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EDITORIALI
Etnie pag.
1
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editoriali,
recensioni e saggi su Etnie
le minoranze
etnico-linguistiche storiche in Italia
Etnie di Calabria
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pubblicato il 4 Ott 2008
SHTJERRI: TRADIZIONE ARBERESHE
Per la
valorizzazione della tradizione dello "Shtjerri"
(giostra dell'agnello)
di Maria Zanoni
E' stato presentato a
Spezzano il volume di Giuseppe Acquafredda "Per lo
studio e la valorizzazione della Tradizione
spezzanese dello Shtjerri".
All'incontro, promosso dal Bashkim Kulturor Arberesh
e coordinato dal presidente del BKA, Pino De Rosis,
sono intervenuti gli Antropologi: Gualtiero Harrison,
Cesare Pitto e Maria Zanoni. L'assessore regionale
al Turismo e Minoranze, Damiano Guagliardi, ha
concluso i lavori.
Riportiamo la prefazione di Maria Zanoni al
volume.
Lo Shtjerri, tradizionale “giostra
dell’agnello”, appartiene al prezioso patrimonio
culturale di Spezzano Albanese che va conosciuto e
degnamente valorizzato. È questo il senso principale
che affiora dal lavoro di ricerca di Pino
Acquafredda, affrontato con la nota passione di
studioso di storia locale, d’indole buona,
sensibile, profondamente attaccato alla sua terra.
L’intento storicizzante della ricerca si propone
come occasione di riflessioni, confronti e ulteriori
sviluppi di discussione di carattere antropologico
su aspetti e simbologie del rito popolare, che varca
i confini territoriali.
L’assunto portante di questo lavoro sta nell’aver
coraggiosamente superato la credenza (forse assai
radicata nell’immaginario collettivo) che la giostra
dell’agnello del martedì di Carnevale si colleghi
alla rievocazione della storia degli Arbëresh. Il
rito carnascialesco spezzanese è coevo e analogo ad
altri tornei, di derivazione medioevale, diffusi in
tutta la penisola, e soprattutto nel regno di
Napoli, sin dal Seicento.
Una chiave di lettura, questa di Acquafredda, non
certamente superficiale. Una prospettiva di ricerca
che supera la connotazione statica di identità
culturale e può ridisegnare nuovi percorsi di
diffusione culturale.
La tradizione dello “Shtjerri” vive nel presente e,
con le varianti che ne sono parte consustanziale,
affonda le radici nel passato, nella cultura del
popolo arbëresh, in cui si riscontra la forma
sistematica di un sapere collettivo.
Il torneo cavalleresco potrebbe essere una forma,
rivisitata in chiave medioevale, degli antichi riti
propiziatori legati al ciclo della natura ed ai
lavori agricoli.
Nella società medioevale giostre e tornei erano il
mezzo con cui si festeggiavano gli avvenimenti più
graditi (il carnevale e le feste patronali),
un'occasione per invertire temporaneamente i ruoli
sociali. Il mito carnevalesco dell’inversione dei
ruoli fa sì che popolani e nobili si divertano a
mescolarsi tra la folla festante.
Ma il torneo non è soltanto un gioco o un apparato
cavalleresco scenografico, è anche segno di
distinzione ed espressione di potenza del casato
nobiliare.
Elementi laici e componenti religiose confluivano in
un rito collettivo che nasceva dalla sfera
spirituale ed ideologica del popolo. Nella stessa
occasione si intrecciavano momenti penitenziali, di
purificazione, e momenti di gioia (morte e
resurrezione).
Le giostre carnevalesche, col sacrificio
dell’animale, con il sangue (che sia d’agnello, come
a Spezzano, che sia di maiale, come a Cassano, o di
castrato come a Longobucco, gallo o tacchino a Palo
del Colle, appartengono anch’esse ai riti
propiziatori di purificazione ed espulsione delle
forze malefiche, di origine pagana, in cui la
tradizione cavalleresca si fonde col mito agrario.
La festa diventa rito propiziatorio e la sua
riuscita presagio del futuro raccolto in una terra
ad economia prevalentemente agricola.
Nella gara dell'anello (equis anulum currere) quante
più volte il cerchio di metallo, appeso al naso
dell’animale, simbolo di fecondità, viene infilzato,
tanto più sarà abbondante il raccolto.
Il gesto del cavaliere, che galoppando di corsa deve
riuscire ad infilare la lancia nell’anello, è
simbolo di fecondazione, diventa metafora della
terra fecondata che porterà buoni frutti.
Un rituale che vuol essere simbolo di abbondanza, ma
non esclude una (più o meno latente) componente
sessuale.
Cavalcate cerimoniali, tornei e giochi d’arme, anche
a Spezzano, come a Stilo, come a Siena, a Oristano
ed in tanti altri paesi hanno derivazioni iberiche,
oltre che autoctone.
Già molto numerose durante i secoli XII e XIII, in
tutte le città grandi e piccole, nella seconda metà
del Cinquecento le giostre risentono delle nuove
idee sociali e politiche.
Nel 1600 vigeva ancora un rigido sistema feudale
fondato sulla netta divisione tra le classi sociali.
Da una parte i feudatari e i loro dignitari che
esercitavano un potere assoluto, dall’altra il
popolo “fedele vassallo” sottoposto ad ogni forma di
angherie, gravato da balzelli e da tasse.
La seconda metà del Seicento è l'epoca delle grandi
giostre barocche, con le quali la nobiltà locale
ribadiva la sua supremazia sugli altri ceti sociali.
Gare e giostre cavalleresche, con grandi tavolate
finali, sono testimonianza di complessi processi di
natura sociale e psicologica, pienamente incardinati
nelle dinamiche relazionali e multilaterali delle
società di tutti i tempi.
Tali manifestazioni, dal carattere fortemente
agonistico, erano importantissime anche sotto il
profilo economico, in quanto incrementavano le fiere
stagionali, che rappresentavano momenti di festa, di
contatti e di incontri.
E tradiscono un’autentica tradizione agro-pastorale,
in cui agnello e cavallo avevano grande importanza
nell’economia del territorio. Il vero soggetto
protagonista di giostre, tornei e palii, in effetti
è il trinomio cavaliere-cavallo-agnello.
Con il loro linguaggio simbolico e comunicativo
queste manifestazioni, inglobando le più antiche
espressioni della festa aristocratica e popolare,
davano la dimensione della dinamicità della società
del tempo.
E Pino Acquafredda lo ribadisce bene nella sua
ricerca.
In questi rituali che sopravvivono alle
cancellazioni del tempo, sono presenti antichi
valori umani ed elementi culturalmente significanti
per scavare nel nostro passato remoto e ritrovare il
nostro senso di appartenenza.
Nella foto da sin: Loredana Farina,
Dip. Antropologia Unical, Maria Zanoni, ricercatrice
di Antropologia Comitato Nazionale MiBAC, Gualtiero
Harrison, Ordinario di Antropologia Culturale
Università Suor Orsola Benincasa (Napoli), Damiano
Guagliardi, Assessore Regionale Alle Minoranze
Linguistiche e Cesare Pitto, Ordinario di
Antropologia Culturale all'Università della
Calabria.
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pubblicato il 2 Ott 2008
Il
Mediterraneo e le Etnie storiche in Italia.
La cultura Arbereshe
di Pierfranco Bruni
I
paesi che registrano usi, costumi, lingua,
tradizione e storia arbereshe in Italia sono 50. In
Puglia ce ne sono tre. Nella sola Calabria ci sono
33 comunità arbereshe. I beni culturali, di questi
paesi, rappresentano una chiave di lettura per un
processo non solo di conoscenza ma soprattutto di
valorizzazione e di fruizione sia sul piano
scientifico che didattico – pedagogico. La
conoscenza del loro patrimonio è conoscenza dei
territori nei loro elementi di raccordo tra passato
e presente e tra presente e sviluppo culturale. Sono
interessati Regioni come la Puglia, la Calabria, la
Sicilia, La Basilicata, la Campania, il Molise,
l’Abruzzo.
Ci sono beni culturali e testimonianze storiche che
hanno una loro progettualità culturale marcata
dovuta ad un intreccio non solo epocale che si
portano dentro, ma soprattutto ad una consapevolezza
che proviene da una interazione di civiltà.
Soprattutto in alcune realtà meridionali questo
sentire storico e civile è profondamente rimescolato
da processi che sono etnici, antropologici,
religiosi. Mi riferisco, dunque, ai beni culturali
dei paesi (o delle comunità) arbereshe.
Non è che abbiano, questi beni (e guardo con
interesse alle chiese, ai conventi, ai monasteri,
alla realtà ambientale e paesaggistica dei paesi
stessi), una loro strutturazione scollegata dalla
storia monumentale e architettonica greco –
bizantina tradizionale ma l’incontro tra la
tradizione e la “modernità” greco – bizantina ha
sviluppato una realtà storica che ha connotati
orientali.
E i riferimenti che si leggono sui monumenti dei
paesi albanofoni hanno non solo questo richiamo
grecanico e di matrice bizantina ma la loro storia
patrimoniale e culturale è strettamente legata ad
una identità religiosa. E’ come se i beni culturali
fossero l’espressione costante di un culto. In
realtà costituiscono una testimonianza di una
spiritualità non solo di un popolo ma anche di un
tempo. Si pensi alla diffusione mariana che è
collegata ad una struttura di chiesa madre ben
evidenziata dalla facciata aperta e dagli spazi
circostanti.
C’è, insomma, uno stretto legame, nei beni culturali
dei paesi albanesi d’Italia, tra il patrimonio
architettonico e il culto. Questo vuol dire che i
beni culturali rappresentano, in tali territori, una
espressione della condizione liturgica che si
manifesta nella simbologie delle strutture. C’è da
precisare un fatto che è significativo per queste
comunità e si legge come un dato laico. Il centro
storico è quasi sempre il centro abitato e il centro
abitato è quasi sempre nel centro storico.
Una splendida visione del genere si registra a
Civita. Ma penso anche a Farneta, ad alcuni ambienti
di San Marzano di San Giuseppe, ad alcuni paesi
della siciliana Piana. Penso al paesaggio – presepe
di San Paolo in Basilicata o a Ururi. Cioè il bene
culturale che si percepisce nella storia delle
abitazioni diventa una manifestazione della
vivibilità e quindi una manifestazione del
quotidiano e mai un retaggio antropologico. Ed è un
fatto positivo che incide su quattro aspetti. Uno
sociologico. Uno storico. Uno artistico. Uno
documentario.
Cultura e tradizione popolare. Un intreccio che ci
riporta memoria e nostalgia attraverso la
affermazione dell’identità del popolo. In realtà la
storia ma tutta la tradizione popolare calabrese,
che passa attraverso i segni della memoria, ha come
laboratorio il dato educativo. Ma è anche un
costante confronto con il territorio. Gli obiettivi
sono proprio questi. Ricostruire la storia grazie ad
alcuni fatti significativi (che si leggono in
termini antropologici) e imporsi con un apparato che
è quello dell’immagine popolare.
Rimpossessarsi dell’immaginario collettivo per dare
senso al valore del passato nel presente e quindi
nel futuro. Dalle feste religiose (da quella di San
Francesco di Paola a quelle dei paesi Arberesh) a
quelle laiche (il carnevale, l'uccisione del maiale,
l'intreccio che si vive durante la Settimana Santa).
Usi e costumi. La leggenda si intrappola nella
realtà e questa vive tra i frammenti dei ricordi che
formano il mosaico, appunto, della memoria. Una
memoria lunga come sono lunghi gli anni che ci
dividono dalla prima giostra del maiale. Anni lunghi
nella vita breve delle memorie di una civiltà che
nonostante tutto sopravvive a se stessa nei cuori
delle generazioni.
Il sacro delle liturgie della Settimana Santa che
trova nell’immagine dei Sepolcri una delle chiavi di
lettura che resiste ad ogni nubifragio di modernità.
L’uccisione del maiale e la Settimana Santa sono,
comunque, una espressione liturgica, nel laico e nel
sacro, che ci porta ad una riflessione di morte.
Memoria, mito e morte. Le tre M dentro una cultura
che è quella profondamente radicata nel
Mediterraneo.
Il rapporto tra memoria e mito. La lettura del mito
come leggenda. Il superamento della storia e il
recupero della tradizione non solo come processo
culturale ma soprattutto come riappropriazione delle
radici attraverso una griglia simbolica. Gli oggetti
della memoria realizzano un processo testamentario
che va al di là di un discorso meramente
antropologico.
Ma la storia di queste comunità è vissuta come
decodificazione di un processo artistico. Infatti le
chiese o i conventi (si pensi a San Demetrio con il
suo Sant’Adriano e il suo Centro Studi o a Spezzano
Albanese o alle comunità di Piana degli Albanesi)
sono i contenitori non solo di un “apparato” storico
e architettonico dalle radici o matrici Orientali ma
costituiscono soprattutto l’immagine di una
proiezione d’arte.
La Calabria è al centro di questo itinerario. Dalla
provincia di Cosenza a quella di Crotone a quella di
Catanzaro. Un itinerario che tocca il paesaggio e la
cultura, i riti e le forme di tradizione. Un viaggio
tra gli Arbereshe della Calabria è un viaggio che ci
mette al centro di un rapporto tra Occidente ed
Oriente.
La chiesa dell’Assunta di Firmo è la tipica
fotografia che mette insieme semplicità della
struttura e culto delle civiltà albanofone.
Mentre la cattedrale di Lungro è l’incontro tra il
raffinato stile medio orientale e il desiderio di
occidentalizzazione dell’arte. Una cultura di stampo
prettamente bizantino. Il bizantino qui si svolge in
un incrocio tra il romanico e il barocco.
Dalla semplicità della chiesa di Firmo alla
esuberanza e sobrietà della cattedrale di Lungro.
Dalla semplicità lineare di Macchia alle forme
“barocche” di San Demetrio. Dal bizantinismo
restaurato del campanile della chiesa di San Pietro
e Paolo di Spezzano Albanese al decorativo piano di
Barile. Agglomerati urbani che si dichiarano
artisticamente attraverso una tradizione che ha come
bene fondante il culto. I beni culturali, per la
maggior parte, in questi paesi, sono beni di culto.
Mettiamo insieme queste due forme e il discorso che
si faceva all’inizio ha una sua corposità storica e
artistica. Si mantiene fede alla storia ma l’arte è
qualcosa di più che si concilia con la fede. La
storia invece con il culto. Le tre navate di questa
cattedrale sono la dimostrazione di uno stile e di
una forma che chiaramente caratterizzerà e si
imporrà nella cultura di queste comunità. Le quali
comunque rimangono fedeli, nella loro visione
storico – artistica ad una identità illirica sia
nello stile che nelle forme.
Non sono solo identità, i beni culturali, di una
memoria che racconta la storia di una civiltà che è
ormai solo memoria. Sono il tracciato di un futuro
che si legge sulla dimensione di un rapporto
fondamentale, appunto, tra cultura, economia e
sviluppo. Solo così questi paesi arbereshe potranno
continuare a raccontare storia e a difendere un
patrimonio strutturale, antropologico, di idee.
La profonda cultura popolare ha fatto in modo sì di
miscelare usi e costumi ma anche di conservare
alcuni elementi linguistici che hanno derivazione
mediterranea. Non bisogna neppure dimenticare la
realtà dei cinque paesi di lingua italo - albanese
che hanno conservato non solo modelli di tradizioni
ma la lingua diventa, per queste comunità, un fatto
fondamentale che riporta queste popolazioni alla
madre patria.
I contesti storici che maggiormente hanno lasciato
un segno ormai indelebile sono quello greco -
romano, quello bizantino e quello normanno - svevo.
Contesti rappresentativi le cui testimonianze sono
considerevoli. E' naturale che la presenza degli
Angioini come degli Aragonesi di Spagna, come i
Borboni non vanno chiaramente trascurati.
Il viaggiatore che si incammina lungo i percorsi
della Basilicata (come la maggior parte dei
viaggiatori) va alla ricerca di segni primordiali e
di leggere attraverso questi segni i luoghi di una
appartenenza e quindi una eredità. Metaponto o
Venosa (il tempo greco e il tempo romano) sono due
riferimenti che trasmettono immediatamente i
segmenti di una civiltà che risponde alla Magna
Grecia e all'età Imperiale romana. Una
caratterizzazione che resta emblematica.
C'è una Magna Grecia che si vede, che si tocca, che
si ascolta e c'è una Magna Grecia che si sente
perché la si porta dentro come fattore ereditario,
come modello di appartenenza, come codice genetico.
Il senso di appartenenza non è qualcosa di astratto.
E' una "realtà metafisica" che vive dentro la
coscienza lunga di una civiltà. I territori vivono
con le loro testimonianze.
Così in Magna Grecia e nella Roma che attraversa la
Magna Grecia stessa. Le testimonianze hanno un loro
destino e devono avere la capacità e la forza, nei
territori, di lasciarlo come humus nella loro misura
progettuale come forma culturale del presente ma
anche come partecipazione, appunto, identitaria.
Luoghi ed epoche, testimonianze e lettura della
storia e delle civiltà.
La storia dei paesi arbereshe è nella nostra
capacità di saperla tutelare e valorizzare
attraverso i simboli che sono costituiti dalle
strutture. Le strutture sono i veri testamenti di
una comunità. Anzi sono i testamenti reali che
continuano a durare e segnano il futuro. La Puglia
come la Calabria, in particolare, o la Basilicata o
la Sicilia o le altre Regioni difendono il
patrimonio delle minoranze non dimenticando i valori
dell’Unità e delle identità di una tradizione che
racconta le sue diverse storie. Visitiamo questo
Sud. La Calabria che racconta storia e leggenda. Gli
arbereshe sono storia, tradizione cultura. Ma tutto
il Sud è interessato a questi incontri e questi
modelli interculturali.
Nella foto: Il
campanile della Chiesa dell'Assunta a Firmo. |
pubblicato il 15 Giu 2008
PRESENTATI A FRASCINETO I "PERCORSI ARBERESHE"
Beni culturali, storia e tradizioni
arbëreshe: risorse da valorizzare.
L’occasione di
confronto sulla cultura delle presenze minoritarie
italo-albanesi in Calabria è stata offerta dalla
presentazione del Web Project sui beni culturali
arbëreshë, promosso dal Centro Culturale "26" e
realizzato con il patrocinio dell’Assessorato alla
Pubblica Istruzione della Regione Calabria, che ha
coinvolto un gruppo di alunni delle classi quarte
del “Bachelet”, coordinato dal dirigente scolastico
Antonio Scalcione.
E’ stato presentato al pubblico presso l'Auditorium
"Croccia" di Frascineto il sito web che promuove le
comunità arbëreshe, particolarmente quelle della
provincia di Cosenza, con l’obiettivo di far
conoscere le preziose risorse del territorio.
Durante il convegno, organizzato dal Centro d’Arte e
Cultura 26 in collaborazione con l’Amministrazione
comunale di Frascineto, è stato presentato il volume
in lingua arbëreshe “Skarcopolli” (Pupazzo
senz’anima) di Anna Maria Basile, un valido
contributo alla riscoperta delle tradizioni
italo-albanesi.
All’incontro hanno portato il loro contributo di
idee: il sindaco di Frascineto, Domenico Braile,
l’Assessore alla Cultura, Antonio Ferrari, il Papas
Antonio Bellusci, il sindaco di Spezzano, Ferdinando
Nociti, il sindaco di S. Demetrio, Antonio Sposato,
il presidente della Comunità Montana, Pietro
Armentano e Maria Zanoni, presidente del Centro
D’Arte e Cultura 26.
Maria Antonietta Rimoli, coordinatrice artistica del
Gruppo Folk “Arberia” ha declamato liriche in
arbereshe dal volume della Basile ed ha diretto il
coro in una performance che ha dato alla serata un
tocco suggestivo.
La finalità del progetto è quella di valorizzare il
patrimonio culturale arbëresh, coinvolgendo
soprattutto i giovani in un percorso multimediale di
conoscenza di una civiltà che affonda le sue radici
nelle culture mediterranee, che hanno aspetti
orientali; alla riscoperta di una cultura
strettamente legata ad una identità religiosa di
matrice bizantina. È un itinerario affascinante tra
le antiche tradizioni scomparse o in via di
estinzione e tra quelle ancora oggi vive all’interno
dei territori, sui sentieri della storia del popolo
arbëresh, in un raccordo tra passato e presente, in
cui è palpabile il senso delle radici.
Il percorso di conoscenza, il cui coordinamento
scientifico è stato affidato a Claudia Rende, web
manager del sito www.arte26.it, nel quale sarà
possibile visitare i paesi arbëreshë, attraverso il
fascino delle immagini-documento consegna alle
giovani generazioni, e non solo, tradizioni, usi e
costumi che rischiano di scomparire e realtà
socio-culturali in continua evoluzione, che hanno
una identità da tutelare.
Le pagine web sull’etnia arbëreshe, attraverso
l’immediato impatto comunicativo, descrivono la vita
delle Comunità albanesi, il loro forte senso
religioso, la coscienza etnica, legata, oltre che
alla lingua, alla cultura materiale, agli usi, ai
costumi, alle tradizioni popolari, attuando un
processo di conoscenza riguardo alle valenze etniche
ed antropologiche nel contesto dei beni culturali
italo-albanesi. Le cosiddette “minoranze” offrono la
chiave di lettura per approfondire appartenenze ed
eredità, importanti per la valorizzazione dei
territori stessi. E le eredità culturali sono quelle
delle varie civiltà che le hanno attraversate. Il
concetto stesso di “minoranza” è ridefinito dalla
dinamicità e intensità con cui questi “gruppi
etnici” ripropongono al loro interno e tengono vivi
i tratti culturali che li caratterizzano.
Le Comunità etnico-linguistiche di minoranza hanno
un ruolo preminente nel territorio di appartenenza,
nel processo di costruzione della nuova Europa del
Terzo Millennio, per gli apporti di una cultura
specifica e di forme di perpetuazione culturale
endogene.
Lingua, religione, tradizioni, costumi,
enogastronomia sono elementi identitari che
caratterizzano fortemente queste comunità, insieme
ad aspetti storico-sociali, economici, politici,
architettonici e paesaggistici dell’area di
appartenenza.
La presenza sul territorio di aree distinte sulla
base di tratti culturali minoritari, generalmente
dovuta a spostamenti di popolazioni, o di gruppi
sociali più ristretti, avvenuti nel corso della
storia, per cause diverse, soprattutto di carattere
storico-politico, è un problema di appartenenza e
d’identità.
L’appartenenza identitaria, che deriva da fattori
culturali, regole di comportamento legate al
contesto d’origine e da valori di riferimento,
condivisi per scelta più o meno consapevole, nelle
sue dinamiche di perpetuazione definisce i confini
territoriali di appartenenza stessa.
Strutture e funzioni educative, insieme alla lingua
e ad un sistema di valori simbolici, spesso
sostenuto dal credo religioso, garantiscono alla
comunità l’autodeterminazione e la rivendicazione
collettiva di una appartenenza che trae forza dalla
consapevolezza di riconoscersi in alcuni valori.
Allora il concetto di minoranza culturale si basa su
rapporti di inclusione-esclusione e di
minoranza-maggioranza tra gruppi sociali distinti,
in cui esiste la differenziazione tra autopercezione
ed eteropercezione dei tratti culturali
caratteristici della comunità marginale.
L’autodeterminazione delle comunità stesse e le
rivendicazioni collettive traggono linfa proprio
dalla coscienza di appartenere ad una unicità
culturale e fanno sì che in un dato territorio siano
di fatto delle “maggioranze”.
I caratteri del popolo arbëresh affiorano da un
lungo processo culturale e d'identità che va dal
senso di appartenenza a tutte le espressioni
comunitarie. La storia della civiltà arbëreshe non
si fonda esclusivamente sulla lingua, che è un bene
culturale di fondamentale importanza, in quanto è
uno degli elementi della cultura italo-albanese,
anche se il principale. Un percorso di vera
conoscenza delle realtà arbëreshe parte dalla
lingua, strumento identitario e di partecipazione
alla storia di un territorio, per seguire tracciati
che vanno dall’arte, ai canti, i famosi vjersh, alla
musica, alla letteratura, all’enogastronomia, alla
cultura materiale, ai riti ed alle tradizioni di un
popolo, che rappresentano una grande risorsa.
Un patrimonio culturale, al centro del Mediterraneo,
bacino d’incontri e d’incroci tra etnie e culture
diverse, da valorizzare e comunicare, per creare
maggiori opportunità di sviluppo socio-culturale ed
economico.
E il percorso web (è in evidenza online su
www.arte26.it) è ricchissimo di testimonianze,
di foto e di video, recenti e d’epoca, per
invogliare a visitare luoghi affascinanti e guidare
alla scoperta di un mondo magico, tra atmosfere di
sapore orientale; un mondo dinamico, non certamente
“monade”, “diversità” in via d’estinzione.
Nella foto da sin. al tavolo dei relatori:
Antonio Panaiotis Ferrari, assessore comunale alla
Cultura, Papas Antonio Bellusci, presidente Centro
Ricerche Castriota, Domenico Braile, sindaco di
Frascineto, Ferdinando Nociti, sindaco di Spezzano,
Maria Zanoni, presidente Arte26, Anna M. Basile,
poetessa.
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pubblicato il 24
Mar 2008
ETNIE E
LETTERATURA
Un excursus sull’attività del
Comitato Minoranze del MIBAC
di Maria Zanoni
“Leggere le
etnie attraverso la Letteratura e i Beni Culturali”
è il tema dell’incontro di studio con cui il
Comitato Nazionale Minoranze Etnico-Linguistiche del
Ministero Beni Culturali, d’intesa con il Ministero
della Pubblica Istruzione, il Liceo Scientifico
Bachelet di Spezzano Albanese e con la
collaborazione del Centro d’Arte e Cultura 26, ha
concluso il percorso triennale attuato per la
conoscenza e valorizzazione degli usi, costumi e
beni culturali delle etnie storiche presenti in
Italia.
Al dirigente scolastico, Antonio Scalcione, il
compito di fare gli onori di casa, nell’Aula Magna
del Liceo della cittadina arbereshe; a Teresa
Ciliberti, docente di Letteratura Italiana al Liceo,
quello di trattare dei radicamenti letterari, grazie
ai quali la conoscenza delle stesse etnie diventa
una manifestazione di identità storica. A me, in
qualità di vicepresidente del Comitato Nazionale,
l’impegno di fare un excursus sui 70 incontri
scientifico-divulgativi (tra cui seminari
internazionali) tenuti presso varie Comunità
minoritarie, sotto l’alto patronato del Presidente
della Repubblica.
Un significativo patrimonio di esperienze nel campo
della ricerca, affidato a ben 24 pubblicazioni,
edite dal Ministero Beni Culturali e distribuite
gratuitamente, che hanno coinvolto giovani
ricercatori e che offrono un’immagine fortemente
valida della nostra terra, dei suoi beni e delle sue
potenzialità.
Si è partiti dal mondo Italo-Albanese (con un’ampia
articolazione sui vari aspetti di questa cultura:
dalla mostra e dal catalogo sugli Arbereshe alla
Grammatica Arbereshe di Giordano; da uno studio su
De Rada e Koliqi a I Viaggiatori in terra
Italo-Albanese; da una ricerca su Scanderbeg a
Guglielmo Tocci) per sottolineare i lavori sulle
altre “etnie” come quella grecanica (con convegni,
pubblicazioni e Dvd che trattano aspetti che vanno
dalla Calabria al Salento); per poi promuovere studi
comparati con ricerca come “Etnie. Popoli e civiltà
tra culture e tradizioni” (un lavoro nel quale si
passano in rassegna tutte le minoranze
etnico-linguistiche in Italia, dai Ladini agli
Occitani, dai Catalani ai Friulani, dai Tedeschi al
rapporto tra etnie e archeologia e così via)
attraverso una analisi storica. E ancora: “Sui passi
della Magna Grecia” (un lavoro riferito alle
comunità che hanno avuto territorialmente uno
stretto rapporto con l’area geografica della Magna
Grecia, comunità che sono tuttora presenti in un
tale contesto; “I segni del tempo” (si tratta di un
attento e meticoloso studio di Maria Zanoni inerente
i beni culturali delle realtà minoritarie della
Calabria con un vasto modello di immagini a colori
che pongono all’attenzione un patrimonio ricco di
storia e di tradizione); “Maschere sotto la luna” è
un lavoro in lingua catalana (con un testo in
catalano di Grazia Deledda) ben articolato al quale
hanno prestato la loro scientificità Neria De
Giovanni e Josefa Contijoch; sempre Neria De
Giovanni ha offerto la possibilità di rileggere
l’opera di Maria Carta (grande poetessa e
cantautrice sarda) in un percorso con varie
testimonianze, tra cui la presentazione di Walter
Veltroni.
Ha visto anche la pubblicazione una ricerca storica
sui Valdesi a San Sisto di Antonio Perrotta; ed un
affascinante lavoro sul rapporto-dialogo tra l’opera
di Pier Paolo Pasolini e la cultura friulana con il
contributo di giovani studiosi che si occupano di
poesia, di linguistica e di letteratura popolare.
Non ultima tra le pubblicazioni: “Un bene culturale
per comunità” (uno straordinario viaggio tra i beni
culturali delle minoranze etnico-linguistiche
italiane, grazie allo studio di particolari
simboli-patrimoni presenti sui vari territori. I
ricercatori hanno posto all’attenzione il
significato di bene culturale e di etnia.
Un interessante viaggio tra le Minoranze che ha
ricevuto apprezzamenti in campo nazionale ed
internazionale, persino nelle sedi Unesco.
Infatti, il funzionario del Mibac, Rosa Vinciguerra,
ha riconosciuto l’impegno del Comitato, chiamato a
testimoniare la propria presenza in Macedonia,
Albania, Tunisia, ed in America del Sud fino a Miami
in Florida, portando un contributo sul piano di una
maggiore comprensione di quelle culture che
costituiscono un riferimento per una dialettica su
identità, tradizione e memoria all’interno del
valore di etnie e minoranze. Ed Egidio Chiarella,
Segretario della IV Commissione Assetto del
territorio, in rappresentanza della Regione
Calabria, ha invitato a proseguire su questo
percorso di ricerca su “un patrimonio enorme che va
salvaguardato ed investito per il futuro”.
Per Chiarella “l’attività di ricerca e di promozione
culturale è la chiave positiva per lo sviluppo della
società calabrese che avanza attraverso il mercato e
le nuove tecnologie, ma deve rapportarsi con le
radici dell’essere e ciò che rappresenta la nostra
storia, che va tutelato e non disperso”.
Il lungo percorso triennale tra la cultura delle
minoranze linguistiche e l'identità mediterranea,
tra le Culture e le Tradizioni della realtà Tedesca,
Ladina, Mochena, Cimbra, e del Sudtirol, tra i
Provenzali ed i Grecanici è stato supportato dalla
proiezione in sala delle immagini multimediali,
curate in DVD da Claudia Rende del Centro d’Arte e
Cultura 26.
Infine, Pierfranco Bruni, presidente del Comitato
Nazionale, nel suo intervento conclusivo ha
affermato: “Si conclude, così, la prima fase di un
processo culturale ed esistenziale che coinvolge
culture e civiltà, alla luce di un confronto tra
patrimoni culturali che presentano segni di
diversità ma anche tracciati il cui approfondimento
resta fondamentale. Nella seconda fase del progetto
di valorizzazione dei beni culturali delle comunità
minoritarie sarà impegnato l’Istituto Nazionale
Minoranze, che continuerà il lavoro di ricerca nel
solco tracciato dal Comitato, perchè non si disperda
un ricco patrimonio di esperienze e conoscenze - ha
detto Bruni, visibilmente soddisfatto per il lavoro
svolto.
Gli studenti ed i giovani ricercatori, ancora una
volta saranno protagonisti di un processo di studio
e promozione delle minoranze, analizzate sotto vari
aspetti che non sono soltanto linguistici o
folklorici. Sta soprattutto in questo l’aspetto
innovativo del progetto - ha concluso lo studioso -
e nella proposta di una metodologia scientifica e
didattica che, uscendo dagli schemi esclusivamente
linguistici tanto cari, invece, al mondo accademico,
focalizza l’attenzione sugli aspetti culturali,
etnici, antropologici, letterari, architettonici e
archeologici delle realtà minoritarie italiane. La
cultura etnico-linguistica va, comunque, considerata
in una visione di studi globali. Il patrimonio
culturale e storico, andrebbe ricontestualizzato in
un quadro generale inerente la cultura dei "nuovi
saperi". I beni culturali di queste comunità, prima
di essere beni del territorio e risorse per il
turismo, e quindi processi valorizzanti, sono e
restano patrimonio della storia”.
Le minoranze etnico-linguistiche, in Italia, si
testimoniano attraverso una varietà di
caratteristiche che presentano aspetti di ordine
rituale, antropologico, storico, linguistico,
appunto, geografico che danno vita alla cultura di
un popolo. Ma è la lingua che permette di definire
quei processi di civiltà che sono, sostanzialmente,
dei veri e propri processi di identità. La
letteratura lega, indubbiamente, lingua e orizzonte
di appartenenza. Un popolo, infatti, si sostiene e
lascia tracciati nella memoria della storia grazie
alla letteratura. La letteratura, proprio in questo
caso specifico, assomma nel valore della tradizione
gli elementi espressivi, ovvero il patrimonio dei
codici linguistici, e la tutela delle radici. Radici
che richiamano modelli di appartenenza. E'
soprattutto la lingua che si porta dentro la
caratterialità di un popolo, la quale costituisce
l'anima e la consapevolezza di un vissuto.
Proprio in virtù di ciò, offrire una interpretazione
archeologica di queste comunità diventa di estremo
interesse. Queste comunità si sono insediate sia su
comunità già esistenti (ovvero su territori già in
precedenza abitati) o in realtà geografiche ricche
di testimonianze archeologiche (il caso dei
grecanici in Calabria e in Puglia ma anche il caso
degli Arbereshe in ben sette Regioni il cui raccordo
ha rimandi alla storia mediterranea e dei Balcani).
In fondo l’archeologia è una di quelle “scienze”
importanti ma che non si sottrae, però,
all’interpretazione. Interpretare è anche un termine
che avanza delle prospettive pedagogiche e quindi
come tale si offre ad un monitoraggio culturale dal
punto di vista della visione etica. Ecco perché è
necessario il rapporto tra i modelli archeologici e
l’antropologia anche in una ricerca su quelle
comunità la cui appartenenza resta legata alla
storia del Mediterraneo. Archeologia e antropologia,
archeologia ed etnologia per penetrare l’humus dei
popoli.
La tutela delle culture di minoranza etnico -
linguistiche è un fatto di civiltà che parte da un
presupposto principale che è quello della
conoscenza, dell'approfondimento, della ricerca. Un
dato che ha una forte valenza pedagogica sulla quale
ci si deve impegnare per un progetto ad ampio
respiro che tocca aspetti di natura chiaramente
linguistico - letteraria ma anche di ordine storico.
Per salvaguardare i territori e la loro cultura
occorre necessariamente creare una rete di sinergie
con le Istituzioni locali, con il mondo
dell'associazionismo, dell'informazione, con la
scuola, con le università. I beni culturali sono
parte essenziale della storia di queste comunità.
Conoscerli nei vari e specifici elementi (dalla
letteratura agli strumenti per la conservazione e la
diffusione della cultura, dai beni antropologici e
archeologici al patrimonio librario) è dare
chiaramente un contributo rivolto alla stesse
metodologie di tutela, di conoscenza, di
valorizzazione e di relativa fruizione.
Nella foto, un momento del Convegno - al tavolo
dei relatori da sinistra: Maria Zanoni, Pierfranco
Bruni e Antonio Scalcione.
|
pubblicato il
2 Mar 2008
TRADIZIONI ARBERESHE: IL TELAIO (Argalìa)
BENI
CULTURALI ARBËRESHË E INTERCULTURA
di Maria Zanoni
« Sa të ngjallmi tradita » tenere in vita le
tradizioni.
Il 2008 è l’anno dell’Interculturalità. Quale
proposta migliore, dunque, se non quella di
promuovere processi di conoscenza riguardo alla
lingua ed alle valenze etniche ed antropologiche nel
contesto dei beni culturali arbëreshë!?!
In quest’anno dedicato all’incontro tra culture, è
di notevole importanza promuovere interventi volti
alla conoscenza ed alla valorizzazione delle
presenze italo-albanesi del territorio, nella
complessità delle realtà culturali. I beni culturali
delle Comunità minoritarie offrono la chiave di
lettura per approfondire appartenenze ed eredità,
importanti per la valorizzazione dei territori
stessi. Tutelare una presenza minoritaria su un
territorio non significa soltanto affrontare la
questione dal punto di vista linguistico.
Un percorso di vera conoscenza delle realtà
arbëreshë parte dalla lingua, strumento identitario
e di partecipazione alla storia di un territorio,
per seguire tracciati che vanno dall’arte, ai canti,
i famosi vjersh, alla musica, alla letteratura,
all’enogastronomia, alla cultura materiale, ai riti
ed alle tradizioni di un popolo, che rappresentano
una grande risorsa, da partecipare e porre
all'attenzione attraverso una visuale complessiva,
etno-antropologica.
Ed in questa direzione va il progetto “Beni
Culturali, Storia e tradizioni arbëreshë” promosso
dal Centro d’Arte e Cultura 26, Associazione di
promozione culturale e ricerca antropologica al suo
trentesimo anno di attività, in collaborazione con
il Liceo Scientifico di Spezzano Albanese.
Al termine del percorso didattico, la ricerca sulle
tradizioni popolari delle Comunità italo-albanesi
della provincia di Cosenza verrà pubblicata, con il
patrocinio dalla Regione Calabria.
Il lavoro rientra in un progetto di valorizzazione
di un patrimonio culturale che ha una consistenza
storica, che non va dispersa e va difesa, perché
parte integrante di un processo esistenziale. È un
contributo alla conoscenza di una civiltà che
affonda le sue radici nelle culture mediterranee,
che hanno aspetti orientali; alla riscoperta di una
cultura strettamente legata ad una identità
religiosa di matrice bizantina.
È un percorso di conoscenza delle antiche tradizioni
scomparse o in via di estinzione e di quelle ancora
oggi vive all’interno dei territori.
Lo studio riserverà particolare attenzione a quelle
tradizioni che meglio esprimono l’identità, la
coscienza etnica, legata, oltre che alla lingua,
alla cultura materiale, agli usi, ai costumi, alle
tradizioni popolari, per consegnare alle giovani
generazioni pagine di storia, spaccati di tradizioni
italo-albanesi, perchè, li conoscano, li
custodiscano e li difendano dalla dispersione,
insieme alla lingua.
A cominciare dalla la gjitonia, che ancora oggi
resiste a distanza di cinque secoli di integrazioni
etniche e trasformazioni socio-urbanistiche. La
gjitonia, è il vicinato, non solo lo spiazzo, lo
spazio fisico antistante le abitazioni in cui si
snodano i rapporti comunitari, con le loro valenze
di aggregazione e solidarietà, fortemente
espressive: i riti religiosi della Settimana Santa,
le usanze legate a nascite, matrimoni e funerali, le
feste del Carnevale, con i suoi rituali culturali
ancora intrisi di simbologie pagane. La gjitonia,
come piazzetta, spazio di partecipazione e incontro
tra culture, metafora di dialogo. È l’elemento di
raccordo tra famiglia e comunità. Ed insieme alla
“vatra”, il focolare domestico, ed alla “vëllamia”
il legame di fratellanza che va al di là della
stessa consanguineità, rappresenta gli elementi
fondanti dell’identità arbëreshë.
Uno spazio particolare sarà dedicato all’antica
tradizione della tessitura ed al telaio, di cui
resta esemplare testimonianza l’attività del Museo
“ARGALIA” di Frascineto.
Il museo etnografico, fondato e diretto dal dinamico
Papàs Antonio Bellusci, nell’ambito del Centro
Ricerche socio-culturali “G. Kastriota Scanderbeg”,
in via Pollino a Frascineto, rappresenta una delle
più alte espressioni della tradizione materiale e
culturale arbëresh.
Nel museo del telaio l’antica arte della tessitura
vive attraverso le laboriose mani della maestra
tessitrice Caterina Bellusci, che accompagna il
lavoro con i canti tradizionali in lingua arbëresh.
E’ Rina che tiene in vita una tradizione, appresa
dalla nonna e dalla madre, che ha rappresentato per
lei, come per tanti suoi compaesani, l’attività
prevalente; ma oggi per lei rappresenta la sua vita,
la sua cultura, la sua coscienza etnica, il suo
desiderio di non disperdere le tradizioni e
trasmetterle alle nuove generazioni, perché di
quell’arte facciano motivo di nuovi sbocchi
professionali, oltre che di orgoglio etnico.
Le tradizioni, dunque, come riappropriazione delle
radici culturali di un popolo, per aprirsi alle
offerte della società interculturale. E le
tradizioni popolari, i beni culturali arbëreshë sono
una preziosa risorsa identitaria, in grado di
attivare programmi d’investimento.
Musei come l’Argalia di Frascineto possono
rappresentare una valida leva di rinascita
socio-economica della regione che possiede il
maggior numero di Comunità minoritarie, rispetto al
resto dell’Italia. Un vero sviluppo deve partire
dalla valorizzazione della cultura del territorio. E
cultura del territorio significa leggere e capire i
luoghi, rispettarli, nel confronto di idee e
tradizioni. La salvaguardia del patrimonio
presuppone la conoscenza delle risorse reali.
E’ da tempo che vado affermando che la Scuola in
questa società multimediale può produrre interventi
educativi efficaci e di qualità, per la crescita dei
territori, in sintonia con gli Enti locali. Gli Enti
devono investire in cultura, per creare sviluppo e
occupazione che passano anche attraverso il turismo
culturale.
I Beni culturali, testimonianze dell’identità di un
popolo, diventano anche prodotti economici quando la
loro fruizione, attraverso musei, biblioteche e
parchi, è gestita con una progettualità che rispetti
le specificità del territorio e gli aspetti etici,
economici, antropologici ed anche etnici.
Musei, biblioteche e siti non sono luoghi di
semplice conservazione di oggetti antichi, bensì
luoghi di cultura in cui si trasmette alle nuove
generazioni la conoscenza di una civiltà ormai in
via di estinzione, cercando anche di esaltarne i
valori di laboriosità, di onestà, di solidarietà.
I luoghi depositari della memoria storica, della
identità, devono essere conosciuti, rispettati,
visitati e capiti. E per essere capiti, creare
interesse e comunicazione è necessario che Scuola,
Enti pubblici e privati progettino interventi di
educazione alla lettura dei Beni culturali.
Il Museo del Telaio, in stretta correlazione con la
ricchissima Biblioteca Bellusci, è un modello di
valorizzazione e fruizione dei beni culturali
arbëreshë.
E’ ora di strappare all’oblio l’ingente,
inestimabile patrimonio culturale di una regione
mortificata, senza atteggiamenti vittimistici o
fatalistici; e senza vaghe nostalgie di un passato
mitico.
La conoscenza del passato è una forza importante in
grado di preparare al futuro le nuove generazioni
della complessa società odierna. |
pubblicato il 15 Feb
2008
L'ALBANIA DI ORNELA VORPSI
A Roma Ornela
Vorpsi ha raccontato il viaggio nella “sua” lingua.
di Pierfranco Bruni
L’Albania del “Vivi che ti odio, e muori che ti
piango” di Ornela Vorpsi.
La presenza di Ornela Vorpsi (nata a Tirana ma vive
a Francoforte dopo esperienze a Milano e in
Francia), nel panorama delle letterature del
Mediterraneo e dei Balcani, assume una peculiarità
significativa. Una scrittrice coraggiosa che con
singolarità riesce a sottolineare parametri che sono
umani certamente ma che restano profondamente
esistenziali.
In un recente convegno a Roma, in occasione
dell’apertura di alcune manifestazioni dedicate
all’Anno della Intercultura, ha enucleato, in alcune
battute, il senso da dare alla letteratura. Una
letteratura che deve saper parlare al cuore
attraverso le parole vere, quelle che contano
abbandonando i formalismi e il già visto. Un sorriso
e una ironia che hanno vitalità e sogno.
L’ho incontrata a Roma. Occhi che penetravano viaggi
e bellezze e il suo accento in un modulare ritmato
mentre raccontava il volo della letteratura. Una
voce vera, senza finzioni. Ha parlato della sua
esperienza di scrittrice.
La lingua, è un monito della Vorpsi, passa
attraverso l’esperienza esistenziale. Bisogna
sapersi guardare negli occhi abbandonando le cose
vecchie. Ornela Vorpsi ha scritto romanzi
affascinanti. Ho letto i due romanzi di Ornela
Vorpsi. Belli e tremendi. Hanno un loro sentire e un
loro vissuto. Nata a Tirana nel 1968. Qui in questa
terra delle contraddizioni ma anche dei sapori
antichi ha vissuto per 22 anni. Dal 1997 la sua vita
si svolge in Occidente.
Al contrario di molti che hanno lasciato l’Albania
Ornela scrive in perfetto italiano. Due romanzi: “Il
paese dove non si muore mai” del 2005 e “La mano che
non mordi” del 2007. entrambi editi da Einaudi. In
mezzo a questi due romanzi c’è “Vetri rosa” del 2006
da Nottetempo. Una scrittrice coraggiosa. Senza
retoriche. Senza “sfraceli” folcloristici o
motivazioni dettati dall’ideologia. Sa guardare
all’Albania senza nostalgia ma neppure con verità
storica quando questa stessa verità diventa come in
Ismail Kadarè retorica. C’è in Ornela Vorpsi una
vitalità di scrittura che tocca le corde di certi
incantesimi.
Un dato è certo: mette a nudo addirittura la cultura
del popolo albanese. La denuda attraverso lo
strumento altamente letterario dell’ironia
cominciando dalla dedica che suona già abbastanza
dura: “Dedico questo libro alla parola umiltà, che
manca al lessico albanese. Una tale mancanza può dar
luogo a fenomeni assai curiosi nell’andamento di un
popolo”.
Certo la Vorpsi, dal punto di vista critico –
letterario, è piuttosto rivolta ad un antikaderismo
marcato. Non ci sono le ambiguità politiche di
Kadaré negli scritti della Vorpsi. E non mi si dica
che ha soltanto due romanzi e che il metro di
confronto non è possibile. Nessuno vuole creare
paragoni. Ma basta un solo libro per definire uno
scrittore. Uno scrittore ha bisogno di un libro per
essere considerato tale. In “Il paese dove non si
muore mai” si vive uno sviluppo narrante
interessante. È una scrittrice che spazionia in una
dimensionalità che non è quella “provincialistica”
della letteratura albanese soltanto.
È una scrittrice che tocca il senso delle
motivazioni universali. Si tratta di uno spaccato
dove si assiste al trionfo dell’ironia e credo che
possa essere considerata una innovatrice, ovvero una
scrittrice di rottura all’interno di un contesto
consolidato intorno alla fisionomia letteraria di
Kadaré. Supera lo stesso Kadaré, questa volta la
dico tutta, sia in termini linguistici sia in
termini di struttura dell’asse racconto – narrazione
– personaggi. Certo, l’Albania (come eredità delle
radici) resta al centro dell’iter narrante ma si
coglie un aspetto che reputo fondamentale.
Non più la malinconia di un rimpianto ma l’ironia su
un passato che resta per essere completamente
attraversato. Attraversandolo la scrittrice usa gli
strumenti, appunto, dell’ironia ma anche di una
consapevolezza nella quale si sottolinea il
superamento di una impostazione mentale che si vive
ancora in Kadaré. Nella Vorpsi l’ironia è toccante
ed è proprio questa ironia che rende la sua
scrittura frizzante come in questi passaggi: “Di
polvere e fango è fatto questo paese; il sole brucia
a tal punto che le foglie della vigna si
arrugginiscono e la ragione comincia a liquefarsi.
Da ciò nasce una specie d’effetto secondario (temo
irrimediabile): la megalomania, delirio che in
questa flora germoglia come erba pazza”.
E poi: “Nel nostro caro paese dove non si muore mai,
dove il corpo è forte come il piombo, abbiamo un
detto, un detto profondo: ‘Vivi che ti odio, e muori
che ti piango’. Questo adagio è la linfa del nostro
paese. Dopo la morte nessuna brutta parola, oserei
dire nessun cattivo pensiero, ti tocca più. La morte
è rispetto”. C’è un modello occidentale preciso in
Ornela. Una condanna di un mondo che andrebbe
riletto e riconsiderato e njon abbandonato alla
nostalgia di un tempo che non c’è più.
Coraggiosamente ha fatto delle scelte. Ma quanti
scrittori vivono ancora appesi tra il filo di un
occidentalismo e di un islamismo che crea solo
confusione?
Quasi nel finale di questo romanzo della Vorpsi in
una pagina viene raccontato che il mare Ionio ha
preso questo nome da un partigiano albanese di nome
Ion “il quale un giorno cadde per la patria
colorando col suo sangue le acque profonde di rosso
scuro…”. E così via di seguito in un intreccio in
cui l’ironia affabula e l’affabulazione è un
superamento della realtà restituendo alla
letteratura un afflato fantastico e lirico. Si resta
sempre nell’ironia.
Nell’altro romanzo “La mano che non mordi” ci sono
passaggi terribili sui quali bisognerebbe
riflettere: “C’è un odore forte in aereo. È l’odore
di piedi dei Balcani. Frutto delle scarpe uniche,
quelle che non si cambiano. L’odore di chi non ha
due paia di scarpe. L’aggiunta degli effluvi di raki
e del cattivo cognac fa nascere questa unica e
indimenticabile miscela balcanica (…). Il signore
dietro di me vuole del vino. Il vino è gratis e
bisogna approfittarne. Chiama per la seconda, terza,
quinta volta la hostess che gli porta con grazia il
vino. Lui beve, deve bere il più possibile. –Vino! –
ordina ancora alla ragazza, alla quale non
restituisce neanche un sorriso di cortesia”.
Uno spaccato che definisce in un certo qual modo una
visione di uomini e di paesi. Quell’Albania che si
lascia alle spalle Ornela non è una terra della
fantasia e neppure una terra deserta. È, dunque, uno
spaccato di realtà che incide nella storia di un
popolo. Credo che la Vorpsi stia facendo un viaggio
importante sia sul piano culturale che umano.
Mettere a nudo non i difetti o i nodi ma alcune
verità di un popolo e di ciò che usiamo chiamare
civiltà è di estrema importanza. L’intreccio tra
Occidente Cristiano e Paesi dell’Est in bilico tra
Mediterraneo e Islamismo diventa un fatto sul quale
dobbiamo riflettere. Ornela è una scrittrice vera
che rompe con la retorica di la letteratura
realista.
Non possiamo far finta delle tragedie del comunismo
nei Paesi dell’Est e in particolar modo in Albania.
Non possiamo far finta dell’insistenza islamica nei
Balcani. Non possiamo permetterci il lusso di
giustificare. Noi siamo Occidentali e Cristiani.
Certo, entriamo in un altro discorso che può anche
non riguardare le tesi di Ornela. È troppo umana per
scandire il mosaico della critica. E quella umanità,
nella parola, la rende vera scrittrice.
Ma credo che leggere con serenità Ornela Vorpsi
significa anche penetrare un mondo che è anche
realtà. Non amo la scrittura e i testi di Ismail
Kadaré perché sono convinto che avrebbe dovuto
prendere posizioni in tempi dovuti nei confronti del
comunismo. Amo la letteratura di Ornela per il
coraggio, per la sintesi e per il suo saper guardare
negli occhi un Paese che è il suo Paese senza cadere
nella trappola del folclore e delle nostalgie senza
orizzonti. E neppure della superbia: “… l’Albania è
il centro del mondo, ma per adesso purtroppo lo
sanno solo gli albanesi”. Un’ironia che spazia nel
tempo e nei ricordi. Approfondiamo ciò. Senza nulla
dimenticare. Una scrittrice che sa dell’importanza
della poesia e sa che i sogni sono la vita e nella
vita. E la letteratura resta un viaggio non
viaggiato ma viaggiante… |
pubblicato il 9 Feb 2008
Le
minoranze etno–linguistiche nell'anno
dell'intercultura
Tutelare la
lingua e promuovere processi di conoscenza sulle
valenze etno – antropologiche ed etno – letterarie
nel contesto dei beni culturali in una visione
Mediterranea.
Pierfranco Bruni: “Non bisogna soltanto insistere
sulla salvaguardia della lingua. La lingua resta
fondamentale ma occorrono strumenti di promozione e
interventi volti alla conoscenza del territorio
nella complessità delle realtà culturali. Il
rapporto tra presenze minoritarie e beni culturali
offre chiavi di lettura importanti per approfondire
appartenenze ed eredità che sono vitali per la
valorizzazione dei territori. Le minoranze
linguistiche in Italia sono una grande risorsa sulla
quale bisogna investire sia sul piano strettamente
culturale e scientifico sia in termini di percorsi
di vera conoscenza all'interno di un legame con le
culture del Mediterraneo”.
“Le presenze minoritaria in Italia, secondo la
normativa vigente, sono 12. Ma realmente sono molto
di più. Tra lingua e fattori antropologici. Tutelare
una presenza minoritaria su un territorio non
significa soltanto affrontare la questione dal punto
di vista della lingua. Ci sono dimensioni che vanno
dalla musica alla letteratura, dalla revisione
storica all’arte che vanno partecipate e poste
all’attenzione attraverso una visuale sia
complessiva che specifica nel vari campi di
interesse e di attenzione. C’è bisogno anche di
capire il rapporto tra territorio e archeologia per
ridefinire una dimensione che va letto in una con
testualità sia antropologica che etnica. Aspetti che
vanno legati ad una conoscenza delle culture del
Mediterraneo in una dimensione di contaminazioni”.
Si tratta di una dichiarazione del presidente
dell’Istituto Presenze Minoritarie in Italia, dott.
Pierfranco Bruni, Coordinatore del Progetto relativo
alle Minoranze etno – linguistiche in Italia del
Ministero per i Beni e le Attività culturali e
autore di numerosi saggi sulle presenze minoritarie
in Italia.
Pierfranco Bruni, che ha curato mostre e organizzato
convegni per promuovere la valorizzazione delle
minoranze linguistiche attraverso una serie di
attività e di interventi didattici e scientifici con
il MiBAC, ha posto l’attenzione sulla necessità di
aprire un serio dibattito sulla Legge riguardante la
tutela delle minoranze etno – linguistiche in Italia
con lo scopo di riesaminare le presenze etniche
storiche che si trovano nel territorio italiano. La
necessità, ha sottolineato, nasce dall’esigenza di
impostare la problematica non solo dal punto di
vista linguistico ma soprattutto da quello etno –
antropologico ed etno – territoriale.
“L’aspetto riguardante il rapporto tra minoranze
etno – linguistiche e beni culturali, ha dichiarato
Bruni, va riconsiderato alla luce di una promozione
della cultura in senso generale ma il legame tra le
‘etnie’ e i beni culturali favorisce un dialogo tra
identità e popoli. Le culture del Mediterraneo
risultano in una tale visione di estrema importanza.
Mi pare che si tratta di un elemento significativo
di una valutazione su un patrimonio che va fatto
conoscere oltre che tutelato nei vari ambiti”.
“Ridiscutere sulla normativa che riguarda la Legge
di tutela delle presenze o isole minoritarie in
Italia è una buona occasione per creare stimoli
nuovi e più appropriati dal punto di vista sia
storico che antropologico. La lingua ha chiaramente
la sua importanza ma ci sono aspetti che vanno
chiaramente riconsiderati. E’ una ottima occasione,
ha sottolineato Pierfranco Bruni, per un confronto
intelligente a tutto tondo su una materia che non
può essere lasciata soltanto a cerchie ristrette di
addetti ai lavori perché la problematica presenta
angolature di grande veduta culturale. Non si tratta
di affrontare la questione soltanto dal punto di
vista linguistico. Le presenze minoritarie sono una
eredità storica e in quanto tale esprimono elementi
di identità su un tessuto che è sostanzialmente etno
– antropologico”.
“Proprio da questo punto di vista, ha dichiarato
Bruni, è necessario porre una chiave di lettura che
possa superare gli schemi soltanto linguistici e
inquadrare il dibattito in una visione certamente
istituzionale ma l’aspetto culturale deve sempre più
riguardare un legame etno – letterario, etno -
storico, etno - archeologico e quindi
complessivamente etno – antropologico”.
“Il tema sulle minoranze linguistiche chiama in
causa fattori certamente antropologici ma anche
istituzionali e giuridici e proprio in virtù di ciò,
ha sostenuto Bruni, è necessario riconsiderare la
normativa relativa alla legge sulla tutela delle
minoranze. Deve essere più articolata e deve avere
una visione complessiva sulla realtà in cui vivono i
territori interessati. La lingua deve restare in un
processo che non può svantaggiare gli elementi
prettamente etno – letterari e anche etno –
artistici e archeologici. Non può essere solo la
scuola ad essere interessata da questi problemi. La
realtà dei beni culturali, nelle comunità in
oggetto, ha una valenza sia educativa, sia
promozionale sia di tutela di un territorio molto
più omogeneo nei vari campi del sapere”.
“Gli elementi di discussione, ha ribadito Bruni,
hanno una articolazione particolare tra le diverse
realtà minoritarie proprio in virtù del territorio
nel quale sono ben identificati geograficamente. Ciò
ci impone di trattare la materia non solo dal punto
di vista soltanto linguistico ma culturale nella sua
complessità e nelle varie specificità”. |
inizio pagina |
pubblicato il 25 Apr 2007
Scanderbeg legato al Cristianesimo
Sono
tornato alla fede di Gesù Cristo
Nazionalismo, tradizione e cristianesimo in Giorgio
Castriota Scanderbeg
di Pierfranco Bruni
“…io ho lasciat(o) la falsa fede di Maometto e sono
ritornato alla vera fede di Gesù Cristo” scrive
Giorgio Castriota Scanderbeg (1405 – 1468) in una
nota a Murad, Principe dei Turchi, (come riportato
da alcuni testi).
Un inciso importante che apre prospettive nuova ad
una rilettura della figura e dell’opera di
Scanderbeg. Una lettura che lo colloca in una
interpretazione certamente tradizionalista e
nazionalista oltre che in una visione cristiana e
occidentale.
Da anni studio il “percorso” che ha condotto
Scanderbeg e mi vado sempre più convincendo che c’è
bisogno di una totale rilettura grazie ad un
revisionismo tout court delle avventure, delle
vicende e del destino di Scanderbeg sia esso tra
storia e letteratura sia tra motivazioni che ci
portano a viverlo come modello leggendario.
Ma non basta la storia da sola a rileggere un
personaggio e un contesto di civiltà. Occorre
necessariamente una interpretazione reale sui
processi storici.
Le mie riflessioni, i miei studi, le mie analisi
partono, appunto, da una rilettura. Uno Scanderbeg
fortemente ancorato, dopo il suo passato islamico,
al cristianesimo, un cristianesimo, attenzione,
occidentale. È su questo che la mia riflessione, nel
lavoro che sto portando avanti e che dovrebbe vedere
la luce il prossimo anno, toccherà aspetti ed
elementi problematici tra storia e cultura in un
incontro e, certamente, in una diversità tra
Occidente ed Oriente. La figura di Scanderbeg vive
all’interno di un processo storico che ha visto al
centro la trasformazione di un’area geografica qual
è quella del Mediterraneo.
Non può essere spiegata l’opera di difesa dei valori
compiuta dal condottiero albanese senza pensare al
ruolo che ha avuto la geografia mediterranea in una
visione in cui l’Occidente e l’Oriente stabilivano
un rapporto sia sulla base di scontri e conflitti ma
anche sulla base di una progettazione che doveva
portare alla comprensione e alla consapevolezza
delle identità.
Scanderbeg è stato certamente un “nazionalista” ed
ha puntato le sue battaglie nella difesa sì di un
territorio e di un popolo ma soprattutto pensando a
quei valori che sono stati punto di riferimento per
una occidentalizzazione cristiana. Ciò è leggibile
non soltanto da un versante storico ma anche sul
piano di una interpretazione letteraria.
La letteratura su Scanderbeg presenta delle chiavi
di interpretazioni che restano fondamentali proprio
per capire la funzione di quell’idea nazionale che
ha accompagnato molta letteratura e molti scrittori
italiani. Si pensi a D’Annunzio. “Ancor vivente,
l’Eroe nazionale albanese Giorgio Castriota, noto
con il nome di Skanderbeg, è entrato nel mondo della
leggenda… In tutta l’Albania la memoria di
Skanderbeg, dove più dove meno, è venerata ed è
anche ragione di vanto…”. Così sottolinea Ernesto
Koliqi.
La letteratura albanese rientra in quelle culture
letterarie che respirano identità adriatica e
tradizione mediterranea. E' sostanzialmente una
letteratura ricca di stilemi e di modelli storici
che rimandano ad una visione della letteratura letta
attraverso i canoni di una identità antropologica.
Il popolo albanese ha una grande memoria da
difendere. Attraverso la memoria si recuperano le
tradizioni di un popolo e di un destino. Il destino
di un Paese è il destino di una civiltà. I suoni, i
colori, le voci, i segni sono trascorsi che non
ritornano ma sono anche ricordo lungo il tempo che
annuncia il passato nella sfera del futuro.
Uno dei libri di Kadaré (certamente quello meno
retorico) che risponde proprio al discorso prima
accennato è, senza alcun dubbio, I tamburi della
pioggia pubblicato a Tirana nel 1970 (con il titolo
Keshtiella), in Italia 1981 - 1982 da Longanesi e
con una nuova edizione nel 1993 da Teadue. Un
romanzo che racconta non soltanto l'epopea di
Scanderbeg ma, in modo particolare, decifra la
nostalgia di un popolo.
Storia e leggenda sono, appunto, un intreccio
esistenziale che pone al centro la consapevolezza di
una eredità ma anche il coraggio di un popolo. Si
era nel XV secolo. Diaspora e fuga per il popolo
albanese era un miscuglio fatto di sentimenti ma
soprattutto di rabbia, di accettazione e di
sconfitta.
Con la morte di Scanderbeg non solo termina una fase
di attesa, di orgoglio e di gloria ma comincia una
stagione, per quel popolo, senza speranza.
Scanderbeg era la speranza. Su questa speranza la
letteratura è diventata leggenda perché, tra
l'altro, ricostruendo le gesta eroiche si
riproponeva costantemente la presenza di questo
personaggio. Lo si continua a vivere nella metafora
dell'attesa. La realtà è alla base della lettura
kaderiana ma si serve della metafora che chiave di
interpretazione di una tragedia collettiva.
“Si trovano palesi testimonianze della simpatia di
Gabriele D’Annunzio verso l’Albania e gli albanesi
visitando l’interno del Vittoriale. Nella Stanza
delle Reliquie, proprio sull’altare dei cimeli di
guerra e dei simboli religiosi, si può ammirare un
rarissimo esemplare rilegato in pelle dell’opera su
Scanderbeg dell’abate scutarino Barletio, in
versione tedesca del 1561. E’ se la memoria non mi
falla, uno dei quattro o cinque libri ammessi dal
Poeta in quella parte mistica della sua dimora”. E’
ciò che scrive Ernesto Koliqi in Saggi di
Letteratura Albanese (Olschki, 1972), nel capitolo
dedicato a “Gabriele D’Annunzio e gli Albanesi”.
"Il De Rada in Scanderbeg, lo si intuisce leggendo
il suo poema, non ammirava tanto l'uomo di coraggio,
virtù comune agli Albanesi, né l'abile stratega,
quanto il creatore di un'idea di fratellanza, colui
che aveva acceso un sacro fuoco nel grande focolare
della stirpe, che aveva insegnato alla gente legata
dallo stesso sangue e dalla stessa lingua a
considerarsi figli della stessa madre" (Ernesto
Koliqi, Saggi di letteratura albanese, Olschki
Editore, 1971, pag. 109). Una questione che tocca
indubbiamente le corde del sentimento di
appartenenza.
Ismail Kadarè in I tamburi della pioggia racconta
attraverso la lotta tra gli albanesi e i Turchi
l’avventura di Scanderbeg. Eroe dell’indipendenza e
per l’indipendenza, mostra la tristezza e l’anima
albanese. Fa da scenario il XV secolo. Lunghe
battaglie. Disperazioni urlate. E la consapevolezza
che nella storia si dipinge il volto del dolore di
quella gente. Un popolo in attesa che ha
rintracciato negli archetipi un modello di vita.
Vive dentro la nostra coscienza e la nostra identità
Mediterranea nell'abbraccio con l'Adriatico.
Lingua e metafora nella storia si intrecciano in un
percorso che ha una chiave di lettura profondamente
culturale. Ma ci sono anche elementi religiosi. Si
legge: << che fai, Ibraim? gli dissero, “ vuoi
diventare cristiano e continui a pregare come un
musulmano ?” >>. Una testimonianza chiaramente
culturale ma anche di fede. Così nell’incarnazione
di Castriota.
Scanderbeg oggi rappresenta l’eroe - metafora. Un
personaggio che è dentro la storia e si riappropria
della storia riappropriandosi dell’identità di una
terra e della singolarità di una appartenenza che ha
radici antiche. Ritornare al XV secolo grazie alla
rilettura di alcuni eventi è riproporre un problema
che ha motivazioni etiche, politiche e culturali.
Scanderbeg oggi è un personaggio che si pone
all’attenzione sul piano storico ma in modo
particolare la sua rilevanza ha caratteristiche
politiche.
Se Scanderbeg è l’eroe che si propone come eroe -
mito è certamente un personaggio che offre una
risposta si di natura culturale ma anche
profondamente politica nel senso che si contrappone
a ciò che è stata l’Albania nello scorcio degli
ultimi decenni. Un Paese dilaniato e occupato,
invaso e vilipeso. Un Paese che attende ma conosce
molto bene il sentiero della fuga. La fuga è il
dolore ma è soprattutto la consapevolezza di una
barriera non solo ideologica quanto esistenziale.
Scanderbeg. L’eroe albanese che lottò per
l’indipendenza e costrinse i Turchi alla difensiva.
Sconfisse gli imperi e strinse forti amicizie con
Roma e Napoli. Il popolo albanese ancora lo
rimpiange. Con lui si rimpiange l’indipendenza
perduta. Sono state scritte tante pagine per
ricordare il suo valore.
L’antico valore dell’eroe che trova nel senso
dell’appartenenza il sentimento della patria.
Appartenenza e patria: un unico riferimento per il
quale il popolo albanese ha lottato per secoli. Ma
le epoche si ripetono e si ripete la tragedia nella
storia che racconta e maschera. Sono state date
tante versioni sulla figura di questo condottiero.
E’ stato preso come emblema a volte gli è stata
calata una camicia ideologica. Schematismi e
strutture hanno cercato di accreditarlo come un eroe
della liberazione.
Scanderbeg fu, invece, un assiduo protettore delle
tradizioni. Fu un conservatore. E da questo punto di
vista fu un rivoluzionario come lo può essere un
valoroso strenuo difensore della patria,
dell’appartenenza e dell’identità. Era nato a Mati
il 1405. Suo padre Giovanni Castriota fu un
protagonista di sanguinosi combattimenti contro i
Turchi.
Scanderbeg si chiamava Giorgio Castriota. Fu
chiamato Scanderbeg per le sue capacità e per quegli
ideali per i quali lottò durante tutta la sua vita.
Ma nel suo nome c’era una allusione che richiamava
il Principe Alessandro, il condottiero macedone.
Ovvero Skander-bej.
Si distinse in numerose battaglie. La battaglia di
Nis. La battaglia di Morea. E poi la sconfitta di
Varna. E ancora le vittorie di Mocrene e di Otoleta.
E poi i suoi rapporti con Venezia. I diversi
tradimenti consumati all’interno del suo popolo e
anche della sua famiglia. Scanderbeg dovette
impegnarsi su diversi fronti. Uno esterno: la guerra
con i Turchi.
Uno interno: sanare i conflitti tra i capi del suo
esercito. Uno trasversale: il conflitto con la
Serenissima. Ma ciò che lo risollevò fu certamente
l’alleanza con Alfonso d’Aragona, il Re di Napoli.
Portò aiuto in Italia al Re Ferrante. Ci furono
vittorie ma le vittorie Scanderbeg le pagò
caramente, le pagò sempre con il sangue. Il suo
popolo alla sua morte era distrutto, era
disorientato, era ormai sul vero senso del termine
un popolo in fuga. Le conseguenze non si fecero
attendere.
Scanderbeg morì il 17 gennaio del 1468. A suo figlio
Giovanni gli raccomandò di lasciare l’Albania e di
recarsi in Puglia. In Puglia possedevano, i
Castriota, dei castelli nei quali si poteva trovare
un sereno rifugio. Un eroe – simbolo. Maometto lo
definì un leone e disse che sulla terra non sarebbe
nato mai più un simile leone.
Ciò che maggiormente addolorò Scanderbeg fu il
tradimento di Giovanni Stresio il quale era figlio
di sua sorella Angela. Lo fece catturare e lo fece
torturare e poi lo consegnò come prigioniero ad
Alfonso d’Aragona. Un fatto gravissimo fu questo
tradimento ma non condizionò il processo unitario –
politico al quale Scanderbeg puntava con tutte le
sue energie.
Un fatto che invece rivoluzionò la sua vita fu la
conversione al cristianesimo. In una lettera a
Murad, Principe dei turchi, annotava: “…se io ho
lasciata la falsa fede di Maometto e sono ritornato
alla vera fede di Gesù Cristo, io sono certo di aver
scelto la miglior parte. Perché osservando i suoi
santi comandamenti sono certo che l’anima mia sarà
salva e non (come tu dici) perduta. Ti prego, per la
salute dell’anima tua, di ascoltare da me ancora un
ottimo consiglio. Degnati di leggere il Corano: cioè
la raccolta dei precetti divini dove potrai
facilmente vedere chi di noi sia in errore. E così
ho speranza, se tu vorrai equamente considerare,
che, vinto dalla ragione, ti sottometterai alla
sacrosanta fede cristiana, soltanto nella quale
tutti gli uomini che cercano di salvarsi si salvano
e fuori della quale ogni altra si rovina”.
Era il 14 luglio del 1444. E allora Scanderbeg è un
personaggio complesso. Certamente la sua lotta fu,
come si è già detto, una lotta per l’indipendenza di
un popolo, ma non fu solo questo. Fu soprattutto una
lotta per la difesa di quelle radici antiche che il
popolo albanese tuttora rivendica, ma non fu neppure
solo questo. Fu in modo particolare una lotta di un
mondo contro un altro e quindi fu lo scontro tra due
culture, due civiltà, due religioni. Non fu
espressamente un conflitto religioso. Ma la
religiosità o meglio la difesa di un certo tipo di
religiosità rientra direttamente nello scontro
disputato tra due Paesi.
D’altronde dove c’è un conflitto per la difesa
dell’appartenenza questo diventa un conflitto per la
tutela dei valori di fondo e tra questi rientra la
difesa di una identità spirituale. Scanderbeg dunque
fu uno di questi crociati che lottò per
salvaguardare un modello di civiltà che si inserisce
in un quadro in cui l’eticità e la tradizione sono
un baluardo, una roccaforte, un principio
profondamente religioso.
Se Scanderbeg è il simbolo di questo processo
culturale non può che essere tuttora un riferimento,
un riferimento con il quale la civiltà moderna dovrà
ancora fare i conti. Ma se tale è non può che essere
inserito in quella cultura che vede nel
nazionalismo, nell’unità, nella tradizione, nel
valore di patria, nella conservazione dell’eroe
l’asse portante per un progetto che pone al centro
l’uomo con il suo bisogno di nostalgia e con il suo
bisogno di mito.
Scanderbeg combatteva in nome di Cristo. Combatteva
per difendere la tradizione, La civiltà moderna non
può accreditarlo come eroe o come simbolo. Soltanto
nei valori e nei significati di una civiltà che
sconfigge la crisi del mondo moderno un personaggio
come Scanderbeg può trovare posto. E il personaggio
di ieri resta nella storia e resteranno i suoi segni
e il suo esempio. Ma siamo noi che dobbiamo cercare
di decodificare i suoi messaggi e la sua
testimonianza. Può esserci di aiuto in una società
quantitativa. Ma lasciamo da parte gli schematismi,
le troppe ignoranze e le troppe interpretazioni che
vanno al di là delle giustificazioni storiche.
Scanderbeg resta un nazionalista che vedeva nella
Patria il simbolo dell’appartenenza e nel
cristianesimo la salvezza del popolo.
Kadarè nei suoi romanzi non ci mostra ancora un
popolo in fuga ma ci fa capire come tutta una
cultura è attraversata dal pericolo della fuga. “…
Quelli che vivranno più tardi su questo suolo
capiranno che non ci è stato facile ergerci, per
questa lotta gigantesca, contro il più temibile
mostro della nostra epoca. A essi non lasceremmo in
eredità né statue né colonne imponenti. Non abbiamo
avuto il tempo di costruirne e, con molta
probabilità, non avremo il tempo di farlo neppure
nei momenti di requie fra l’una e l’altra delle
bufere che ancora ci aspettano. In loro luogo,
lasciamo queste pesanti pietre delle nostre mura,
che la pioggia delle battaglie va bagnando in questo
grigio mattino. Sembra che la prima stagione di
guerra volga al termine. Altre ci attendono. Le
nuvole si accalcano nel nostro cielo, nel nostro
grande cielo”. (In I tamburi della pioggia).
E’ su questo orizzonte che il tempo delle battaglie
ricalca il destino dell’Albania. Ieri come oggi. Un
Paese che ha cercato la libertà nel forte sentimento
dell’appartenenza. E la libertà l’ha cercata anche
nella fuga. Nel non voler morire da estranei in una
terra che spesso abbandona il sentimento delle
origini. Forse questo è il richiamo ad una dignità
dimenticata. Quale eredità onora gli albanesi?
Il nome di Scanderbeg è un tracciato che
bisognerebbe, in tempi di sradicamenti,
ripercorrere. Storia di lingua, di paesaggi, di
popoli. Un popolo che si cerca nella sua realtà e
nella sua tradizione. Pur restando sempre un popolo
in fuga. L'Italia meridionale è stata attraversata
dalla storia degli albanesi in fuga.
Le diverse comunità che ancora vivono nelle Regioni
del Sud sono una testimonianza emblematica di una
civiltà che ha lasciato ormai segni indelebili.
Molte altre comunità sono nate come comunità
albanesi ma poi si sono italianizzate. Un rapporto
tra culto e storia, tra ereditarismo e cultura della
tradizione oggi diventa fondamentale.
Il mito da conservare non basta. Le civiltà
difendono le loro tradizioni facendo conoscere la
storia e trasmettendola. E' questioni di radici e di
senso dell'appartenenza. I simboli parlano. Ma con i
simboli che rappresentano queste comunità bisogna
anche parlare. La parola è linguaggio e il
linguaggio si porta dentro storia e tradizione. Un
mito che ha attraversato secoli e culture.
Così Ernesto Koliqi: “L’Europa stupiva alle gesta
temerarie del Condottiero albanese. Il suo nome,
cinto da un alone mitico, volò di contrada in
contrada…”. Cantato, raccontato, recitato.
Dall’Albania ai paesi italo – albanesi. Un simbolo
di libertà nel rispetto di una tradizione che è
difesa dell’identità di un popolo.
Basta citare, per tutti coloro che lo hanno
“attraversato”, il Canto tradotto e curato da
Girolamo De Rada. Struggenti i versi che recitano
“La morte di Scanderbeg”: “S’alzò lento e triste il
giorno/tutto nebbie e nubi grosse:/pareva che il
ciel piovono/pien d’indizi neri fosse.//E con l’alba
nuova il cielo/sorse un ululo che invase/come
raffica di gelo/terra e mare e cuori e case”.
Nell’ultima quartina è una “pagina” di malinconica
consolazione: “Aprì il cielo l’alte soglie/all’Eroe
senza ventura/che soltanto lassù coglie/ricompensa
imperitura”. E’ dunque vero che la letteratura ha
interpretato la vita e la morte di Scanderbeg
attraverso modelli certamente storici ma anche
profondamente lirici. Resta un dato di fatto
importante.
Nella letteratura Scanderbeg resta la metafora del
condottiero che ha combattuto per scacciare i turchi
dall’Albania e per dare la libertà al suo popolo. Ma
queste imprese, che esulano dalla metafora perché
sono dati reali che rimangono nella storia, hanno un
principio fondante che è quello di dare un senso
identitario ad una Nazione che veniva costantemente
lacerata nella sua storia e nei suoi valori.
Storia e valori che conducono direttamente ad un
impegno che è stato quello di proporre una cultura
cristiana come baluardo nella avanzata dei turchi.
Mi sembra questo uno dei temi toccanti nel destino
di un popolo e di una civiltà. Anche oggi è
impensabile capire il ruolo di Scanderbeg senza
entrare nel di dentro di questa visione. La
letteratura lo ha “liricizzato” certamente ma nei
processi storici non può che essere individuato come
un riferimento nella certezza dei valori cristiani.
In una tale tessitura è chiaro che il concetto di
Mediterraneo, qui anche come metafora della unione
tra sponde, è una chiave di lettura in una
prospettiva moderna, nella quale il destino stesso
di un popolo trova quasi una forma empatica con il
destino della civiltà mediterranea. Scanderbeg
resta, da questo punto di vista, un vero e proprio
protagonista. L’Occidente come destino. Ma questo
Occidente è un Occidente cristianizzato.
Le forme antropologiche possono qui avere un loro
senso se dentro la storia che si va a sezionare si
ha la capacità, il coraggio, la forza di leggerla
con quei parametri che ci ha insegnato un grande
della storiografia contemporanea, ovvero Renzo De
Felice. Anche in Scanderbeg e nel suo passaggio tra
Islamismo e Cristianesimo non ci sono parentesi. La
storia va letta e interpretata nella sua
complessità.
Proprio da questo punto di vista Scanderbeg resta un
personaggio che continua a vivere nella nostra
contemporaneità e in un tempo in cui Europa,
Occidente, Mediterraneo e sponde d’Oriente sono un
intreccio di processi che vanno capiti, compresi,
approfonditi ma sempre fuori da logiche ideologiche
(o giustificazionistiche) e da fondamentalismi che
non appartengono ormai alla storia recente della
cultura cristiana.
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pubblicato il 1 Dic 2007
SULLE
ROTTE DEL MEDITERRANEO
La lingua, le
etnie e la letteratura: Il mare, il viaggio e le
culture in Italia
di PIERFRANCO BRUNI
I popoli che vengono dal mare
Dal mare dei Greci di Cesare Pavese ai Sardi e
Catalani di Maria Carta, di Elio Vittorini, di
Fabrizio De André, dagli Italo – Albanesi di Carlo
Levi agli Albanesi di Kodra, dai Friulani Pier Paolo
Pasolini agli Occitani di Mistral.
Con l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica
la ricerca di Pierfranco Bruni, dedicata a lingua,
letteratura,al viaggio e al mare, ai linguaggi etno
– letterari, sottolinea: "Dalla indifferenza alla
nostalgia. I segni e le etnie tra linguaggi,
tradizioni e beni culturali".
Identità e culture sommerse: un dialogo che
non può interrompersi. Il mare, le letterature, la
musica, la lingua italiana e i linguaggi popolari
lungo le eredità etno - antropologiche. Il tema del
viaggio e del sentimento del tempo in una ricerca
che pone all'attenzione le culture sommerse presenti
nella storia e nella cultura italiana. La lingua
italiana nel tessuto delle eredità etniche e
popolari della cultura italiana grazie ad un
incontro di metafore: il mare e il viaggio. L'etnia
sarda e "genovese" di Fabrizio De André, il mondo
Occitano di Mistral, il Friulano di Pasolini, gli
Italo-Albanesi di Carlo Levi, la Grecità sommersa di
Pavese sono solo alcuni degli elementi che
campeggiano nello studio di Pierfranco Bruni
pubblicato per conto del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali e dal Comitato Minoranze Etnico –
Linguistiche, sotto l'Alto Patronato del Presidente
della Repubblica.
La ricerca si sofferma sul rapporto tra, lingua e
linguaggi, letteratura, beni culturali ed etnie
grazie ad una analisi di scrittori, poeti e artisti
che si sono confrontati con la lingua, la tradizione
e il territorio in una geografia di identità e
diversità.
Lo studio ha come titolo: "Dalla indifferenza alla
nostalgia. I segni e le etnie tra linguaggi,
tradizioni e beni culturali". Si tratta di un
cesellare linguaggi e poetiche all'interno di una
visione nella quale il valore etnico costituisce una
chiave di lettura fondamentale tra le pieghe dei
linguaggi.
Il confronto tra i testi di Fabrizio De André che
scava nel tessuto letterario e linguistico sardo e
la geografia che Cesare Pavese descrive abitando la
grecità dei grecanici di Calabria costituisce una
originale interpretazione dello stesso valore etnico
dei territori. Così la lettura che offre Carlo Levi
tra i luoghi Italo – Albanesi della Lucania o il
mondo catalano "dipinto" da Elio Vittorini sono
particolari significativi nella storia di una
civiltà.
Pierfranco Bruni indaga tra le pieghe di questi
scrittori e poeti proponendo una lettura di spessore
estetico – letterario oltre che antropologico.
Il lavoro, arricchito da immagini e testimonianze
fotografiche, rientra nelle attività che svolge il
Comitato e che sono rivolte alla promozione e alla
ricerca dei patrimoni culturali delle minoranze
etniche presenti in Italia.
Il Comitato del MiBAC ha svolto un intenso lavoro i
cui risultati sono tutti documentati in
pubblicazioni e i riconoscimenti sono venuti da
diversi ambienti. Di recente è stato insignito,
insieme ad organismi come l'Unesco e la Rai, di alti
apprezzamenti culturali.
Pierfranco Bruni, in riferimento all'ultima ricerca,
ha sottolineato: "E' certamente un progetto
importante che spazia in quella cultura letteraria
che racchiude motivazioni linguistiche,
esistenziali, antropologiche. Soffermarsi sul
rapporto tra letteratura ed etnie, in un contesto
mediterraneo, è recuperare un rapporto tra i luoghi
e i linguaggi all'interno di quei processi etnici
che pongono al centro il sentimento delle radici e
la comprensione di un dialogo tra identità e
diversità in una dimensione in cui il tema del mare
– viaggio diventa fondamentale".
In questa nuova ricerca il percorso è tracciato con
una interpretazione letteraria attraverso rapporti
tra beni culturali e territorio in una
sottolineatura geo – mediterranea qual è quella
delle realtà minoritarie in Italia.
Storia, etnie, lingua e letteratura incontrano la
metafora del mare.
Tra gli scrittori presi in esame ci sono Cesare
Pavese e il suo rapporto con i Grecanici di Calabria
durante il suo confino (1935 - 36) a Brancaleone (in
provincia di Reggio Calabria), dal quale è nato il
suo romanzo dal titolo Il carcere, Elio Vittoriani
per il suo viaggio in terra di Sardegna e in
particolare per la capacità di leggere la cultura
Sarda e soprattutto Catalana con il libro Sardegna
come infanzia, Carlo Levi, confinato, anch'egli
negli stessi anni come Pavese, in Lucania ha
raccontato frammenti della cultura Italo – Albanese
in Cristo si è fermato ad Eboli e in particolare ha
lasciato un segno tangibile della sua passione per
questa comunità con il sul ultimo lavoro pittorico
dedicato a tre ragazzi in costume Arbereshe, Pier
Paolo Pasolini e il suo amore per la lingua e la
cultura friulana con il testo Poesie a Casarsa, le
quali restituiscono al mondo friulano la tessitura
di una profonda realtà contadina e Mistral: simbolo
della cultura e della storia Occitana con i suoi
racconti provenzali. Un capitolo importante è
dedicato anche a Maria Carta e il suo canto rituale
sardo, così come resta significativa
l'interpretazione sui linguaggi offerti dai testi
del cantautore Fabrizio De André.
"Si tratta di un confronto tra scrittori, sottolinea
Pierfranco Bruni, e un contestuale approfondimento
della loro interpretazione rivolta ai processi
etnici e antropologici in una chiave di lettura sia
etno – linguistica che etno – letteraria. Etnie di
mare e di terra, le cui matrici sono ancora
rappresentate all'interno dei vari contesti
territoriali italiani. Un intreccio per capire come
la letteratura si è confrontata non solo con la
lingua ma anche con la storia dei luoghi. Scrittori
che incontrano il territorio, un territorio le cui
eredità sono, in parte, collegabili con il
Mediterraneo e in parte con intagli nella storia
Provenzale ma la lingua resta sempre un sicuro punto
di riferimento anche se nella ricerca i legami con i
beni culturali sono abbastanza evidenti".
"Dalla indifferenza alla nostalgia. I segni e le
etnie tra linguaggi, tradizioni e beni culturali" è
un testo significativo perché pone all'attenzione un
dialogo tra questioni letterarie e problematiche
riferite ai beni culturali. Infatti, restano
importanti, tra l'altro, alcuni capitoli inerenti
gli aspetti archeologici e la visione storica dei
beni culturali.
"Un lavoro importante, aggiunge Bruni, che non si
limita alla sola dimensione etnica ma il raggio
interpretativo è abbastanza articolato e presenta
elementi singolari e importanti come il rapporto tra
territorio, lingua, archeologia e letteratura. Un
viaggio nella comprensione e nella lettura dei
linguaggi. Linguaggi che non vanno letti soltanto
attraverso codici folcloristici ma bisogna dare loro
spessore letterario ed estetico. Focalizzare
l'attenzione sull'analisi solo antropologica o
storica non rende verità a un processo complessivo
su quelle culture che vivono su un tessuto di
contaminazioni. La letteratura è un riferimento
importante che si colloca all'interno di una visione
ampia ed esteticamente valida proprio in termini di
rilettura etno – letteraria ed etno -
antropologica". |
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pubblicato il 1 Set 2007
Una
cultura tra identità e futuro
Salviamo la
lingua Arbereshe dall’Albanese.
di Pierfranco Bruni
Nel discorso riguardante le presenze di minoranza
etnico – linguistica in Italia si pongono dei
problemi sia riguardante la lingua sia l’aspetto
inerente la questione etno – antropologica vera e
propria. Per ciò che riguarda quest’ultima si
avverte la necessità di una visione comparata tra la
realtà minoritaria insediatasi in un terminato
territorio e le culture autoctone. Una comparazione
che diventa confronto e mai chiaramente
omologazione. L’aspetto antropologico chiama in
causa elementi storici, letterari, musicali,
archeologici, artistici.
È naturale che sia così. Le comunità minoritarie si
sono ben integrate all’interno del tessuto di
accoglienza pur mantenendo fede ad una “norma”
identitaria ben definita. Ed è giusto anche che sia
così. Le identità e le appartenenze costituiscono
una chiave di lettura forte per penetrare la storia
di un popolo all’interno di una civiltà.
Tra le presenze minoritarie c’è quella Italo –
albanese (e qui entriamo nell’altro problema) che si
mostra con un “repertorio” ereditario consistente
che proviene da due sponde. L’incontro tra Oriente
ed Occidente resta fondamentale e deve continuare a
manifestare tasselli di cultura. Adriatico e
Mediterraneo sono un incontro fondamentale. Ma qui
si pone un’altra questione che è quella della
lingua.
La lingua Italo – albanese può essere completamente
assimilabile con quella albanese? Il problema si è
posto, il problema si pone ma ci sono scuole di
pensiero che sottolineano cesellature significative.
Il dato centrale è quelle di tenere viva la cultura
Italo – albanese e con la cultura la lingua stessa
che è quella parlata all’interno delle comunità e
non una lingua ufficiale vera e propria. Non credo
che possa essere possibile un processo linguistico
che porti ad una "lingua" unificata arbëreshe nelle
aree territoriali Italo-albanesi. E non è
soprattutto pensabile, e tanto meno auspicabile, che
questa lingua unificata possa essere l'Albanese
d'Albania.
Ci sono tentativi - sul versante "lingua albanese
d'Albania" - che occorre bloccare immediatamente, se
non si vuole portare alla deriva non solo la lingua
Arbreshe ma anche la sua cultura e quei valori che
provengono dalla tradizione che ogni territorio
riesce ancora ad esprimere e salvaguardare.
Bisogna tutelare l'Arbresh nella sua articolazione
territoriale e difenderlo culturalmente da forme di
accerchiamento accademico e di verticismo, che
porterebbero alla morte di una lingua arbreshe che è
espressione, tra l'altro, di identità e, quindi, di
appartenenza a quell'essere territorio che è la vera
caratterizzazione di una comunità.
Ci sono fattori di ordine prettamente culturale nel
rifiutare, a priori, la sostituzione delle "parlate"
Arbreshe con la lingua albanese. La lingua Arbreshe,
pur nelle sue contraddizioni, resiste proprio perché
è diversità, proprio perché è dentro una dimensione
in cui ci sono due elementi-chiave: l'etnia come
relazione ad una appartenenza territoriale e la
lingua che si è consolidata in un meticciato con il
territorio della comunità. Nel volerla forzatamente
sostituire, si assisterebbe ad uno sradicamento
straziante anche dal punto di vista antropologico e
non solo linguistico o lessico - espressivo.
Non è consentito avviare alcun processo di
sostituzione, perché si aprirebbe la strada al
devastante modello di conformismo e di sconfitta di
quelli che oggi chiamiamo archetipi di appartenenza
ad un luogo. Questi archetipi sono formati anche
dalla lingua. Non possono essere dimensioni
omologanti. E tanto meno si può pensare di omologare
l'Arbresh all'albanese.
Non si tratta di sostituire/uniformare una lingua
soltanto. Si andrebbe ad uniformare una storia, una
cultura e addirittura una eredità e una
appartenenza.
Ci sono fattori giuridici che non possono passare
inosservati. Fino a quando si discute e si dettano
ordinamenti per la tutela delle minoranze
etnico-linguistiche è un fatto. Un discorso
disgregante, con connotazioni politiche,
comporterebbe la tutela e la valorizzazione di una
lingua ufficiale di un altro Paese e di un'altra
Nazione. Si creerebbe, in questo caso, una vera e
propria isola linguistica all'interno della lingua
italiana. Ciò non è ammissibile in virtù sia del
dibattito inerente alla modifica dell'articolo 12
della Costituzione sia in materia inerente alla
L.482/99, istituita per tutelare le minoranze
etnico-linguistiche e non la lingua di un altro
paese.
Sono più che convinto che la L. 482 va rivista e
modificata, ma per altri motivi, che dovrebbero
sempre più interessare le minoranze storiche. Si
tratta di una normativa sbagliata già dal suo
nascere. Attenzione, perché si parla di minoranze
storiche e non di conflitti tra lingue o di
minoranze post-moderne. Anche la questione legata
alla lingua deve tenere conto di fattori storici.
E su questo credo che dovrebbero esprimersi pareri
sia in sede Unesco sia in sedi parlamentari sia
nelle sedi riguardanti la Società Dante Alighieri,
che svolge un ruolo importante nella promozione e
tutela della lingua italiana. Vanno tutelate
chiaramente e fortemente le lingue e le culture
minoritarie ma non “sostituite” e non assimilate con
lingue nazionali.
Un intervento serio sarebbe invece quello di
tutelare sempre più, nei vari organismi, la lingua
Arbreshe. Oggi fare un discorso di altra natura
sarebbe addirittura antistorico e, chiaramente,
risulterebbe viziato ideologicamente.
C'è, invece, una tradizione che va difesa, c'è un
modello di appartenenza che resta sempre più legato
al luogo e alla comunità. Ci deve essere rispetto
nei confronti di una cultura popolare che trova il
suo humus nel territorio, dove ha intrecciato legami
umani e culturali.
Si pensi, dunque, all'Arbresh e a far vivere
l'Arbresh e non a sostituirlo con la lingua
albanese. L'Arbresh è "diversità", come tutte le
culture minoritarie, e "si tutela nella diversità",
come direbbe Pier Paolo Pasolini, grazie a quelle
parlate che hanno trovato il loro tessuto
all'interno dei territori.
L'Arbresh deve diventare sempre più la lingua di un
luogo (o delle comunità), e non la surrogazione di
una lingua ufficiale, che è lingua di un'altra
Nazione. L'Italia tutela le presenze minoritarie ma
non può istituzionalizzare una lingua che non
appartiene antropologicamente alle comunità
Italo-albanesi.
Bisogna insistere sul fattore “diversità” perché è
proprio il valore della diversità che rende ricca
culturalmente una minoranza. L’intreccio tra il
senso di appartenenza e i valori ereditari fanno una
etnia una risorsa proprio perché riescono a
mantenere non assimilabile un patrimonio.
La loro diversità è completezza di una cultura. Ci
sono gruppi di popolazione Italo – albanese che
hanno dato vita ad un hmus territoriale. Una civiltà
che non ha mai smesso di confrontarsi con il
territorio circostante. La cultura Italo – albanese
resiste perché ha espresso una sua autonomia dalla
storia dell’Albania stessa pur derivando da principi
e fattori scanderbeghiani. Il punto è proprio
questo.
La lingua non è soltanto una sintassi, una
morfologia, una grammatica. Una lingua è un sostrato
etno – antropologico formatosi e rafforzatosi
all’interno della comunità stessa dei parlanti. La
grande storia degli Italo – albanese è dentro
l’incontro tra Oriente ed Occidente non solo dal
punto di vista culturale, artistico e religioso ma
anche linguistico. |
pubblicato il 2 Lug 2006
LA
DONNA VALDESE
di Maria
Zanoni
Parlare del
ruolo della donna nella storia della società e nella
comunità valdese, in occasione della
presentazione del volume “Ricchi nella fede e
poveri in spirito” di Aceto, Bevilacqua e Guido,
qui a San Sisto dei Valdesi, un grazioso paese
guidato da un dinamico sindaco-donna, in una
struttura storica, palazzo Miceli, bene culturale
prezioso da valorizzare, ha un fascino particolare.
Il merito più grande di questo volume sta nell’opera
di ricerca delle radici della comunità di San Sisto
dei Valdesi, nell’affermazione della memoria
storica, importantissima per il recupero
dell’identità dei luoghi e delle persone, per non
dimenticare le nostre origini, l’identità religiosa,
culturale e la lingua (bene culturale da tutelare,
per impedirne la totale scomparsa).
Nei paesi di cultura valdese la lingua, le
tradizioni, i costumi, la religione comunicano
identità storiche e valori attraverso i quali si può
ricostruire un significativo patrimonio storico e di
civiltà.
L’identità della cosiddetta minoranza valdese
affonda le sue radici in dimensioni antropologiche,
storiche e religiose e di moduli linguistici a
queste ancorate.
Qui rispetto a Guardia Piemontese solo qualcuno
parla l’occitano, le giovani generazioni non
conoscono affatto la lingua e la storia dei loro
padri.
Perciò, le giovani ricercatrici, con il patrocinio
della provincia di CS, hanno fatto una intelligente
operazione di promozione culturale del territorio,
che segue a ruota l’interessante e puntuale saggio
di Antonio Perrotta sui Valdesi a San Sisto e
nell’hinterland, teatro nel lontano nel 1560 di una
delle più spaventose carneficine nella storia dei
movimenti religiosi.
L’importanza di questo volume sta nel coraggio delle
tre Autrici di indagare in un terreno accidentato,
per troppo tempo considerato scomodo e difficile.
Già dal titolo “Ricchi nella fede e poveri in
spirito” il testo lancia un messaggio significativo.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice “Beati i poveri in
spirito”.
Ma i poveri di cui parla non sono quelli che la
società ha reso poveri, ma quelli che
volontariamente scelgono la condizione di povertà
per eliminare la radici della povertà dalla
condizione degli altri.
Si mette in evidenza il rispetto dell’altro,
l’importante missione, di maestri e guide nella
fede, di qualsiasi religione si parli.
D’altronde, dogmi, canoni, riti e liturgie religiose
sono stati definiti secoli fa, in contesti storici,
sociali, economici e culturali del tutto differenti
e di minor progresso civile rispetto ai nostri
giorni.
Oggi, invece, si assiste alla presenza di fedi
religiose diverse, aggiuntesi a quelle già
esistenti, accolte quasi sempre con tolleranza, a
volte con indifferenza.
In questi ultimi tempi si cerca il dialogo e la
collaborazione tra culture, religioni ed etnie
diverse. Ma il dialogo antepone il rispetto della
comune eredità di tutte le religioni, il profondo
rispetto del sacro.
Infatti,Giovanni Paolo II° in occasione del Giubileo
del 2000, ha affermato che tutta la Chiesa ha
sentito il dovere di chiedere perdono al mondo, di
riesaminare il suo passato per riconoscere le
incoerenze in cui sono incorsi i suoi figli.
Una nuova consapevolezza storica, un contributo
forte alla pace e alla comprensione reciproca.
Ed ora, fatta questa premessa, mi soffermo a fare
qualche riflessione sul ruolo della donna valdese,
che l’agevole lettura del libro mi ha stimolato.
Per parlare dell’evoluzione della donna valdese, non
si può fare a meno di parlare, seppure
sinteticamente, delle trasformazioni fondamentali
della società nelle sue strutture sociali,
economiche e ideologiche.
Le trasformazioni del ruolo (sia che la donna
appartenga ai Valdesi o meno) vanno di pari passo
con i mutamenti della società, delle relazioni tra
uomini e donne e sono sempre in funzione delle
eredità familiari, culturali e religiose.
Nella storia del genere umano, fino ad oggi, ancora
esiste il dualismo maschile femminile; e nella
società del terzo millennio ancora a dominio
maschile, la cittadinanza della donna rimane
incompiuta, seppure dopo tante lotte sia stata
affermata una nuova identità.
Noi donne oggi godiamo di grandi spazi di libertà e
di maggiori diritti conquistati tramite le lotte
delle nostre bisnonne che hanno dovuto sopportare
soprusi, violenze e spargimento di sangue in una
società in cui l’uomo ha sempre detenuto il primato
di superiorità.
La condizione esistenziale della donna nel tempo è
stata in continua altalena tra la totale – o quasi –
subordinazione al maschio (padre, marito, fratello o
amante che fosse) e l’affermazione di maggiore
potere, di un ruolo centrale, già rivestito
all’interno della famiglia.
Nella società tradizionale se la donna da un lato è
priva di potere nella sfera pubblica, all’interno
della famiglia ha un ruolo determinante, sia come
educatrice dei figli, sia come colei che coordina i
rapporti tra i membri della stessa.
Uno dei punti determinanti del ruolo della donna ,
oltre lo stato economico-sociale, è la cultura
religiosa.
Purtroppo, infatti, le donne sono state per lungo
tempo considerate inferiori all’uomo e lasciate ai
margini della società, senza che fosse data loro la
possibilità di agire liberamente e di dare un
contributo concreto e valido al progredire
dell’umanità.
Il mondo religioso in particolare è stato un settore
riservato quasi esclusivamente al mondo maschile,
soprattutto se parliamo del 1500 e dell’epoca della
Riforma religiosa che investì l’Europa.
Se pensiamo che gli innovatori della Riforma furono
tutti uomini, da Lutero, a Calvino, a Zuingli, a
Enrico VIII in Inghilterra, ci sembra che pochi
personaggi femminili hanno avuto un ruolo importante
nella storia,
Invece esiste una serie di donne, tra cui personaggi
famosi come Elisabetta I d’Inghilterra o Caterina da
Genova, e una serie di donne comuni che, sfidando le
abitudini dell’epoca in cui vissero, decisero di
seguire un percorso nuovo ed innovativo.
Ci furono donne che diedero un contributo notevole
allo sviluppo della società, trovando il coraggio di
rompere gli schemi della società stessa in cui
vivevano.
Nel XVI° sec. infatti, per le donne che volevano o
dovevano intraprendere la vita religiosa, l’unica
possibilità era quella di farsi monache, costrette
al sacrificio, nella clausura rigorosa,
nell’astinenza e nel silenzio.
In quel tempo la situazione sociale e politica
dell’Italia, e della Calabria in particolare,
gravata dal predominio spagnolo, era disastrosa.
Ma proprio tra le comunità di fede valdese la
condizione femminile andava cambiando.
La prima e fondamentale riforma che allora
s’imponeva era quella del costume: la nuova
generazione femminile doveva essere religiosamente
educata a resistere alle attrattive della seduzione.
Lo scopo in quell’epoca rinascimentale in cui la
vita veniva considerata da troppi esclusivamente
fonte di piacere, era quello di far rivivere, la
santità, la purezza, l’operosità benefica delle
antiche vergini dei primitivi tempi cristiani.
Il momento di svolta più importante nella storia dei
valdesi è costituito dalla loro adesione alla
Riforma nel 1532; allora i seguaci della teologia di
Calvino, uscirono dalla clandestinità ed entrarono
ufficialmente nella scena politica europea.
E da quel momento politica e teologia si legavano
fortemente.
I Valdesi radicalizzarono la loro separazione da
Roma, costruirono le prime chiese e introdussero il
culto pubblico.
Ma la svolta principale fu la riqualificazione
ministeriale della donna: anche la donna valdese
cominciò a predicare e ad insegnare (e questo fu uno
dei motivi più forti della scomunica).
Dal Medioevo la maggior parte delle valdesi venne
bruciata con l'accusa di stregoneria: la parola 'valdesia'
significava 'stregoneria'.
Giovanna d'Arco, venne mandata al rogo anche per 'valdesia'.
Nel Medioevo la donna venne demonizzata come
creatura malefica, bugiarda, ribelle e, quindi,
facile preda del demonio.
Ma le accuse di stregoneria erano spesso motivate da
invidie ed interessi personali, per colpire
personaggi scomodi, donne con idee innovatrici ed
originali, che guarivano le malattie utilizzando
erbe medicinali.
La persecuzione contro la stregoneria si confuse a
quel tempo con quella contro l’eresia.
La vita delle donne in Calabria a quel tempo era
quella di creature robuste, abituate al lavoro duro
dall’alba al tramonto nelle famiglie patriarcali.
E mentre le ragazze valdesi venivano istruite, le
altre restavano analfabeti o quasi, a lavorare nei
campi.
Le donne dei Valdesi, obbedienti e caste, erano
spose rispettose, alter ego dei mariti.
La severità della loro credenza religiosa, fatta di
semplicità e di castigatezza delle usanze, basata
sulle regole di povertà, castità ed obbedienza, si
rispecchiava anche nel costume indossato.
Il lavoro incessante delle donne valdesi, per
conquistare grande visibilità sin dal 1500 quando il
ministero della parola era riservato soltanto agli
uomini è continuato nei secoli.
Solo nel 1962 il Sinodo, sulla base di relazioni
teologiche di grande rilievo, dichiara a grande
maggioranza che la Chiesa non può negare la
vocazione al sacerdozio, sia dell'uomo che della
donna.
La prima consacrazione femminile è di una pastora
siciliana nel 1967.
Ancora oggi, come afferma Maria Bonafede, la nuova
moderatora delle chiese valdesi e metodiste, la
prima donna a capo dell’esecutivo, sono poche le
donne valdesi che rivestono incarichi di prestigio.
In conclusione, auguriamo come a tutte le donne del
mondo anche alle donne valdesi di conquistare sempre
maggiore visibilità, rispetto e dignità. |
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