Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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pubblicato il 28 Ottobre 2013 

La morte del regista Luigi Magni.

Ne parliamo con Pierfranco Bruni: “Dal  regista allo sceneggiatore tra storia e letteratura - una magistrale testimonianza”

 

a cura di  Manuela Achab

 

  

Molti film di Luigi Magni sono “pezzi” di storia, di letteratura, di ironia, di  leggere il mondo cattolico attraverso i fatti che diventano ironia. Luigi Magni è morto a 85 anni.  Restano le sue regie, le sue sceneggiature, le sue collaborazioni. Un regista che ha raccontato come se il tutto fosse in una cronaca che diventa storia e la storia è storia di fatti e di interpretazioni.

Lo scrittore Pierfranco Bruni, che per conto del Sindacato Libero Scrittori Italiani, si è occupato del rapporto tra letteratura e cinema ha risposto ad alcune nostre domande.

D. Quale relazione è possibile leggere nei film di Luigi Magni tra storia e realtà?

Risponde Pierfranco Bruni: “I film di Magni sono storia. Ha raccontato attraverso la macchina da presa anche una storia anticonformista servendosi sia della rigorosità sia, in molte occasioni, dell’ironia.

D. Quali film consiglierebbe oggi?

R. Voglio ricordare, tra i tanti, il film ‘O Re  oppure il film su Ponzio Pilato. Nel prima si racconta l’altra storia dell’Unità d’Italia con un narrare straordinario e una magistrale interpretazione di Ornella Muti e Giancarlo Giannini. Ma è il concetto di storia che ritorna in modo profondo dando una originalità particolare all’ultima regina del Sud. Nel secondo c’è il Pilato incredulo e l’immagine di Claudia, la moglie di Plato, assume  una centralità completamente da leggere.

D. C’è anche In nome del Papa Re

R. Un film toccante che rende protagonista una cultura popolare non “cinematografata” ma è un popolo reale che scava non nell’immaginario ma nella verità…

D. La storia come verità?

D. Si pensi anche al film In nome del popolo sovrano.  Insomma la cultura identitaria del popolo, in Magni, resta fondamentale fino ad uno dei più recenti La Carbonara.

D. Se dovesse rivedere oggi un film di Magni quale sceglierebbe?

R. Passerei dall’ironica versione de La Tosca sino al film che più preferisco che è il già citato ‘O Re. Ma cercherei un film di cui Magni ha realizzato la sceneggiatura.

D. Ovvero…

R. Ovvero La Mandragola. Un film, tatto da Machiavelli, il cui regista è Alberto Lattuada e risale al 1965. Una sceneggiatura imponente e ne esce fuori un Rinascimento attraversato da storia e letteratura con una centralità forte dei personaggi. Aver sceneggiato Machiavelli non è facile.

 

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pubblicato l'11 Ottobre 2013

Ricordo di Tanino De Santis, direttore di “Magna Grecia”,

cultore e protettore dell’Antichità

 di Sara Minuto

 

Agosto 2013: amici greco ciprioti, profughi nella Cipro greca, lamentano i mancati interventi per la salvaguardia e la protezione dei Beni archeologici ed Artistici presenti in quella parte dell’isola occupata dai turchi nel 1974. Dal luglio 1974 molti Beni sono stati trafugati, portati all’estero e venduti a privati, fatti sparire nel nulla, se non distrutti. A quasi quarant’anni dalla fatidica invasione (“isvoli”), si piange la perdita di un patrimonio artistico di superba bellezza e di notevole importanza storica, oltre che l’espropriazione dalle terre di migliaia di greco ciprioti.

Sono passati quasi cinquant’ anni da quando Tanino De Santis ha fondato e ha iniziato a dirigere Magna Grecia, rassegna di archeologia, storia, arte e attualità, preziosissimo strumento di informazione e circolazione di idee e iniziative sul mondo antico della Magna Grecia, in particolare la Piana di Sibari, sua terra d’origine.

Tanino De Santis, nato a Francancavilla Marittima (Cosenza) nel 1928, era figlio del medico curante del paese, il dottore Agostino De Santis. Quest’ultimo, presidente dell’Associazione “Ritorno a Sibari”, ricordato negli scritti di Amedeo Maiuri, fu noto promotore di campagne di scavo e saggi nella sibaritide al tempo delle ricerche dell’archeologa Paola Zangani Montuoro, sua cara amica e collaboratrice di U. Zanotti Bianco nei primi scavi alle foci del Sele.

Tanino De Santis, pertanto, fu avviato dal padre verso una sorta di dialogo col misterioso e fulgido passato della sua terra, che prese forma e parola nelle due pubblicazioni Sibaritide a ritroso nel tempo del 1960 e La scoperta di Lagaria 1964,  e infine nella rivista Magna Grecia, da lui fondata, curata ed economicamente sostenuta dal 1966 fino al 2002, anno in cui si interrompono a causa di quei problemi di salute che negli anni si sono seriamente e fatalmente aggravati.

Agostino e Tanino de Santis in una foto degli anni Sessanta a Lagaria

 

Prima della dedizione totale a Magna Grecia si ricordano i primi passi nel campo delle pubblicazioni di ambito archeologico.

La moglie Zina Rodotà, fedele compagna di una vita costellata di impegno, energia e sacrifici offerti per la valorizzazione della propria terra, conserva le bozze dell’ultima copia che sarebbe dovuta andare alle stampe nel 2003, ma che di fatto non è stata mai edita.

Seguendo dunque il cammino segnato dal padre, Tanino De Santis, che nel 1970 venne insignito del premio “U. Zanotti Bianco” dall’Associazione “Italia nostra” per la sua strenua difesa del valore archeologico della Piana di Sibari, attraverso Magna Grecia, avviò un’incalzante campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul  valore della Sibaritide e di tutta la Calabria antica, contro lo strapotere e la cecità dei vari governi del Paese e delle loro politiche di industrializzazione del Sud Italia, completamente insensate e distruttive.

Questo grande evergete moderno, a cui negli anni novanta fu dato un alto riconoscimento per il contributo essenziale per la valorizzazione della civiltà  greco antica dall’Accademia di Atene e la Fondazione per la cultura greca di Atena, si è spento nel luglio del 2013 e, sebbene i risultati esiziali  di queste politiche sono sotto gli occhi di tutti, egli ci lascia in eredità Magna Grecia, che, grazie al suo strenuo impegno e alla sua dedizione alla causa della protezione e conservazione delle Antichità del Sud Italia, costituisce uno strumento validissimo di consultazione e di ricerca a cui attingere per trarre informazioni su quanto è stato detto fino adesso, ed è fonte di idee su quanto si potrebbe ancora fare per salvaguardare il nostro Patrimonio nazionale e mondiale.

 

La rivista Magna Grecia, che come quasi sempre va ricordato ad ogni edizione, “non ha scopo di lucro”, ha ospitato nelle sue pagine articoli contenenti rapporto di scavo, risultati di ricerche e prospezioni, ricerche storiche, articoli che testimoniano il succedersi di eventi altamente culturali come i Convegni Internazionali di Studi sulla Magna Grecia, i Convegni Storici Calabresi organizzati dalla Deputazione di Storia patria per la Calabria, gli Incontri di Studi Bizantini, i Convegni Nazionali di Archeologia Classica, i Congressi Internazionali di studi sulla Sicilia Antica e tante altre interessantissime attività, nonché articoli che attestano traguardi di studi di linguistica e dialettologia, con particolare attenzione ai dialetti greci dell’Italia meridionale, e infine articoli dedicati al ricordo e alla memoria di tanti calabresi e degli studiosi di ogni provenienza, che si sono prodigati per fare il bene testimoniando e proteggendo il valore del Patrimonio culturale del nostro paese

 

Scorrendo, dunque, le pagine delle numerosissime annate della rivista, edita in Calabria col concorso del Consiglio Nazionale delle Ricerche, si leggono tra gli autori degli articoli nomi come S. Ferri, P. Orsi e U. Zanotti Bianco (di cui si pubblicano alcune memorie), A. Frangipane, A.Karanastasis. G. Rohlfs, D. Adamastenu, P. E. Arias, G. Monaco. L. Bernabò Brea,, R. Cantarella, S. Settis, F. Zevi, P.G. Guzzo, M. Marra Bagnasco, C. Diano, G. Cremonesi. G. Vallet, E. Langlotz, D. Ridgway, M. Sakellariu, J. B. Perkins, M. Pallottino, P. Themelis, G. Caputo, M. Andronikos, O. Elytis (di cui si ricorda il premio Nobel conferitogli nel 1979), P. Ebner, R. Peroni, P. Zancani Montuoro, G. Colonna, G. Arrighetti, S. Moscati, G. Clemente, G. Huxley, G. De Sensi Sestito, D. Minuto. C. M. Lerici, L. Cavagnaro Vanoni, D. Mertens, E. Greco, F. D’Andria, E. Lattanti. E. Manni, F. Mosino, C.K. Williams, P. Scarpi,V. Di Benedetto, O. Longo, D. Del Corno, G. Pugliese Carritelli, G. Vallet, G. Garbini, B. Bilinski, M. Cristofani, C. Belli e tantissimi altri.

 

Tutti costoro hanno saputo rispondere all’accorato appello di Tanino De Santis che, descrivendo la sua rivista come “periodico aperto a tutti i problemi  archeologici, storici, artistici, culturali relativi al territorio della Magna Grecia intesa da Napoli alla Sicilia inclusa,(…) che pubblica notizie in materie archeologiche utilissime oggi che, com’è noto, i ritrovamenti di grande interesse  restano per anni sconosciuti in attesa di studio e restauro, ed è libera tribuna a disposizione dei lettori” si rivolgeva “ai custodi di antiche memorie, agli studiosi, agli studenti, alle persone colte, a quanti conoscono bene l’atmosfera di disinteresse che nel Mezzogiorno troppo spesso accoglie e mortifica le realizzazioni informate alla cultura e all’arte”.

 

Al nome di De Santis è legato anche il nome di un vaso greco, una pelike a figure rosse detta “del pittore de Santis” datata tra il 330 e il 320 a. C., trovato durante una delle prime campagne di scavo promosse dal dottor Agostino De Santis nei suoi terreni di proprietà in Sibaritide e donato da Tanino De Santis al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria.

A nominarlo così, inserendolo nel filone stilistico della cerchia del  “pittore degli Inferi” è stato il professore Arthur Dale Trendall, esimio studioso di ceramica greca antica, fondatore della ricerca archeologica classica australiana, socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei e della Pontificia Accademia di Archeologia, scomparso nel 1995.

 

Due furono le grandi passioni di Tanino De Santis, la campagna calabrese e l’Antichità.  Nel numero della rivista del giugno 1978, così commentava una suggestiva foto in bianco e nero della Piana di Gioia Tauro, il territorio delle Saline, luogo di eremitaggio e ascetismo per monaci bizantini, ricche un tempo di ulivi secolari: “  i più colossali, antichi e nobili ulivi delle coste del Mediterraneo freddamente e inutilmente sacrificati da politicanti senza scrupoli, all’insegna della più grande e vergognosa impresa antiecologica di tutto il Mezzogiorno”.

Mentre nel numero della rivista del dicembre 1977 commentava così una foto di un vaso antico: “Vaso in bronzo proveniente dalla Sibaritide, un tempo nella collezione del barone Giuseppe Compagna di Corigliano C. ed ora finito chissà dove”.

 

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pubblicato il 30 Maggio 2013

Gli uomini è come se abitassero in un negozio di scarpe e tra il riso degli sciocchi

Così mi ha sottolineato mia figlia

 di Pierfranco Bruni

 Non so se la politica dovrebbe essere la “scienza dell’uomo” o se noi dovremmo poterla considerare tale. Machiavelli e Guicciardini non si sono giocati la loro partita sul tavolo dell’etica o della morale. Piuttosto del comportamento dell’uomo che ha una sua “ratio” ma anche uno suo squilibrio.

Non so se considerarci “profeti disarmati” (Savonarola è una testimonianza ma non un testamento) o chiedere alla “ragione” di diventare critica o per lo meno kantiana ma di una cosa sono convinto in questo nostro tempo triste che ha lo sguardo inquieto. Il post – illuminismo ha forzato il giacobinismo partendo da un’idea prettamente rinascimentale che è quella di realizzare l’uomo nuovo.

 

Ma l’uomo nuovo non esiste, non può esistere. Esiste l’uomo con le sue passioni, i suoi dubbi, le sue ipocrisie. Ed è questo uomo delle contraddizioni che crea le epoche fragili e deboli o le epoche dominanti nella loro fortezza, che resta una virtù fondamentale. Come sono certo che la modernità è nel sempre di ogni tempo.

La crisi della politica non è la caduta delle idee. Piuttosto è la debolezza degli uomini, delle loro coscienze, delle loro ingratitudini, delle loro incoerenze. Mali che rendono il viaggio senza consolazioni ma restituiscono al pessimismo l’amarezza.

 

Gli uomini sono tutti dei giocatori. È inutile rileggersi Dostoewskij. Il giocatore, non il gioco della menzogna del fanciullino pascoliano, deve conoscere i limiti, le puntate, la prudenza, il coraggio, il rischio, la scelta. Gli uomini di questo nostro tempo sono cattivi giocolieri perché pensano che la fortuna senza la virtù (ritorniamo a Machiavelli) può  avere un ruolo determinante. Non è così.

Proprio ieri mia figlia mi diceva. Vedi, che ancora alla tua età (ovvero alla mia età) non hai ben compreso l’essere umano. Ci sono persone che abitano addirittura negozi di scarpe. Difficile, a dire il vero, questa metafora. Cosa voleva dire? Semplice. Gli uomini non calzano soltanto un paio di scarpe. Ci sono piedi che ne calzano quattro. E una sola scarpa, a volte, può contenere quattro piedi.

 

Il Nodo di Gordio, dunque è sciolto. La politica è in questo gioco che può sembrare effimero ma non lo è.

Il vero giocatore, riprendo la parola e rivolgendomi a mia figlia,  è quello che trovandosi in un Casinò (ho detto casinò e non casino) punta un tavolo verde e si ferma per una intera nottata  tra sconfitte e vittorie e resta impeccabile (come il guerriero di Castaneda) sino a sorridere per la sua coerenza nell’essere rimasto fiero e nobile seduto al suo posto.

Il vero scommettitore è quello che entrando in Ippodromo sa già sino alla fine di tutte corse su quale cavallo spendere il suo numero. O vince o perde. Ma deve restare fedele e affidabile.

Gli uomini non sono né fedeli e tanto meno affidabili. Per il mondo cattolico basta una Damasco per correggere il percorso. Per un guerriero il problema non si pone.

 

Per un Sufi ci sono le stelle danzanti nel giro derviscico. In questo nostro tempo di agostiniana testimonianza chiediamo ancora coerenza alla politica?

È proprio vero che “gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità” (Machiavelli).

Ma c’è una certezza che invade le mie conoscenze. Meglio essere folli che imbrigliarsi nella ipocrisia dei savi. I folli non abiterebbero mai un negozio di scarpe. I savi ipocriti sanno calzare scarpe sempre al momento opportuno e i loro piedi, anche tra le piaghe, resistono al riso degli sciocchi, ma arriverà il tempo delle scarpe chiodate.

 

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pubblicato il 24 Maggio 2013

Cristo eretico nell’utopia del mistero come  verità della salvezza divina

oltre la Chiesa

di Pierfranco Bruni

Tra il Dio sconosciuto e il Dio ignoto c’è,  in modo quasi paradossale anche sul piano di una metafisica sia teologica che filosofica, un Dio dimenticato. Ovvero un Dio esistente che si è fatto carne dentro quella ontologia della storia che non ammette dubbi ma che si definisce con la ragione dell’assoluto.

Chi ha fede e crede, crede perché ha fede ed ha fede perché crede.

Non si tratta di una articolata gioiosa forma linguistica ma di una visione dell’immortalità che si innesca nella coscienza degli uomini che abbandonano la parola della storia per incarnarsi nel mistero della parola. Dio non è storia perché non è ragione.

 

Può sembrare una contraddizione di fatto e nei fatti ma la crisi di credibilità nella quale è caduta la Chiesa cattolica apostolica romana è una crisi di fatto e di avvenimenti che hanno messo in discussione il confronto e lo scontro tra ragione pratica e ragione etica. Siamo ancora nel campo filosofico e il pensiero non può che avvalersi di una gnosi alla quale faceva riferimento quella “Città di Dio” agostiniana che, comunque, cercava di farsi mistero.

La ragione agostiniana vive in uno scontro efficace tra fede (quindi certezza) e mistero (quindi dubbio). Ma Pascal che ha anteposto alla ragione della storia la ragione del cuore è entrato immediatamente in una teologia che è quella della parola. Ma il mistero ancora una volta non si serve della teologia della parola.

 

La crisi della Chiesa è il non voler ammettere la possibilità di un cristianesimo oltre la storia. Questo è uno dei punti nodali che pone una discussione sulla cristocentricità della missione religiosa cristiana. Il Cristo come centralità del sacro non subisce neppure “virtualmente” la crisi della fede perché è corpo e anima ma è, soprattutto, l’invisibile visione che è vivente nei cuori. Senza questa visibile visione vivente tutto diventa storia e tutto si lega ad una spiegazione delle ragioni fondamentali dell’uomo e dei popoli. Non saprei se accettare la discussione sulla ricerca della fede o dell’andare incontro alla fede.

Se parto da un presupposto mistico – alchemico (alchemico perché il mistero è un Oriente di pietre incastonate nelle verità non assolute e i paraggi dell’anima non conoscono punizioni) la ricerca della fede cosa diventa? Io non posso cercare la fede. È la fede che mi viene incontro.

 

È la fede che si intreccia nel mio essere e trasforma il mio tempo in un non tempo che è l’indivisibile camminamento nell’eternità. Il camminare non è il cercare. Io cammino dentro l’attesa. Non cerco nell’attesa. Io vivo l’attesa. Il mistero diventa così invalicabile e non ha bisogno più nè di un logos nè di una teologia perché il mio “sottosuolo” ha già dentro di sé il vuoto e la separazione tra l’essere e la ragione.

La filosofia kirkegaardiana è molto più dentro il concetto di sacro – cristiano che in quello di teologia – storia. E se questo è il presupposto per focalizzare il mio sguardo sul Cristo della fede – mistero e non della fede – dubbio non posso che disconoscere la Chiesa come struttura pietrina.

 

Cristo è il  potere della volontà come rappresentazione dell’anima nella coscienza dei viandanti. Forse le riflessioni del saggio “L’anticristo” di Nietzsche hanno una loro attenzione verso quel sacro che non si definisce nella volontà di potere come rappresentazione (si entra e si esce dalle filosofie tardo romantiche decadenti) ma nell’attesa di un “Ecce homo”.

Ciò  mette in discussione le ragioni dell’ateo perché nel sangue di “Ecce homo” c’è la purificazione della storia teologica in mistero camminante. Le crisi sono dovute a grandi confusioni in cui teologia, filosofia e mistero si annunciano come voci dialoganti. Ma non lo sono perché, in fondo, costituiscono un assoluto. La Chiesa è un assoluto perché, oltretutto, ha posto nel suo mosaico la teologia e la certezza del credo – credere.

 

E perché, allora, il grande rifiuto di Celestino V? E perché l’abbandono di Benedetto XVI nel seguire la chiesa cattolica apostolica? Forse solo la contemplazione salverà il Cristo in Croce? E il Cristo risorto chi lo condurrà tra la conoscenza e la perseveranza nella proposta di fede? Abbiamo dimenticato Dio. Se Dio è morto qualcuno lo avrà ucciso? Ma Dio è morto? Lo abbiamo soltanto dimenticato e le responsabilità della Chiesa non sono poche.

Perché credo? E se credo ho veramente fede? Agostino resta per me una “confessione” aperta come è tale Paolo ma è Pietro che mi pone dei seri interrogativi e con Pietro la struttura della consegna delle Chiavi.

 

Vivo non nella ricerca ma tra due pilastri che sono l’eresia nei confronti di una Chiesa che non mi appartiene e non condivido nella sua struttura pietrina (quindi, potrebbe anche non chiamarsi eresia perché non vi sono dentro) da una parte e l’utopia dall’altra. Eretico nei confronti della gerarchia del clero ma anche in una teologia clericale sorridente ad una utopia di un Cristo senza le gerarchie della chiesa.                  

Ma Cristo è eresia oggi. Cristo vivrebbe oggi da eretico. Ed io non vorrei viverlo nell’utopia del mistero. Ma nella verità della salvezza divina oltre la Chiesa.

 

Quando scriveremo la storia dell’utopia non potremo che scrivere parimenti la storia dell’eresia. E il mio Cristo è un navigante vivente tra l’eresia della modernità e l’utopia di una Croce che è dentro di noi. Ma se è dentro di noi la Croce anche la Redenzione è il rilevante mistero che accompagna l’utopia del Cristo dimenticato in Cristo vivente.

La teologia resta una impalcatura che ha bisogno della storia come rivelazione. La fede nel credo e la cristocentricità sono senza le ragioni della storia perché sono mistero rivelante. Oggi è un grande dramma porre questioni del genere. Soprattutto perché ci troviamo a confrontarci con una chiesa autoritaria ma decadente.

 

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pubblicato il 23 Maggio 2013

Fatima, la monaca Carmelitana nella magia raccontata da Alarcon De La Valle, ha abitato il paese Lorenzo delle Grazie

  

di Pierfranco Bruni

 

Se la storia vive di documenti è anche necessario affidarsi al mistero per interpretare l’invisibile che le parole mascherano. E l’invisibile c’è e resta invisibile. C’è dentro la nostra percettibile capacità di essere impeccabili. Spesso mi diceva così il mio amico Alarcon De La Valle. Il mio unico e vero amico. Conosciuto negli anni Settanta in un città che aveva l’odore di un Oriente sbarcato tra le rive dell’Occidente cristiano.

Un amico che aveva come stile la profondità dello sguardo e come cammino il silenzio della pazienza. Scriveva, ma per Alarcon la scrittura era un vizio, come per Pavese, a volte assurdo a volte diventava un vero e proprio mestiere. Ma la scrittura nella sua scrittura era un gioco. Giocare con le parole e soprattutto con i personaggi era il suo viaggiare tra le epoche servendosi dei documenti ma soprattutto dell’anima, del cuore e della percezione del limite tra spazio e sublime.

 

Mi raccontò del destino di una monaca dei Carmelitani. Alarcon, dimentico di dirlo, era un principe ma il suo principato era tra le terre della Magna Grecia. Nei luoghi di Pitagora e tra le donne che sapevano amare nell’eros della bellezza dei sibariti. Un principe della contea del lusso dei sibariti.

Allora, la monaca dei Carmelitani. Era una giovane donna. Dagli occhi intensi. Verdi e neri. Verdi come il mare di Tunisi. E neri come le olive delle campagne della Magna Grecia. Giunse, così mi disse Alarcon, in un presto mattino dalle luci con scintille antelucane, in un paese del Sud chiamato  Lorenzo delle Grazie. Questo paese, che era stato abitato anche da Alarcon, aveva un convento chiamato delle Carmelitane dai piedi nudi (perché non scalze?).

Venne mandata in questo paese dalla lontana Siviglia. Quasi in esilio. Perché lì avevano scoperto che, di notte, usciva dalla Casa Generalizia e si incontrava, in segreto, con il francescano Pier De La Luna. Si era in un tempo di inquisizioni e la Spagna possedeva tutte le chiavi delle parole misteriose per inquisire nei tribunali del dubbio.

 

Arrivò al convento di Lorenzo delle Grazie e si fece assegnare una celletta che non aveva finestre e chiese semplicemente dei fogli e del materiale per potervi scrivere. Accettò l’esilio per lunghi anni e quando morì trovarono la cella piena di figli, tutti scritti di storie. Fogli sparsi e senza essere numerati. Una scrittura sottile e a volte indecifrabile.

Questi fogli sono stati studiati per molti anni da Alarcon, il quale interpretò un misterioso dialogo tra la monaca e Pier De La luna che dopo la sua partenza aveva fatto perdere le tracce. Alarcon mi disse che, in sogno, comunicavano e si parlavano e tutto ciò che era scritto nelle pagine della Carmelitana dai piedi nudi, in esilio nella cella del convento, aveva qualcosa di magico perché accanto ad ogni parola c’era un segno, un simbolo, una foglia di rosa. Tanto che la monaca venne chiamata, dopo la sua morte, la monaca dalle foglie di rosa.

 

E’ rimasto tutto un mistero. Ma dal giorno in cui la monaca morì il convento venne chiuso e nessuno vi abitò più. Tutte le altre monache vennero trasferite. Furono scritti libri di storia sul convento e sulla monaca riportando documenti e bibliografie. Alarcon mi disse soltanto che la monaca carmelitana, venuta da Siviglia, si chiamava Fatima.

Nella sua cella venne trovato anche un rosario e su ogni grano c’era un segno, un inciso, un graffio. In una mano stretta conservava un petalo di rosa rosso.

Alarcon, raccontandomi, questo destino mi disse anche che tra il convento e il castello c’era un passaggio sotterraneo che partiva proprio dalla cella della monaca e conduceva in una stanza del castello. Studiando la stanza del castello Alarcon trovò, in un angolo, un petalo di una rosa rossa. Nessuno seppe che in quella stanza del castello venne trovato morto Pier De La Luna.

Tutta questa storia è una storia vera come è vera la verità che viene raccontata con la fantasia e con il gioco inevitabile del mistero.

 

Nel paese di Lorenzo delle Grazie c’è un castello e ci sono i resti di un convento ma anche i resti di una abitazione abitata dalle Carmelitane dai piedi nudi, ma nessuno ha mai saputo del passaggio segreto e neppure del petalo di rosa rossa trovato nella stanza del castello. Fu una storia d’amore?

Il principe Alarcon mi ha lasciato una bella e affascinante eredità che è quella di scoprire il resto della storia e di rivelarla soltanto ai miei figli con la promessa che loro dovranno rivelarla soltanto ai loro figli e così via di seguito.

Alarcon non so dove sia finito. Forse ha lasciato la città dai colori d’Oriente nell’Occidente cristiano per recarsi a Siviglia o è ritornato ad abitare il suo castello nel paese della Magna Grecia dove le donne hanno la bellezza della terra dopo la pioggia e lo sguardo del mare dopo le tempeste. Non lo so. L’ho cercato. Ma non ho avuto notizie.

 

Quello che posso dire soltanto è che Alarcon è un personaggio reale, la monaca Carmelitana è morta nella cella del convento e Pier De La Luna ha abitato una stanza del castello. Il petalo della rosa rossa non è la storia della rosa scarlatta.

La leggenda finisce qui. Ma qui comincia una storia che si perde proprio nel momento in cui abbiamo bisogno di testimoniarla con i documenti.

Alarcon mi ha detto ancora prima di far perdere le sue tracce: “Amico mio, quando cominci con la ragione a voler dare senso alle storie il tuo viaggio finisce. Non chiedere mai spiegazioni a ciò che reputi impossibile. Non stupirti se il miraggio del segreto insiste nel restare segreto. Non infilare mai il dito nel silenzio del mistero pensando di dare voce ad una storia che non ha bisogno di diventare storia. La magia, amico mio, sta proprio qui. Gioca sempre con l’alchimia che ti vive dentro. Non tentare di capirla. Fermati prima che lo specchio possa infrangersi e coprirti di ferite. La bellezza dura se la custodisce. E tu, amico mio, custodisci sempre, con il silenzio. Agli storici regala un sorriso. A te stesso il sogno. Così vivi tutto ciò che ti ho raccontato con il sogno. Il resto non ha importanza”.

 

Finisce qui il viaggio di Alarcon nei miei pensieri.

Caro amico mio, caro principe, così tu vuoi ed io non ti  cercherò. Custodirò tutto ciò che mi hai raccontato nel sogno del mio cuore. Poi se accadrà altro dipende dai fili dell’alchimia che hai lasciato lungo le strade della magia.

Se questa storia è inventata prendetela con beneficio di inventario e ogni riferimento è puramente letterario. Se, invece, ha preso il sopravvento la fantasia nel mistero ogni fatto è puramente casuale.

Che dirvi di più? Ma dove è finito Alarcon?

 

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pubblicato il 20 Maggio 2013

Non è vero che se Dio è morto noi lo abbiamo ucciso.

Dio non è morto e la Fortezza e Giobbe sono la salvezza dalla sconfitta in questo nostro tempo di deserti

  

di Pierfranco Bruni

  

Ci sono giorni in cui il tempo si misura con l’orologio e le lancette segnano il passo nella sabbia. Ci sono giorni in cui si cercano le parole per trasformare il quotidiano della malinconia nella comprensione dell’altro. E l’altro, oltre Sartre, c’è. Esiste. Perché è nel cuore della pietà che vive. È nel cuore della compassione che si fa vita. È nel cuore della speranza che si intreccia alla misericordia.

Ci sono giorni in cui la solitudine viaggia tra gli sguardi e lo scavo nell’anima. Poi basta ritornare ad un paese dell’anima o della geografia reale per scompaginare i fogli della solitudine. “Un paese vuol dire non essere soli” (Cesare Pavese). Perché in questo paese ci sono le memorie che proustianamente si fanno frammenti di tempo perduto e ritrovato. Ma abbiamo bisogno di memorie preganti.

 

Noi io e voi e tu in quale caduta del perduto e del ritrovato ci troviamo ad abitare le nostalgie del presente? C’è sempre la “caduta” perché c’è sempre uno “straniero” (Camus) che occupa gli angoli della nostra pazienza. Se non ci fosse la pazienza ci affideremmo alla disperazione (Dalai Lama). Ma se non ci fosse il Venerdì di Passione non ci sarebbe la rivoluzione vera della Redenzione. Tutto questo passa nei percorsi delle voci e dei silenzi che sono la vera metafisica del conflitto di questa nostra contemporaneità.

 

Non so se siamo moderni o contemporanei. Non so se siamo nel presente o se viviamo nel quotidiano. Siamo figli di un Mediterraneo dell’anima perché ci portiamo dentro una eredità occidentale, ma non smettiamo di confrontarci e scontrarci con un Cristo che ha la sua universale memoria e presenza nella fedeltà mediterranea. Un Cristo universale  è un Cristo che si porta la Croce di una storia profondamente scavata nel Getsemani di un Mediterraneo tra inclusioni e frontiere. Un Cristo che è Nascita ed è Passione. E non abbiamo bisogno di difenderci e neppure di essere difesi da chi non ha superato l’ira di una modernità che ha i fili di una costante sconfitta.

 

Questo uomo sconfitto, quasi quasimodiano o straziato nell’ungarettiana essenza, deve superare, attraversandolo comunque, il deserto. Si è nel deserto. Siamo nel deserto. O siamo deserto? Tutto il circo che ci circonda è un demone, nell'arco dei deletti e dei castighi, caduto dall’ultima stella e non abbiamo bisogno di stringere l’anima intorno al moralismo del dogma o dei cerchi danteschi (che tanto male hanno fatto all’uomo della speranza e della compassione) perché nel paolino concetto di bellezza si incentra tutta la salvezza che non abbiamo. Dante è stato ed è la dannazione dell'Occidente che non ha compreso l'Oriente.

È un viaggio senza estetica quello  che camminiamo perché è un viaggio dove la notte nera è l’ira, la rabbia, il tormento dell’intolleranza.

 

Incontrando uno sciamano nelle terre che furono dei Dakota mi disse: “Quando qualcuno ti colpisce con una offesa e ti lancia pensando di ferirti con la sua rabbia tu non rispondere. Sorridi. Quando qualcuno usa la parola come freccia per colpire il tuo cuore tu non ascoltare. Poniti in attesa del vento. Fermati e osserva i tuoi passi e poi continua nel tuo camminare. Ogni qualvolta la povere e la sabbia copriranno i tuoi piedi tu cammina. Cammina sempre. Il Grande Spirito albeggia nella compassione. Non ti porre in competizione l’agguato è sempre di fronte a te ma tu hai tante strade da vivere. Non rispondere ma porta in alto il tuo volo. Il silenzio è salvico viaggio”.

Ritorno spesso a meditare sulle parole dello sciamano. Poi continuo a leggere i miei poeti, i miei scrittori, la mia compagna filosofia dentro  il poeta Abshu. Il dubbio e la Grazia, come mi ha sempre raccontato Simone Weil, sono un dono. La parola non ha certezza. Ha salvezza. Quella della speranza. Quella del Cristo sanguinante in Croce e quello che ritrova Maria di Magdala nella Luce della pazienza.

 

Questo nostro tempo di distacchi è un tempo sconfitto. Non è vero che se Dio è morto noi lo abbiamo ucciso. Nietszche è sulle mie rughe ma i viandanti del deserto sono pellegrini dell’attesa e la perdizione è il disastro che si intreccia nella contemporanea realtà. Ma noi siamo perdenti e forti.

La Fortezza e Giobbe sono la salvezza dalla sconfitta. Giobbe accompagna le nostre vite perché ha segnato la salvezza dei disperati.

Se il nostro tempo è sconfitto dobbiamo avere il coraggio di sfidarlo. Bisogna sfidarlo con la speranza e la pazienza.

 

Non vogliamo vincere. Non si vince mai. Vogliamo proporre la serenità (Seneca) e non il contrappasso (Dante ha ucciso il concetto di amore perdonante). Vogliamo proporre la carità (San Francesco di Paola) nella contemplazione e nella compassione (Budda).

Se questo nostro tempo è sconfitto dobbiamo avere il coraggio di sfidarlo con la Grazia, la speranza, la pazienza. Dobbiamo avere coraggio di trasformare il dubbio in salvezza! Dobbiamo avere la pazienza di rivolgere la Speranza in Fortezza (San Giuseppe Moscati).

 

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pubblicato l'8 Maggio 2013

Quando Andreotti volle presentare Francesco Grisi al Premio Strega del 1986 e rafforzò il Sindacato Libero Scrittori

di Pierfranco Bruni

 

Era il 1986 quando Giulio Andreotti, dopo aver letto e discusso con Francesco Grisi e alcuni suoi amici e tra questi intavolò un ragionamento letterario con chi scrive chiedendomi addirittura quando di “vero” poteva esserci nei primi capitoli del romanzo (proprio lui mi fece una domanda sulla “verità” tra storia e personaggi in Grisi), volle, con la sua consueta ironia, presentare  il romanzo “A futura memoria” al Premio Strega di quell’anno.

Volle presentarlo nella rosa dei romanzi che dovevano formare la prima decina e successivamente la cinquina. Mi disse che conosceva le pagine di Grisi già dal 1985 e lo aveva incuriosito la presenza di due personaggi: il cardinale, guarda un po’, e la rivoluzionaria Eleonor e poi la madre di Mara che un bel giorno scompare per chiudersi in un convento di clausura.

Andreotti era molto amico di Francesco Grisi. Fece una brillante relazione su “A futura memoria” scavando nelle radici letterarie del cattolico Grisi in un confronto, a tutto tondo, con la letteratura dell’ambiguità cristiana sottolineato da Diego Fabbri. Andreotti portò bene a Grisi. Tanto che non solo venne inserito nei primi venti e poi dieci romanzi ma addirittura arrivò alla cinquina.

 

Andreotti era convinto, da attento lettore, che Grisi, quell’anno, avrebbe vinto il Premio Strega. Si era su questa strada. Grisi era ormai il candidato più accreditato soprattutto perché il romanzo aveva una sua particolare originalità e questo Andreotti lo ebbe a sottolineare immediatamente.

Ma quell’anno, proprio nelle fasi ultime della selezione, morì Maria Bellonci e a lei venne conferito il premio “a futura memoria” per il romanzo “Rinascimento privato”. La Bellonci era scomparsa nel maggio del 1986. Venne conferito il Premio alla Bellonci giustamente per la sua storia e come ideatrice, tra gli altri, dello stesso Premio. Ma il vero vincitore rimase Francesco Grisi, al secondo posto, con “A futura memoria”, appunto.

Un episodio che Giulio Andreotti raccontò anche quando svolgemmo il Convegno Nazionale su Francesco Grisi svoltosi a Roma, a Palazzo Sora, il 26 e 27 febbraio del 2009.

 

In questa occasione Andreotti racconto, attraverso aneddoti, la storia letteraria di Grisi partendo dai primi libri di critica, del suo legame con Debenedetti sino alla costituzione del Sindacato Libero Scrittori Italiani, voluta anche da Giulio Andreotti. Tra il 1969 e il 1970 ci fu una frequentazione tra Grisi e Andreotti in funzione del dibattito tra cultura cattolica e cultura marxista.

Andreotti incoraggiò fortemente sia la scissione del Sindacato Nazionale Scrittori sia, soprattutto, la nascita del nuovo Sindacato Cattolico incarnato da Grisi, De Feo, Fabbri, Del Bo (che è stato ministro democristiano).

Infatti la prima seduta del nuovo Sindacato fu inaugurata con la relazione di Giuseppe Spataro, cattolico e democristiano, che ricopriva la carica di Vice presidente del Senato. Con il Sindacato Libero Scrittori, Andreotti ebbe sempre ottimi rapporti. Inaugurò numerosi convegni e con Grisi fece parte di molti premi letterari.

Ma al di là della vicenda legata alla nascita del Sindacato, Andreotti ebbe un ruolo importante nella vita di Grisi e la ebbe anche nel terzo romanzo, che forma la trilogia con “Maria e il vecchio”, “La poltrona nel Tevere” che risale al 1993, nel quale si racconta del rapimento di Moro e si metaforizza la presenza del “presidente”.

 

Io che ho vissuto il percorso grisiano dal 1977, data dell’incontro tra me e Grisi, in poi ho sempre considerato centrale il rapporto tra Andreotti e Francesco. Una delle testimonianze pregne di significato resta la corrispondenza, che in parte ho riportato nel mio testo “Spirito e Verità. Lettere inedite”. Grisi in Andreotti “leggeva” un riferimento come maestro di grande ironia.

D’altronde tutta la scrittura di Grisi si basa su un processo letterario e marcatamente ironico. Ricordarlo oggi significa anche marcare l’importanza che Andreotti dava alla letteratura. Aveva scommesso su “A Futura memoria”. E non si era sbagliato.

 

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pubblicato il 2 Maggio 2013

 

PER LA PACE E L’UGUAGLIANZA

di Egidio Chiarella

 

Il vangelo di Luca, dice il mio insegnante di catechesi, mons. Costantino Di Bruno, può essere definito il vangelo dei “quattro attori”. Quali sono gli attori a cui si riferisce? Il primo è il Padre onnipotente che, con la sua grazia, agisce sempre per salvezza del mondo. Il secondo attore è Gesù, quale mediatore tra l’uomo e il Padre,  strumento della storia per la redenzione dell’uomo. Il terzo è l’uomo, che si apre al Signore con la conversione del suo cuore.

 

Il quarto attore è l’altro fratello, che in qualche modo si oppone sempre ad un processo di pace e di amore di qualcuno. Lo stesso che blocca il cammino verso la verità della Parola o insidia il prossimo con la tentazione, il dubbio, la promessa facile. Un tentativo corrente, capace di spingere chiunque a guardare  dall’altra parte, rispetto all’orizzonte illuminato dalla luce della fede. Di quest’ultimo attore il mondo è pieno. Troppi luoghi e posti di comando convergono su questa categoria di uomini. Basta guardarsi intorno, sia nella vita personale, che in quella sociale. La comunità attuale ne sta subendo i contraccolpi!

 

Il brano evangelico sulla conversione di Zaccheo ci presenta i “quattro attori” nel loro inequivocabile ruolo. Il Padre è colui che spinge Gesù verso Gerusalemme, per la salvezza dell’umanità. Il figlio Gesù segue la missione affidatagli, portando sul suo cammino la verità e la conversione dei cuori, in chiunque lo segui o si fermi ad ascoltare le sue parole. Zaccheo, che sale sul sicomòro per vedere il “mandato” di Dio, è l’uomo che si converte. La folla che mormora per la scelta di Gesù di fermarsi a casa di un peccatore, rappresenta l’altro fratello, sempre infastidito o assente, per la salvezza del prossimo. Il “quarto attore” rimane, quindi, lontano dalla Parola del Signore.  

Nella parabola del Figliol Prodigo è il fratello di sangue, che si rattrista per il perdono offerto dal padre, al figlio ritrovato. La presenza del quarto attore è purtroppo ovunque. Zaccheo si pente, si converte, dovrebbe essere festa; non è invece così! Gesù viene guardato con sospetto, perché la sua azione “sconvolge”, ma nel bene, la storia immutata di chi non vuole mettersi in discussione. Così succede, ancora oggi, quando si cerca di portare sulla strada maestra chi ha sbagliato. Provateci! Vi accorgerete che il perdono e la liberazione del peccato, sono troppe volte vissuti come una possibilità teorica, piuttosto che come una reale possibilità nella vita di un credente.

 

I giovani dovrebbero discostarsi dal “quarto attore”, sia per non subire e annullare le tante insidie nei loro confronti, sia perché non lo diventino essi stessi, rispetto ad altri. Zaccheo era un peccatore, ma pentendosi cambia la sua storia e offre, a quella gente, l’ occasione di toccare con mano la bontà e la grazia di Dio, professata attraverso Gesù. Zaccheo, di piccola statura, fa fatica a vedere il Messia, perché attorniato da una grande folla.Cosa s’inventa?

Per superare gli ostacoli che rendono insoddisfatto quel suo desiderio, non si rassegna, ma utilizza la saggezza e l’intelligenza. Scappa in avanti e sale su un albero. Non può perdere quella opportunità. Un monito, questo, per i giovani e per tutti noi, a non rassegnarsi mai. Qualunque sia la situazione da superare! Quante volte non si usano le potenzialità di cui si è in possesso, per risolvere una qualsiasi questione che affligge il cuore e la mente di un uomo? Aspettiamo magari che qualcuno lo faccia per noi, mentre il tempo annulla una buona circostanza, che forse non si ripeterà mai più.

 

Zaccheo, su richiesta di Gesù, lo ospita nella sua casa e si pente. Lo fa compiendo due gesti centrali per la sua conversione. Per giustizia restituisce il maltolto, quattro volte in più del suo valore e per carità dona metà dei suoi averi ai poveri. La giustizia consente di riscattarsi nella società civile di cui si fa parte e di essere cittadinanza attiva. La carità apre il cuore umano all’amore verso gli altri, alla solidarietà e soprattutto, come ha scritto più volte Benedetto XVI, alla fraternità. Dote, del cuore umano, necessaria per rimettere in moto, pur nelle differenze, un’epoca di pace e di uguaglianza. Presupposti essenziali per individuare una economia a sostegno di quel bene comune, solo e sempre annunciato.

 Roma, 13 Aprile 2013 (Zenit.org)

 

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pubblicato il 31 marzo 2013

Appunti sull’Anima. È morto il mio amico poeta “maledetto”.

Franco Califano e se la noia resta la malinconia vince

 

 di Pierfranco Bruni

 

 È morto non soltanto  un personaggio della canzone vera, della canzone fatta con le parole, con il linguaggio dell’esperienza, con la testimonianza del quotidiano dolore nell’ironia che cammina nel nostro presente. È morto un poeta. Un poeta di quelli che hanno nella loro vita e nel loro linguaggio il “maledetto” dello stagione del decadente, che ha saputo giocare sino alla fine una partita con la noia, con la malinconia, con l’amore, con il tempo, con il disperante segno del viaggiare dentro la sensualità del tempo.

Franco Califano. In questa Pasqua del 2013. L’ironia tutta intrecciata nel soffocante miraggio di una “maledizione” che viveva nel tentativo di superare la noia e vive l’amore con la profondità del tempo e dei sorrisi strappati alla tentazione di superare ogni giorno la morte.

Erano anni difficili. Metà anni Settanta. Era il mio percorso in quella Casa dello Studente di Roma, De Dominicis, e le sue parole mi accompagnavano tra libri non studiati e letti e libri scavati con l’agonia del vivere con i tanti poeti maledetti, decadenti, emertici. Anni di fuoco e di tempeste. E Franco ci recitava che tutto il resto è noia. Per superarla bisognava attraversarla.

 

Concerti alla ricerca di quelle emozioni che ci facevano superare la solitudine di una serata. Ebbene, in uno di quei concerti, io ragazzo di periferia e ribelle come sempre nella vita e innamorato dell’avventure, urlai fino a raggiungere il suo sguardo. Il dopo concerto, e il nostro sguardo si fece stretta di mano, un abbraccio nel sudore della contentezza ma anche nello scambio di un sudore trasportato da pelle a pelle. Maledetta noia. E fu così che conobbi il Franco della poesia che ha segnato non una generazione ma un’epoca della parola sussurrata e mi ha segnato con quella sua voce roca, con quel suo vivere segnando gli attimi e con il suo coraggio di non accogliere la vulgata comunista, Franco anticomunista, di quegli anni e anche degli anni suoi difficile quando venne aiutato da Bettino Craxi nel 1983. Sino ai giorni successivi.

Il suo coraggio e il suo non formarsi ad una canzone fragilmente detta impegnata e in molte occasioni futule. Franco recitò la malinconia del pianto e del non piangere. Del pianto sulle nostre vite. E lo recitammo, lo cantammo sulla scalinata di Piazza di Spagna nelle sere di giugno, di luglio in una Roma infuocata negli anni terribili della mia giovinezza.

È passato tanto tempo ma la sua coerenza nella parola, negli atteggiamenti, nel vivere cercando di uccidere le nostalgie sono rimasti dentro i miei passi di disubbidiente. E se in me non è mai passata la passione, e non la ragione, della disubbidienza lo devo anche a lui. È uno dei poeti che mi ha formato in una stagione di sorrisi e di ribellione. Cantò l’amore nella stranezza dei rapporti e negli attimi che fuggono e non li ritrovi più.

 

Gli attimi. L’amore è l’estrema consolazione. È il tutto. Mi ritornano i passaggi di una canzone che si intitola proprio “Attimi”. Una verseggiare che spinge l’anima ad uscir fuori e farsi vento, tempesta, naufraga, marea. Attimi nell’amore. Ma sono gli attimi che fermano la vita nell’amore e l’amore nella vita: “Ci sono attimi in cui tu mi manchi,/e in quei momenti mi sento male./Ci sono attimi in cui non ti penso/e so benissimo cosa fare./E tu che balli nei miei pensieri,/donna di oggi, donna di ieri,/chissà se vivi le mie emozioni/se a volte hai le mie sensazioni”.

Un poeta nella libertà del suo destino che non ha mai smesso dire quello che sentiva e distante dalla prigionia delle consuetudini. Era un vero artista. Il sorriso della donna che si affaccia dalla finestra. Rose e crisantemi. Un canto e un contracanto. Sempre nella libertà. Sapeva di vivere la vita alla giornata camminando sulle ali della morte e sul volo della vita di una farfalla. Parafrasando un po’ il suo recitativo.

 

Ma Franco è stato un maestro. Un maestro vero! Il coraggio di un maestro nella sua visione di essere alla ricerca della luce.

In quella Roma anni Settanta (fine anni Settanta) è stato il mio compagno di versi e di serata che trasportato la mia perenne solitudine oltre il fiume che scorreva nella lentezza del vento. Ma mi legava a Franco un’altra amicizia “maledetta” e bella perché essere poeta maledetto è vivere la bellezza e il sottosuolo fino in fondo.

Mi legava a Franco una donna e una voce straordinariamente profonda, anche nel mio essere e nel mio tempo, Mia Martini. La mia calabrese Mia. E devo ricordare quel “Minuetto” scritto da Franco e cantato meravigliosamente da Mia. Mia e Franco in un minuetto di storie incrociate sugli orizzonti dei dubbi.

 

E' un'incognita ogni sera mia.../Un'attesa, pari a un'agonia. Troppe volte vorrei dirti: no!/E poi ti vedo e tanta forza non ce l'ho!/Il mio cuore si ribella a te, ma il mio corpo no!/Le mani tue, strumenti su di me,/che dirigi da maestro esperto quale sei”.

Ma qui siamo ad anni più tardi rispetto al 1977 e 1978. Mia Martini e il suo “Minuetto” è il mio viaggio di fine Liceo. Califano è l’iniziazione dei miei anni universitari. Tra i due si è consumata la rivoluzione della mia vita. E ora mi ritornano con la passione che non ho mai perso nella sensualità delle sconfitte e delle vittorie pronto a pagare sempre, come Franco mi ha insegnato. E poi in anni successivi “La nevicata del 56” che mi riporta a mio padre, al mio paese, ai miei sogni abbandonati nelle sfreccianti malinconie.

La poesia. Sì la poesia. Ma come non può definirsi poesia un impatto testuale come “Appunti sull’Anima”. Così solo un passo: “Ma noi che navighiamo sopra un vecchio relitto,/chi pensava mai che fosse naufragato in un letto;/questa roccia d'amore dopo tante ferite/meritava il suo premio e non due vite finite./Appunti sull'anima,/far l'amore al buio, non vedersi più...”.

 

Poeta che penetra l’anima. Poeta che attraversa il buio. Poeta che non smette di vivere e credere nella passione perché in ogni passione ci sonno pezzi di esistenza. Mi ha insegnato di non vivere la vita mai a metà. Non si vive mai a metà. Avevamo appuntamenti non mantenuti. Ma in questi concerti che aveva avviato ci sarebbe stato un incontro magari senza appuntamento. Mancheremo a questo appuntamento. Ora “si va”. Si va verso una meta che nessuno sa… Quante amicizie ancorati ai ricordi e al presente. Quante amicizie mai rivelate. Franco era un amico nella vita e nel raccontare gli amori. L’amore. Ma tutta la vita è sensualità sotto le lune.

C’è un promessa, Caro Franco, e te la devo. Tu mi seguirai e mi accompagnerai con la luce della tua anima e mi porterai a scriverla…

 

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pubblicato il 27 marzo 2013

IO NON SONO UN ESSERE UMANO, CARO FRANCO BATTIATO, MA TU SEI UNA DELUSIONE !

DIMMELO TU! TI MANCA IL CORAGGIO DI DEFINIRTI?

Ma i dervisci danzanti non ti appartengono. 

 

di Pierfranco Bruni

 

Ebbene! Io sono uno, dei tanti o pochi, impresentabili, che ha votato per la destra, perché la mia cultura, la mia formazione, i miei autori, la mia vita è di destra. Sono una persona prima di tutto, ma ciò detto oltre le metafore, sono uno dei tanti o pochi che “non appartiene agli esseri umani” come ci ha classificato l’amante dell’Oriente dei sufi, ovvero Franco Battiato.

 

Prendetevi paura perché  non ho né timore né tremore di uno impresentabile che non è, tra l’altro, un essere umano, quale io sono.

Dove siamo finiti caro Battiato e proprio tu che ti reputavi un “soggetto” serio e da ascoltare con attenzione sei caduto nelle briciole di un linguaggio comunista e nazista. Ho pietà per me per le parole che hai pronunciato e oggi ti dico che ho un po’ di vergogna di me stesso per aver ascoltato e letto i testi di un uomo che ha nei miei confronti una tale concezione - considerazione.

 

Hai mentito e continui a mentire nel nome dei sufi, della cultura islamica, del mondo buddista. Perché chi proviene da queste lezioni non pronuncia quelle parole. Lo dico con serenità. Continui a mentire nel tentare di dettare insegnamenti. Mi rendo conto della fragilità dell’essere umano.

Io che citavo i tuoi versi. Tutti non veri perché soltanto chi ha un livore e anche un senso del ridicolo della storia può pronunciare le parole che tu hai pronunciato. Questa destra italiana non presentabile e non appartenente agli essere umani. Posso capire l’annunziatura comunista di Lucia, pecorella smarrita e manzoniamente ritrovata, ma il tuo linguaggio, mio caro Franco, è proprio un ferro battuto sui tamburi del vento.

 

La tua poesia, se poesia è, (perché un orientale, l’amore per l’Oriente, intreccia vita e poesia: non lo sapevi?) che fine ha fatto? I tuoi rimandi a tutto un mondo tradizionalista occidentale ed orientale, esoterico, musulmano e tibetano che strade stanno percorrendo? Mi auguro che il sole e le nuvole di Parigi abbiano dislocato altrove le tue alchimie verso piramidi rovesciate altrimenti saresti non solo una delusione ma anche la fine di un viaggio. Il tuo viaggio nelle parole vere.

Mi dispiace non tanto per me che ho letto e considerato i tuoi testi, oggi li scaccerei dai miei passi dopo la marxista considerazione che hai degli uomini come me, di destra senza alcuna conversione e senza una Damasco da giustificare, ma con il difetto o vizio della coerenza che appartiene agli Illuminati.

 

Mi dispiace per te.

Sì, perché chi segue i passi dei Maestri, si veste con la tradizione dei Maestri e canta con le pause dei Maestri scivolare nella rozzezza significa che sulla tua strada ci sono stati solo piccoli uomini e cattivi maestri e quella storia che recitano i dervisci danzanti o i monaci tibetani non ti appartiene, non è parte integrante del tuo modo di essere. Forse solo del tuo modo di vestire, a volte, ma Proust la pensava bene quando diceva che tutta la vita si muove sulla messa in prova di un vestito nuovo.

Sei una delusione.

Ed io non sono uno di quelli che la patologia leggendaria vuole che si offra l’altra guancia. Dopo il primo schiaffo reagisco. Magari con il silenzio come sanno fare i veri guerrieri impeccabili o gli sciamani del silenzio e dell’ascolto.

 

Ponendomi in ascolto, ti dico che sei stato irrispettoso a pronunciare quella frase. E non porgendoti l’altra guancia, perché non meriti più nulla, spezzerò tutti i tuoi cd e ne farò un falò. Un falò sotto la luna come fecero i partigiani comunisti, raccontati da Pavese, della vita di Santa. Così potrai finalmente accusarmi di nazista tanto sarei pari alle parole che tu hai usato nei miei confronti. Ti pare poco?

Per me non esisti più. Lo so che te ne frega poco. Ma non esisti non solo per la frase che hai pronunciato e non avresti dovuto per essere tu un essere umano, e lo sei (vedi non faccio discriminazioni), “Humanitas” ti dice qualcosa?, ma per aver spezzato una tradizione, la tua tradizione, perché tu puoi mutare opinione, posizione, atteggiamento ma ciò che hai scritto resta e allora rileggiti.

 

Forse lungo le vie dell’assessorato ti sei un po’ smarrito. Questo te lo devi proprio per ritrovare un certo “centro di gravità permanente”.

Sei una delusione! Non raccontarmi e non raccontarti più nulla.

Con una frase hai spezzato la tua storia. Punto.

Il resto lo affido non ai tuoi danzatori sciamani, perché li hai uccisi con quella frase, ma alla mia storia di impeccabile guerriero di luce che pone al centro il cuore dell’uomo, della persona, della speranza.

 

Tu resta non so dove. Fatti tuoi e dei tuoi desideri.

Io sono e resto di destra e quindi non sono un essere umano.

Tu non so cosa sei: un essere umano. Certamente! Ma se io dovessi scegliere tra te e me non sceglierei te

 

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pubblicato il 25 marzo 2013

Nella preghiera la misura della fede!

di Egidio Chiarella

 “Benvenuto tra di noi, Papa Francesco! La Sua guida sarà luce per tutti, nelle tenebre di un relativismo ormai senza frontiere. Il cuore di Benedetto XVI batte ora nel Suo. A noi cristiani l’umiltà e la volontà di capire questo mistero e fare la nostra parte, in piena coscienza, per l’affermazione della Chiesa di Cristo, verità perenne per le strade del mondo”.

Nella prima apparizione pubblica, il nuovo pontefice, ci ha invitato alla preghiera e al silenzio! Sono rimasto molto colpito! Ecco perché mi permetto di dedicare, a Sua Santità, questa mia riflessione odierna, nella certezza che da umile successore di Pietro saprà condurci al gusto naturale della preghiera, misura della fede e strumento, troppe volte dimenticato, di dialogo quotidiano con Dio.

Sant’Agostino, nel rapporto che si instaura tra credente e preghiera, diceva: “Aut mali, aut male, aut mala”. Non si prega bene quando si è cattivi (mali); quando si prega malamente (male); quando si chiedono cose cattive (mala). Quest’uomo del Signore, che conobbe la conversione dopo anni di inquietudine e di vita dissoluta, in poche parole, chiarisce un concetto fondamentale nella vita di un fedele, indicando tre atteggiamenti umani che vanificano la sua relazione con Dio.

 

La nostra società ha perso il gusto di pregare e ha tramutato questo appuntamento straordinario dell’uomo con l’Altissimo, in un abitudinario “resoconto” occasionale. Eppure la sostanza dell’essere umano tende al cielo, avverte nella preghiera, magari nelle forme più “romanzate” possibili, un canale di comunicazione con il mondo che non si conosce, ma si ferma qui! Il pericolo di cadere nelle grinfie dei venditori ambulanti della fede, sta a due passi della propria quotidianità. Il rischio di invalidare la natura dell’essere anima e corpo, è a portata di mano! La persona, in quanto tale, non necessita di formule magiche per avere coscienza del Creatore, ma di umiltà del cuore e comunanza totale con la Parola di Cristo e la sua Santa Chiesa.

 

La storia dell’uomo attesta la verità di queste mie ultime parole, che solo la cecità dello spirito può ribaltare a favore di comportamenti fuorvianti e soprattutto lontani dalla verità del Vangelo. Ma anche chi è nella Parola, come dice il vescovo Agostino, deve capire che la sua fede si misura, sempre, dalla maniera con la quale porge la sua preghiera al Signore. I Padri medievali dicevano: lex orandi, lex credendi. La legge della preghiera è la legge della fede. Da una preghiera fatta male, con contenuti inopportuni, deriva un credere distorto; al contrario da una buona formula di preghiera si ha una corretta fede. L’uomo non deve, certo, pregare dopo aver fatto un corso di formazione; nessuno lo ha mai organizzato! Gesù vuole che l’uomo si sappia immergere in un silenzio cosmico assoluto e parli al Padre con il cuore pieno della sua Parola. Sia umile e sappia rispettare l’altro che prega nella casa del Signore, che non ha titolari particolari. La casa di Dio è la casa di tutti.

 

È Gesù, come si legge in Luca, che racconta la Parabola della vedova, che ebbe giustizia grazie alla sua continua insistenza, per insegnare alla folla e ai suoi discepoli che bisogna continuamente pregare senza mai stancarsi. La preghiera parte essenziale della vita e non momento di invocazione per superare un momento di crisi. È sempre Gesù che tra il pubblicano e il fariseo, che si recano al Tempio per pregare, indica nel primo l’uomo che sarà ascoltato dal Signore e non nel dotto della sacra scrittura, che pregando si vanta con Dio delle sue azioni, denigrando coloro, che come il pubblicano, sono ingiusti, adulteri; non pagano la decima due volte la settimana e non seguono i culti ufficiali.

 

Ma Gesù invita, chi crede, a pregare assieme nella semplicità, per rendere più forte la richiesta al Padre. Così in Matteo: “Poiché dovunque due o tre son radunati nel nome mio, quivi son io in mezzo a loro”. L’’augurio è che ritorni il gusto della preghiera e conquisti il cuore dei giovani, solitamente invasi da altre forme di relazione con l’infinito. Anche il nostro culto, proprio per rendere partecipi le nuove generazioni, come vuole Cristo, avrebbe bisogno di purificazione. Il mio parroco, nei suoi scritti, ha più volte sottolineato che esso è divenuto per noi commercio di idee umane; scambio di sensazioni terrene; musica, canti, incensi, cerimonie, celebrazione dell’uomo e del suo peccato; grida contro questa o quell’altra ingiustizia sociale; momento per rivendicazioni; pulpito dal quale cercare un plauso universale. In tale modo, Cristo Gesù rimane sempre più nascosto da questo culto, perché l’uomo ne ha preso tutto il posto. Ha conquistato la scena. L’esteriorità ha fagocitato l’interiorità. Così i giovani non capiscono! Se la misura è questa, quale sarà la nostra fede?

Roma, Marzo 2013 (Zenit.org)

 

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pubblicato il 15 marzo 2013

PAPA FRANCESCO. IL CORAGGIO E LA MISERICORDIA

IN UN MIO ANTICO INCONTRO NEL NOME DELLA CARITA’ TRA I POPOLI

 di Pierfranco Bruni

 La carità, la povertà e i processi di un mondo legato al dubbio della spiritualità da una parte e ai costanti relativismi dall’altra. Tre aspetti che sono dentro la religiosità del Cristo. Di quel Cristo popolo che abbraccia le incertezze di tutti e ne fa il dono di una misericordia dentro i passi della fede. Il nuovo Papa è un segno tangibile non solo di una rottura di schemi nel mondo del Vaticano ma è soprattutto un linguaggio diverso che si affaccia nel registro del trono di Pietro e parla con il volto, lo sguardo, la speranza di una esperienza che va oltre la Chiesa gerarchia.

Ho avuto modo di conoscere il Cardinale Jorge Mario Bergoglio nei miei viaggi in Argentina e proprio in quella città di italiani, di europei, di spagnoli, di una America Latina che sa di essere occidentale ma sa anche di doversi confrontare con i Paesi di un Oriente che si impone con la sue religioni ma anche con le sue forme di cattolicesimo, Buenos Aires, il dialogo si è improntato su due aspetti fondamentali dentro la cultura moderna: la speranza e l’attesa.

Ora Francesco, il Papa Francesco, è nel solco di un carisma emblematico. Il Francesco d’Assisi, la povertà che si è fatta esistenza nella chiesa popolo e nella chiesa che si pone in ascolto anche fuori dalle retoriche delle liturgie. Ma nel Papa Francesco ci sono molti elementi, che emergono dalla sua parola, dai suoi scritti, da quel suo linguaggio che vuole restare silenzio per ascoltare, lo ricordo benissimo nella mia conferenza su Giovanni Paolo II e Jacopo da Todi in una città religiosa, bella e assordante come è tutta l’Argentina del tango vissuto nell’anima, che riportano ad un altro Francesco: Francesco di Paola.

La povertà e la carità. Per un sacerdote, un vescovo, un cardinale che ha una formazione da gesuita potrebbe aprire, ciò, delle chiavi di lettura sui temi teologici del progressismo e dell’incontro tra teologia e cultura in senso lato. Ma Francesco, questo nuovo Papa, ha dalla parte sua un esempio molto caro che è quello di San Giuseppe Moscati. Anche Moscati è nella formazione dei gesuiti. E cosa significa questo?

Diceva San Giuseppe Moscati: “Non dimentichiamo di fare ogni giorno, anzi, ogni momento, l’offerta delle nostre azioni a Dio compiendo tutto per amore”. E c’è il francescano ai piedi della misericordia che si fa bellezza. Questa è la fede della centralità di una cristocentricità che esclude forme e poteri dentro i quali la Chiesa degli ultimi tempi era precipitata.

Ci sono problemi etici da affrontare. Problemi in cui le povertà avanzano. Fattori di precarietà esistenziale. Paure. Tremori d’anima. Perdita di contatto con il sacro. Religiosità che si confonde con regole oltre il sacro. Civiltà nuove in cui i feticci di una antropologia si trasformano in strazi di esistenza per le famiglie. Papa Francesco sa dell’eredità che si porta dietro ma noi sappiamo in quale cultura, in quale contesto, in quali strutture reali ha sviluppato il suo messaggio pastorale.

Ricordo che mi disse che c’è la preghiera che deve coronarci le mani con il rosario dei giorni ma c’è soprattutto l’esempio che deve rappresentarci. Una bella missione dentro una Chiesa che si è frammentata e mettere insieme i cocci di una struttura nel nome di una nuova visione della Chiesa non è certamente facile.

Ma la fede non è facile. Perché la grazia ci porta a ciò che spesso diceva Giuseppe Prezzolini che nella verità Dio è sempre un rischio. Io che, in questi anni, ho combattuto la mia battaglia, buona o non buona non ha importanza in questa occasione, per tentare di far capire come si può essere eretici restando in Cristo ora la presenza di un gesuita – francescano mi pone realmente una questione che non è assolutamente etico o teologica ma profondamente metafisica.

Lo dico sin da ora e non potrò essere smentito. Francesco sarà il Papa della svolta perché sarà il sacerdote che camminerà con noi oltre le apparenze. E se ho visto bene come in Argentina era considerato e come era amato in nome non della carica che rivestiva ma della parola che offriva e dei segni di umiltà provvidenziale che lanciava posso ben dire che nell’anima di una Nazione quando il sorriso si fa verità e speranza si è già oltre la tristezza che cammina nei cuori feriti e vuoti.

Il Cardinale nel passaggio pastorale ha segnato di speranza il cammino. C’è sempre una vita nascosta con Cristo in Dio, direbbe San Paolo e questo nuovo Papa è un viandante che non solo viene da molto lontano, come direbbe Giovanni Paolo II, che lo incoronò Cardinale, ma proseguendo il suo cammino si fa pellegrino dei popoli e delle genti. Perché l’America Latina è un grande popolo ma è anche una civiltà in sofferenza e costituisce l’esempio non solo di una geografia territoriale ma di una geografia di anime che sono quelle americane, quelle Occidentali e le storie intrecciate nelle altre religioni che non ammettono confronti.

E Papa Francesco il confronto lo ha già chiesto perché lo ha vissuto nella sua formazione. Le sue origini piemontesi lo rendono un uomo di terra come era San Francesco. Il suo modello cristiano non nasce dalla teologia della saggezza ma dal mistero misericordioso. 

Il mistero e la preghiera. Due altri elementi che sono nel suo pellegrinaggio religioso. Portare l’esempio: è questo il vero testamento di fede in una chiesa che trema nelle divisioni. E l’esempio è un gesto di pazienza nel comunicare il coraggio dell’esserci nella preghiera, o meglio di dare un senso alla preghiera. E quando si da un senso alla preghiera anche la testimonianza non ha bisogno della tolleranza perché il rosario è già il superamento della intolleranza. Un Papa nuovo, dunque. Non direi nuovo.

Un Papa di cui abbiamo bisogno. Celestino V fece la grande rinuncia nei confronti di una chiesa in decadenza. Benedetto XVI  ha fatto la grande rinuncia nei confronti di una chiesa che non si è saputa contrapporre al relativismo. Francesco ha accettato perché la Chiesa deve ritornare a suoi due pilastri: la cristocentricità come dono tra i popoli nel “Cantico delle Creature” e la forza di saper guardare oltre con il volto, lo sguardo, gli occhi di Maria.

La Chiesa dagli antichi orizzonti nella tradizione della Grazia eterna. Il suo Francesco è un simbolo. In questo buio devastante l’uomo del relativismo aveva persino smesso di leggere i simboli.

Questo Papa ci invita ad abitarli i simboli nel nome di un Cristo risorto lungo i passi del nostro essere uomini. Lo ricordo. Con la sua umiltà, il suo sorriso, la sua attenzione mentre tentavo di legare il “Cantico delle Creature” alla “Terra Promessa” di Giuseppe Ungaretti. Fu incontro nel nome di Giovanni Paolo II.

 

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pubblicato il 10 marzo 2013

CRISTO E GIUDA

LA SALVEZZA E IL TRADITO 

TRA I CHIODI E LA CORDA

 

 di Pierfranco Bruni

 

 Entriamo nei giorni della religiosa meditazione e nella Settimana della Croce, della Passione e della Rivelazione. Salvezza e tradimento. O tradimento e Redenzione. Un viaggio inesorabile dentro la fede, il pentimento, la rinuncia, la salvezza, il dolore, la croce, il suicidio. Se la Croce resta una sfida il viaggio del Messia è una indefinibile rottura di schemi giocati tra la tradizione, l’ermeneutica, il mistero, l’evangelizzazione e la rivoluzione in una cristianità in cui la religione può restare fuori dalla teologia delle liturgie.

Ma Cristo è una sfida e la sfida più imponente, mai rischiosa, più importante e resistente sul piano di una chiarificazione esistenziale dove i “demoni” sono serpenti che abitano i “sottosuoli” dell’anima e dell’abitato nostro metafisico è tutta giocata tra il personaggio “io” e l’umanità di una civiltà che trova la sua grotta nei disamori. Ma perché Cristo si impone come misericordia nei cuori coraggiosi? Perchè tradimento e tradito sono viaggi inesorabile nel mistero della salvezza? Giuda? I suoi occhi del tradimento quanti tradimenti hanno dovuto subire?

 

Ci sono quattro personaggi che scivolano in quel campo di sangue che ha la terra tremante. C’è Giuda, quello che ha tradito. Pilato, quello che si è lavato le mani. Barabba, quello che la folla ha risparmiato. Pietro, quello che per tre volte ha rinnegato ma è riuscito ad incontrare lo sguardo di Cristo.

Incontrare lo sguardo di Cristo. Il punto sta qui. Lo ha incontrato o Cristo ha cercato lo sguardo di Pietro? Cammino  lungo il pensiero contemplante, non teologico, ma misterioso di un Giuda pentito e suicidatosi per non essere riuscito a chiedere perdono prima che Cristo venisse messo in Croce o per non aver avuto il tempo e forse neppure la forza e il coraggio. Pietro si è salvato dopo aver rinnegato e quindi dopo aver tradito perché i suoi occhi hanno visto gli occhi di Cristo. Rinnegare, negare, tradire.

 

Tre verbi che hanno una consolidata matrice teologica certamente ma anche gnostica e sinottica. Tre concetti che richiamano metafore. Qual è la differenza tra Giuda e Pietro? C’è una differenza di fondo? Giuda si sporca le mani e l’anima per i trenta denari che restituisce o che servono per acquistare il campo di sangue nel quale individua un albero dove poter legare la corda per la sua morte. Una morte suicida. Vendersi, vendere Cristo, suicidarsi. Tre peccati ma Cristo che ha perdonato Maria di Magdala in una incastro pesante dentro il quale ha coinvolto tutti coloro che avevano un peccato da farsi perdonare (chi ha avuto il coraggio di scagliare la pietra?) avrebbe potuto non accogliere il perdono di uno dei dodici al quale guardava con molta attenzione?

 

Perché Giuda non è riuscito, dopo il bacio, a riparlare con Cristo? Chi ha impedito ciò? C’è la storia che recita il suo teatro e la misericordia non si serve della storia ma della Grazia. In Giuda la Grazia non arriva. In Pietro, invece, il rinnegare tre volte, per ben tre volte, non è segno di un tradimento eterno.

Quel rinnegare viene condonato perché è lo sguardo di Cristo che lo illumina e proprio Pietro diventa la pietra della Chiesa. Mentre tre volte Pietro rinnega, Giuda consuma il suo “delitto” su tre verbi: vendersi, acquistare, tradire. Un triangolo che si pone ai piedi della Croce.

Ma il problema vero non è teologico (nonostante l’intreccio dei sinottici: Matteo, Marco o Luca) ma è completamente vissuto su una “epistemologia” in cui il dubbio ha tre angoli spezzati: la possibilità della salvezza, la capacità di catturare la verità, l’indolenza dei sacerdoti che guardano al Cristo morente, perché da loro condannato, nell’ultimo sussulto del Dio perché mi hai abbandonato.  Il mio viaggiare è inquieto e disperante ma non conosce la follia del dubbio ma soltanto il dubbio lungo la strada piana del deserto che introduce nei labirinti che incrociano fede, religione e retorica.

 

La salvezza è credere. La verità è la salvezza del credere. L’abbandono è il timore dell’essere stato abbandonato. Giuda comprende tutto questo nell’ultima “seduta” in cui Cristo invita a fare in fretta nel consumare il tradimento? Giuda, secondo Giuseppe Berto, dice: perché sei stato Tu Cristo a scegliermi? Il vero prediletto è Giuda o Pietro? Il vero colpevole, se di colpa bisogna parlare, è il morente con la corda al collo è il portatore di una Croce tradita?

Al centro di tutto c’è chiaramente la misericordia ma prima della misericordia c’è il dolore e il dolore passa inevitabilmente attraverso la conoscenza o la ricerca o la grazia della verità. Conoscenza, ricerca, grazia.

 

Giuda ha percorso questi tre viaggi perché nel suo dubbio c’era la necessità di giungere, o raggiungere, alla verità. Quella verità che leggeva nella illuminazione di Cristo. Non della Croce. Sfidava Cristo. Infatti, il suo gesto, quello di Giuda, è stato un gesto di sfida. Io ti sfido Cristo a rivelarmi la verità contro la corruzione e la falsità. Hanno duellato sino alla fine.

Giuda e Cristo. Gli occhi e il volto sono immagini e immaginario dentro quella tradizione tra teologia, filosofia e mistero. E sono stati morenti entrambi. L’uno appeso ad una corda. L’altro inchiodato su un legno. La morte è giunta per entrambi. Ed entrambi hanno dato un segno preciso: quello di portare la salvezza.

La morte supera la vita e ci offre la verità. Inquieti entrambi. Disperato Giuda nel sangue del suo campo. Nell’attesa della speranza Cristo nel suo grido finale. Pilato non passa inosservato. Ma non riesce a comprendere la differenza tra la misericordia e la grazia nonostante la presenza di Claudia. Barabba è il confuso che smarrendosi cerca la via della conversione.

 

Due personaggi non secondari nella teatralità del dolore cristiano. Ma chi resta nel sangue e muore tra la disperante voce strozzata e l’urlo dei vinti in cerca della speranza illuminante sono Giuda e Cristo. Pilato proseguirà con i suoi sensi di colpa la sua morte – vita. Barabba nella dichiarazione della devozione resterà trafitto della forza di Cristo. Pietro proseguirà il suo cammino sino alla croce nella bellezza – sacrificio della parola cristiana. Ma il tutto si consuma tra Getsemani e il Golgota e il campo di sangue. L’attesa si lega al destino.

L’attesa di conoscere il destino. Oppure quale destino possibile per la morte del traditore? Per me Giuda resta il tradito. Chiariamo questa visione. Il tradito al quale non è stata data la possibilità della voce misericordiosa per un progetto nel “destino” tra l’intreccio teologico e mistico.

 

Il Giuda tradito è nel mistero. Così come lo è il Cristo abbandonato nel luogo della solitudine e abbandonato nell’ultimo verbo che lo ha condotto al tremore del cielo. Non è bastata la pazienza del deserto e lo spazio nella distesa del deserto, non sono bastate le rose di Gerico o il Cantico dei Cantici (dell’A.T.), non l’amore della Magdala o la persuasione di Giuseppe e il pianto di Maria o il dubbio delle sorelle di Lazzaro. Nulla è bastato sino alla consumazione dell’atto finale tutto disputato intorno all’Orto degli Ulivi, il Golgota e il sangue disseminato nel campo di Giuda. Lì si cambia la storia e la storia non è più rappresentazione e neppure scavo per una teologia dei saperi. Ma mistero. Mistero salvifico. Mistero morente. Ma la morte è rivelante. E so lo è per Cristo lo è anche per Giuda il traditore tradito.

 

Perché è Cristo che resterà la nostra anima. Perché è Cristo che resterà la nostra consolazione orante. Prendo atto, nella mia riflessione misericordiosa, che nel tradimento c’è l’anima del tradito ma so anche che ho bisogno di superare il deserto e vivere i miei labirinti oltrepassando i sottosuoli che si agitano.

Cristo ci aiuta. Cristo è.  Se Cristo è, quel è è essere io dentro noi, noi dentro la voce del è.

Ma se  Cristo è, questo è o questo essere è anche la presenza di Giuda che non smette di agitare i nostri tremori. La nostra vita di fede e non di fedeli? Ma la nostra vita in Cristo resta nel dubbio della morte evitabile – inevitabile di Giuda.

Tutto ciò che accadrà dopo ha il respiro dell’ombra, e ancora oggi, e se si vuole la luce si ha bisogno di attraversare le ombre e di rendere vero Giuda. Quel dolore, come quello di Gesù non lo possiamo non considerare salvifico. Il pentimento di Giuda, pentimento disperato. E la morte in Croce di Cristo che è salvezza che prepara la redenzione. La morte si vince attraversando la luce. Paolino il messaggio e, lungo questa strada, ci conduce, se pur nel dubbio del mistero in fede, nel Cristo. Nel Cristo dell’urlo inquietante che diventa Rivelazione di vita.

 

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