le
popolazioni già esistenti sul territorio e nelle
strette vicinanza e quindi essendo state popolazioni
aggiuntive al territorio si è verificato un incontro
tra storia, modelli di civiltà e tra assetti
territoriali stessi. Proprio per questo è necessario
approfondire quelle valenze storiche che nel corso
dei secoli hanno portato alla luce modelli di
identità.
2)
Il secondo aspetto è
chiaramente quello che riguarda gli elementi
giuridici. In realtà una minoranza linguistica
per resistere su un determinato territorio o
all’interno dell’intero Paese Italia ha necessità di
essere tutelata grazie a precise normative che
devono garantire la salvaguardia della loro presenza
attraverso apposite leggi stabilite sia a livello
nazionale sia a livello regionale ovvero locale.
Su questo tema si sono sviluppati
diversi dibattiti ma resta fondamentale ciò che
stabilisce la Costituzione della Repubblica
Italiana. O meglio occorre far riferimento
costantemente all’articolo 6 della Costituzione nel
quale si sottolinea :“La Repubblica tutela con
apposite norme le minoranze linguistiche”. Eravamo
nel 1948, da allora la discussione sia giuridica,
istituzionale e parlamentare è stata abbastanza
articolata e vasta. Proprio partendo dall’articolo 6
alcune regioni nelle quali ricadono le presenze
minoritarie si sono sentite in dovere di proporre e
attuare delle normative e delle leggi in grado di
tutelare e promuovere le realtà etnico-linguistiche
ricadenti ,certamente, nel territorio di competenza.
Sulla scorta di una discussione che è
continuata per anni soltanto nel 1999 è stata
promulgata una legge che sancisce “Norme in materia
di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. La
legge in questione è del 15 dicembre 1999 n.482 ed è
stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.297 del
20 dicembre 1999, il cui regolamento di attuazione è
andato in vigore il 28 settembre 2001. In questa
legge si sancisce come recita l’articolo 2 : “In
attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in
armonia con i principi generali stabiliti dagli
organismi europei e internazionali la Repubblica
tutela la lingua e la cultura delle popolazioni
albanesi, catalane, germaniche, greche e slovene e
croate e di quelle parlanti il francese, il
franco-provenzale, il friulano, il ladino,
l’occitano e il sardo”.
La legge che è costituita da 20
articoli punta, certamente, a valorizzare il
patrimonio linguistico e culturale ma anche
sottolinea l’importanza della valorizzazione della
lingua e delle culture. Quindi non solo tutela la
lingua ma anche il tessuto culturale di cui le
minoranze sono portatrici. C’è da ribadire,comunque,
un dato significativo sul quale la discussione è di
estrema attualità : l’articolo 1 di questa legge
ribadisce “La lingua ufficiale della repubblica è
l’italiano”. In virtù di tali elementi si è aperta
la discussione, di recente, proprio sull’articolo 12
della Costituzione in materia di riconoscimento
dell’italiano quale lingua ufficiale della
repubblica. È necessario ,chiaramente, approfondire
i risultati che hanno portato la legge n.482/ ’99
non solo dal punto di vista giuridico ma anche dal
punto di vista storico e proporre che tipo di
incidenza politico-culturale nel corso degli anni si
è innescato anche alla luce della autonomia
regionale.
3)
Il terzo aspetto è prettamente culturale e
interessa in modo particolare la ricostruzione di
queste presenze e della loro incidenza
storico-sociale. Ciò ha portato ad una discussione
sul concetto di etnia, ovvero della valenza storica
dell’etnia in Italia a partire sia dall’Unità
d’Italia e successivamente dal 1948 alla L.n.482/
’99. La questione riguarda le presenze minoritarie
storiche e si guarda con attenzione a quelle
presenze definite stanziali e non migratorie. Un
inciso che è prettamente culturale in quanto si
ribadisce il fatto che si tratta di presenze
minoritarie all’interno di culture nazionali e non
tout court di minoranze linguistiche. Ogni realtà di
presenza minoritaria ha vissuto un impatto
particolare con il territorio sia in termini di
incisività storica sia sul piano culturale
attraverso usi, costumi, tradizioni ed elementi
etno-antropologici e letterari che andrebbero
analizzati sia sotto il profilo storico sia sulla
base di moduli normativi sia attraverso una
residuale presenza linguistica e perciò culturale.
In
riferimento a ciò detto sarebbe necessario
soffermarsi attraverso approfondimenti
particolareggiati su: -Dibattito che ha portato alla
L. n. 482/ ’99, analizzando alcuni passaggi discussi
sia in sedi parlamentari sia in sedi regionali
ricostruendo storicamente la visuale di tali
elementi; -Importanza della L. n. 482/ ’99 e sui
risultati e anche su alcuni vuoti e lacune e
incomprensioni che ha lasciato; -Attualità o
inattualità della L. n. 482 in riferimento al
dibattito inerente la modifica dell’articolo 12
della costituzione. Dopo tale premessa sarebbe
necessario approfondire quali sono le presenze
minoritarie storiche all’interno della geografia
delle regioni meridionali soffermandosi sulla
presenze degli Italo-albanesi (arbereshe), dei
Grecanici (nel Salento e nella provincia di Reggio
Calabria), degli Occitani ( Guardia Piemontese, in
provincia di Cosenza).
È necessario ribadire che si
tratta di minoranze storiche. Proprio in virtù di
ciò si sottolinea la necessità di riconsiderare la
normativa sulla legge di tutela delle minoranze
etnico linguistiche attraverso un’azione sia
parlamentare che politica. La necessità di progetti
articolati è un dato dal quale non si deve
prescindere. Le minoranze linguistiche storiche
restano un patrimonio ma i flussi economici per i
progetti devono avere obiettivi scientifici e
didattici con ricaduta non solo sul territorio
circostante ma deve poter avere un respiro nazionale
ed europeo. Attenzione a non cadere nei
“provincialismi”.
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pubblicato il 28 maggio 2009
L’identità europea nella cultura del
Medioevo, secondo Jacques Le Goff. Il dibattito
si riaccende
di Micol bruni
Il
dibattito su Europa e fasi storiche è
completamente aperto. Se ne discute sia nelle
“società” accademiche sia in un percorso di
dialettica militante. Il punto di discussione,
proprio in questi giorni, ruota intorno a
Jacques Le Goff con Il Medioevo. Alle origini
dell’identità europea. Le Goff si pone (e ci
pone) alcuni interrogativi chi sono tuttora
alle radici di un dibattito tra modernità e
modernismo, tra tradizione e progresso, tra
concetto di razza e concetto di nazione. Si
parte dal Medioevo e si giunge sino ai nostri
giorni. In un altro suo volumetto dal titolo:
L’Europa medievale e il mondo moderno aveva
scritto: “L’Europa ha un eredità ecologica.
Anche qui, la modernità non è altro che
accellerazione di una tradizione.”
Il concetto di tradizione,
dunque, è antico ed ha attraversato i secoli e
le epoche. La tradizione è un eredità che vive
quotidianamente nel tempo e si decodifica grazie
ad una memoria che ci trasporta in una
appartenenza. Nel Medioevo c’è una umanità
colorata. Ci dice Le Goff. E aggiunge: “Prima di
essere sommersi, nei tempi moderni, dal grigio,
da un marrone e da un nero incolore, gli Europei
crearono nel Medioevo un umanità colorata, che
oggi rinasce”. Si attraversano tutti i secoli e
il Medioevo è dentro la cultura dei secoli
perché occupa spazi nella civiltà dell’uomo. In
quella civiltà che ha formulato modelli e ha
formato coscienze.
Ogni epoca, indubbiamente,
lascia la sua storia ma il Medioevo consegnato
quelle eredità di cui ancora oggi si discute.
Dopo le appartenenze e le eredità greche quelle
medievali restano punti cercati. D’altronde lo
stesso Le Goff riconosce alla civiltà greca quei
valori fondamentali che hanno formato gli
europei. Ma questo viaggio è una costante nella
coscienza dei secoli. Il diciannovesimo secolo
“è soprattutto il secolo dell’esplosione del
nazionalismo”. Scrive Jaques Le Goff in
L’Europa Medievale ed il mondo moderno.
Questa esplosione diventa
una sfida e Le Goff la fa risalire al Medioevo
considerandola “la prima malattia dell’Europa
moderna.” E lo scarta tra nazionalismo che viene
ad essere considerato una malattia. E a questa
si lega, secondo Le Goff, “quella del risorgere
del razzismo e delle esclusioni.” Un tema
importante che pone in discussione l’eredità
dell’Europa che passa attraverso l’idea portante
della tradizione. Ma il diciannovesimo secolo si
apre sul movimento che è culturale ma è anche
politico: il romanticismo il quale disegna un
percorso verso la maturità favorita dai nuovi
assetti dati dalla rivoluzione industriale.
Annota Le Goff: “Il mondo
moderno è il mondo di oggi e di domani. E con
questo che bisogna confrontare le strutture ,le
tradizioni, la civiltà europea vecchia di almeno
venticinque secoli”. La scelta, comunque, non si
gioca per, L’Europa, sul banco di prova tra
tradizione e modernità. Infatti una scelta per
l’Europa “Consiste nel buon uso delle
tradizioni, nel ritorno alle eredità come forza
di ispirazione, come punto d’appoggio per
mantenere e rinnovare un’altra tradizione
europea, quella della creatività”.
Una delle chiavi importanti
per capire il ruolo della tradizione e il
rapporto tra la tradizione e la modernità è
indubbiamente una penetrazione storica,
culturale, civile dentro la civiltà del mondo
medioevale. Sempre Le Goff afferma: “Gli europei
si abituarono ad essere eredi e scolari: ma
appresero anche a distinguere consapevolmente (a
partire perlomeno dal XII secolo) tra antichi e
moderni. Il Medioevo non conobbe l’idea di
progresso, ma si sforzò – nel campo delle
pratiche così economiche come intellettuali, ma
anche nella vita morale – di far meglio,
mediante sia il miglioramento che la crescita.
Cercò la via alla perfezione in un orientamento
dal basso verso l’alto (il cristianesimo è una
religione celeste ) ,e nell’allargamento dei
suoi orizzonti terreni (conquista del suolo e
padronanza del mare ) e in un’interiorizzazione
via via più accentuata della vita personale e
sociale, professionale e spirituale” (Il
Medioevo alle origini dell’identità europea).
Il Medioevo fu caratterizzato
da due grandi poteri. La chiesa e l’impero.
Questi due grandi poteri, questi poteri
contraddistinsero non solo in termini reali
un’epoca (che segnò inevitabilmente le civiltà
successive) ma anche in termini simboli.
D’altronde c’è una fiorente letteratura che
racconta epigoni e leggende dell’uomo medievale.
La ragione e il sentimento ebbero una loro
energica esplicazione.
Ancora Le Goff che
aggiunge: “nel secolo XII, il pensiero medievale
aveva raggiunto un alto livello d’equilibrio tra
la fede e la ragione; e fu appunto da
quest’equilibrio che nacque in Europa la
tradizione della ricerca di un armonia tra il
cuore e la ragione”. Il Medioevo come epoca di
transizione certamente tra modelli di cultura ma
soprattutto un’epoca che ha permesso risvolti di
grande ampiezza. In questi risvolti c’è
l’equilibrio intellettuale. Ma il Medioevo resta
un epoca di iniziazione.
L’idea di nazionalità è un
evento importante e significativo che apre
prospettive notevoli. L’idea di nazionalità si
lega alla nascita degli stati moderni.
Attraverso questi due luoghi del pensare e del
pensiero si è data vita a quella che Henr
Hauser ha chiamato “rivoluzione morale”. Ma è
proprio il sentire della nazionalità e la
formazione di una concezione moderna degli stati
che aprono un dibattito sulla funzione che
ancora oggi ha la tradizione.
Il Medioevo non solo
conserva una eredità ma trasforma questa eredità
in tradizione e lo fa proprio nel momento in cui
si parla di modernità e di progresso. L’eredità
del Medioevo è l’Europa. Perché “L’Europa non è
vecchia è antica? Il mondo non è moderno, è
attuale. La tradizione, se ben utilizzata, è una
risorsa” (Le Goff)
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pubblicato il 28 aprile 2009
Letteratura delle contaminazioni
Mediterraneo, Adriatico, letteratura,
lingua ed etnie. L’importanza della realtà pugliese
e meridionale. Dai grecanici ai rom e sinti.
Su
queste problematiche si sono sviluppate le
relazioni e il seminario svolto a Termoli da
Pierfranco Bruni per conto del MiBAC.
I popoli che vengono
dal mare. Un tema affascinante tra etnie e
letteratura. Un’analisi condotta da Pierfranco
Bruni che ha sottolineato l’importanza degli
scrittori e poeti del primo Novecento all’interno
del contesto antropologico – letterario europeo.
“Sulle rotte del Mediterraneo: i popoli che vengono
dal mare”. Un percorso che è stato individuato e
tracciato da Pierfranco Bruni, Coordinatore
del MiBAC per le Minoranze linguistiche storiche in
Italia, che ha dato delle precise indicazioni tra
letteratura ed etnie.
Un legame significativo
che ha segnato civiltà e Paesi. Gli incontri con
Bruni si sono svolti alla Galleria Civica di
Termoli.
Il rapporto tra minoranze linguistiche ed etnie
costituisce una chiave di lettura fondamentale per
confrontarsi con il territorio e soprattutto con le
culture delle identità e delle diversità che si
muovono all’interno del contesto italiano ed
europeo.
Alla luce delle sue
recenti pubblicazioni e gli studi decennali sul
significato di presenze minoritarie in un raccordo
tra lingua, letteratura ed etnia, Pierfranco Bruni
sottolinea l’importanza e il ruolo della cultura dei
popoli altri che vivono in Italia. Un segno di
civiltà all’interno di un processo culturale,
secondo Bruni, che resta fondamentale.
È proprio alla
problematica del Mediterraneo e letteratura che
Bruni ha dedicato numerosi suoi testi che sono stati
tradotti in diverse lingue. Tra questi testi c’è
anche l’Antologia, bilingue: italiano e albanese,
dedicata ai poeti del Novecento che traccia un
profilo tra la sponda Mediterranea e quella
Adriatica dell’Europa.
Gli incontri con
Pierfranco Bruni, uno dei massimi esperti di
“Letteratura delle contaminazioni”, così è stato
definito, hanno permesso di indagare tra la cultura
italiana mediterranea a partire da Alvaro sino a
toccare le sponde albanesi e tra gli autori citati è
stato prese come modello la giovane scrittrice
Ornava Vorpsi.
C’è da dire che Bruni
ha inserito nel suo progetto anche le culture
“zingare” e la cultura armena. Pertanto il quadro si
è articolato con una visione ampia riguardante le
presenze minoritarie in Italia.
Proprio sulla cultura
rom e dei sinti Bruni si è a lungo soffermato
sostenendo: “Gli zingari, un popolo che viene
da lontano e che trasporta lungo i suoi viaggi
modelli di identità e tradizioni. Nomadi, figli del
vento, viandanti. Una cultura orale che è nel solco
di una storia che è ricca di contaminazioni ma che è
riuscita ad infiltrarsi nei segmenti di eredità e di
realtà che si determinano la contestualizzazione dei
territori. Sinti, Rom e Kalè. Gruppi che si mostrano
con una loro fisionomia in quella dimensione
dell’oralità che ha una specificità nell’essere
viaggianti o nomadi, semi – viaggianti, stanziali.
In Italia se ne contano circa 80.000 e sono,
appunto, suddivisi in quella sopra detta specificità
mentre in tutto il mondo sono circa quindici
milioni. Hanno una loro cultura attraverso la quale
trasmettono non solo codici esistenziali ma anche
valori culturali”.
“L’indifferenza nei confronti della diversità, dei
popoli - ha sempre sostenuto Bruni - è una
sovrastruttura che non ci allontana dal problema
reale perché in fondo è proprio da questa che il
rapporto parola tradizione non assume uno spessore
dissolvente ma ci mette a contatto non tanto o non
solo con le eredità ma soprattutto con la nostalgia.
“Il passaggio dalla indifferenza alla
nostalgia non è soltanto un fenomeno culturale. È
piuttosto un attraversamento non solo di valori ma
di raggiungimento di quell’ordine sancito dai
sentimenti che portano a capire le matrici
dell’appartenenza. E se si volesse ancora insistere
su questo dato non si potrebbe che aggiungere che il
passaggio dalla indifferenza alla nostalgia è
sancito proprio da una metafora indissolubile che è
quella del mito-simbolo”.
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pubblicato il 21 aprile 2009
Ankara e Istanbul
Un Oriente che è nel nostro destino - Tra i luoghi
dei miei viaggi
di
Pierfranco Bruni
Ankara |
Istambul
|
Ataturk. Il cielo non ha stelle. Le nuvole sono
nell’ottobre mite che annuncia l’inverno. Il sole ha
raggi mediterranei. Il mausoleo di Ataturk racconta
storie. Storie di frontiere e di bandiere. Il vento
raccoglie parole e l’odore di echi d’Oriente si
sente nei passi dei viandanti che guardano senza
abbandonarsi alle osservazioni. Sono in Turchia. Ad
Ankara. L’intreccio degli sguardi si fa intenso.
L’immagine delle moschee si dilata e ci accompagna
durante tutto il tragitto che dall’aeroporto ci
conduce sino all’albergo. I minareti sembrano
toccare le nuvole ed hanno colori chiaroazzurri. Si
perdono nel fumo del vento. Il paesaggio ci recita
subito la sua storia. Il mare è distante e le
colline e la terra fanno da scenario. Gli occhi
delle donne hanno arcobaleni. Sembrano assenti ma
non si smarriscono. L’albergo è turco. Si nota a
primo impatto.
Ho
viaggiato lunghi viaggi ma ogni qual volta la
Turchia mi chiama sento quell’odore e quei sapori di
un Oriente che è dentro di me. L’antica
Costantinopoli conosciuta tra le pagine di Edmondo
D’Amicis e tra le parole incantate di Corrado Alvaro
mi porta una luce che è fatta di ombre e di nuvole
che ondeggiano tra i cieli del Mediterraneo. E penso
al mio Mediterraneo. A quello che ho vissuto nel
tempo della mia infanzia tra le scogliere di Sibari
e i mari del Sud.
Costantinopoli resta un immaginario che rivivo nella
Istanbul di un aeroporto che ha profumi di dolci con
il miele. La mia Calabria ha molto della Turchia. Lo
diceva bene Corrado Alvaro. Istanbul è un mercato
nella fiera dei colori. È una fiera tra i silenzi
notturni e la festa del giorno. Tutto mi riporta a
un gioco che resta dentro di me interminabile. Un
gioco di sguardi come le donne zingare che danzano
con le movenze delle stelle in una notte di luna che
spezza il mare dal deserto. Questi miei viaggi non
sono più fatica. Forse abitudine.
I
foulard di seta e le sciarpe ricamate mi coprono il
capo. Sono il misterioso tra le parole che cuciono
nel vento i segreti di una vita. L’aereo atterra con
lentezza su Istanbul. Il porto è una marina. Osservo
dal finestrino. La musica è sempre una dimensione
che tocca le corde del cuore. Poi da Istanbul con i
suoi minareti che sembrano toccare l’anima del vento
giungo ad Ankara. Sembrano due città distanti nella
storia e nel tempo ma sono soltanto ad un’ora di
aereo. Ankara ha le colline e il montuoso della
Turchia è segmentato.
I
destini decifrano l’immaginario che ho lasciato
nell’Occidente – Oriente di Istanbul. Il fascino dei
colori anche qui ha un suo tocco di inimitabile
festa. La piazza è un grande mercato e lo sfolgorio
delle pietre luccicanti abbaglia. Le gonne delle
donne sono banderuole al vento. Gli occhi delle
ragazze hanno uno splendore ospitale. Mi trovo
ancora una volta qui. Anzi ci troviamo qui per
discutere di letteratura italiana e dialogare con
gli studenti universitari e docenti di una Italia
che recita i suoi linguaggi, le sue eredità, le sue
poesie.
Raccontiamo una storia di piazza attraversando
poeti e avventure nei personaggi che si incontrano
tra le pagine e la vita. Tutto diventa decisamente
ordinato nella logica del nostro parlare ma veniamo
osservati, scrutati e ogni parola è presa con il
bilancino. Chiedono. Domandano. Interrogano. La
letteratura non è più storia. Ma si fa destino
perché si misura con le cifre delle metafore. Tutto
diventa una metafora che continua nei giorni che
misurano il tempo con la clessidra della memoria.
C’è un
narrato che si sgretola nel raccordare la realtà con
la geografia che non conosce alcuna storia perché
resta dentro ognuno di noi. Ankara non smette di
tentare di raccordarsi con l’Occidente ma non
rinuncia alla sua eredità e alle sue tradizioni. Non
solo dal punto di vista religioso. Nella durezza dei
volti c’è un sorriso nascosto. Bisogna sempre fare i
conti con il passato, ma il passato si dimentica se
il presente è camminamento nel quotidiano. Non solo
per gli Stati ma anche per gli uomini.
Il
passato della Turchia è nella memoria. La bandiera
con la mezzaluna continua a restare nel presente ma
tutto cambia anche se si vorrebbe restare legati ad
una eredità. Non sempre è possibile. Ed è sempre
necessario essere diversi nel tempo che vive nella
pietra angolare della nostra autentica biografia.
Non siamo sempre gli stessi. La nostra mutevolezza è
nel misterioso degli incontri.
La
prima volta che giunsi in Turchia il timore era
penetrante. Non conoscevo. Non avevo visto. Non
avevo avvertito il fascino. Possiamo tutti essere
mercanti di pietre preziose. Ma anche le pietre
preziose hanno un loro diverso valore e poi bisogna
capire il senso delle pietre. Parlare di letteratura
italiana in Turchia non è la stessa cosa di come
parlarne in Francia, in Germania, in Austria. Forse
la Turchia ci appartiene di più. Siamo sempre un
Mediterraneo che penetra l’Adriatico e un Adriatico
che si cerca nel Mediterraneo.
Mi
separo da Ankara con nostalgia. Il viaggio di
ritorno è sempre una nuova partenza. Non è realmente
un ritorno. È un nuovo viaggio che comincia. Lascio
(lasciamo) la città nell’ora presta. Il chiarore si
dipana tra le parole. Istanbul è sempre in festa.
Ancora l’odore del miele e dello zucchero è tra le
pieghe dell’aeroporto. Anche con la pioggia. Il
vento è alle spalle. Roma è sempre una attesa.
Anche quando la notte occupa i quartieri. Ci
accoglierà con le parole del sempre. Ma Ankara e
Istanbul sono anche il nostro viaggio.
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pubblicato il 15 aprile 2009
Viaggiatori stranieri nelle comunità
di minoranza linguistica
Tra i luoghi e le lingue
di
Pierfranco Bruni
L’Italia
è stata visitata da viaggiatori e scrittori che
hanno dedicato pagine emblematiche al territorio e
al paesaggio oltre a sviluppare ricerche sulla
storia delle comunità italiane. Soprattutto quei
viaggiatori che si sono soffermati sulle lingue
minoritarie e sulle etnie hanno sottolineato alcuni
particolari elementi che hanno una valenza sia
letteraria che di ricerca e riflessione storica.
I
viaggiatori stranieri in Italia hanno lasciato una
importante testimonianza attraverso pagine
esemplari. In quella Italia delle culture sommerse e
delle lingue “tagliate” i viaggiatori hanno inciso
una particolarità di letture e interpretazioni.
Il progetto del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, e da me coordinato e in fase di sviluppo,
si propone di avviare un 'azione' in favore della
conservazione e della conoscenza di culture di
tradizione millenaria nel nostro Paese, che traggono
origine da un costante rapporto tra le popolazioni
della costa orientale dell’Adriatico e le regioni
del centro e sud Italia, tra quelle provenienti da
tradizioni non italiane ben integrate nel contesto
nazionale a quelle radicate nelle isole, tra quelle
del nord a quelle prettamente di origini
mediterranee.
Il discorso, come si sta sviluppando, guarda con
attenzione ai viaggiatori nelle realtà culturali con
caratteristiche di cultura etno – linguistica. A
partire dalle comunità Arbereshe il tracciato
diventa un viaggio nel territorio che è tradizione,
fotografia e lingua oltre ad essere letteratura,
storia e antropologia. Il tema letterario legato
all’immagine del paesaggio, nel progetto e nello
studio già avviato, diventa fondante.
La letteratura di viaggio è anche dettata dalla
curiosità. Conoscere per soddisfare il bisogno di
curiosità e non tanto di consapevolezza e non tanto
di leggere modelli di identità che sono già, in
molti casi, parte integrante della storia stessa
dello scrittore che viaggia.
Invece la letteratura – viaggio (o meglio la
letteratura e viaggio) non si mostra, appunto, con
la meraviglia ma con uno stato di consapevolezza.
Come in Raymund Netzhammer, un monaco benedettino
che compie nel 1905 un suo viaggio nei paesi
albanesi della Calabria e ne scrive delle pagine di
una singolare importanza. I luoghi ci sono, le
immagini anche, così le atmosfere ma in questa
testimonianza emerge la consapevolezza di una
identità che è appartenenza. Non c’è la curiosità
tout court ma è presente l’interpretazione
meditativa.
Pur essendoci, comunque, un percorso fisico nei
luoghi l’approccio è di altra natura. Si cercano
questi luoghi per rafforzare dei codici di identità
e non per alleggerire la curiosità stravagante dei
viaggiatori anche se questi hanno dato un sicuro
contributo alla conoscenza dei territori. Perché i
loro scritti hanno permesso di sviluppare un
immaginario dei luoghi e delle tradizioni.
Il
viaggiatore ha con sé lo sguardo ma dentro di sé ha
il tempo. La letteratura di viaggio non può fare a
meno di prendere consapevolezza che le “rovine”
esistono. Lo scrittore che viaggia raccoglie
immagini che si trasformano in impressioni.
Norman Douglas ci lascia oltre a delle pennellate
descrittive questa cesellatura: “L’orgoglio di San
Demetrio è il suo collegio (…)…La lingua è di tale
difficoltà che dopo cinque giorni di residenza, io
ancora mi ritrovo in impaccio…”.
In un
passo della lettera di Duret de Travel del 1820:
“…Questi esuli hanno conservato la loro lingua, il
libero esercizio della loro religione e i loro
costumi, che sono molto ricchi ed eleganti, oltre
che di un effetto singolarmente grazioso…”.
Un frammento di viaggio di Jorgaqi, che mostra una
sua interessante lettura. Si legge in Nasho Jorgaqi:
“Andare tra gli Arbereshe e non passare per Napoli
significa non conoscere pienamente il teatro della
loro storia. Quasi tutte le loro peregrinazioni
attraverso l’Italia passano per questa città. Più
tardi Napoli, quale capitale dell’Italia
Meridionale, entrò nella storia degli Arbereshe,
come questi in qualche misura entrarono nella sua
storia tempestosa”.
La
letteratura viaggio è un tracciato in cui i segni
del tempo sono esistenza. Viaggi e viaggiatori tra i
luoghi e le storie. Quei luoghi che restano sempre
dimensioni reali ma anche dimensioni metaforiche in
un tempo che si consuma dando spazio alla memoria.
Viaggiatori e viandante.
La letteratura dei viaggiatori arbereshe o albanesi
in terra di Arberia ha i connotati ben marcati che
sono immediatamente visibili e leggibili a primo
acchito sia per conoscenza e vissuto sia per quel
senso di radicamento che dà una caratura di una
straordinaria sensibilità (non sempre in positivo)
al rapporto stesso tra sentimento e viaggio. Ma in
questo caso si avverte la passione, il voler
autodefinirsi e viene meno il sottile spirito
critico che non favorisce le descrizioni e il
racconto.
Tra viaggio nei luoghi e viaggio in una cultura che
è espressione di processi non solo antropologici ma
anche esistenziali dove non mancano elementi
sociali. Perché in fondo il tutto si potrebbe
tradurre come il viaggio vero in una cultura
attraverso le tradizioni e l’arte. Il paesaggio, il
luogo, lo sguardo costituiscono gli elementi della
descrizione. Una descrizione che si confronta,
comunque, con il tempo. Ma il tempo è fatto anche di
rovine che si infiltrano nel nostro immaginario
La letteratura dei viaggiatori è letteratura
geografia, è letteratura luogo, è letteratura
contatto, la quale non si serve però della metafora
ma della descrizione. Descrivono a volte con
meraviglia e curiosità degli aspetti ma è una
letteratura che non si confronta con il tempo.
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pubblicato il 19 marzo 2009
Minoranze linguistiche storiche
tra eredità e contaminazioni
di Pierfranco Bruni*
C’è un processo interessante
che tocca due elementi significativi della cultura
antropologica delle minoranze linguistiche storiche.
1. La presenza nella
contemporaneità attraverso il filtro delle
tradizione.
2. Le eredità che costituiscono
un patrimonio sia immateriale sia di intreccia
territoriali e geografici.
Le minoranze linguistiche
storiche oggi costituiscono un serbatoio necessario
per leggere o rileggere la carta non solo
linguistica di una Nazione, ma definiscono i
rapporti e i legami che una civiltà come quella
italiana ha filtrato nel corso dei secoli. La lingua
ha la sua radicale importanza ma ci sono elementi
antropologici che si lasciano leggere come una vera
e propria mappatura culturale e umana.
Tre esempi. I popoli Germani
hanno una loro storia antica che si è intrecciata
tra modelli identitari e letteratura. Così quella
Franco – provenzale o quella Francese. I territori
rappresentano un dialogo che mai separa e sempre
unisce grazie ad un patrimonio di culture sommerse
che si definiscono proprio nella dimensione dei beni
culturali. La lingua italiana trova la sua maggiore
forza non solo in una dimensione dove l’identità
diventa fondamentale ma anche nel saper convivere
con le ormai “indispensabili” contaminazioni. La
tutela della cultura italiana deve confrontarsi
costantemente con i risvolti letterari e storici che
provengono da altre lingue e culture.
È un presupposto sul quale
occorre riflettere non solo dal punto di vista
strettamente linguistico ma anche antropologico. È
un dato che risulta di estrema importanza
soprattutto se si considera il fatto che la lingua è
parte integrante di un modello di civiltà
all’interno di processi anropologici. La storia
d’Italia si è sempre espressa con le sue identità e
la sua robusta appartenenza mai smettendo di
compararsi con altre civiltà, con altre culture, con
altre etnie. È naturale che la sua eredità va
espressamente salvaguardata ma difenderla non
significa non accettare o non “modulare” le
contaminazioni che costituiscono una ricchezza nei
valori prioritari di un confronto tra civiltà. Si
tratta di uno dei punti focali di una discussione
che frequentemente si avanza nella nostra
contemporaneità.
La lingua italiana, e la sua
cultura, non è minata dalle contaminazioni
all’interno del territorio italiano. Piuttosto deve
essere garantita all’esterno del territorio
nazionale. D’altronde anche gli stessi dialetti
hanno come riferimento sempre un ceppo madre che è,
appunto, l’italiano. Il raccordo tra l’italiano e i
dialetti (mi riferisco chiaramente ai dialetti e non
alle lingue altre pur presenti sul territorio
italiano) ha delle chiavi di lettura che restano ben
sottolineate nella storia di una Nazione. La
letteratura italiana non dimentica di confrontarsi,
in molte occasioni (e direi spesso se si considerano
alcuni scrittori e poeti), con i dialetti che
nascono all’interno delle varie comunità.
Il dialetto, il più delle
volte, è la rappresentatività di una comunità che
diventa espressione di un vocabolario simbolico. Il
caso di Pier Paolo Pasolini con il suo modello
friulano è una testimonianza emblematica. Ma in
questo caso si tratta di una vera e propria scelta
tra l’italiano (lingua ufficiale) e il dialetto e
non si avverte in Pisolini contaminazione alcuna.
Anzi è il dialetto che prevale ma resta all’interno
di un processo che pone all’attenzione quella
cultura popolare che è una eredità di territorio, di
geografia umana e di realtà storica.
In altri scrittori, invece, si
avvertono delle vere e proprie contaminazioni.
Contaminazioni che hanno una loro impostazione
espressiva ma anche dei moduli linguistici
all’interno della lingua italiana stessa. Il caso di
Stefano D’Arrigo o il caso di Cesare Pavese che
modula un fraseggiare, una parlata, una sintassi
all’interno di un incontro tra lingua e dialetto.
Non siamo all’impatto sperimentale - linguistico di
Carlo Emilio Gadda, ma in Pavese si “consumano”
quelle forme di una storicizzazione del dialetto
all’interno dell’identità della lingua nazionale.
Un lavoro di grande portata in
una impostazione di recupero delle realtà dialettali
in un contesto di identità dell’italiano. Mi pare
che sia una cifra di straordinaria valenza perché
non depaupera assolutamente la lingua nazionale
bensì la arricchisce con una “fisiologia”
linguistica ricavata da modelli identitari locali. È
naturale che la lingua italiana si è aperta e si è
sviluppata nel corso dei secoli.
I popoli che hanno attraversato
l’Italia hanno lasciato una loro eredità anche
linguistica e sono stati depositari di culture. La
nostra lingua si è sempre aperta ad una
“civilizzazione” di comparazioni e di incastri
espressivi.
Da questo punto di vista c’è
stata una vera e propria storicizzazione di elementi
grazie proprio alla presenza di diversi popoli sul
territorio italiano. Ancora oggi ci sono termini,
vocaboli, modi dire che hanno chiari richiami
storici ma, come già si accennava, la letteratura ha
dato il suo notevole contributo. Voglio qui citare
l’esperienza dell’antologia degli scrittori
americani che ha visto protagonisti da una parte
Elio Vittorini e dall’altra ancora Cesare Pavese.
Quegli scrittori americani tradotti in italiano
hanno contribuito ad immettere nella letteratura
italiana e quindi nella lingua italiana codici
linguistici che sono prettamente angloamericani.
Credo che sia stato un
riferimento da non trascurare l’impatto tra
scrittori di lingua inglese e letteratura italiana.
Ma siamo sempre dentro alla capacità di tenuta della
lingua italiana la quale chiaramente va tutelata e
non sacrificata, almeno in Italia, a trasmissioni
linguistiche altre.
Ora si pone un’altra questione.
In Italia insistono lingue e comunità provenienti da
altri Paesi non solo europei. Nel confronto con
altre identità e con lingue di altri Paesi
l’italiano deve imporsi all’attenzione con la sua
appartenenza. Un conto è realizzare un confronto con
lingue di altri Stati un altro conto è permettere di
a queste lingue altre di prendere il sopravvento
sull’italiano in Italia. Attenzione. Si parla di
vere e proprie lingue e non di dialetti derivanti da
contesti italiani. È qui che la lingua italiana deve
risultare garante di una civiltà e di una storia.
L’italiano in Italia deve
restare lingua madre, lingua prioritario. Ma credo
che il problema non si dovrebbe neppure porre
restando all’interno dell’Italia. È naturale che ci
sono aspetti antropologici o etno-antropologici che
sono la risultante di altre civiltà presenti in
Italia. Ed è un dato incontrovertibile che questi
aspetti devono godere di una tutela ma la lingua
italiana non deve essere messa in condizione di
subalternità. È necessario soprattutto nella attuale
temperie riflettere sul ruolo delle contaminazioni
linguistiche che sono riferimenti non trascurabile
ma queste non possono sostituirsi con i
condizionamenti linguistici.
La lingua è l’espressione
identitaria e in Italia non può che costituire la
vera chiave di lettura di una civiltà sia attraverso
modelli storici sia soprattutto attraverso una
composizione di civiltà letteraria nella quale gli
scrittori e i poeti risultano i veri protagonisti e
i veri contaminatori. Tutte le testimonianze, tutti
i reperti, tutte le presenze chiaramente materiali
sono strumenti di verifica e di valutazione sul
piano dell’indagine. Ciò si evidenzia man mano che
la ricerca è andata avanti.
Una testimonianza diventa non
solo una rappresentazione del territorio ma
sostanzialmente una espressività di codici e di
elementi etno - antropologici. All’interno di una
tale riflessione le relazioni tra aspetto fisico del
territorio e quello più direttamente antropologico
delle culture sommerse che vi hanno abitato
costituiscono il vero dato di una comprensione di
ciò che si è manifestato in un determinato luogo.
Proprio per questo anche il
riferimento archeologico e architettonico non vive
di episodicità ma si caratterizza per la sua
articolazione d’indagine e di continuità tra cultura
di appartenenza, elementi ereditati, bagagli di
contaminazione e ciò che è concretamente visibile.
Non possono esserci via di mezzo almeno nella
sostanza teorica. È, comunque, naturale che
l’impatto che lo studioso vive è inizialmente
pratico ma questa sua praticità è certamente dettata
da basi teoriche in quanto la ricerca parte dalla
conoscenza diretta di una questione ma il “viaggio”
sul territorio si stabilizza su presupposti di
analisi sul terreno.
Leggere il terreno - territorio
significa non solo capirlo e conoscerlo dal punto di
vista archeologico, storico e geografica ma
significa altresì definirlo nella sua specificità
culturale. Il luogo, dunque, è un territorio ben
definito o meglio il territorio caratterizza un
luogo. Ma sul luogo definito tale convivono fenomeni
e fattori addirittura pre – archeologici o meglio
tali fenomeni e tali fattori sono la risultante di
una sistematica insistenza di civiltà e di
insediamenti di popoli. I popoli insediati creano
vita e la quotidianità porta a manifestazioni di
relazioni concrete con il luogo.
I popoli che vivono si
definiscono nei materiali che usano. I popoli che
abbandonano un luogo o che scompaiano lasciano
sempre tracce di materiali. Nel tempo delle
contaminazioni i luoghi e i popoli sono sempre più
espressione di civiltà. Una espressività che si
sviluppa in un rapporto culturale ben definito che
va nella direzione sottolineata. Il senso dell’etno
- cultura trova proprio qui il suo punto di maggiore
chiarificazione. Le minoranze linguistiche, in
questo caso preciso, sono una interazione tra la
storia e i modelli contemporanei. Soprattutto in un
contesto in cui lingua e antropologia interagiscono
e a loro volta si integrano.
*Coordinatore Minoranze Linguistiche
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
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inizio pagina |
pubblicato il 9 marzo 2009
Discutendo su Giovanni Laviola, oltre
gli steccati dell’ideologismo dell’appartenenza.
Non
richiudiamolo nel provincialismo di una Arberia
antistorica.
di
Micol Bruni
C’è
un libro di Giovanni Laviola che costituisce un
testamento umano e letterario di estrema importanza.
Lo studioso, l’arbereshe, lo storico. Tre percorsi
che in questo libro emergono. Va inserito in un
contesto articolato e mai provincializzato. Il
rischio che riguarda la figura e l’opera di Giovanni
Laviola come di molti studiosi e personalità del
mondo arbereshe è quello di rinchiudere il tutto in
una visione della cultura territoriale.
Su
Laviola si corre questo rischio. Ma apriamo una
buona volta queste finestre e queste porte per
parlare un linguaggio che possa toccare le voci e i
destini che vanno oltre le cerchie murarie
dell’arbereshità. Attenzione perché c’è in altro
pericolo che è quello di relegare in una limitazione
anche di pensiero e di pensare l’identità arbereshe
(se tale si tratta).
Creare
processi di confronto tra i non arbereshe significa
affrontare la questione non solo con sicurezza ma
anche intelligenza critica e con una vis polemica
costruttiva. Ma qui sembra che tutto
gira-che-ti-rigira per ritrovare i soliti argomenti
e i soliti nomi che oltre il cerchio arbereshe non
vanno.
La
cultura arbereshe va oltre la stessa arberescità e
oltre lo stesso territorio dell’Arberia. Ma dobbiamo
ben capirci. Altrimenti ha un destino segnato.
Il caso
Laviola è un esempio emblematico. Per questo voglio
ricordarlo attraverso un romanzo (pagine che
riportano ad una struttura logica narrante) che
resta punto nevralgico oltre la stessa lingua.
Gli ulivi di Marzucco. Sono racconti – ritratti.
Era
nato a Spezzano Albanese nel 1915; morto a
Trebisacce nel 2008. Attento studioso della cultura
Italo – Albanese. Era stato preside e magnifico
educatore. Certamente, un riferimento nella storia
della cultura Arbereshe. L’uomo e lo studioso non si
scontrano con il narratore ma occorre saper leggere
le pieghe del suo raccontare.
L’ultimo suo testo, studio, al quale aveva lavorato
per decenni, è una paziente ricostruzione
bio-bibliografica della presenza Arbereshe
attraverso testimoni e protagonisti. Un dizionario.
Anzi un dizionario raccontato. Ma, come dicevo, non
lo storico ma il narratore mi interessa
particolarmente anche se resta un punto centrale
negli studi sulla storia degli Arberesh.
Nei
ritratti di Giovanni Laviola infatti non vi è
soltanto uno spaccato figurativo dove le immagini si
incontrano e si popolano. Vi è soprattutto un
tracciato dove la memoria si incontra con il tempo.
un incontro esistenziale ma anche poetico.
L'attualità de Gli ulivi di Marzucco è
proprio in questo rapporto tutto giocato fra il
senso della memoria e la poesia.
Da qui
partono le traiettorie che si trasformano in
segni. Segni del tempo. un tempo che non si
dimentica. e il paese è un riferimento centrale. I
personaggi che si muovono sulla pagina sono
personaggi di paese che hanno capito il loro ruolo e
vivono all'interno delle varie realtà. Realtà che
non sfuggono al sentire poetico dello scrittore.
Quadretti di vita nella storia di un paese.
Quadretti di paese nel viaggio dei personaggi. E
troviamo Maria Grazia, Zia Rachele, Paolo, Rosa,
Luca, Pietro. E troviamo quelle splendide memoria in
grido-verde. In queste memorie vi è una incisività
nostalgica che tocca momenti elevati. Vi è tutto un
mondo di ricordi, di ansie, di attese.
L'attesa diventa la grande attesa. La vita scorre
lungo le ombre della grande attesa. Si attende il
ritorno. Ci si attende senza null'altro chiedere. E
si ascolta: "Forse, mi addormento. Mi sveglia un
mandolino che un soldato di marina suona con una
mano maestra e con sentimento. Cosa suona? Nel
dormiveglia, riodo canzoni di un giorno lontano,
canzoni legate ad un paese ad un angolo di strada,
ad una donna bruna o bionda". L'attesa è nella
nostalgia. Si compie all'interno stesso del processo
nostalgico.
È nella
nostalgia che l'anima dei personaggi trova una
spiegazione più matura. Ci sono personaggi che
restano fissi, immobili sulla pagina e immobili nel
paese. Ci sono altri che partono. Ci sono altri
ancora che cercano il ritorno. Il tocco più
vibrante, in questo senso, lo si legge nelle ultime
parole: " A casa arriverò molto tardi, ma stanotte
dormirò nel mio letto, quello che è soffice tanto e
che mamma prepara tutti i giorni, perché ogni giorno
ella spera debba essere quello del mio ritorno".
Una
ripresa, dunque, sulla possibilità di catturare
l'attesa che si trasforma in una meditazione sulla
vita. Una meditazione che diventa contemplazione: "
Che buffa la vita! Incontrarsi e dirsi addio.
Scomparire l'uno dalla scena dell'altra. E anche il
ricordo svanisce con il tempo. il ricordo di poche
ore belle che hanno riempito di luce questa
scorribanda mia attraverso l'Italia".
Svanisce il ricordo ma resta la memoria. la presenza
di questa memoria è nella grande attesa. Il gioco si
completa attraverso la proiezione delle immagini le
quali hanno voce, hanno suoni, hanno colori e gesti.
Il gioco diviene possibilità di catturare il tempo.
E il tempo si cattura per quel solo istante nel
quale si riesce a fissare il viaggio della memoria.
Si
diceva che i ricordi svaniscono. Certo i loro
frammenti sono nel tempo. e il tempo ricuce le
ferite. Anche le memorie ed i pensieri. Gli ulivi
di Marzucco hanno una condensazione lirica
profonda. Vi si effettua uno scavo che penetra sia i
contenuti che la poetica. È certamente una raccolta
di novelle dove la poetica trova precisi nuclei
tematici che sono anche nuclei mitici. Soprattutto
nelle pagine dove i personaggi arricchiscono il
quadro, il disegno mitico ha un respiro maggiore.
Ci
sono punti di riferimento quali il paese, la terra,
gli ulivi stessi o i personaggi che sono i portatori
di quella condensazione lirica nella quale convivono
i giorni del tempo attraverso un ciclo di
caratterizzazioni esistenziali. Tutto questo si
sviluppa grazie ad una narrazione densa di
significati. Il linguaggio si snocciola con molta
chiarezza. Una chiarezza tipica nel mondo letterario
e culturale di Giovanni Laviola, il quale è
soprattutto uno storico. Ma fa storia attraverso il
racconto.
E il
racconto diventa vivo. Ne Gli ulivi di Marzucco
c'è tanta poesia. Una poesia che non disdegna il
racconto. Le immagini servono proprio a questo. Ecco
come il rapporto immagine - poesia è vivi: "Torno a
Roma a mezzanotte. Esco dalla stazione e aspetto
l'alba camminando per la città con un collega che
incontro per caso, per la strada. Andiamo a zonzo.
C'è, in alto, la luna./ E' questo il mio primo
incontro con la città eterna. Resto meravigliato
solo davanti ai ruderi del passato. Il Colosseo
suscita in me quella meraviglia che nessun'altra
opera costruita dall'uomo ha suscitato".
Immagine e poesia. Ma anche racconto. Vitalità in
una pagina che non perde la sua identità. Perché è
una pagina scritta con il cuore. Una testimonianza
che non si dimentica perché non dimentica la vita.
E' ciò che troviamo in Laviola. Non solo in questo
Laviola narratore, ma anche quello storico, nello
studioso di tradizioni albanesi e soprattutto
nell'uomo. Ma alla fine il processo culturale
compiuto da Laviola attraversa sia la storia che la
letteratura.
Interessante il suo Società, comitati e
congressi italo - albanesi dal 1895 al 1904
tanto che ha segnato un percorso nella ricostruzione
storica della geografia degli Arberesh. Così come la
sua ultima ricerca che lo ha impegnato per lunghi
anni passando in rassegna personaggi, libri,
problemi, radicamenti culturali, visioni
scientifiche. Un lavoro che resta e che diventa
indispensabile. Ma siamo allo storico.
Oltre
lo storico resta, comunque, l’anima del narratore.
Elegante, sobrio, ritrattista di condizioni
esistenziali. Ed è questo che aggiunge un capitolo
nuovo alla letteratura Italo – albanese. Credo che
Giovanni Laviola vada riscoperto proprio sotto il
profilo letterario oltre lo storico e l’educatore o
il “professionista” di problematiche Arberesh.
Sarebbe
opportuno rileggerlo proprio sotto il profilo
letterario. Perché è sotto questa visione che si
universalizza lo scrittore e il ricercatore
portandolo in quel contesto che crea raccordi tra la
letteratura dell’identità e della tradizione con la
letteratura dell’appartenenza. Codici umani e non
solo linguistici. Certo, lo studioso non può essere
dimenticato o messo in discussione ma è lo scrittore
che parla la lingua del narratore che sottolinea
emozioni, sensazioni, umanità.
Uno
scrittore dunque che non parte dalla storia ma da
una esperienza – identità che è appunto quella della
eredità Italo – albanese. Ma Laviola sapeva
inserirsi nel dibattito della cultura italiana con
grando contributi di idee oltre la provincia oltre
il territorio stesso. Il suo ultimo lavoro non è un
Dizionario soltanto. Ma guai se lo si lascia
soltanto nel contesto degli arbereshe. Attenzione
perché è su questa strada che si va avanti.
Le
celebrazioni hanno un senso se si storicizza il
personaggio con un confronto a tutto tondo sia in
termini culturali che politici. Uso a proposito il
termine politico perché la cultura arbereshe non è
assolutamente appannaggio di una cultura egemone. Lo
stesso Laviola lo sapeva bene e lo aveva intuito.
Nella storia degli arbereshe, per capirla fino in
fondo, bisogna non egemonizzare gli “ismi”, ovvero
quella componente tardo illuminista che non ha nulla
a che fare con la storia arbereshe. Anzi tutto il
contrario. L’Illuminismo portato al razionalismo non
è parte integrante della consapevolezza identitaria
della cultura arbereshe. Laviola lo ha ben
dimostrato.
Nella
foto: la Dott.ssa Micol Bruni
Presidente IRAL (Istituto Ricerca
Arte e Letteratura)
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pubblicato il 3 marzo 2009
I NTERVISTA
A BRUNI SUL RUOLO DELLE MINORANZE
di
Michele Lenti
Vede la
luce un progetto del Ministero per i Beni e le
Attività culturali, riguardante la riscoperta delle
culture etnolinguistiche regionali. Infatti, nella
prestigiosa cornice di palazzo Ducale, a Martina
Franca, si è tenuto un convegno, al quale hanno
partecipato docenti universitari, rappresentanti di
istituzioni provenienti dalle aree linguistiche
regionali, e una piccola delegazione armena.
È stata
anche l’occasione per presentare il volume, che
raccoglie saggi di Pierfranco e Micol Bruni,
Agostino Giordano e Antonio Basile, intitolato “La
Puglia Arbëreshe, Grecanica, Franco-provenzale. Beni
culturali tra minoranze linguistiche ed eredità
etniche”.
Dallo studio, condotto in questi anni, è emerso che
la presenza di suddette comunità linguistiche non
deve essere vista in termini minoritari, grazie
all’apporto socio-culturale dato, nei secoli, da
queste realtà a una terra da sempre crocevia di
popoli e culture.
Tre le
etnie presenti in Puglia: gli Arbëreshe, giunti in
Italia a seguito della lotta che gli albanesi,
guidati dal principe Skanderbeg, portarono contro i
turchi ottomani, i grecanici, discendenti dai
greco-bizantini, la cui dominazione, in particolar
modo nel meridione, perdurò fino all’XI secolo, e i
franco-provenzali, che cominciarono a popolare la
penisola a partire dal 1300.
Abbiamo intervistato per voi Pierfranco Bruni
Coordinatore del Progetto Minoranze Linguistiche del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
In che modo le minoranze etnico-linguistiche
hanno inciso nel tessuto storico, sociale e
culturale pugliese, in un contesto, quale quello
della nostra Regione che, nel corso dei secoli, ha
visto l’incontro e lo scontro di varie civiltà, da
quella japigia a quella magnogreca fino alla
dominazione romana, da quella bizantina a quella
araba, fino all’epoca normanno-sveva, passando per
l’influenza ebraica?
“La storia d’Italia è stata sempre frazionata da una
diversità di culture, che provengono da altri
contesti geografici, per cui si è sempre posta una
questione di rapporti, legami e integrazioni. Il
risultato è stato, quasi sempre, quello
dell’interazione tra le varie civiltà, a partire
dalla Magna Grecia, che costituisce il primo nucleo
fondante omogeneo delle cosiddette culture “altre”.
Le influenze che ha subito la Magna Grecia, infatti,
non sono quelle soltanto provenienti dalla Grecia,
ma anche da altre realtà più adriatiche.
Pertanto l’Italia ha saputo sempre
raccogliere/accogliere le presenze sia linguistiche
che culturali, tanto che si è creato il cosiddetto
concetto delle contaminazioni, che oggi definiamo
come rapporto tra culture meticciate. Per questo, se
l’Italia non fosse stato un Paese dell’accoglienza,
avremmo avuto difficoltà anche nel momento in cui è
stata sancita l’Unità d’Italia, la quale non
rappresenta soltanto l’unione, da un punto di vista
geografico, di varie realtà, ma anche la definizione
di un processo linguistico, antropologico e di
tradizioni sulla base, anche, di un percorso
economico. Oggi la Puglia è caratterizzata non
soltanto da minoranze linguistiche, di cui noi oggi
parliamo, ma anche da innesti che interessano tutto
il Mediterraneo. È necessario, pertanto, dare un
risvolto storico per cercare di capire il fenomeno
delle emigrazioni e immigrazioni contemporanee, in
virtù della capacità di integrazione nel nostro
territorio”.
Possediamo testimonianze letterarie prodotte, nel
corso dei secoli, dalle comunità etnico-linguistiche
presenti in Puglia?
“C’è da precisare un fatto, vale a dire che la
maggior parte delle presenze minoritarie in Puglia
hanno, quasi sempre, proposto una cultura orale. Il
caso degli italo-albanesi è emblematico in quanto,
fino a qualche secolo fa, la loro precisa identità
culturale si basava sul valore della tradizione che
significa anche, in questo caso, tramandare, ovvero
trasmettere una cultura popolare. La quale
corrisponde alla cultura orale, e questo registro si
è rivelato tale anche in quello franco-provenzale,
oltre che in quello grecanico. Solo di recente
abbiamo una bibliografia considerevole, ma è una
questione che riguarda la realtà contemporanea”.
Quanto è importante conoscere la musica e la danza
di queste etnie per capire la loro identità storica
e culturale?
“Essendo la cultura di queste minoranze linguistiche
basata sulla tradizione orale e, quindi, sul
passaggio, di ricordi e memorie da una generazione
all’altra, la musica è una di quelle forme culturali
abbondantemente tramandate dai nonni ai nipoti,
tanto che, anche la canzone popolare che si lega
alla danza, ha una trasmissione che ci porta a
modelli mitici. Infatti il mito è il racconto che si
tramanda come una favola, grazie al “c’era una
volta”. È importantissimo questo fatto, perché se
ancora oggi sussistono queste realtà minoritarie, lo
si deve al processo di ricordi e di memorie, facenti
parte della spiritualità di un popolo, e che, come
testimonianze, vengono sublimate nella musica e
nella danza. In tal senso esse diventano parte
integrante della conoscenza di un’eredità che oggi
definiamo come antropologia di un popolo”.
La Puglia, per la sua posizione, ha rappresentato
il punto d’incontro, per quello che riguarda le
minoranze etniche, di due modelli di civiltà: quello
adriatico greco e illirico, e quello mediterraneo
occidentale, rappresentato dalla cultura
franco-provenzale. Possono, queste comunità, sulla
base di un vissuto storico-sociale, costituire un
esempio di pacifica convivenza, alla luce dei
cambiamenti che stanno avvenendo oggi nella nostra
società, sempre più multietnica?
“Certamente sì, perché non esistono minoranze
linguistiche isolate: infatti io non credo alle
minoranze come isole o arcipelaghi, dal momento che
esiste, sempre più, il valore della
“contaminazione”, che significa incontro di culture
e di storie che hanno origini diverse. Giudico
positivo il raccordo tra popoli ed etnie che
provengono sia dall’Oriente estremo che
dall’Occidente più vicino a noi. Dobbiamo cominciare
a riflettere, però, anche sulle “contaminazioni”
etniche che provengono da Paesi oltre Oceano. Ciò
vuol dire che il Mediterraneo, con la realtà più
vicina a noi rappresentata dall’Adriatico, si
confronterà con culture e tradizioni distanti,
geograficamente, migliaia di chilometri”.
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pubblicato il 1° marzo 2009
Gennaro Cassiani
Uno statista nella difesa
della storia Arbereshe
Gli Italo – Albanesi come
realtà nel Regno di Napoli
di Micol Bruni
Un
costituzionalista che ha segnato un percorso
importante nella storia della tutela degli Italo
– albanesi è stato certamente Gennaro Cassiani.
Una figura di primo piano nella rilettura
storica e politica di quel Regno di Napoli che
ha rappresentato non solo un modello di civiltà
ma soprattutto un riferimento per quei legami
tra il Mediterraneo e l’Adriatico. E questi
riferimenti si sono trasformati in atti
istituzionali. Arbereshe, Cassiani è riuscito a
portare nella questione nazionale (e non solo in
quella meridionale) una chiave di lettura che ha
interessato tutta la storia e l’identità Italo –
albanese guardando con molta attenzione al
rapporto tra Occidente ed Oriente. Ci sono
passaggi che restano indelebili.
Come questo: "Nel caso del
Mezzogiorno, la storia regionale ha un suo
valore inconfondibile. Non solo e non tanto per
la divisione che caratterizza l'Italia, ma anche
per la tradizione delle regioni meridionali di
fronte a quelle del nord". Una prima cesellatura
che pone all'attenzione un rapporto improntato
tra rilettura politica della questione
meridionale, identità storica e modelli
innovativi. Gennaro Cassiani, in fondo, un
arbereshe nella storia della democrazia e della
politica contemporanea.
Gennaro Cassiani, politico,
penalista, statista, scrittore, meridionalista,
uomo di pensiero. Una personalità che va
ricontestualizzata in un processo di
reinterpretazione della storia d'Italia e
soprattutto di quella storia meridionale che è
contrassegnata da luci e ombre. Una storia che
vive all’interno delle sfaccettature politici e
costituzionali del Regno di Napoli.
Ricostruzione e rilettura.
Soprattutto in una temperie come quella che
stiamo vivendo oggi. Nella cultura sociale -
cristiana, grazie ad una lettura politica degli
avvenimenti e ad una interpretazione storica dei
fenomeni, la figura di Gennaro Cassiani
(Spezzano Albanese, 1903 - Roma, 1978), in un
contesto tra gli anni Trenta e Sessanta, riveste
una particola importanza sia per gli incarichi
che ha rivestito sia per la stimolazione
dialettica che è stato capace di innescare.
Attraverso un confronto serrato tra istanze
politiche e percorsi culturali la sua presenza
ha lasciato dei segni tangibili proprio in un
legame tra culture Adriatiche e Regno di Napoli.
Un modo di pensare la
politica al di là degli schematisni che un
partito può imprimere, nonostante fosse uomo di
partito. Dalla cultura alla politica. Il
sentimento dell'appartenenza (appartenere è
creare modelli di identità) trova in Cassiani
dei riferimenti storici ed umani significativi.
Il suo essere Arbereshe è una componente che
arricchisce, che motiva confronti, che stimoli
raccordi tra il presente e la tradizione. I suoi
scritti su Scanderbeg (le sue commemorazioni, in
particolare), i suoi scritti in omaggio ad un
maestro della letteratura albanese come Ernesto
Koliqi rappresentano tappe fondamentali in quel
costante confrontarsi con la memoria delle
radici, ovvero con il tempo della storia e della
tradizione di un popolo al quale si è sempre
riferito.
Riferendosi proprio a
Koliqi, in un articolo dal titolo: "Ritratto del
più grande scrittore cattolico dell'oriente",
apparso sul numero speciale di giugno della
rivista "Shejzat" ("Le Pleiadi") dedicato alla
scomparsa di Koliqi, nel 1975, Cassiani
affermava: "Egli mi svelava i misteri fascinosi
del mondo orientale, mi accompagnava per mano
lungo l'erta della montagna albanese e mi diceva
delle leggi raccolte dal Codice della
Montagna, particolare e misterioso,
facendomi penetrare così in un mondo che per me
aveva del fiabesco. E per intanto egli mi
metteva a nudo l'anima sua, che non consentiva
ripieghi subdoli o viltà nascoste. Così forse si
può comprendere come particella del mio spirito
sia finita con lui".
Una testimonianza che si
porta dentro un vissuto e una indelebile matrice
non solo culturale ma chiaramente umana il cui
senso è rappresentato dal sentimento
dell'appartenere, dal sentimento delle origini.
Un aspetto non trascurabile che è parte
integrante della sua formazione. Cassiani parte
da una visione culturale e umana della politica.
Ovvero la politica è all'interno della cultura
attraverso esempi e partecipazione.
Ci sono aspetti
significativi nell'impegno di Gennaro Cassiani.
Aspetti che si sono esplicati non solo su un
piano istituzionale ma anche (e nella prima fase
soprattutto) su quello di una cultura militante.
La sua è una formazione militante che si
sviluppa, sin dalle prime esperienze, attraverso
un costante rapporto con la realtà territoriale,
con le realtà territoriali. E queste realtà si
trovano sempre in quel suo rapportarsi con le
Istituzioni, con la politica alta, con le sue
metodologie espressive in quelle sue esperienze
nei vari settori nei quali si è trovato ad
operare e nei vari problemi con i quali si è
quotidianamente confrontato.
La politica come modello di
comunicazione alla cui base doveva esserci,
comunque, un sistema di valori che avevano come
riferimento l'uomo. Una matrice profondamente
cristiana che è maturata negli anni la cui
centralità è stata sempre rappresentata dagli
ideali della politica. Una politica come
servizio per l'uomo, per la crescita dei
territori, per lo sviluppo delle comunità
all'insegna di una dignità e di una profonda
consapevolezza nei confronti di quel tempo nuovo
che si affacciava all'orizzonte. La questione
arbereshe era un orizzonte nel suo essere e
manifestarsi uomo delle istituzioni.
Capire i tempi nuovi e la
storia che avevamo davanti già a partire dagli
anni turbolenti della primo periodo nel quale si
preparava la stagione post - fascista. Ebbene,
Cassiani nel concetto di ribellione (termine e
definizione ben studiata nella sua tesi di
laurea del 1925) manifestava non soltanto una
sottolineatura giuridica ma un essere
dell'esistenza che congiungeva il pensiero
morale con l'atto politico. Un rapporto che è
stato un tassello necessario per comprendere la
società dagli anni Cinquanta in poi. Un rapporto
che trovava la sua dimensione comportamentale
nell'idea etica.
L'etica della politica
nella visione morale dei problemi che andavano
affrontati e risolti. Ma non oltre la politica.
Sempre all'interno della politica perché la
politica, per Cassiani, partiva da una
testimonianza spirituale, da un sentimento che
focalizzava le questioni vere, le radici
problematiche dell'essere uomo in una comunità
di uomini. Forse anche in questo stava il suo
raccordo con la cristianità della cultura di un
popolo.
Nei suoi saggi, nelle sue
conferenze, nei suoi discorsi non viene mai meno
la funzione di un dialogo tra la politica come
testimonianza costante e l'uomo come portatore
dei principi fondamentali di solidarietà e di
comunanza. Una politica come umanesimo
dell'uomo. Nella Presentazione al suo saggio
Le pietre (Studi Meridionali, 1977) si
legge: "I giovani mi insegnano con i fatti che
la vita non è materia, ma spirito, non è
egoismo, ma slancio verso i nostri simili".
Comunanza spirituale e testimonianza. La lezione
crociana da una parte e il popularismo sturziano
dall'altro, mutuati in una meditazione che trova
in Jacques Maritain (1882 - 1973) quel pensiero
pensante che ha offerto un contributo notevole
al cattolicesimo politico moderno, costituiscono
un tracciato storico e filosofico che ha
caratterizzato, in fondo, l'operare di Cassiani.
L'approccio ai problemi non
aveva quasi mai un immediato sostegno
pragmatico. Partiva da una elaborazione che
costituiva un vero esercizio metodologico.
Quando si trovò ad affrontare la questione
meridionale sul piano istituzionale (ovvero da
incarichi ministeriali) diede un esempio di
sicura lungimiranza nel sostenere la
valorizzazione dei territori affidando alle
risorse vocazionali un ruolo prioritario.
Riferendosi alla Calabria in un suo discorso
cesellava: "In Calabria si potrebbero suscitare
tutte le industrie naturali derivanti
dall'agricoltura. Chi parla di altre industrie
non conosce la Calabria, non ne ha un'idea
nemmeno approssimativa…".
La Calabria come tutto il
Mezzogiorno. Una tesi ancora attuale e che è
costantemente motivo di discussione. Ma ciò non
può che avere una sua logica disquisizione in
una antica questione affrontata, anche in
termini storici, più volte da Cassiani e che
sancisce in molte pagine del saggio Le pietre
(già citato) i capisaldi per una
ricontestualizzazione storica ed ideologica del
fenomeno riferito al capitolo inerente la
politica sul Mezzogiorno.
Tema sempre caro a Cassiani
sin dai suoi primi scritti e sin dai suoi primi
impegni politici e parlamentari. Ma le sue tesi
sembravano esprimere una visione problematica
del fenomeno ma in realtà avevano una chiarezza
proprio per la conoscenza degli aspetti ben
vissuti direttamente da Cassiani e definiti in
un prospetto che non esulava la consapevolezza
storica e la natura del territorio.
La sua impostazione della
politica, pur non concedendo nessun improvvisato
subdolo impatto con il dato pragmatico, si
affidava sempre alla conoscenza e il rapporto
con la realtà attraverso fattori di concretezza.
Si pensi al dibattito sul ruolo dei cattolici
in politica, si pensi ai suoi interventi
giuridici anche negli anni difficile del
fascismo, si pensi alla funzione svolta nel
periodo che resse il dicastero della Marina
Mercantile, si pensi ai suoi tanti contatti con
i paesi esteri, si pensi al suo amore per la
cultura delle minoranze.
Proprio in riferimento alla
questione delle minoranze, Cassiani, Arbereshe
di Spezzano Albanese, ha portato avanti una
politica in difesa della lingua e della
tradizione italo - albanese. Non solo scrivendo
su questioni riferite al mondo e ai personaggi
Arbereshe (come si è già detto) ma anche
attraverso la focalizzazione di normative
precise. La norma era un punto di riferimentop.
Bisognava stabilire delle regole attraverso una
legge. Questo era il punto centrali sul quale si
dibatteva Cassiani. Uomo politico e uomo
giuridico.
Nel testo di Gabriella
Fanello Marcucci (Gabriella Fanello Marcucci, in
Gennaro Cassiani 1903 - 1978, penalista,
umanista e politico della Calabria, edito da
Rubbettino) si legge: "La sua attenzione verso
le comunità albanesi divenne adesione attiva
quando nel 1969 fu costituita l'Unione delle
Comunità Italo - Albanesi, con sede nel Collegio
S. Adriano in San Demetrio Corone, l'istituto
nel quale Cassiani aveva conseguito la maturità
classica". E poi più avanti: "Cassiani aveva
presentato in Parlamento la prima proposta per
l'insegnamento della lingua albanese nelle
scuole delle comunità dell'Arberia, che
finalmente nel 1999, con la legge 204 è divenuta
realtà". Anche su questi aspetti una visione
della politica tra innovazione e tradizione.
Una visione, pertanto,
della politica tra conoscenza e meditazione,
ovvero consapevolezza della realtà e delle idee
in una temperie di dura dialettica con le
opposizioni, sempre all'insegna di una
partecipazione democratica in una ampia libertà
di espressione. Una politica sempre pensata in
un pensiero mai improvvisato. E' su questo
tracciato che Cassiani, oltre alle testimonianze
delle opere, ha lasciato segni indelebile nel
panorama della politica calabrese e nazionale.
Un dato identitario dal quale non si può
sfuggire. Se Cassiani ha inserito la
problematica, nella realtà e nella storia, degli
Arbereshe in una questione istituzionale, in
anni ormai non vicini, significa che quella
eredità era portatrice di interpretazioni
profondamente legati a tutto ciò che si è
sviluppato intorno alla storia del Mezzogiorno.
Il Sud per Cassiani era
Regno di Napoli, compresa la problematica
relativa agli Arbereshe. Quindi come tale andava
argomentato. D’altronde non gli sono mai
sfuggiti i rapporti che Giorgio Castriota
Scanderbeg aveva intrattenuto proprio con il
Regno di Napoli. Gli Italo – albanesi sono
dentro il Regno di Napoli. Non si può
prescindere da ciò.
Credo che da questa
considerazione occorre ripartire per affrontare,
in una dimensione più ampia, una interpretazione
Italo – albanese che non può interessare
soltanto una dimensione linguistica o etno –
antropologica ma deve sempre più riguardare il
legame tra diritto alla tutela e diritto alla
valorizzazione di una identità che vive
all’interno della storia e della cultura
dell’Italia. Punto di riferimento, ancora una
volta, la storia del Regno di Napoli. Dentro
questa storia gli Arbereshe non sono un popolo
in fuga ma una civiltà che tutela la propria
identità nel rispetto elle norme.
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pubblicato il 4 febbraio 2009
MINORANZE LINGUISTICHE IN PUGLIA
di Anna Maria Colaci*
Lo
studio di Pierfranco Bruni è un testo importante non
solo perché spiega tante cose ignorate dai più e
perché è una felice opera di sintesi, ma anche per
gli spunti e le riflessioni che solleva.
Tra queste mi permetterò di soffermarmi
su alcuni aspetti. Il primo è laddove (pp. 37 e
seguenti) si spiega molto bene che la tradizione
permane e fruttifica dentro di noi, “La grecità non
è soltanto una forma simbolica. E’ l’essere che
attraversa le nostre coscienze. Anzi è la nostra
coscienza che diventa consapevolezza di un processo
che è sì culturale ma che diviene profondamente
etico ed esistenziale in un quadro di valori la cui
eredità è nel rispetto delle appartenenze”.
Qui è un punto fondamentale non solo della tematica
affrontata nel testo, ma anche della realtà attuale.
Quello che vorremmo, in una realtà complessa come la
presente, è il saper coniugare insieme tradizione
innovazione rendendoci conto che la civiltà non è
solo un’unione di linguaggi, ma anche di codici, di
simboli, di significati che costituiscono e devono
costituire il senso del nostro essere.
Di qui nel libro il giusto rilievo dato, ad esempio,
alle identità etniche della Magna Grecia e al suo
modo di permanere nello spazio e nel tempo. Vorrei
dire che, pur nel tumultuoso vortice delle novità,
dovremmo essere accorti custodi dei tanti saperi che
si sono avuti nel corso della storia e che continua
a sussistere e a saper infondere, a chi sa
intenderli, linfa vitale.
Su tale vissuto vanno intese, a mio modo,
le pagine dedicate al tarantismo, a Comuni come San
Crispieri e San Marzano, come alle realtà
italo-albanesi nella provincia di Foggia. In tutto
il libro vive non solo la spiegazione delle
difficoltà che queste cosiddette culture “minori” o
soggiogate, hanno vissuto, ma come esse siano
riuscite, malgrado tutto a permanere e a influire su
costumi e modi di vita.
A me pare pertanto importante e
significativo che vengano pensati e pubblicati libri
come questo che non sono mera erudizione, né
intendono riproporre come attuale una realtà che
pure c’è stata nella storia, quanto a mostrare come
il cammino, quello che noi siamo come salentini,
come pugliesi, è un intreccio di voci diverse che in
qualche modo hanno coabitato e coabitano con noi. Un
passato da non liquidare come remoto, ma da
conservare gelosamente per meglio comprendere chi
noi siamo.
E’ davvero la storia della nostra
tradizione, delle nostre radici, forse non le
uniche, ma comunque elementi fondamentali di un
processo storico. Particolarmente chi si interessa
di educazione dovrebbe comprendere, far propri e poi
spiegare come la civiltà non è né un puro aprirsi
agli altri, e neanche una pura contrapposizione, ma
una lenta e difficile – talvolta contrastata –
mediazione. Se riusciremo a capire questo, forse
sarà anche più facile affrontare le questioni dei
nostri giorni.
Per questo non posso che apprezzare il
lavoro promosso da Pierfranco Bruni.
*Università del Salento
foto di copertina: elaborazione grafica di
Maria Zanoni
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