Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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Etnie di Calabria

 

pubblicato il 4 Ott 2008

SHTJERRI: TRADIZIONE ARBERESHE

Per la valorizzazione della tradizione dello "Shtjerri" (giostra dell'agnello)


di Maria Zanoni

E' stato presentato a Spezzano il volume di Giuseppe Acquafredda "Per lo studio e la valorizzazione della Tradizione spezzanese dello Shtjerri".
All'incontro, promosso dal Bashkim Kulturor Arberesh e coordinato dal presidente del BKA, Pino De Rosis, sono intervenuti gli Antropologi: Gualtiero Harrison, Cesare Pitto e Maria Zanoni. L'assessore regionale al Turismo e Minoranze, Damiano Guagliardi, ha concluso i lavori.

Riportiamo la prefazione di Maria Zanoni al volume.

Lo Shtjerri, tradizionale “giostra dell’agnello”, appartiene al prezioso patrimonio culturale di Spezzano Albanese che va conosciuto e degnamente valorizzato. È questo il senso principale che affiora dal lavoro di ricerca di Pino Acquafredda, affrontato con la nota passione di studioso di storia locale, d’indole buona, sensibile, profondamente attaccato alla sua terra.

L’intento storicizzante della ricerca si propone come occasione di riflessioni, confronti e ulteriori sviluppi di discussione di carattere antropologico su aspetti e simbologie del rito popolare, che varca i confini territoriali.
L’assunto portante di questo lavoro sta nell’aver coraggiosamente superato la credenza (forse assai radicata nell’immaginario collettivo) che la giostra dell’agnello del martedì di Carnevale si colleghi alla rievocazione della storia degli Arbëresh. Il rito carnascialesco spezzanese è coevo e analogo ad altri tornei, di derivazione medioevale, diffusi in tutta la penisola, e soprattutto nel regno di Napoli, sin dal Seicento.

Una chiave di lettura, questa di Acquafredda, non certamente superficiale. Una prospettiva di ricerca che supera la connotazione statica di identità culturale e può ridisegnare nuovi percorsi di diffusione culturale.
La tradizione dello “Shtjerri” vive nel presente e, con le varianti che ne sono parte consustanziale, affonda le radici nel passato, nella cultura del popolo arbëresh, in cui si riscontra la forma sistematica di un sapere collettivo.

Il torneo cavalleresco potrebbe essere una forma, rivisitata in chiave medioevale, degli antichi riti propiziatori legati al ciclo della natura ed ai lavori agricoli.
Nella società medioevale giostre e tornei erano il mezzo con cui si festeggiavano gli avvenimenti più graditi (il carnevale e le feste patronali), un'occasione per invertire temporaneamente i ruoli sociali. Il mito carnevalesco dell’inversione dei ruoli fa sì che popolani e nobili si divertano a mescolarsi tra la folla festante.

Ma il torneo non è soltanto un gioco o un apparato cavalleresco scenografico, è anche segno di distinzione ed espressione di potenza del casato nobiliare.
Elementi laici e componenti religiose confluivano in un rito collettivo che nasceva dalla sfera spirituale ed ideologica del popolo. Nella stessa occasione si intrecciavano momenti penitenziali, di purificazione, e momenti di gioia (morte e resurrezione).

Le giostre carnevalesche, col sacrificio dell’animale, con il sangue (che sia d’agnello, come a Spezzano, che sia di maiale, come a Cassano, o di castrato come a Longobucco, gallo o tacchino a Palo del Colle, appartengono anch’esse ai riti propiziatori di purificazione ed espulsione delle forze malefiche, di origine pagana, in cui la tradizione cavalleresca si fonde col mito agrario.

La festa diventa rito propiziatorio e la sua riuscita presagio del futuro raccolto in una terra ad economia prevalentemente agricola.
Nella gara dell'anello (equis anulum currere) quante più volte il cerchio di metallo, appeso al naso dell’animale, simbolo di fecondità, viene infilzato, tanto più sarà abbondante il raccolto.
Il gesto del cavaliere, che galoppando di corsa deve riuscire ad infilare la lancia nell’anello, è simbolo di fecondazione, diventa metafora della terra fecondata che porterà buoni frutti.

Un rituale che vuol essere simbolo di abbondanza, ma non esclude una (più o meno latente) componente sessuale.
Cavalcate cerimoniali, tornei e giochi d’arme, anche a Spezzano, come a Stilo, come a Siena, a Oristano ed in tanti altri paesi hanno derivazioni iberiche, oltre che autoctone.
Già molto numerose durante i secoli XII e XIII, in tutte le città grandi e piccole, nella seconda metà del Cinquecento le giostre risentono delle nuove idee sociali e politiche.
Nel 1600 vigeva ancora un rigido sistema feudale fondato sulla netta divisione tra le classi sociali.

Da una parte i feudatari e i loro dignitari che esercitavano un potere assoluto, dall’altra il popolo “fedele vassallo” sottoposto ad ogni forma di angherie, gravato da balzelli e da tasse.
La seconda metà del Seicento è l'epoca delle grandi giostre barocche, con le quali la nobiltà locale ribadiva la sua supremazia sugli altri ceti sociali. Gare e giostre cavalleresche, con grandi tavolate finali, sono testimonianza di complessi processi di natura sociale e psicologica, pienamente incardinati nelle dinamiche relazionali e multilaterali delle società di tutti i tempi.

Tali manifestazioni, dal carattere fortemente agonistico, erano importantissime anche sotto il profilo economico, in quanto incrementavano le fiere stagionali, che rappresentavano momenti di festa, di contatti e di incontri.
E tradiscono un’autentica tradizione agro-pastorale, in cui agnello e cavallo avevano grande importanza nell’economia del territorio. Il vero soggetto protagonista di giostre, tornei e palii, in effetti è il trinomio cavaliere-cavallo-agnello.
Con il loro linguaggio simbolico e comunicativo queste manifestazioni, inglobando le più antiche espressioni della festa aristocratica e popolare, davano la dimensione della dinamicità della società del tempo.

E Pino Acquafredda lo ribadisce bene nella sua ricerca.
In questi rituali che sopravvivono alle cancellazioni del tempo, sono presenti antichi valori umani ed elementi culturalmente significanti per scavare nel nostro passato remoto e ritrovare il nostro senso di appartenenza.

Nella foto da sin:
Loredana Farina, Dip. Antropologia Unical, Maria Zanoni, ricercatrice di Antropologia Comitato Nazionale MiBAC, Gualtiero Harrison, Ordinario di Antropologia Culturale Università Suor Orsola Benincasa (Napoli), Damiano Guagliardi, Assessore Regionale Alle Minoranze Linguistiche e Cesare Pitto, Ordinario di Antropologia Culturale all'Università della Calabria.

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pubblicato il 2 Ott 2008

Il Mediterraneo e le Etnie storiche in Italia.

La cultura Arbereshe

di Pierfranco Bruni



I paesi che registrano usi, costumi, lingua, tradizione e storia arbereshe in Italia sono 50. In Puglia ce ne sono tre. Nella sola Calabria ci sono 33 comunità arbereshe. I beni culturali, di questi paesi, rappresentano una chiave di lettura per un processo non solo di conoscenza ma soprattutto di valorizzazione e di fruizione sia sul piano scientifico che didattico – pedagogico. La conoscenza del loro patrimonio è conoscenza dei territori nei loro elementi di raccordo tra passato e presente e tra presente e sviluppo culturale. Sono interessati Regioni come la Puglia, la Calabria, la Sicilia, La Basilicata, la Campania, il Molise, l’Abruzzo.

Ci sono beni culturali e testimonianze storiche che hanno una loro progettualità culturale marcata dovuta ad un intreccio non solo epocale che si portano dentro, ma soprattutto ad una consapevolezza che proviene da una interazione di civiltà. Soprattutto in alcune realtà meridionali questo sentire storico e civile è profondamente rimescolato da processi che sono etnici, antropologici, religiosi. Mi riferisco, dunque, ai beni culturali dei paesi (o delle comunità) arbereshe.

Non è che abbiano, questi beni (e guardo con interesse alle chiese, ai conventi, ai monasteri, alla realtà ambientale e paesaggistica dei paesi stessi), una loro strutturazione scollegata dalla storia monumentale e architettonica greco – bizantina tradizionale ma l’incontro tra la tradizione e la “modernità” greco – bizantina ha sviluppato una realtà storica che ha connotati orientali.

E i riferimenti che si leggono sui monumenti dei paesi albanofoni hanno non solo questo richiamo grecanico e di matrice bizantina ma la loro storia patrimoniale e culturale è strettamente legata ad una identità religiosa. E’ come se i beni culturali fossero l’espressione costante di un culto. In realtà costituiscono una testimonianza di una spiritualità non solo di un popolo ma anche di un tempo. Si pensi alla diffusione mariana che è collegata ad una struttura di chiesa madre ben evidenziata dalla facciata aperta e dagli spazi circostanti.

C’è, insomma, uno stretto legame, nei beni culturali dei paesi albanesi d’Italia, tra il patrimonio architettonico e il culto. Questo vuol dire che i beni culturali rappresentano, in tali territori, una espressione della condizione liturgica che si manifesta nella simbologie delle strutture. C’è da precisare un fatto che è significativo per queste comunità e si legge come un dato laico. Il centro storico è quasi sempre il centro abitato e il centro abitato è quasi sempre nel centro storico.

Una splendida visione del genere si registra a Civita. Ma penso anche a Farneta, ad alcuni ambienti di San Marzano di San Giuseppe, ad alcuni paesi della siciliana Piana. Penso al paesaggio – presepe di San Paolo in Basilicata o a Ururi. Cioè il bene culturale che si percepisce nella storia delle abitazioni diventa una manifestazione della vivibilità e quindi una manifestazione del quotidiano e mai un retaggio antropologico. Ed è un fatto positivo che incide su quattro aspetti. Uno sociologico. Uno storico. Uno artistico. Uno documentario.

Cultura e tradizione popolare. Un intreccio che ci riporta memoria e nostalgia attraverso la affermazione dell’identità del popolo. In realtà la storia ma tutta la tradizione popolare calabrese, che passa attraverso i segni della memoria, ha come laboratorio il dato educativo. Ma è anche un costante confronto con il territorio. Gli obiettivi sono proprio questi. Ricostruire la storia grazie ad alcuni fatti significativi (che si leggono in termini antropologici) e imporsi con un apparato che è quello dell’immagine popolare.

Rimpossessarsi dell’immaginario collettivo per dare senso al valore del passato nel presente e quindi nel futuro. Dalle feste religiose (da quella di San Francesco di Paola a quelle dei paesi Arberesh) a quelle laiche (il carnevale, l'uccisione del maiale, l'intreccio che si vive durante la Settimana Santa).

Usi e costumi. La leggenda si intrappola nella realtà e questa vive tra i frammenti dei ricordi che formano il mosaico, appunto, della memoria. Una memoria lunga come sono lunghi gli anni che ci dividono dalla prima giostra del maiale. Anni lunghi nella vita breve delle memorie di una civiltà che nonostante tutto sopravvive a se stessa nei cuori delle generazioni.

Il sacro delle liturgie della Settimana Santa che trova nell’immagine dei Sepolcri una delle chiavi di lettura che resiste ad ogni nubifragio di modernità. L’uccisione del maiale e la Settimana Santa sono, comunque, una espressione liturgica, nel laico e nel sacro, che ci porta ad una riflessione di morte. Memoria, mito e morte. Le tre M dentro una cultura che è quella profondamente radicata nel Mediterraneo.

Il rapporto tra memoria e mito. La lettura del mito come leggenda. Il superamento della storia e il recupero della tradizione non solo come processo culturale ma soprattutto come riappropriazione delle radici attraverso una griglia simbolica. Gli oggetti della memoria realizzano un processo testamentario che va al di là di un discorso meramente antropologico.

Ma la storia di queste comunità è vissuta come decodificazione di un processo artistico. Infatti le chiese o i conventi (si pensi a San Demetrio con il suo Sant’Adriano e il suo Centro Studi o a Spezzano Albanese o alle comunità di Piana degli Albanesi) sono i contenitori non solo di un “apparato” storico e architettonico dalle radici o matrici Orientali ma costituiscono soprattutto l’immagine di una proiezione d’arte.

La Calabria è al centro di questo itinerario. Dalla provincia di Cosenza a quella di Crotone a quella di Catanzaro. Un itinerario che tocca il paesaggio e la cultura, i riti e le forme di tradizione. Un viaggio tra gli Arbereshe della Calabria è un viaggio che ci mette al centro di un rapporto tra Occidente ed Oriente.

La chiesa dell’Assunta di Firmo è la tipica fotografia che mette insieme semplicità della struttura e culto delle civiltà albanofone. Mentre la cattedrale di Lungro è l’incontro tra il raffinato stile medio orientale e il desiderio di occidentalizzazione dell’arte. Una cultura di stampo prettamente bizantino. Il bizantino qui si svolge in un incrocio tra il romanico e il barocco.

Dalla semplicità della chiesa di Firmo alla esuberanza e sobrietà della cattedrale di Lungro. Dalla semplicità lineare di Macchia alle forme “barocche” di San Demetrio. Dal bizantinismo restaurato del campanile della chiesa di San Pietro e Paolo di Spezzano Albanese al decorativo piano di Barile. Agglomerati urbani che si dichiarano artisticamente attraverso una tradizione che ha come bene fondante il culto. I beni culturali, per la maggior parte, in questi paesi, sono beni di culto.

Mettiamo insieme queste due forme e il discorso che si faceva all’inizio ha una sua corposità storica e artistica. Si mantiene fede alla storia ma l’arte è qualcosa di più che si concilia con la fede. La storia invece con il culto. Le tre navate di questa cattedrale sono la dimostrazione di uno stile e di una forma che chiaramente caratterizzerà e si imporrà nella cultura di queste comunità. Le quali comunque rimangono fedeli, nella loro visione storico – artistica ad una identità illirica sia nello stile che nelle forme.

Non sono solo identità, i beni culturali, di una memoria che racconta la storia di una civiltà che è ormai solo memoria. Sono il tracciato di un futuro che si legge sulla dimensione di un rapporto fondamentale, appunto, tra cultura, economia e sviluppo. Solo così questi paesi arbereshe potranno continuare a raccontare storia e a difendere un patrimonio strutturale, antropologico, di idee.

La profonda cultura popolare ha fatto in modo sì di miscelare usi e costumi ma anche di conservare alcuni elementi linguistici che hanno derivazione mediterranea. Non bisogna neppure dimenticare la realtà dei cinque paesi di lingua italo - albanese che hanno conservato non solo modelli di tradizioni ma la lingua diventa, per queste comunità, un fatto fondamentale che riporta queste popolazioni alla madre patria.

I contesti storici che maggiormente hanno lasciato un segno ormai indelebile sono quello greco - romano, quello bizantino e quello normanno - svevo. Contesti rappresentativi le cui testimonianze sono considerevoli. E' naturale che la presenza degli Angioini come degli Aragonesi di Spagna, come i Borboni non vanno chiaramente trascurati.

Il viaggiatore che si incammina lungo i percorsi della Basilicata (come la maggior parte dei viaggiatori) va alla ricerca di segni primordiali e di leggere attraverso questi segni i luoghi di una appartenenza e quindi una eredità. Metaponto o Venosa (il tempo greco e il tempo romano) sono due riferimenti che trasmettono immediatamente i segmenti di una civiltà che risponde alla Magna Grecia e all'età Imperiale romana. Una caratterizzazione che resta emblematica.

C'è una Magna Grecia che si vede, che si tocca, che si ascolta e c'è una Magna Grecia che si sente perché la si porta dentro come fattore ereditario, come modello di appartenenza, come codice genetico. Il senso di appartenenza non è qualcosa di astratto. E' una "realtà metafisica" che vive dentro la coscienza lunga di una civiltà. I territori vivono con le loro testimonianze.

Così in Magna Grecia e nella Roma che attraversa la Magna Grecia stessa. Le testimonianze hanno un loro destino e devono avere la capacità e la forza, nei territori, di lasciarlo come humus nella loro misura progettuale come forma culturale del presente ma anche come partecipazione, appunto, identitaria. Luoghi ed epoche, testimonianze e lettura della storia e delle civiltà.



La storia dei paesi arbereshe è nella nostra capacità di saperla tutelare e valorizzare attraverso i simboli che sono costituiti dalle strutture. Le strutture sono i veri testamenti di una comunità. Anzi sono i testamenti reali che continuano a durare e segnano il futuro. La Puglia come la Calabria, in particolare, o la Basilicata o la Sicilia o le altre Regioni difendono il patrimonio delle minoranze non dimenticando i valori dell’Unità e delle identità di una tradizione che racconta le sue diverse storie. Visitiamo questo Sud. La Calabria che racconta storia e leggenda. Gli arbereshe sono storia, tradizione cultura. Ma tutto il Sud è interessato a questi incontri e questi modelli interculturali.

Nella foto: Il campanile della Chiesa dell'Assunta a Firmo.

 

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pubblicato il 15 Giu 2008

PRESENTATI A FRASCINETO I "PERCORSI ARBERESHE"

Beni culturali, storia e tradizioni arbëreshe: risorse da valorizzare.


L’occasione di confronto sulla cultura delle presenze minoritarie italo-albanesi in Calabria è stata offerta dalla presentazione del Web Project sui beni culturali arbëreshë, promosso dal Centro Culturale "26" e realizzato con il patrocinio dell’Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione Calabria, che ha coinvolto un gruppo di alunni delle classi quarte del “Bachelet”, coordinato dal dirigente scolastico Antonio Scalcione.

E’ stato presentato al pubblico presso l'Auditorium "Croccia" di Frascineto il sito web che promuove le comunità arbëreshe, particolarmente quelle della provincia di Cosenza, con l’obiettivo di far conoscere le preziose risorse del territorio.
Durante il convegno, organizzato dal Centro d’Arte e Cultura 26 in collaborazione con l’Amministrazione comunale di Frascineto, è stato presentato il volume in lingua arbëreshe “Skarcopolli” (Pupazzo senz’anima) di Anna Maria Basile, un valido contributo alla riscoperta delle tradizioni italo-albanesi.
All’incontro hanno portato il loro contributo di idee: il sindaco di Frascineto, Domenico Braile, l’Assessore alla Cultura, Antonio Ferrari, il Papas Antonio Bellusci, il sindaco di Spezzano, Ferdinando Nociti, il sindaco di S. Demetrio, Antonio Sposato, il presidente della Comunità Montana, Pietro Armentano e Maria Zanoni, presidente del Centro D’Arte e Cultura 26.

Maria Antonietta Rimoli, coordinatrice artistica del Gruppo Folk “Arberia” ha declamato liriche in arbereshe dal volume della Basile ed ha diretto il coro in una performance che ha dato alla serata un tocco suggestivo.

La finalità del progetto è quella di valorizzare il patrimonio culturale arbëresh, coinvolgendo soprattutto i giovani in un percorso multimediale di conoscenza di una civiltà che affonda le sue radici nelle culture mediterranee, che hanno aspetti orientali; alla riscoperta di una cultura strettamente legata ad una identità religiosa di matrice bizantina. È un itinerario affascinante tra le antiche tradizioni scomparse o in via di estinzione e tra quelle ancora oggi vive all’interno dei territori, sui sentieri della storia del popolo arbëresh, in un raccordo tra passato e presente, in cui è palpabile il senso delle radici.

Il percorso di conoscenza, il cui coordinamento scientifico è stato affidato a Claudia Rende, web manager del sito www.arte26.it, nel quale sarà possibile visitare i paesi arbëreshë, attraverso il fascino delle immagini-documento consegna alle giovani generazioni, e non solo, tradizioni, usi e costumi che rischiano di scomparire e realtà socio-culturali in continua evoluzione, che hanno una identità da tutelare.

Le pagine web sull’etnia arbëreshe, attraverso l’immediato impatto comunicativo, descrivono la vita delle Comunità albanesi, il loro forte senso religioso, la coscienza etnica, legata, oltre che alla lingua, alla cultura materiale, agli usi, ai costumi, alle tradizioni popolari, attuando un processo di conoscenza riguardo alle valenze etniche ed antropologiche nel contesto dei beni culturali italo-albanesi. Le cosiddette “minoranze” offrono la chiave di lettura per approfondire appartenenze ed eredità, importanti per la valorizzazione dei territori stessi. E le eredità culturali sono quelle delle varie civiltà che le hanno attraversate. Il concetto stesso di “minoranza” è ridefinito dalla dinamicità e intensità con cui questi “gruppi etnici” ripropongono al loro interno e tengono vivi i tratti culturali che li caratterizzano.

Le Comunità etnico-linguistiche di minoranza hanno un ruolo preminente nel territorio di appartenenza, nel processo di costruzione della nuova Europa del Terzo Millennio, per gli apporti di una cultura specifica e di forme di perpetuazione culturale endogene.

Lingua, religione, tradizioni, costumi, enogastronomia sono elementi identitari che caratterizzano fortemente queste comunità, insieme ad aspetti storico-sociali, economici, politici, architettonici e paesaggistici dell’area di appartenenza.

La presenza sul territorio di aree distinte sulla base di tratti culturali minoritari, generalmente dovuta a spostamenti di popolazioni, o di gruppi sociali più ristretti, avvenuti nel corso della storia, per cause diverse, soprattutto di carattere storico-politico, è un problema di appartenenza e d’identità.

L’appartenenza identitaria, che deriva da fattori culturali, regole di comportamento legate al contesto d’origine e da valori di riferimento, condivisi per scelta più o meno consapevole, nelle sue dinamiche di perpetuazione definisce i confini territoriali di appartenenza stessa.
Strutture e funzioni educative, insieme alla lingua e ad un sistema di valori simbolici, spesso sostenuto dal credo religioso, garantiscono alla comunità l’autodeterminazione e la rivendicazione collettiva di una appartenenza che trae forza dalla consapevolezza di riconoscersi in alcuni valori.

Allora il concetto di minoranza culturale si basa su rapporti di inclusione-esclusione e di minoranza-maggioranza tra gruppi sociali distinti, in cui esiste la differenziazione tra autopercezione ed eteropercezione dei tratti culturali caratteristici della comunità marginale.

L’autodeterminazione delle comunità stesse e le rivendicazioni collettive traggono linfa proprio dalla coscienza di appartenere ad una unicità culturale e fanno sì che in un dato territorio siano di fatto delle “maggioranze”.
I caratteri del popolo arbëresh affiorano da un lungo processo culturale e d'identità che va dal senso di appartenenza a tutte le espressioni comunitarie. La storia della civiltà arbëreshe non si fonda esclusivamente sulla lingua, che è un bene culturale di fondamentale importanza, in quanto è uno degli elementi della cultura italo-albanese, anche se il principale. Un percorso di vera conoscenza delle realtà arbëreshe parte dalla lingua, strumento identitario e di partecipazione alla storia di un territorio, per seguire tracciati che vanno dall’arte, ai canti, i famosi vjersh, alla musica, alla letteratura, all’enogastronomia, alla cultura materiale, ai riti ed alle tradizioni di un popolo, che rappresentano una grande risorsa.

Un patrimonio culturale, al centro del Mediterraneo, bacino d’incontri e d’incroci tra etnie e culture diverse, da valorizzare e comunicare, per creare maggiori opportunità di sviluppo socio-culturale ed economico.
E il percorso web (è in evidenza online su www.arte26.it) è ricchissimo di testimonianze, di foto e di video, recenti e d’epoca, per invogliare a visitare luoghi affascinanti e guidare alla scoperta di un mondo magico, tra atmosfere di sapore orientale; un mondo dinamico, non certamente “monade”, “diversità” in via d’estinzione.


Nella foto da sin. al tavolo dei relatori: Antonio Panaiotis Ferrari, assessore comunale alla Cultura, Papas Antonio Bellusci, presidente Centro Ricerche Castriota, Domenico Braile, sindaco di Frascineto, Ferdinando Nociti, sindaco di Spezzano, Maria Zanoni, presidente Arte26, Anna M. Basile, poetessa.

 

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pubblicato il 24 Mar 2008

ETNIE E LETTERATURA

Un excursus sull’attività del Comitato Minoranze del MIBAC

di Maria Zanoni

“Leggere le etnie attraverso la Letteratura e i Beni Culturali” è il tema dell’incontro di studio con cui il Comitato Nazionale Minoranze Etnico-Linguistiche del Ministero Beni Culturali, d’intesa con il Ministero della Pubblica Istruzione, il Liceo Scientifico Bachelet di Spezzano Albanese e con la collaborazione del Centro d’Arte e Cultura 26, ha concluso il percorso triennale attuato per la conoscenza e valorizzazione degli usi, costumi e beni culturali delle etnie storiche presenti in Italia.

Al dirigente scolastico, Antonio Scalcione, il compito di fare gli onori di casa, nell’Aula Magna del Liceo della cittadina arbereshe; a Teresa Ciliberti, docente di Letteratura Italiana al Liceo, quello di trattare dei radicamenti letterari, grazie ai quali la conoscenza delle stesse etnie diventa una manifestazione di identità storica. A me, in qualità di vicepresidente del Comitato Nazionale, l’impegno di fare un excursus sui 70 incontri scientifico-divulgativi (tra cui seminari internazionali) tenuti presso varie Comunità minoritarie, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica.

Un significativo patrimonio di esperienze nel campo della ricerca, affidato a ben 24 pubblicazioni, edite dal Ministero Beni Culturali e distribuite gratuitamente, che hanno coinvolto giovani ricercatori e che offrono un’immagine fortemente valida della nostra terra, dei suoi beni e delle sue potenzialità.

Si è partiti dal mondo Italo-Albanese (con un’ampia articolazione sui vari aspetti di questa cultura: dalla mostra e dal catalogo sugli Arbereshe alla Grammatica Arbereshe di Giordano; da uno studio su De Rada e Koliqi a I Viaggiatori in terra Italo-Albanese; da una ricerca su Scanderbeg a Guglielmo Tocci) per sottolineare i lavori sulle altre “etnie” come quella grecanica (con convegni, pubblicazioni e Dvd che trattano aspetti che vanno dalla Calabria al Salento); per poi promuovere studi comparati con ricerca come “Etnie. Popoli e civiltà tra culture e tradizioni” (un lavoro nel quale si passano in rassegna tutte le minoranze etnico-linguistiche in Italia, dai Ladini agli Occitani, dai Catalani ai Friulani, dai Tedeschi al rapporto tra etnie e archeologia e così via) attraverso una analisi storica. E ancora: “Sui passi della Magna Grecia” (un lavoro riferito alle comunità che hanno avuto territorialmente uno stretto rapporto con l’area geografica della Magna Grecia, comunità che sono tuttora presenti in un tale contesto; “I segni del tempo” (si tratta di un attento e meticoloso studio di Maria Zanoni inerente i beni culturali delle realtà minoritarie della Calabria con un vasto modello di immagini a colori che pongono all’attenzione un patrimonio ricco di storia e di tradizione); “Maschere sotto la luna” è un lavoro in lingua catalana (con un testo in catalano di Grazia Deledda) ben articolato al quale hanno prestato la loro scientificità Neria De Giovanni e Josefa Contijoch; sempre Neria De Giovanni ha offerto la possibilità di rileggere l’opera di Maria Carta (grande poetessa e cantautrice sarda) in un percorso con varie testimonianze, tra cui la presentazione di Walter Veltroni.

Ha visto anche la pubblicazione una ricerca storica sui Valdesi a San Sisto di Antonio Perrotta; ed un affascinante lavoro sul rapporto-dialogo tra l’opera di Pier Paolo Pasolini e la cultura friulana con il contributo di giovani studiosi che si occupano di poesia, di linguistica e di letteratura popolare.

Non ultima tra le pubblicazioni: “Un bene culturale per comunità” (uno straordinario viaggio tra i beni culturali delle minoranze etnico-linguistiche italiane, grazie allo studio di particolari simboli-patrimoni presenti sui vari territori. I ricercatori hanno posto all’attenzione il significato di bene culturale e di etnia.
Un interessante viaggio tra le Minoranze che ha ricevuto apprezzamenti in campo nazionale ed internazionale, persino nelle sedi Unesco.

Infatti, il funzionario del Mibac, Rosa Vinciguerra, ha riconosciuto l’impegno del Comitato, chiamato a testimoniare la propria presenza in Macedonia, Albania, Tunisia, ed in America del Sud fino a Miami in Florida, portando un contributo sul piano di una maggiore comprensione di quelle culture che costituiscono un riferimento per una dialettica su identità, tradizione e memoria all’interno del valore di etnie e minoranze. Ed Egidio Chiarella, Segretario della IV Commissione Assetto del territorio, in rappresentanza della Regione Calabria, ha invitato a proseguire su questo percorso di ricerca su “un patrimonio enorme che va salvaguardato ed investito per il futuro”.

Per Chiarella “l’attività di ricerca e di promozione culturale è la chiave positiva per lo sviluppo della società calabrese che avanza attraverso il mercato e le nuove tecnologie, ma deve rapportarsi con le radici dell’essere e ciò che rappresenta la nostra storia, che va tutelato e non disperso”.
Il lungo percorso triennale tra la cultura delle minoranze linguistiche e l'identità mediterranea, tra le Culture e le Tradizioni della realtà Tedesca, Ladina, Mochena, Cimbra, e del Sudtirol, tra i Provenzali ed i Grecanici è stato supportato dalla proiezione in sala delle immagini multimediali, curate in DVD da Claudia Rende del Centro d’Arte e Cultura 26.

Infine, Pierfranco Bruni, presidente del Comitato Nazionale, nel suo intervento conclusivo ha affermato: “Si conclude, così, la prima fase di un processo culturale ed esistenziale che coinvolge culture e civiltà, alla luce di un confronto tra patrimoni culturali che presentano segni di diversità ma anche tracciati il cui approfondimento resta fondamentale. Nella seconda fase del progetto di valorizzazione dei beni culturali delle comunità minoritarie sarà impegnato l’Istituto Nazionale Minoranze, che continuerà il lavoro di ricerca nel solco tracciato dal Comitato, perchè non si disperda un ricco patrimonio di esperienze e conoscenze - ha detto Bruni, visibilmente soddisfatto per il lavoro svolto.

Gli studenti ed i giovani ricercatori, ancora una volta saranno protagonisti di un processo di studio e promozione delle minoranze, analizzate sotto vari aspetti che non sono soltanto linguistici o folklorici. Sta soprattutto in questo l’aspetto innovativo del progetto - ha concluso lo studioso - e nella proposta di una metodologia scientifica e didattica che, uscendo dagli schemi esclusivamente linguistici tanto cari, invece, al mondo accademico, focalizza l’attenzione sugli aspetti culturali, etnici, antropologici, letterari, architettonici e archeologici delle realtà minoritarie italiane. La cultura etnico-linguistica va, comunque, considerata in una visione di studi globali. Il patrimonio culturale e storico, andrebbe ricontestualizzato in un quadro generale inerente la cultura dei "nuovi saperi". I beni culturali di queste comunità, prima di essere beni del territorio e risorse per il turismo, e quindi processi valorizzanti, sono e restano patrimonio della storia”.

Le minoranze etnico-linguistiche, in Italia, si testimoniano attraverso una varietà di caratteristiche che presentano aspetti di ordine rituale, antropologico, storico, linguistico, appunto, geografico che danno vita alla cultura di un popolo. Ma è la lingua che permette di definire quei processi di civiltà che sono, sostanzialmente, dei veri e propri processi di identità. La letteratura lega, indubbiamente, lingua e orizzonte di appartenenza. Un popolo, infatti, si sostiene e lascia tracciati nella memoria della storia grazie alla letteratura. La letteratura, proprio in questo caso specifico, assomma nel valore della tradizione gli elementi espressivi, ovvero il patrimonio dei codici linguistici, e la tutela delle radici. Radici che richiamano modelli di appartenenza. E' soprattutto la lingua che si porta dentro la caratterialità di un popolo, la quale costituisce l'anima e la consapevolezza di un vissuto.

Proprio in virtù di ciò, offrire una interpretazione archeologica di queste comunità diventa di estremo interesse. Queste comunità si sono insediate sia su comunità già esistenti (ovvero su territori già in precedenza abitati) o in realtà geografiche ricche di testimonianze archeologiche (il caso dei grecanici in Calabria e in Puglia ma anche il caso degli Arbereshe in ben sette Regioni il cui raccordo ha rimandi alla storia mediterranea e dei Balcani).

In fondo l’archeologia è una di quelle “scienze” importanti ma che non si sottrae, però, all’interpretazione. Interpretare è anche un termine che avanza delle prospettive pedagogiche e quindi come tale si offre ad un monitoraggio culturale dal punto di vista della visione etica. Ecco perché è necessario il rapporto tra i modelli archeologici e l’antropologia anche in una ricerca su quelle comunità la cui appartenenza resta legata alla storia del Mediterraneo. Archeologia e antropologia, archeologia ed etnologia per penetrare l’humus dei popoli.

La tutela delle culture di minoranza etnico - linguistiche è un fatto di civiltà che parte da un presupposto principale che è quello della conoscenza, dell'approfondimento, della ricerca. Un dato che ha una forte valenza pedagogica sulla quale ci si deve impegnare per un progetto ad ampio respiro che tocca aspetti di natura chiaramente linguistico - letteraria ma anche di ordine storico.

Per salvaguardare i territori e la loro cultura occorre necessariamente creare una rete di sinergie con le Istituzioni locali, con il mondo dell'associazionismo, dell'informazione, con la scuola, con le università. I beni culturali sono parte essenziale della storia di queste comunità. Conoscerli nei vari e specifici elementi (dalla letteratura agli strumenti per la conservazione e la diffusione della cultura, dai beni antropologici e archeologici al patrimonio librario) è dare chiaramente un contributo rivolto alla stesse metodologie di tutela, di conoscenza, di valorizzazione e di relativa fruizione.



Nella foto, un momento del Convegno - al tavolo dei relatori da sinistra: Maria Zanoni, Pierfranco Bruni e Antonio Scalcione.

 

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  pubblicato il 2 Mar 2008

TRADIZIONI ARBERESHE: IL TELAIO (Argalìa)

BENI CULTURALI ARBËRESHË E INTERCULTURA

di Maria Zanoni



« Sa të ngjallmi tradita » tenere in vita le tradizioni.

Il 2008 è l’anno dell’Interculturalità. Quale proposta migliore, dunque, se non quella di promuovere processi di conoscenza riguardo alla lingua ed alle valenze etniche ed antropologiche nel contesto dei beni culturali arbëreshë!?!
In quest’anno dedicato all’incontro tra culture, è di notevole importanza promuovere interventi volti alla conoscenza ed alla valorizzazione delle presenze italo-albanesi del territorio, nella complessità delle realtà culturali. I beni culturali delle Comunità minoritarie offrono la chiave di lettura per approfondire appartenenze ed eredità, importanti per la valorizzazione dei territori stessi. Tutelare una presenza minoritaria su un territorio non significa soltanto affrontare la questione dal punto di vista linguistico.

Un percorso di vera conoscenza delle realtà arbëreshë parte dalla lingua, strumento identitario e di partecipazione alla storia di un territorio, per seguire tracciati che vanno dall’arte, ai canti, i famosi vjersh, alla musica, alla letteratura, all’enogastronomia, alla cultura materiale, ai riti ed alle tradizioni di un popolo, che rappresentano una grande risorsa, da partecipare e porre all'attenzione attraverso una visuale complessiva, etno-antropologica.
Ed in questa direzione va il progetto “Beni Culturali, Storia e tradizioni arbëreshë” promosso dal Centro d’Arte e Cultura 26, Associazione di promozione culturale e ricerca antropologica al suo trentesimo anno di attività, in collaborazione con il Liceo Scientifico di Spezzano Albanese.

Al termine del percorso didattico, la ricerca sulle tradizioni popolari delle Comunità italo-albanesi della provincia di Cosenza verrà pubblicata, con il patrocinio dalla Regione Calabria.

Il lavoro rientra in un progetto di valorizzazione di un patrimonio culturale che ha una consistenza storica, che non va dispersa e va difesa, perché parte integrante di un processo esistenziale. È un contributo alla conoscenza di una civiltà che affonda le sue radici nelle culture mediterranee, che hanno aspetti orientali; alla riscoperta di una cultura strettamente legata ad una identità religiosa di matrice bizantina.

È un percorso di conoscenza delle antiche tradizioni scomparse o in via di estinzione e di quelle ancora oggi vive all’interno dei territori.
Lo studio riserverà particolare attenzione a quelle tradizioni che meglio esprimono l’identità, la coscienza etnica, legata, oltre che alla lingua, alla cultura materiale, agli usi, ai costumi, alle tradizioni popolari, per consegnare alle giovani generazioni pagine di storia, spaccati di tradizioni italo-albanesi, perchè, li conoscano, li custodiscano e li difendano dalla dispersione, insieme alla lingua.

A cominciare dalla la gjitonia, che ancora oggi resiste a distanza di cinque secoli di integrazioni etniche e trasformazioni socio-urbanistiche. La gjitonia, è il vicinato, non solo lo spiazzo, lo spazio fisico antistante le abitazioni in cui si snodano i rapporti comunitari, con le loro valenze di aggregazione e solidarietà, fortemente espressive: i riti religiosi della Settimana Santa, le usanze legate a nascite, matrimoni e funerali, le feste del Carnevale, con i suoi rituali culturali ancora intrisi di simbologie pagane. La gjitonia, come piazzetta, spazio di partecipazione e incontro tra culture, metafora di dialogo. È l’elemento di raccordo tra famiglia e comunità. Ed insieme alla “vatra”, il focolare domestico, ed alla “vëllamia” il legame di fratellanza che va al di là della stessa consanguineità, rappresenta gli elementi fondanti dell’identità arbëreshë.

Uno spazio particolare sarà dedicato all’antica tradizione della tessitura ed al telaio, di cui resta esemplare testimonianza l’attività del Museo “ARGALIA” di Frascineto.

Il museo etnografico, fondato e diretto dal dinamico Papàs Antonio Bellusci, nell’ambito del Centro Ricerche socio-culturali “G. Kastriota Scanderbeg”, in via Pollino a Frascineto, rappresenta una delle più alte espressioni della tradizione materiale e culturale arbëresh.

Nel museo del telaio l’antica arte della tessitura vive attraverso le laboriose mani della maestra tessitrice Caterina Bellusci, che accompagna il lavoro con i canti tradizionali in lingua arbëresh.

E’ Rina che tiene in vita una tradizione, appresa dalla nonna e dalla madre, che ha rappresentato per lei, come per tanti suoi compaesani, l’attività prevalente; ma oggi per lei rappresenta la sua vita, la sua cultura, la sua coscienza etnica, il suo desiderio di non disperdere le tradizioni e trasmetterle alle nuove generazioni, perché di quell’arte facciano motivo di nuovi sbocchi professionali, oltre che di orgoglio etnico.

Le tradizioni, dunque, come riappropriazione delle radici culturali di un popolo, per aprirsi alle offerte della società interculturale. E le tradizioni popolari, i beni culturali arbëreshë sono una preziosa risorsa identitaria, in grado di attivare programmi d’investimento.

Musei come l’Argalia di Frascineto possono rappresentare una valida leva di rinascita socio-economica della regione che possiede il maggior numero di Comunità minoritarie, rispetto al resto dell’Italia. Un vero sviluppo deve partire dalla valorizzazione della cultura del territorio. E cultura del territorio significa leggere e capire i luoghi, rispettarli, nel confronto di idee e tradizioni. La salvaguardia del patrimonio presuppone la conoscenza delle risorse reali.

E’ da tempo che vado affermando che la Scuola in questa società multimediale può produrre interventi educativi efficaci e di qualità, per la crescita dei territori, in sintonia con gli Enti locali. Gli Enti devono investire in cultura, per creare sviluppo e occupazione che passano anche attraverso il turismo culturale.

I Beni culturali, testimonianze dell’identità di un popolo, diventano anche prodotti economici quando la loro fruizione, attraverso musei, biblioteche e parchi, è gestita con una progettualità che rispetti le specificità del territorio e gli aspetti etici, economici, antropologici ed anche etnici.

Musei, biblioteche e siti non sono luoghi di semplice conservazione di oggetti antichi, bensì luoghi di cultura in cui si trasmette alle nuove generazioni la conoscenza di una civiltà ormai in via di estinzione, cercando anche di esaltarne i valori di laboriosità, di onestà, di solidarietà.

I luoghi depositari della memoria storica, della identità, devono essere conosciuti, rispettati, visitati e capiti. E per essere capiti, creare interesse e comunicazione è necessario che Scuola, Enti pubblici e privati progettino interventi di educazione alla lettura dei Beni culturali.
Il Museo del Telaio, in stretta correlazione con la ricchissima Biblioteca Bellusci, è un modello di valorizzazione e fruizione dei beni culturali arbëreshë.

E’ ora di strappare all’oblio l’ingente, inestimabile patrimonio culturale di una regione mortificata, senza atteggiamenti vittimistici o fatalistici; e senza vaghe nostalgie di un passato mitico.

La conoscenza del passato è una forza importante in grado di preparare al futuro le nuove generazioni della complessa società odierna.

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pubblicato il 15 Feb 2008

L'ALBANIA DI ORNELA VORPSI

A Roma Ornela Vorpsi ha raccontato il viaggio nella “sua” lingua.

di Pierfranco Bruni



L’Albania del “Vivi che ti odio, e muori che ti piango” di Ornela Vorpsi.

La presenza di Ornela Vorpsi (nata a Tirana ma vive a Francoforte dopo esperienze a Milano e in Francia), nel panorama delle letterature del Mediterraneo e dei Balcani, assume una peculiarità significativa. Una scrittrice coraggiosa che con singolarità riesce a sottolineare parametri che sono umani certamente ma che restano profondamente esistenziali.

In un recente convegno a Roma, in occasione dell’apertura di alcune manifestazioni dedicate all’Anno della Intercultura, ha enucleato, in alcune battute, il senso da dare alla letteratura. Una letteratura che deve saper parlare al cuore attraverso le parole vere, quelle che contano abbandonando i formalismi e il già visto. Un sorriso e una ironia che hanno vitalità e sogno.

L’ho incontrata a Roma. Occhi che penetravano viaggi e bellezze e il suo accento in un modulare ritmato mentre raccontava il volo della letteratura. Una voce vera, senza finzioni. Ha parlato della sua esperienza di scrittrice.

La lingua, è un monito della Vorpsi, passa attraverso l’esperienza esistenziale. Bisogna sapersi guardare negli occhi abbandonando le cose vecchie. Ornela Vorpsi ha scritto romanzi affascinanti. Ho letto i due romanzi di Ornela Vorpsi. Belli e tremendi. Hanno un loro sentire e un loro vissuto. Nata a Tirana nel 1968. Qui in questa terra delle contraddizioni ma anche dei sapori antichi ha vissuto per 22 anni. Dal 1997 la sua vita si svolge in Occidente.

Al contrario di molti che hanno lasciato l’Albania Ornela scrive in perfetto italiano. Due romanzi: “Il paese dove non si muore mai” del 2005 e “La mano che non mordi” del 2007. entrambi editi da Einaudi. In mezzo a questi due romanzi c’è “Vetri rosa” del 2006 da Nottetempo. Una scrittrice coraggiosa. Senza retoriche. Senza “sfraceli” folcloristici o motivazioni dettati dall’ideologia. Sa guardare all’Albania senza nostalgia ma neppure con verità storica quando questa stessa verità diventa come in Ismail Kadarè retorica. C’è in Ornela Vorpsi una vitalità di scrittura che tocca le corde di certi incantesimi.

Un dato è certo: mette a nudo addirittura la cultura del popolo albanese. La denuda attraverso lo strumento altamente letterario dell’ironia cominciando dalla dedica che suona già abbastanza dura: “Dedico questo libro alla parola umiltà, che manca al lessico albanese. Una tale mancanza può dar luogo a fenomeni assai curiosi nell’andamento di un popolo”.

Certo la Vorpsi, dal punto di vista critico – letterario, è piuttosto rivolta ad un antikaderismo marcato. Non ci sono le ambiguità politiche di Kadaré negli scritti della Vorpsi. E non mi si dica che ha soltanto due romanzi e che il metro di confronto non è possibile. Nessuno vuole creare paragoni. Ma basta un solo libro per definire uno scrittore. Uno scrittore ha bisogno di un libro per essere considerato tale. In “Il paese dove non si muore mai” si vive uno sviluppo narrante interessante. È una scrittrice che spazionia in una dimensionalità che non è quella “provincialistica” della letteratura albanese soltanto.

È una scrittrice che tocca il senso delle motivazioni universali. Si tratta di uno spaccato dove si assiste al trionfo dell’ironia e credo che possa essere considerata una innovatrice, ovvero una scrittrice di rottura all’interno di un contesto consolidato intorno alla fisionomia letteraria di Kadaré. Supera lo stesso Kadaré, questa volta la dico tutta, sia in termini linguistici sia in termini di struttura dell’asse racconto – narrazione – personaggi. Certo, l’Albania (come eredità delle radici) resta al centro dell’iter narrante ma si coglie un aspetto che reputo fondamentale.

Non più la malinconia di un rimpianto ma l’ironia su un passato che resta per essere completamente attraversato. Attraversandolo la scrittrice usa gli strumenti, appunto, dell’ironia ma anche di una consapevolezza nella quale si sottolinea il superamento di una impostazione mentale che si vive ancora in Kadaré. Nella Vorpsi l’ironia è toccante ed è proprio questa ironia che rende la sua scrittura frizzante come in questi passaggi: “Di polvere e fango è fatto questo paese; il sole brucia a tal punto che le foglie della vigna si arrugginiscono e la ragione comincia a liquefarsi. Da ciò nasce una specie d’effetto secondario (temo irrimediabile): la megalomania, delirio che in questa flora germoglia come erba pazza”.

E poi: “Nel nostro caro paese dove non si muore mai, dove il corpo è forte come il piombo, abbiamo un detto, un detto profondo: ‘Vivi che ti odio, e muori che ti piango’. Questo adagio è la linfa del nostro paese. Dopo la morte nessuna brutta parola, oserei dire nessun cattivo pensiero, ti tocca più. La morte è rispetto”. C’è un modello occidentale preciso in Ornela. Una condanna di un mondo che andrebbe riletto e riconsiderato e njon abbandonato alla nostalgia di un tempo che non c’è più. Coraggiosamente ha fatto delle scelte. Ma quanti scrittori vivono ancora appesi tra il filo di un occidentalismo e di un islamismo che crea solo confusione?

Quasi nel finale di questo romanzo della Vorpsi in una pagina viene raccontato che il mare Ionio ha preso questo nome da un partigiano albanese di nome Ion “il quale un giorno cadde per la patria colorando col suo sangue le acque profonde di rosso scuro…”. E così via di seguito in un intreccio in cui l’ironia affabula e l’affabulazione è un superamento della realtà restituendo alla letteratura un afflato fantastico e lirico. Si resta sempre nell’ironia.

Nell’altro romanzo “La mano che non mordi” ci sono passaggi terribili sui quali bisognerebbe riflettere: “C’è un odore forte in aereo. È l’odore di piedi dei Balcani. Frutto delle scarpe uniche, quelle che non si cambiano. L’odore di chi non ha due paia di scarpe. L’aggiunta degli effluvi di raki e del cattivo cognac fa nascere questa unica e indimenticabile miscela balcanica (…). Il signore dietro di me vuole del vino. Il vino è gratis e bisogna approfittarne. Chiama per la seconda, terza, quinta volta la hostess che gli porta con grazia il vino. Lui beve, deve bere il più possibile. –Vino! – ordina ancora alla ragazza, alla quale non restituisce neanche un sorriso di cortesia”.

Uno spaccato che definisce in un certo qual modo una visione di uomini e di paesi. Quell’Albania che si lascia alle spalle Ornela non è una terra della fantasia e neppure una terra deserta. È, dunque, uno spaccato di realtà che incide nella storia di un popolo. Credo che la Vorpsi stia facendo un viaggio importante sia sul piano culturale che umano.

Mettere a nudo non i difetti o i nodi ma alcune verità di un popolo e di ciò che usiamo chiamare civiltà è di estrema importanza. L’intreccio tra Occidente Cristiano e Paesi dell’Est in bilico tra Mediterraneo e Islamismo diventa un fatto sul quale dobbiamo riflettere. Ornela è una scrittrice vera che rompe con la retorica di la letteratura realista.

Non possiamo far finta delle tragedie del comunismo nei Paesi dell’Est e in particolar modo in Albania. Non possiamo far finta dell’insistenza islamica nei Balcani. Non possiamo permetterci il lusso di giustificare. Noi siamo Occidentali e Cristiani. Certo, entriamo in un altro discorso che può anche non riguardare le tesi di Ornela. È troppo umana per scandire il mosaico della critica. E quella umanità, nella parola, la rende vera scrittrice.

Ma credo che leggere con serenità Ornela Vorpsi significa anche penetrare un mondo che è anche realtà. Non amo la scrittura e i testi di Ismail Kadaré perché sono convinto che avrebbe dovuto prendere posizioni in tempi dovuti nei confronti del comunismo. Amo la letteratura di Ornela per il coraggio, per la sintesi e per il suo saper guardare negli occhi un Paese che è il suo Paese senza cadere nella trappola del folclore e delle nostalgie senza orizzonti. E neppure della superbia: “… l’Albania è il centro del mondo, ma per adesso purtroppo lo sanno solo gli albanesi”. Un’ironia che spazia nel tempo e nei ricordi. Approfondiamo ciò. Senza nulla dimenticare. Una scrittrice che sa dell’importanza della poesia e sa che i sogni sono la vita e nella vita. E la letteratura resta un viaggio non viaggiato ma viaggiante…

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pubblicato il 9 Feb 2008

Le minoranze etno–linguistiche nell'anno dell'intercultura

 

Tutelare la lingua e promuovere processi di conoscenza sulle valenze etno – antropologiche ed etno – letterarie nel contesto dei beni culturali in una visione Mediterranea.

Pierfranco Bruni: “Non bisogna soltanto insistere sulla salvaguardia della lingua. La lingua resta fondamentale ma occorrono strumenti di promozione e interventi volti alla conoscenza del territorio nella complessità delle realtà culturali. Il rapporto tra presenze minoritarie e beni culturali offre chiavi di lettura importanti per approfondire appartenenze ed eredità che sono vitali per la valorizzazione dei territori. Le minoranze linguistiche in Italia sono una grande risorsa sulla quale bisogna investire sia sul piano strettamente culturale e scientifico sia in termini di percorsi di vera conoscenza all'interno di un legame con le culture del Mediterraneo”.

“Le presenze minoritaria in Italia, secondo la normativa vigente, sono 12. Ma realmente sono molto di più. Tra lingua e fattori antropologici. Tutelare una presenza minoritaria su un territorio non significa soltanto affrontare la questione dal punto di vista della lingua. Ci sono dimensioni che vanno dalla musica alla letteratura, dalla revisione storica all’arte che vanno partecipate e poste all’attenzione attraverso una visuale sia complessiva che specifica nel vari campi di interesse e di attenzione. C’è bisogno anche di capire il rapporto tra territorio e archeologia per ridefinire una dimensione che va letto in una con testualità sia antropologica che etnica. Aspetti che vanno legati ad una conoscenza delle culture del Mediterraneo in una dimensione di contaminazioni”.

Si tratta di una dichiarazione del presidente dell’Istituto Presenze Minoritarie in Italia, dott. Pierfranco Bruni, Coordinatore del Progetto relativo alle Minoranze etno – linguistiche in Italia del Ministero per i Beni e le Attività culturali e autore di numerosi saggi sulle presenze minoritarie in Italia.

Pierfranco Bruni, che ha curato mostre e organizzato convegni per promuovere la valorizzazione delle minoranze linguistiche attraverso una serie di attività e di interventi didattici e scientifici con il MiBAC, ha posto l’attenzione sulla necessità di aprire un serio dibattito sulla Legge riguardante la tutela delle minoranze etno – linguistiche in Italia con lo scopo di riesaminare le presenze etniche storiche che si trovano nel territorio italiano. La necessità, ha sottolineato, nasce dall’esigenza di impostare la problematica non solo dal punto di vista linguistico ma soprattutto da quello etno – antropologico ed etno – territoriale.

“L’aspetto riguardante il rapporto tra minoranze etno – linguistiche e beni culturali, ha dichiarato Bruni, va riconsiderato alla luce di una promozione della cultura in senso generale ma il legame tra le ‘etnie’ e i beni culturali favorisce un dialogo tra identità e popoli. Le culture del Mediterraneo risultano in una tale visione di estrema importanza. Mi pare che si tratta di un elemento significativo di una valutazione su un patrimonio che va fatto conoscere oltre che tutelato nei vari ambiti”.

“Ridiscutere sulla normativa che riguarda la Legge di tutela delle presenze o isole minoritarie in Italia è una buona occasione per creare stimoli nuovi e più appropriati dal punto di vista sia storico che antropologico. La lingua ha chiaramente la sua importanza ma ci sono aspetti che vanno chiaramente riconsiderati. E’ una ottima occasione, ha sottolineato Pierfranco Bruni, per un confronto intelligente a tutto tondo su una materia che non può essere lasciata soltanto a cerchie ristrette di addetti ai lavori perché la problematica presenta angolature di grande veduta culturale. Non si tratta di affrontare la questione soltanto dal punto di vista linguistico. Le presenze minoritarie sono una eredità storica e in quanto tale esprimono elementi di identità su un tessuto che è sostanzialmente etno – antropologico”.

“Proprio da questo punto di vista, ha dichiarato Bruni, è necessario porre una chiave di lettura che possa superare gli schemi soltanto linguistici e inquadrare il dibattito in una visione certamente istituzionale ma l’aspetto culturale deve sempre più riguardare un legame etno – letterario, etno - storico, etno - archeologico e quindi complessivamente etno – antropologico”.

“Il tema sulle minoranze linguistiche chiama in causa fattori certamente antropologici ma anche istituzionali e giuridici e proprio in virtù di ciò, ha sostenuto Bruni, è necessario riconsiderare la normativa relativa alla legge sulla tutela delle minoranze. Deve essere più articolata e deve avere una visione complessiva sulla realtà in cui vivono i territori interessati. La lingua deve restare in un processo che non può svantaggiare gli elementi prettamente etno – letterari e anche etno – artistici e archeologici. Non può essere solo la scuola ad essere interessata da questi problemi. La realtà dei beni culturali, nelle comunità in oggetto, ha una valenza sia educativa, sia promozionale sia di tutela di un territorio molto più omogeneo nei vari campi del sapere”.

“Gli elementi di discussione, ha ribadito Bruni, hanno una articolazione particolare tra le diverse realtà minoritarie proprio in virtù del territorio nel quale sono ben identificati geograficamente. Ciò ci impone di trattare la materia non solo dal punto di vista soltanto linguistico ma culturale nella sua complessità e nelle varie specificità”.

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pubblicato il 25 Apr 2007

Scanderbeg legato al Cristianesimo

Sono tornato alla fede di Gesù Cristo

Nazionalismo, tradizione e cristianesimo in Giorgio Castriota Scanderbeg


di Pierfranco Bruni



“…io ho lasciat(o) la falsa fede di Maometto e sono ritornato alla vera fede di Gesù Cristo” scrive Giorgio Castriota Scanderbeg (1405 – 1468) in una nota a Murad, Principe dei Turchi, (come riportato da alcuni testi).

Un inciso importante che apre prospettive nuova ad una rilettura della figura e dell’opera di Scanderbeg. Una lettura che lo colloca in una interpretazione certamente tradizionalista e nazionalista oltre che in una visione cristiana e occidentale.

Da anni studio il “percorso” che ha condotto Scanderbeg e mi vado sempre più convincendo che c’è bisogno di una totale rilettura grazie ad un revisionismo tout court delle avventure, delle vicende e del destino di Scanderbeg sia esso tra storia e letteratura sia tra motivazioni che ci portano a viverlo come modello leggendario.

Ma non basta la storia da sola a rileggere un personaggio e un contesto di civiltà. Occorre necessariamente una interpretazione reale sui processi storici.

Le mie riflessioni, i miei studi, le mie analisi partono, appunto, da una rilettura. Uno Scanderbeg fortemente ancorato, dopo il suo passato islamico, al cristianesimo, un cristianesimo, attenzione, occidentale. È su questo che la mia riflessione, nel lavoro che sto portando avanti e che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno, toccherà aspetti ed elementi problematici tra storia e cultura in un incontro e, certamente, in una diversità tra Occidente ed Oriente. La figura di Scanderbeg vive all’interno di un processo storico che ha visto al centro la trasformazione di un’area geografica qual è quella del Mediterraneo.

Non può essere spiegata l’opera di difesa dei valori compiuta dal condottiero albanese senza pensare al ruolo che ha avuto la geografia mediterranea in una visione in cui l’Occidente e l’Oriente stabilivano un rapporto sia sulla base di scontri e conflitti ma anche sulla base di una progettazione che doveva portare alla comprensione e alla consapevolezza delle identità.

Scanderbeg è stato certamente un “nazionalista” ed ha puntato le sue battaglie nella difesa sì di un territorio e di un popolo ma soprattutto pensando a quei valori che sono stati punto di riferimento per una occidentalizzazione cristiana. Ciò è leggibile non soltanto da un versante storico ma anche sul piano di una interpretazione letteraria.

La letteratura su Scanderbeg presenta delle chiavi di interpretazioni che restano fondamentali proprio per capire la funzione di quell’idea nazionale che ha accompagnato molta letteratura e molti scrittori italiani. Si pensi a D’Annunzio. “Ancor vivente, l’Eroe nazionale albanese Giorgio Castriota, noto con il nome di Skanderbeg, è entrato nel mondo della leggenda… In tutta l’Albania la memoria di Skanderbeg, dove più dove meno, è venerata ed è anche ragione di vanto…”. Così sottolinea Ernesto Koliqi.

La letteratura albanese rientra in quelle culture letterarie che respirano identità adriatica e tradizione mediterranea. E' sostanzialmente una letteratura ricca di stilemi e di modelli storici che rimandano ad una visione della letteratura letta attraverso i canoni di una identità antropologica.
Il popolo albanese ha una grande memoria da difendere. Attraverso la memoria si recuperano le tradizioni di un popolo e di un destino. Il destino di un Paese è il destino di una civiltà. I suoni, i colori, le voci, i segni sono trascorsi che non ritornano ma sono anche ricordo lungo il tempo che annuncia il passato nella sfera del futuro.

Uno dei libri di Kadaré (certamente quello meno retorico) che risponde proprio al discorso prima accennato è, senza alcun dubbio, I tamburi della pioggia pubblicato a Tirana nel 1970 (con il titolo Keshtiella), in Italia 1981 - 1982 da Longanesi e con una nuova edizione nel 1993 da Teadue. Un romanzo che racconta non soltanto l'epopea di Scanderbeg ma, in modo particolare, decifra la nostalgia di un popolo.

Storia e leggenda sono, appunto, un intreccio esistenziale che pone al centro la consapevolezza di una eredità ma anche il coraggio di un popolo. Si era nel XV secolo. Diaspora e fuga per il popolo albanese era un miscuglio fatto di sentimenti ma soprattutto di rabbia, di accettazione e di sconfitta.
Con la morte di Scanderbeg non solo termina una fase di attesa, di orgoglio e di gloria ma comincia una stagione, per quel popolo, senza speranza. Scanderbeg era la speranza. Su questa speranza la letteratura è diventata leggenda perché, tra l'altro, ricostruendo le gesta eroiche si riproponeva costantemente la presenza di questo personaggio. Lo si continua a vivere nella metafora dell'attesa. La realtà è alla base della lettura kaderiana ma si serve della metafora che chiave di interpretazione di una tragedia collettiva.

“Si trovano palesi testimonianze della simpatia di Gabriele D’Annunzio verso l’Albania e gli albanesi visitando l’interno del Vittoriale. Nella Stanza delle Reliquie, proprio sull’altare dei cimeli di guerra e dei simboli religiosi, si può ammirare un rarissimo esemplare rilegato in pelle dell’opera su Scanderbeg dell’abate scutarino Barletio, in versione tedesca del 1561. E’ se la memoria non mi falla, uno dei quattro o cinque libri ammessi dal Poeta in quella parte mistica della sua dimora”. E’ ciò che scrive Ernesto Koliqi in Saggi di Letteratura Albanese (Olschki, 1972), nel capitolo dedicato a “Gabriele D’Annunzio e gli Albanesi”.

"Il De Rada in Scanderbeg, lo si intuisce leggendo il suo poema, non ammirava tanto l'uomo di coraggio, virtù comune agli Albanesi, né l'abile stratega, quanto il creatore di un'idea di fratellanza, colui che aveva acceso un sacro fuoco nel grande focolare della stirpe, che aveva insegnato alla gente legata dallo stesso sangue e dalla stessa lingua a considerarsi figli della stessa madre" (Ernesto Koliqi, Saggi di letteratura albanese, Olschki Editore, 1971, pag. 109). Una questione che tocca indubbiamente le corde del sentimento di appartenenza.

Ismail Kadarè in I tamburi della pioggia racconta attraverso la lotta tra gli albanesi e i Turchi l’avventura di Scanderbeg. Eroe dell’indipendenza e per l’indipendenza, mostra la tristezza e l’anima albanese. Fa da scenario il XV secolo. Lunghe battaglie. Disperazioni urlate. E la consapevolezza che nella storia si dipinge il volto del dolore di quella gente. Un popolo in attesa che ha rintracciato negli archetipi un modello di vita. Vive dentro la nostra coscienza e la nostra identità Mediterranea nell'abbraccio con l'Adriatico.

Lingua e metafora nella storia si intrecciano in un percorso che ha una chiave di lettura profondamente culturale. Ma ci sono anche elementi religiosi. Si legge: << che fai, Ibraim? gli dissero, “ vuoi diventare cristiano e continui a pregare come un musulmano ?” >>. Una testimonianza chiaramente culturale ma anche di fede. Così nell’incarnazione di Castriota.

Scanderbeg oggi rappresenta l’eroe - metafora. Un personaggio che è dentro la storia e si riappropria della storia riappropriandosi dell’identità di una terra e della singolarità di una appartenenza che ha radici antiche. Ritornare al XV secolo grazie alla rilettura di alcuni eventi è riproporre un problema che ha motivazioni etiche, politiche e culturali. Scanderbeg oggi è un personaggio che si pone all’attenzione sul piano storico ma in modo particolare la sua rilevanza ha caratteristiche politiche.

Se Scanderbeg è l’eroe che si propone come eroe - mito è certamente un personaggio che offre una risposta si di natura culturale ma anche profondamente politica nel senso che si contrappone a ciò che è stata l’Albania nello scorcio degli ultimi decenni. Un Paese dilaniato e occupato, invaso e vilipeso. Un Paese che attende ma conosce molto bene il sentiero della fuga. La fuga è il dolore ma è soprattutto la consapevolezza di una barriera non solo ideologica quanto esistenziale.

Scanderbeg. L’eroe albanese che lottò per l’indipendenza e costrinse i Turchi alla difensiva. Sconfisse gli imperi e strinse forti amicizie con Roma e Napoli. Il popolo albanese ancora lo rimpiange. Con lui si rimpiange l’indipendenza perduta. Sono state scritte tante pagine per ricordare il suo valore.

L’antico valore dell’eroe che trova nel senso dell’appartenenza il sentimento della patria. Appartenenza e patria: un unico riferimento per il quale il popolo albanese ha lottato per secoli. Ma le epoche si ripetono e si ripete la tragedia nella storia che racconta e maschera. Sono state date tante versioni sulla figura di questo condottiero. E’ stato preso come emblema a volte gli è stata calata una camicia ideologica. Schematismi e strutture hanno cercato di accreditarlo come un eroe della liberazione.

Scanderbeg fu, invece, un assiduo protettore delle tradizioni. Fu un conservatore. E da questo punto di vista fu un rivoluzionario come lo può essere un valoroso strenuo difensore della patria, dell’appartenenza e dell’identità. Era nato a Mati il 1405. Suo padre Giovanni Castriota fu un protagonista di sanguinosi combattimenti contro i Turchi.

Scanderbeg si chiamava Giorgio Castriota. Fu chiamato Scanderbeg per le sue capacità e per quegli ideali per i quali lottò durante tutta la sua vita. Ma nel suo nome c’era una allusione che richiamava il Principe Alessandro, il condottiero macedone. Ovvero Skander-bej.

Si distinse in numerose battaglie. La battaglia di Nis. La battaglia di Morea. E poi la sconfitta di Varna. E ancora le vittorie di Mocrene e di Otoleta. E poi i suoi rapporti con Venezia. I diversi tradimenti consumati all’interno del suo popolo e anche della sua famiglia. Scanderbeg dovette impegnarsi su diversi fronti. Uno esterno: la guerra con i Turchi.

Uno interno: sanare i conflitti tra i capi del suo esercito. Uno trasversale: il conflitto con la Serenissima. Ma ciò che lo risollevò fu certamente l’alleanza con Alfonso d’Aragona, il Re di Napoli. Portò aiuto in Italia al Re Ferrante. Ci furono vittorie ma le vittorie Scanderbeg le pagò caramente, le pagò sempre con il sangue. Il suo popolo alla sua morte era distrutto, era disorientato, era ormai sul vero senso del termine un popolo in fuga. Le conseguenze non si fecero attendere.

Scanderbeg morì il 17 gennaio del 1468. A suo figlio Giovanni gli raccomandò di lasciare l’Albania e di recarsi in Puglia. In Puglia possedevano, i Castriota, dei castelli nei quali si poteva trovare un sereno rifugio. Un eroe – simbolo. Maometto lo definì un leone e disse che sulla terra non sarebbe nato mai più un simile leone.

Ciò che maggiormente addolorò Scanderbeg fu il tradimento di Giovanni Stresio il quale era figlio di sua sorella Angela. Lo fece catturare e lo fece torturare e poi lo consegnò come prigioniero ad Alfonso d’Aragona. Un fatto gravissimo fu questo tradimento ma non condizionò il processo unitario – politico al quale Scanderbeg puntava con tutte le sue energie.
Un fatto che invece rivoluzionò la sua vita fu la conversione al cristianesimo. In una lettera a Murad, Principe dei turchi, annotava: “…se io ho lasciata la falsa fede di Maometto e sono ritornato alla vera fede di Gesù Cristo, io sono certo di aver scelto la miglior parte. Perché osservando i suoi santi comandamenti sono certo che l’anima mia sarà salva e non (come tu dici) perduta. Ti prego, per la salute dell’anima tua, di ascoltare da me ancora un ottimo consiglio. Degnati di leggere il Corano: cioè la raccolta dei precetti divini dove potrai facilmente vedere chi di noi sia in errore. E così ho speranza, se tu vorrai equamente considerare, che, vinto dalla ragione, ti sottometterai alla sacrosanta fede cristiana, soltanto nella quale tutti gli uomini che cercano di salvarsi si salvano e fuori della quale ogni altra si rovina”.

Era il 14 luglio del 1444. E allora Scanderbeg è un personaggio complesso. Certamente la sua lotta fu, come si è già detto, una lotta per l’indipendenza di un popolo, ma non fu solo questo. Fu soprattutto una lotta per la difesa di quelle radici antiche che il popolo albanese tuttora rivendica, ma non fu neppure solo questo. Fu in modo particolare una lotta di un mondo contro un altro e quindi fu lo scontro tra due culture, due civiltà, due religioni. Non fu espressamente un conflitto religioso. Ma la religiosità o meglio la difesa di un certo tipo di religiosità rientra direttamente nello scontro disputato tra due Paesi.

D’altronde dove c’è un conflitto per la difesa dell’appartenenza questo diventa un conflitto per la tutela dei valori di fondo e tra questi rientra la difesa di una identità spirituale. Scanderbeg dunque fu uno di questi crociati che lottò per salvaguardare un modello di civiltà che si inserisce in un quadro in cui l’eticità e la tradizione sono un baluardo, una roccaforte, un principio profondamente religioso.
Se Scanderbeg è il simbolo di questo processo culturale non può che essere tuttora un riferimento, un riferimento con il quale la civiltà moderna dovrà ancora fare i conti. Ma se tale è non può che essere inserito in quella cultura che vede nel nazionalismo, nell’unità, nella tradizione, nel valore di patria, nella conservazione dell’eroe l’asse portante per un progetto che pone al centro l’uomo con il suo bisogno di nostalgia e con il suo bisogno di mito.

Scanderbeg combatteva in nome di Cristo. Combatteva per difendere la tradizione, La civiltà moderna non può accreditarlo come eroe o come simbolo. Soltanto nei valori e nei significati di una civiltà che sconfigge la crisi del mondo moderno un personaggio come Scanderbeg può trovare posto. E il personaggio di ieri resta nella storia e resteranno i suoi segni e il suo esempio. Ma siamo noi che dobbiamo cercare di decodificare i suoi messaggi e la sua testimonianza. Può esserci di aiuto in una società quantitativa. Ma lasciamo da parte gli schematismi, le troppe ignoranze e le troppe interpretazioni che vanno al di là delle giustificazioni storiche. Scanderbeg resta un nazionalista che vedeva nella Patria il simbolo dell’appartenenza e nel cristianesimo la salvezza del popolo.

Kadarè nei suoi romanzi non ci mostra ancora un popolo in fuga ma ci fa capire come tutta una cultura è attraversata dal pericolo della fuga. “… Quelli che vivranno più tardi su questo suolo capiranno che non ci è stato facile ergerci, per questa lotta gigantesca, contro il più temibile mostro della nostra epoca. A essi non lasceremmo in eredità né statue né colonne imponenti. Non abbiamo avuto il tempo di costruirne e, con molta probabilità, non avremo il tempo di farlo neppure nei momenti di requie fra l’una e l’altra delle bufere che ancora ci aspettano. In loro luogo, lasciamo queste pesanti pietre delle nostre mura, che la pioggia delle battaglie va bagnando in questo grigio mattino. Sembra che la prima stagione di guerra volga al termine. Altre ci attendono. Le nuvole si accalcano nel nostro cielo, nel nostro grande cielo”. (In I tamburi della pioggia).

E’ su questo orizzonte che il tempo delle battaglie ricalca il destino dell’Albania. Ieri come oggi. Un Paese che ha cercato la libertà nel forte sentimento dell’appartenenza. E la libertà l’ha cercata anche nella fuga. Nel non voler morire da estranei in una terra che spesso abbandona il sentimento delle origini. Forse questo è il richiamo ad una dignità dimenticata. Quale eredità onora gli albanesi?
Il nome di Scanderbeg è un tracciato che bisognerebbe, in tempi di sradicamenti, ripercorrere. Storia di lingua, di paesaggi, di popoli. Un popolo che si cerca nella sua realtà e nella sua tradizione. Pur restando sempre un popolo in fuga. L'Italia meridionale è stata attraversata dalla storia degli albanesi in fuga.

Le diverse comunità che ancora vivono nelle Regioni del Sud sono una testimonianza emblematica di una civiltà che ha lasciato ormai segni indelebili. Molte altre comunità sono nate come comunità albanesi ma poi si sono italianizzate. Un rapporto tra culto e storia, tra ereditarismo e cultura della tradizione oggi diventa fondamentale.
Il mito da conservare non basta. Le civiltà difendono le loro tradizioni facendo conoscere la storia e trasmettendola. E' questioni di radici e di senso dell'appartenenza. I simboli parlano. Ma con i simboli che rappresentano queste comunità bisogna anche parlare. La parola è linguaggio e il linguaggio si porta dentro storia e tradizione. Un mito che ha attraversato secoli e culture.

Così Ernesto Koliqi: “L’Europa stupiva alle gesta temerarie del Condottiero albanese. Il suo nome, cinto da un alone mitico, volò di contrada in contrada…”. Cantato, raccontato, recitato. Dall’Albania ai paesi italo – albanesi. Un simbolo di libertà nel rispetto di una tradizione che è difesa dell’identità di un popolo.

Basta citare, per tutti coloro che lo hanno “attraversato”, il Canto tradotto e curato da Girolamo De Rada. Struggenti i versi che recitano “La morte di Scanderbeg”: “S’alzò lento e triste il giorno/tutto nebbie e nubi grosse:/pareva che il ciel piovono/pien d’indizi neri fosse.//E con l’alba nuova il cielo/sorse un ululo che invase/come raffica di gelo/terra e mare e cuori e case”.
Nell’ultima quartina è una “pagina” di malinconica consolazione: “Aprì il cielo l’alte soglie/all’Eroe senza ventura/che soltanto lassù coglie/ricompensa imperitura”. E’ dunque vero che la letteratura ha interpretato la vita e la morte di Scanderbeg attraverso modelli certamente storici ma anche profondamente lirici. Resta un dato di fatto importante.

Nella letteratura Scanderbeg resta la metafora del condottiero che ha combattuto per scacciare i turchi dall’Albania e per dare la libertà al suo popolo. Ma queste imprese, che esulano dalla metafora perché sono dati reali che rimangono nella storia, hanno un principio fondante che è quello di dare un senso identitario ad una Nazione che veniva costantemente lacerata nella sua storia e nei suoi valori.

Storia e valori che conducono direttamente ad un impegno che è stato quello di proporre una cultura cristiana come baluardo nella avanzata dei turchi. Mi sembra questo uno dei temi toccanti nel destino di un popolo e di una civiltà. Anche oggi è impensabile capire il ruolo di Scanderbeg senza entrare nel di dentro di questa visione. La letteratura lo ha “liricizzato” certamente ma nei processi storici non può che essere individuato come un riferimento nella certezza dei valori cristiani.

In una tale tessitura è chiaro che il concetto di Mediterraneo, qui anche come metafora della unione tra sponde, è una chiave di lettura in una prospettiva moderna, nella quale il destino stesso di un popolo trova quasi una forma empatica con il destino della civiltà mediterranea. Scanderbeg resta, da questo punto di vista, un vero e proprio protagonista. L’Occidente come destino. Ma questo Occidente è un Occidente cristianizzato.
Le forme antropologiche possono qui avere un loro senso se dentro la storia che si va a sezionare si ha la capacità, il coraggio, la forza di leggerla con quei parametri che ci ha insegnato un grande della storiografia contemporanea, ovvero Renzo De Felice. Anche in Scanderbeg e nel suo passaggio tra Islamismo e Cristianesimo non ci sono parentesi. La storia va letta e interpretata nella sua complessità.

Proprio da questo punto di vista Scanderbeg resta un personaggio che continua a vivere nella nostra contemporaneità e in un tempo in cui Europa, Occidente, Mediterraneo e sponde d’Oriente sono un intreccio di processi che vanno capiti, compresi, approfonditi ma sempre fuori da logiche ideologiche (o giustificazionistiche) e da fondamentalismi che non appartengono ormai alla storia recente della cultura cristiana.
 

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pubblicato il 1 Dic 2007

SULLE ROTTE DEL MEDITERRANEO

La lingua, le etnie e la letteratura: Il mare, il viaggio e le culture in Italia

di PIERFRANCO BRUNI



I popoli che vengono dal mare

Dal mare dei Greci di Cesare Pavese ai Sardi e Catalani di Maria Carta, di Elio Vittorini, di Fabrizio De André, dagli Italo – Albanesi di Carlo Levi agli Albanesi di Kodra, dai Friulani Pier Paolo Pasolini agli Occitani di Mistral.

Con l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica la ricerca di Pierfranco Bruni, dedicata a lingua, letteratura,al viaggio e al mare, ai linguaggi etno – letterari, sottolinea: "Dalla indifferenza alla nostalgia. I segni e le etnie tra linguaggi, tradizioni e beni culturali".

Identità e culture sommerse: un dialogo che non può interrompersi. Il mare, le letterature, la musica, la lingua italiana e i linguaggi popolari lungo le eredità etno - antropologiche. Il tema del viaggio e del sentimento del tempo in una ricerca che pone all'attenzione le culture sommerse presenti nella storia e nella cultura italiana. La lingua italiana nel tessuto delle eredità etniche e popolari della cultura italiana grazie ad un incontro di metafore: il mare e il viaggio. L'etnia sarda e "genovese" di Fabrizio De André, il mondo Occitano di Mistral, il Friulano di Pasolini, gli Italo-Albanesi di Carlo Levi, la Grecità sommersa di Pavese sono solo alcuni degli elementi che campeggiano nello studio di Pierfranco Bruni pubblicato per conto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dal Comitato Minoranze Etnico – Linguistiche, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica.
La ricerca si sofferma sul rapporto tra, lingua e linguaggi, letteratura, beni culturali ed etnie grazie ad una analisi di scrittori, poeti e artisti che si sono confrontati con la lingua, la tradizione e il territorio in una geografia di identità e diversità.

Lo studio ha come titolo: "Dalla indifferenza alla nostalgia. I segni e le etnie tra linguaggi, tradizioni e beni culturali". Si tratta di un cesellare linguaggi e poetiche all'interno di una visione nella quale il valore etnico costituisce una chiave di lettura fondamentale tra le pieghe dei linguaggi.
Il confronto tra i testi di Fabrizio De André che scava nel tessuto letterario e linguistico sardo e la geografia che Cesare Pavese descrive abitando la grecità dei grecanici di Calabria costituisce una originale interpretazione dello stesso valore etnico dei territori. Così la lettura che offre Carlo Levi tra i luoghi Italo – Albanesi della Lucania o il mondo catalano "dipinto" da Elio Vittorini sono particolari significativi nella storia di una civiltà.
Pierfranco Bruni indaga tra le pieghe di questi scrittori e poeti proponendo una lettura di spessore estetico – letterario oltre che antropologico.
Il lavoro, arricchito da immagini e testimonianze fotografiche, rientra nelle attività che svolge il Comitato e che sono rivolte alla promozione e alla ricerca dei patrimoni culturali delle minoranze etniche presenti in Italia.
Il Comitato del MiBAC ha svolto un intenso lavoro i cui risultati sono tutti documentati in pubblicazioni e i riconoscimenti sono venuti da diversi ambienti. Di recente è stato insignito, insieme ad organismi come l'Unesco e la Rai, di alti apprezzamenti culturali.

Pierfranco Bruni, in riferimento all'ultima ricerca, ha sottolineato: "E' certamente un progetto importante che spazia in quella cultura letteraria che racchiude motivazioni linguistiche, esistenziali, antropologiche. Soffermarsi sul rapporto tra letteratura ed etnie, in un contesto mediterraneo, è recuperare un rapporto tra i luoghi e i linguaggi all'interno di quei processi etnici che pongono al centro il sentimento delle radici e la comprensione di un dialogo tra identità e diversità in una dimensione in cui il tema del mare – viaggio diventa fondamentale".
In questa nuova ricerca il percorso è tracciato con una interpretazione letteraria attraverso rapporti tra beni culturali e territorio in una sottolineatura geo – mediterranea qual è quella delle realtà minoritarie in Italia.

Storia, etnie, lingua e letteratura incontrano la metafora del mare.

Tra gli scrittori presi in esame ci sono Cesare Pavese e il suo rapporto con i Grecanici di Calabria durante il suo confino (1935 - 36) a Brancaleone (in provincia di Reggio Calabria), dal quale è nato il suo romanzo dal titolo Il carcere, Elio Vittoriani per il suo viaggio in terra di Sardegna e in particolare per la capacità di leggere la cultura Sarda e soprattutto Catalana con il libro Sardegna come infanzia, Carlo Levi, confinato, anch'egli negli stessi anni come Pavese, in Lucania ha raccontato frammenti della cultura Italo – Albanese in Cristo si è fermato ad Eboli e in particolare ha lasciato un segno tangibile della sua passione per questa comunità con il sul ultimo lavoro pittorico dedicato a tre ragazzi in costume Arbereshe, Pier Paolo Pasolini e il suo amore per la lingua e la cultura friulana con il testo Poesie a Casarsa, le quali restituiscono al mondo friulano la tessitura di una profonda realtà contadina e Mistral: simbolo della cultura e della storia Occitana con i suoi racconti provenzali. Un capitolo importante è dedicato anche a Maria Carta e il suo canto rituale sardo, così come resta significativa l'interpretazione sui linguaggi offerti dai testi del cantautore Fabrizio De André.

"Si tratta di un confronto tra scrittori, sottolinea Pierfranco Bruni, e un contestuale approfondimento della loro interpretazione rivolta ai processi etnici e antropologici in una chiave di lettura sia etno – linguistica che etno – letteraria. Etnie di mare e di terra, le cui matrici sono ancora rappresentate all'interno dei vari contesti territoriali italiani. Un intreccio per capire come la letteratura si è confrontata non solo con la lingua ma anche con la storia dei luoghi. Scrittori che incontrano il territorio, un territorio le cui eredità sono, in parte, collegabili con il Mediterraneo e in parte con intagli nella storia Provenzale ma la lingua resta sempre un sicuro punto di riferimento anche se nella ricerca i legami con i beni culturali sono abbastanza evidenti".

"Dalla indifferenza alla nostalgia. I segni e le etnie tra linguaggi, tradizioni e beni culturali" è un testo significativo perché pone all'attenzione un dialogo tra questioni letterarie e problematiche riferite ai beni culturali. Infatti, restano importanti, tra l'altro, alcuni capitoli inerenti gli aspetti archeologici e la visione storica dei beni culturali.

"Un lavoro importante, aggiunge Bruni, che non si limita alla sola dimensione etnica ma il raggio interpretativo è abbastanza articolato e presenta elementi singolari e importanti come il rapporto tra territorio, lingua, archeologia e letteratura. Un viaggio nella comprensione e nella lettura dei linguaggi. Linguaggi che non vanno letti soltanto attraverso codici folcloristici ma bisogna dare loro spessore letterario ed estetico. Focalizzare l'attenzione sull'analisi solo antropologica o storica non rende verità a un processo complessivo su quelle culture che vivono su un tessuto di contaminazioni. La letteratura è un riferimento importante che si colloca all'interno di una visione ampia ed esteticamente valida proprio in termini di rilettura etno – letteraria ed etno - antropologica".

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pubblicato il 1 Set 2007

Una cultura tra identità e futuro

Salviamo la lingua Arbereshe dall’Albanese.

di Pierfranco Bruni



Nel discorso riguardante le presenze di minoranza etnico – linguistica in Italia si pongono dei problemi sia riguardante la lingua sia l’aspetto inerente la questione etno – antropologica vera e propria. Per ciò che riguarda quest’ultima si avverte la necessità di una visione comparata tra la realtà minoritaria insediatasi in un terminato territorio e le culture autoctone. Una comparazione che diventa confronto e mai chiaramente omologazione. L’aspetto antropologico chiama in causa elementi storici, letterari, musicali, archeologici, artistici.

È naturale che sia così. Le comunità minoritarie si sono ben integrate all’interno del tessuto di accoglienza pur mantenendo fede ad una “norma” identitaria ben definita. Ed è giusto anche che sia così. Le identità e le appartenenze costituiscono una chiave di lettura forte per penetrare la storia di un popolo all’interno di una civiltà.

Tra le presenze minoritarie c’è quella Italo – albanese (e qui entriamo nell’altro problema) che si mostra con un “repertorio” ereditario consistente che proviene da due sponde. L’incontro tra Oriente ed Occidente resta fondamentale e deve continuare a manifestare tasselli di cultura. Adriatico e Mediterraneo sono un incontro fondamentale. Ma qui si pone un’altra questione che è quella della lingua.

La lingua Italo – albanese può essere completamente assimilabile con quella albanese? Il problema si è posto, il problema si pone ma ci sono scuole di pensiero che sottolineano cesellature significative. Il dato centrale è quelle di tenere viva la cultura Italo – albanese e con la cultura la lingua stessa che è quella parlata all’interno delle comunità e non una lingua ufficiale vera e propria. Non credo che possa essere possibile un processo linguistico che porti ad una "lingua" unificata arbëreshe nelle aree territoriali Italo-albanesi. E non è soprattutto pensabile, e tanto meno auspicabile, che questa lingua unificata possa essere l'Albanese d'Albania.
Ci sono tentativi - sul versante "lingua albanese d'Albania" - che occorre bloccare immediatamente, se non si vuole portare alla deriva non solo la lingua Arbreshe ma anche la sua cultura e quei valori che provengono dalla tradizione che ogni territorio riesce ancora ad esprimere e salvaguardare.
Bisogna tutelare l'Arbresh nella sua articolazione territoriale e difenderlo culturalmente da forme di accerchiamento accademico e di verticismo, che porterebbero alla morte di una lingua arbreshe che è espressione, tra l'altro, di identità e, quindi, di appartenenza a quell'essere territorio che è la vera caratterizzazione di una comunità.
Ci sono fattori di ordine prettamente culturale nel rifiutare, a priori, la sostituzione delle "parlate" Arbreshe con la lingua albanese. La lingua Arbreshe, pur nelle sue contraddizioni, resiste proprio perché è diversità, proprio perché è dentro una dimensione in cui ci sono due elementi-chiave: l'etnia come relazione ad una appartenenza territoriale e la lingua che si è consolidata in un meticciato con il territorio della comunità. Nel volerla forzatamente sostituire, si assisterebbe ad uno sradicamento straziante anche dal punto di vista antropologico e non solo linguistico o lessico - espressivo.
Non è consentito avviare alcun processo di sostituzione, perché si aprirebbe la strada al devastante modello di conformismo e di sconfitta di quelli che oggi chiamiamo archetipi di appartenenza ad un luogo. Questi archetipi sono formati anche dalla lingua. Non possono essere dimensioni omologanti. E tanto meno si può pensare di omologare l'Arbresh all'albanese.
Non si tratta di sostituire/uniformare una lingua soltanto. Si andrebbe ad uniformare una storia, una cultura e addirittura una eredità e una appartenenza.
Ci sono fattori giuridici che non possono passare inosservati. Fino a quando si discute e si dettano ordinamenti per la tutela delle minoranze etnico-linguistiche è un fatto. Un discorso disgregante, con connotazioni politiche, comporterebbe la tutela e la valorizzazione di una lingua ufficiale di un altro Paese e di un'altra Nazione. Si creerebbe, in questo caso, una vera e propria isola linguistica all'interno della lingua italiana. Ciò non è ammissibile in virtù sia del dibattito inerente alla modifica dell'articolo 12 della Costituzione sia in materia inerente alla L.482/99, istituita per tutelare le minoranze etnico-linguistiche e non la lingua di un altro paese.
Sono più che convinto che la L. 482 va rivista e modificata, ma per altri motivi, che dovrebbero sempre più interessare le minoranze storiche. Si tratta di una normativa sbagliata già dal suo nascere. Attenzione, perché si parla di minoranze storiche e non di conflitti tra lingue o di minoranze post-moderne. Anche la questione legata alla lingua deve tenere conto di fattori storici.
E su questo credo che dovrebbero esprimersi pareri sia in sede Unesco sia in sedi parlamentari sia nelle sedi riguardanti la Società Dante Alighieri, che svolge un ruolo importante nella promozione e tutela della lingua italiana. Vanno tutelate chiaramente e fortemente le lingue e le culture minoritarie ma non “sostituite” e non assimilate con lingue nazionali.
Un intervento serio sarebbe invece quello di tutelare sempre più, nei vari organismi, la lingua Arbreshe. Oggi fare un discorso di altra natura sarebbe addirittura antistorico e, chiaramente, risulterebbe viziato ideologicamente.
C'è, invece, una tradizione che va difesa, c'è un modello di appartenenza che resta sempre più legato al luogo e alla comunità. Ci deve essere rispetto nei confronti di una cultura popolare che trova il suo humus nel territorio, dove ha intrecciato legami umani e culturali.
Si pensi, dunque, all'Arbresh e a far vivere l'Arbresh e non a sostituirlo con la lingua albanese. L'Arbresh è "diversità", come tutte le culture minoritarie, e "si tutela nella diversità", come direbbe Pier Paolo Pasolini, grazie a quelle parlate che hanno trovato il loro tessuto all'interno dei territori.
L'Arbresh deve diventare sempre più la lingua di un luogo (o delle comunità), e non la surrogazione di una lingua ufficiale, che è lingua di un'altra Nazione. L'Italia tutela le presenze minoritarie ma non può istituzionalizzare una lingua che non appartiene antropologicamente alle comunità Italo-albanesi.

Bisogna insistere sul fattore “diversità” perché è proprio il valore della diversità che rende ricca culturalmente una minoranza. L’intreccio tra il senso di appartenenza e i valori ereditari fanno una etnia una risorsa proprio perché riescono a mantenere non assimilabile un patrimonio.

La loro diversità è completezza di una cultura. Ci sono gruppi di popolazione Italo – albanese che hanno dato vita ad un hmus territoriale. Una civiltà che non ha mai smesso di confrontarsi con il territorio circostante. La cultura Italo – albanese resiste perché ha espresso una sua autonomia dalla storia dell’Albania stessa pur derivando da principi e fattori scanderbeghiani. Il punto è proprio questo.

La lingua non è soltanto una sintassi, una morfologia, una grammatica. Una lingua è un sostrato etno – antropologico formatosi e rafforzatosi all’interno della comunità stessa dei parlanti. La grande storia degli Italo – albanese è dentro l’incontro tra Oriente ed Occidente non solo dal punto di vista culturale, artistico e religioso ma anche linguistico.

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pubblicato il 2 Lug 2006

LA DONNA VALDESE

di Maria Zanoni

Parlare del ruolo della donna nella storia della società e nella comunità valdese, in occasione della presentazione del volume “Ricchi nella fede e poveri in spirito” di Aceto, Bevilacqua e Guido, qui a San Sisto dei Valdesi, un grazioso paese guidato da un dinamico sindaco-donna, in una struttura storica, palazzo Miceli, bene culturale prezioso da valorizzare, ha un fascino particolare.
Il merito più grande di questo volume sta nell’opera di ricerca delle radici della comunità di San Sisto dei Valdesi, nell’affermazione della memoria storica, importantissima per il recupero dell’identità dei luoghi e delle persone, per non dimenticare le nostre origini, l’identità religiosa, culturale e la lingua (bene culturale da tutelare, per impedirne la totale scomparsa).
Nei paesi di cultura valdese la lingua, le tradizioni, i costumi, la religione comunicano identità storiche e valori attraverso i quali si può ricostruire un significativo patrimonio storico e di civiltà.
L’identità della cosiddetta minoranza valdese affonda le sue radici in dimensioni antropologiche, storiche e religiose e di moduli linguistici a queste ancorate.
Qui rispetto a Guardia Piemontese solo qualcuno parla l’occitano, le giovani generazioni non conoscono affatto la lingua e la storia dei loro padri.
Perciò, le giovani ricercatrici, con il patrocinio della provincia di CS, hanno fatto una intelligente operazione di promozione culturale del territorio, che segue a ruota l’interessante e puntuale saggio di Antonio Perrotta sui Valdesi a San Sisto e nell’hinterland, teatro nel lontano nel 1560 di una delle più spaventose carneficine nella storia dei movimenti religiosi.
L’importanza di questo volume sta nel coraggio delle tre Autrici di indagare in un terreno accidentato, per troppo tempo considerato scomodo e difficile.
Già dal titolo “Ricchi nella fede e poveri in spirito” il testo lancia un messaggio significativo.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice “Beati i poveri in spirito”.
Ma i poveri di cui parla non sono quelli che la società ha reso poveri, ma quelli che volontariamente scelgono la condizione di povertà per eliminare la radici della povertà dalla condizione degli altri.
Si mette in evidenza il rispetto dell’altro, l’importante missione, di maestri e guide nella fede, di qualsiasi religione si parli.
D’altronde, dogmi, canoni, riti e liturgie religiose sono stati definiti secoli fa, in contesti storici, sociali, economici e culturali del tutto differenti e di minor progresso civile rispetto ai nostri giorni.
Oggi, invece, si assiste alla presenza di fedi religiose diverse, aggiuntesi a quelle già esistenti, accolte quasi sempre con tolleranza, a volte con indifferenza.
In questi ultimi tempi si cerca il dialogo e la collaborazione tra culture, religioni ed etnie diverse. Ma il dialogo antepone il rispetto della comune eredità di tutte le religioni, il profondo rispetto del sacro.
Infatti,Giovanni Paolo II° in occasione del Giubileo del 2000, ha affermato che tutta la Chiesa ha sentito il dovere di chiedere perdono al mondo, di riesaminare il suo passato per riconoscere le incoerenze in cui sono incorsi i suoi figli.
Una nuova consapevolezza storica, un contributo forte alla pace e alla comprensione reciproca.

Ed ora, fatta questa premessa, mi soffermo a fare qualche riflessione sul ruolo della donna valdese, che l’agevole lettura del libro mi ha stimolato.

Per parlare dell’evoluzione della donna valdese, non si può fare a meno di parlare, seppure sinteticamente, delle trasformazioni fondamentali della società nelle sue strutture sociali, economiche e ideologiche.
Le trasformazioni del ruolo (sia che la donna appartenga ai Valdesi o meno) vanno di pari passo con i mutamenti della società, delle relazioni tra uomini e donne e sono sempre in funzione delle eredità familiari, culturali e religiose.
Nella storia del genere umano, fino ad oggi, ancora esiste il dualismo maschile femminile; e nella società del terzo millennio ancora a dominio maschile, la cittadinanza della donna rimane incompiuta, seppure dopo tante lotte sia stata affermata una nuova identità.
Noi donne oggi godiamo di grandi spazi di libertà e di maggiori diritti conquistati tramite le lotte delle nostre bisnonne che hanno dovuto sopportare soprusi, violenze e spargimento di sangue in una società in cui l’uomo ha sempre detenuto il primato di superiorità.
La condizione esistenziale della donna nel tempo è stata in continua altalena tra la totale – o quasi – subordinazione al maschio (padre, marito, fratello o amante che fosse) e l’affermazione di maggiore potere, di un ruolo centrale, già rivestito all’interno della famiglia.
Nella società tradizionale se la donna da un lato è priva di potere nella sfera pubblica, all’interno della famiglia ha un ruolo determinante, sia come educatrice dei figli, sia come colei che coordina i rapporti tra i membri della stessa.
Uno dei punti determinanti del ruolo della donna , oltre lo stato economico-sociale, è la cultura religiosa.
Purtroppo, infatti, le donne sono state per lungo tempo considerate inferiori all’uomo e lasciate ai margini della società, senza che fosse data loro la possibilità di agire liberamente e di dare un contributo concreto e valido al progredire dell’umanità.
Il mondo religioso in particolare è stato un settore riservato quasi esclusivamente al mondo maschile, soprattutto se parliamo del 1500 e dell’epoca della Riforma religiosa che investì l’Europa.
Se pensiamo che gli innovatori della Riforma furono tutti uomini, da Lutero, a Calvino, a Zuingli, a Enrico VIII in Inghilterra, ci sembra che pochi personaggi femminili hanno avuto un ruolo importante nella storia,
Invece esiste una serie di donne, tra cui personaggi famosi come Elisabetta I d’Inghilterra o Caterina da Genova, e una serie di donne comuni che, sfidando le abitudini dell’epoca in cui vissero, decisero di seguire un percorso nuovo ed innovativo.
Ci furono donne che diedero un contributo notevole allo sviluppo della società, trovando il coraggio di rompere gli schemi della società stessa in cui vivevano.
Nel XVI° sec. infatti, per le donne che volevano o dovevano intraprendere la vita religiosa, l’unica possibilità era quella di farsi monache, costrette al sacrificio, nella clausura rigorosa, nell’astinenza e nel silenzio.
In quel tempo la situazione sociale e politica dell’Italia, e della Calabria in particolare, gravata dal predominio spagnolo, era disastrosa.
Ma proprio tra le comunità di fede valdese la condizione femminile andava cambiando.
La prima e fondamentale riforma che allora s’imponeva era quella del costume: la nuova generazione femminile doveva essere religiosamente educata a resistere alle attrattive della seduzione.
Lo scopo in quell’epoca rinascimentale in cui la vita veniva considerata da troppi esclusivamente fonte di piacere, era quello di far rivivere, la santità, la purezza, l’operosità benefica delle antiche vergini dei primitivi tempi cristiani.
Il momento di svolta più importante nella storia dei valdesi è costituito dalla loro adesione alla Riforma nel 1532; allora i seguaci della teologia di Calvino, uscirono dalla clandestinità ed entrarono ufficialmente nella scena politica europea.
E da quel momento politica e teologia si legavano fortemente.
I Valdesi radicalizzarono la loro separazione da Roma, costruirono le prime chiese e introdussero il culto pubblico.
Ma la svolta principale fu la riqualificazione ministeriale della donna: anche la donna valdese cominciò a predicare e ad insegnare (e questo fu uno dei motivi più forti della scomunica).
Dal Medioevo la maggior parte delle valdesi venne bruciata con l'accusa di stregoneria: la parola 'valdesia' significava 'stregoneria'.
Giovanna d'Arco, venne mandata al rogo anche per 'valdesia'.
Nel Medioevo la donna venne demonizzata come creatura malefica, bugiarda, ribelle e, quindi, facile preda del demonio.
Ma le accuse di stregoneria erano spesso motivate da invidie ed interessi personali, per colpire personaggi scomodi, donne con idee innovatrici ed originali, che guarivano le malattie utilizzando erbe medicinali.
La persecuzione contro la stregoneria si confuse a quel tempo con quella contro l’eresia.
La vita delle donne in Calabria a quel tempo era quella di creature robuste, abituate al lavoro duro dall’alba al tramonto nelle famiglie patriarcali.
E mentre le ragazze valdesi venivano istruite, le altre restavano analfabeti o quasi, a lavorare nei campi.
Le donne dei Valdesi, obbedienti e caste, erano spose rispettose, alter ego dei mariti.
La severità della loro credenza religiosa, fatta di semplicità e di castigatezza delle usanze, basata sulle regole di povertà, castità ed obbedienza, si rispecchiava anche nel costume indossato.
Il lavoro incessante delle donne valdesi, per conquistare grande visibilità sin dal 1500 quando il ministero della parola era riservato soltanto agli uomini è continuato nei secoli.
Solo nel 1962 il Sinodo, sulla base di relazioni teologiche di grande rilievo, dichiara a grande maggioranza che la Chiesa non può negare la vocazione al sacerdozio, sia dell'uomo che della donna.
La prima consacrazione femminile è di una pastora siciliana nel 1967.
Ancora oggi, come afferma Maria Bonafede, la nuova moderatora delle chiese valdesi e metodiste, la prima donna a capo dell’esecutivo, sono poche le donne valdesi che rivestono incarichi di prestigio.
In conclusione, auguriamo come a tutte le donne del mondo anche alle donne valdesi di conquistare sempre maggiore visibilità, rispetto e dignità.

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