Editoriali, recensioni e articoli
di cultura, società, costume
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pubblicato il 28 Ottobre 2013
La
morte del regista Luigi Magni.
Ne
parliamo con Pierfranco Bruni: “Dal regista allo
sceneggiatore tra storia e letteratura - una
magistrale testimonianza”
a cura di
Manuela Achab
Molti film di Luigi
Magni sono “pezzi” di storia, di letteratura, di
ironia, di leggere il mondo cattolico attraverso i
fatti che diventano ironia. Luigi Magni è morto a 85
anni. Restano le sue regie, le sue sceneggiature,
le sue collaborazioni. Un regista che ha raccontato
come se il tutto fosse in una cronaca che diventa
storia e la storia è storia di fatti e di
interpretazioni.
Lo scrittore
Pierfranco Bruni, che per conto del Sindacato Libero
Scrittori Italiani, si è occupato del rapporto tra
letteratura e cinema ha risposto ad alcune nostre
domande.
D. Quale relazione
è possibile leggere nei film di Luigi Magni tra
storia e realtà?
Risponde Pierfranco
Bruni: “I film di Magni sono storia. Ha raccontato
attraverso la macchina da presa anche una storia
anticonformista servendosi sia della rigorosità sia,
in molte occasioni, dell’ironia.
D. Quali film
consiglierebbe oggi?
R. Voglio
ricordare, tra i tanti, il film ‘O Re oppure
il film su Ponzio Pilato. Nel prima si racconta
l’altra storia dell’Unità d’Italia con un narrare
straordinario e una magistrale interpretazione di
Ornella Muti e Giancarlo Giannini. Ma è il concetto
di storia che ritorna in modo profondo dando una
originalità particolare all’ultima regina del Sud.
Nel secondo c’è il Pilato incredulo e l’immagine di
Claudia, la moglie di Plato, assume una centralità
completamente da leggere.
D. C’è anche In
nome del Papa Re…
R. Un film toccante
che rende protagonista una cultura popolare non
“cinematografata” ma è un popolo reale che scava non
nell’immaginario ma nella verità…
D. La storia come
verità?
D. Si pensi anche
al film In nome del popolo sovrano. Insomma
la cultura identitaria del popolo, in Magni, resta
fondamentale fino ad uno dei più recenti La
Carbonara.
D. Se dovesse
rivedere oggi un film di Magni quale sceglierebbe?
R. Passerei
dall’ironica versione de La Tosca sino al
film che più preferisco che è il già citato ‘O Re.
Ma cercherei un film di cui Magni ha realizzato la
sceneggiatura.
D. Ovvero…
R. Ovvero La
Mandragola. Un film, tatto da Machiavelli, il
cui regista è Alberto Lattuada e risale al 1965. Una
sceneggiatura imponente e ne esce fuori un
Rinascimento attraversato da storia e letteratura
con una centralità forte dei personaggi. Aver
sceneggiato Machiavelli non è facile.
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pubblicato l'11 Ottobre 2013
Ricordo di Tanino De Santis, direttore di “Magna
Grecia”,
cultore e protettore dell’Antichità
di Sara Minuto
Agosto 2013: amici
greco ciprioti, profughi nella Cipro greca,
lamentano i mancati interventi per la salvaguardia e
la protezione dei Beni archeologici ed Artistici
presenti in quella parte dell’isola occupata dai
turchi nel 1974. Dal luglio 1974 molti Beni sono
stati trafugati, portati all’estero e venduti a
privati, fatti sparire nel nulla, se non distrutti.
A quasi quarant’anni dalla fatidica invasione (“isvoli”),
si piange la perdita di un patrimonio artistico di
superba bellezza e di notevole importanza storica,
oltre che l’espropriazione dalle terre di migliaia
di greco ciprioti.
Sono passati quasi
cinquant’ anni da quando Tanino De Santis ha fondato
e ha iniziato a dirigere Magna Grecia, rassegna di
archeologia, storia, arte e attualità, preziosissimo
strumento di informazione e circolazione di idee e
iniziative sul mondo antico della Magna Grecia, in
particolare la Piana di Sibari, sua terra d’origine.
Tanino De Santis,
nato a Francancavilla Marittima (Cosenza) nel 1928,
era figlio del medico curante del
paese, il dottore Agostino De Santis. Quest’ultimo,
presidente dell’Associazione “Ritorno a Sibari”,
ricordato negli scritti di Amedeo Maiuri, fu noto
promotore di campagne di scavo e saggi nella
sibaritide al tempo delle ricerche dell’archeologa
Paola Zangani Montuoro, sua cara amica e
collaboratrice di U. Zanotti Bianco nei primi scavi
alle foci del Sele.
Tanino De Santis,
pertanto, fu avviato dal padre verso una sorta di
dialogo col misterioso e fulgido passato della sua
terra, che prese forma e parola nelle due
pubblicazioni Sibaritide a ritroso nel tempo
del 1960 e La scoperta di Lagaria 1964, e
infine nella rivista Magna Grecia, da lui
fondata, curata ed economicamente sostenuta dal 1966
fino al 2002, anno in cui si interrompono a causa di
quei problemi di salute che negli anni si sono
seriamente e fatalmente aggravati.
Agostino e
Tanino de Santis in una foto degli anni Sessanta a
Lagaria
Prima della
dedizione totale a Magna Grecia si ricordano i primi
passi nel campo delle pubblicazioni di ambito
archeologico.
La moglie Zina
Rodotà, fedele compagna di una vita costellata di
impegno, energia e sacrifici offerti per la
valorizzazione della propria terra, conserva le
bozze dell’ultima copia che sarebbe dovuta andare
alle stampe nel 2003, ma che di fatto non è stata
mai edita.
Seguendo dunque il
cammino segnato dal padre, Tanino De Santis, che nel
1970 venne insignito del premio “U. Zanotti Bianco”
dall’Associazione “Italia nostra” per la sua strenua
difesa del valore archeologico della Piana di
Sibari, attraverso Magna Grecia, avviò
un’incalzante campagna di sensibilizzazione
dell’opinione pubblica sul valore della Sibaritide
e di tutta la Calabria antica, contro lo strapotere
e la cecità dei vari governi del Paese e delle loro
politiche di industrializzazione del Sud Italia,
completamente insensate e distruttive.
Questo grande
evergete moderno, a cui negli anni novanta fu dato
un alto riconoscimento per il contributo essenziale
per la valorizzazione della civiltà greco antica
dall’Accademia di Atene e la Fondazione per la
cultura greca di Atena, si è spento nel luglio del
2013 e, sebbene i risultati esiziali di queste
politiche sono sotto gli occhi di tutti, egli ci
lascia in eredità Magna Grecia, che, grazie
al suo strenuo impegno e alla sua dedizione alla
causa della protezione e conservazione delle
Antichità del Sud Italia, costituisce uno strumento
validissimo di consultazione e di ricerca a cui
attingere per trarre informazioni su quanto è stato
detto fino adesso, ed è fonte di idee su quanto si
potrebbe ancora fare per salvaguardare il nostro
Patrimonio nazionale e mondiale.
La rivista Magna
Grecia, che come quasi sempre va ricordato ad
ogni edizione, “non ha scopo di lucro”, ha ospitato
nelle sue pagine articoli contenenti rapporto di
scavo, risultati di ricerche e prospezioni, ricerche
storiche, articoli che testimoniano il succedersi di
eventi altamente culturali come i Convegni
Internazionali di Studi sulla Magna Grecia, i
Convegni Storici Calabresi organizzati dalla
Deputazione di Storia patria per la Calabria, gli
Incontri di Studi Bizantini, i Convegni Nazionali di
Archeologia Classica, i Congressi Internazionali di
studi sulla Sicilia Antica e tante altre
interessantissime attività, nonché articoli che
attestano traguardi di studi di linguistica e
dialettologia, con particolare attenzione ai
dialetti greci dell’Italia meridionale, e infine
articoli dedicati al ricordo e alla memoria di tanti
calabresi e degli studiosi di ogni provenienza, che
si sono prodigati per fare il bene testimoniando e
proteggendo il valore del Patrimonio culturale del
nostro paese
Scorrendo, dunque,
le pagine delle numerosissime annate della rivista,
edita in Calabria col concorso del Consiglio
Nazionale delle Ricerche, si leggono tra gli autori
degli articoli nomi come S. Ferri, P. Orsi e U.
Zanotti Bianco (di cui si pubblicano alcune
memorie), A. Frangipane, A.Karanastasis. G. Rohlfs,
D. Adamastenu, P. E. Arias, G. Monaco. L. Bernabò
Brea,, R. Cantarella, S. Settis, F. Zevi, P.G. Guzzo,
M. Marra Bagnasco, C. Diano, G. Cremonesi. G. Vallet,
E. Langlotz, D. Ridgway, M. Sakellariu, J. B.
Perkins, M. Pallottino, P. Themelis, G. Caputo, M.
Andronikos, O. Elytis (di cui si ricorda il premio
Nobel conferitogli nel 1979), P. Ebner, R. Peroni,
P. Zancani Montuoro, G. Colonna, G. Arrighetti, S.
Moscati, G. Clemente, G. Huxley, G. De Sensi Sestito,
D. Minuto. C. M. Lerici, L. Cavagnaro Vanoni, D.
Mertens, E. Greco, F. D’Andria, E. Lattanti. E.
Manni, F. Mosino, C.K. Williams, P. Scarpi,V. Di
Benedetto, O. Longo, D. Del Corno, G. Pugliese
Carritelli, G. Vallet, G. Garbini, B. Bilinski, M.
Cristofani, C. Belli e tantissimi altri.
Tutti costoro hanno
saputo rispondere all’accorato appello di Tanino De
Santis che, descrivendo la sua rivista come
“periodico aperto a tutti i problemi archeologici,
storici, artistici, culturali relativi al territorio
della Magna Grecia intesa da Napoli alla Sicilia
inclusa,(…) che pubblica notizie in materie
archeologiche utilissime oggi che, com’è noto, i
ritrovamenti di grande interesse restano per anni
sconosciuti in attesa di studio e restauro, ed è
libera tribuna a disposizione dei lettori” si
rivolgeva “ai custodi di antiche memorie, agli
studiosi, agli studenti, alle persone colte, a
quanti conoscono bene l’atmosfera di disinteresse
che nel Mezzogiorno troppo spesso accoglie e
mortifica le realizzazioni informate alla cultura e
all’arte”.
Al nome di De
Santis è legato anche il nome di un vaso greco, una
pelike a figure rosse detta “del pittore de
Santis” datata tra il 330 e il 320 a. C., trovato
durante una delle prime campagne di scavo promosse
dal dottor Agostino De Santis nei suoi terreni di
proprietà in Sibaritide e donato da Tanino De Santis
al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria.
A nominarlo così,
inserendolo nel filone stilistico della cerchia del
“pittore degli Inferi” è stato il professore Arthur
Dale Trendall, esimio studioso di ceramica greca
antica, fondatore della ricerca archeologica
classica australiana, socio dell’Accademia Nazionale
dei Lincei e della Pontificia Accademia di
Archeologia, scomparso nel 1995.
Due furono le
grandi passioni di Tanino De Santis, la campagna
calabrese e l’Antichità. Nel numero della rivista
del giugno 1978, così commentava una suggestiva foto
in bianco e nero della Piana di Gioia Tauro, il
territorio delle Saline, luogo di eremitaggio e
ascetismo per monaci bizantini, ricche un tempo di
ulivi secolari: “ i più colossali, antichi e nobili
ulivi delle coste del Mediterraneo freddamente e
inutilmente sacrificati da politicanti senza
scrupoli, all’insegna della più grande e vergognosa
impresa antiecologica di tutto il Mezzogiorno”.
Mentre nel numero
della rivista del dicembre 1977 commentava così una
foto di un vaso antico: “Vaso in bronzo proveniente
dalla Sibaritide, un tempo nella collezione del
barone Giuseppe Compagna di Corigliano C. ed ora
finito chissà dove”.
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pubblicato il 30 Maggio 2013
Gli uomini è come se abitassero in un negozio di
scarpe e tra il riso degli sciocchi
Così mi ha sottolineato mia figlia
di Pierfranco
Bruni
Non so se la
politica dovrebbe essere la “scienza dell’uomo” o se
noi dovremmo poterla considerare tale. Machiavelli e
Guicciardini non si sono giocati la loro partita sul
tavolo dell’etica o della morale. Piuttosto del
comportamento dell’uomo che ha una sua “ratio” ma
anche uno suo squilibrio.
Non so se
considerarci “profeti disarmati” (Savonarola è una
testimonianza ma non un testamento) o chiedere alla
“ragione” di diventare critica o per lo meno
kantiana ma di una cosa sono convinto in questo
nostro tempo triste che ha lo sguardo inquieto. Il
post – illuminismo ha forzato il giacobinismo
partendo da un’idea prettamente rinascimentale che è
quella di realizzare l’uomo nuovo.
Ma l’uomo nuovo non
esiste, non può esistere. Esiste l’uomo con le sue
passioni, i suoi dubbi, le sue ipocrisie. Ed è
questo uomo delle contraddizioni che crea le epoche
fragili e deboli o le epoche dominanti nella loro
fortezza, che resta una virtù fondamentale. Come
sono certo che la modernità è nel sempre di ogni
tempo.
La crisi della
politica non è la caduta delle idee. Piuttosto è la
debolezza degli uomini, delle loro coscienze, delle
loro ingratitudini, delle loro incoerenze. Mali che
rendono il viaggio senza consolazioni ma
restituiscono al pessimismo l’amarezza.
Gli uomini sono
tutti dei giocatori. È inutile rileggersi
Dostoewskij. Il giocatore, non il gioco della
menzogna del fanciullino pascoliano, deve conoscere
i limiti, le puntate, la prudenza, il coraggio, il
rischio, la scelta. Gli uomini di questo nostro
tempo sono cattivi giocolieri perché pensano che la
fortuna senza la virtù (ritorniamo a Machiavelli)
può avere un ruolo determinante. Non è così.
Proprio ieri mia
figlia mi diceva. Vedi, che ancora alla tua età
(ovvero alla mia età) non hai ben compreso l’essere
umano. Ci sono persone che abitano addirittura
negozi di scarpe. Difficile, a dire il vero, questa
metafora. Cosa voleva dire? Semplice. Gli uomini non
calzano soltanto un paio di scarpe. Ci sono piedi
che ne calzano quattro. E una sola scarpa, a volte,
può contenere quattro piedi.
Il Nodo di Gordio,
dunque è sciolto. La politica è in questo gioco che
può sembrare effimero ma non lo è.
Il vero giocatore,
riprendo la parola e rivolgendomi a mia figlia, è
quello che trovandosi in un Casinò (ho detto casinò
e non casino) punta un tavolo verde e si ferma per
una intera nottata tra sconfitte e vittorie e resta
impeccabile (come il guerriero di Castaneda) sino a
sorridere per la sua coerenza nell’essere rimasto
fiero e nobile seduto al suo posto.
Il vero
scommettitore è quello che entrando in Ippodromo sa
già sino alla fine di tutte corse su quale cavallo
spendere il suo numero. O vince o perde. Ma deve
restare fedele e affidabile.
Gli uomini non sono
né fedeli e tanto meno affidabili. Per il mondo
cattolico basta una Damasco per correggere il
percorso. Per un guerriero il problema non si pone.
Per un Sufi ci sono
le stelle danzanti nel giro derviscico. In questo
nostro tempo di agostiniana testimonianza chiediamo
ancora coerenza alla politica?
È proprio vero che
“gli uomini non operano mai nulla bene se non per
necessità” (Machiavelli).
Ma c’è una certezza
che invade le mie conoscenze. Meglio essere folli
che imbrigliarsi nella ipocrisia dei savi. I folli
non abiterebbero mai un negozio di scarpe. I savi
ipocriti sanno calzare scarpe sempre al momento
opportuno e i loro piedi, anche tra le piaghe,
resistono al riso degli sciocchi, ma arriverà il
tempo delle scarpe chiodate.
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pubblicato il 24 Maggio 2013
Cristo eretico nell’utopia del
mistero come verità della salvezza divina
oltre la Chiesa
di Pierfranco Bruni
Tra il Dio
sconosciuto e il Dio ignoto c’è, in modo quasi
paradossale anche sul piano di una metafisica sia
teologica che filosofica, un Dio dimenticato. Ovvero
un Dio esistente che si è fatto carne dentro quella
ontologia della storia che non ammette dubbi ma che
si definisce con la ragione dell’assoluto.
Chi ha fede e
crede, crede perché ha fede ed ha fede perché crede.
Non si tratta di
una articolata gioiosa forma linguistica ma di una
visione dell’immortalità che si innesca nella
coscienza degli uomini che abbandonano la parola
della storia per incarnarsi nel mistero della
parola. Dio non è storia perché non è ragione.
Può sembrare una
contraddizione di fatto e nei fatti ma la crisi di
credibilità nella quale è caduta la Chiesa cattolica
apostolica romana è una crisi di fatto e di
avvenimenti che hanno messo in discussione il
confronto e lo scontro tra ragione pratica e ragione
etica. Siamo ancora nel campo filosofico e il
pensiero non può che avvalersi di una gnosi alla
quale faceva riferimento quella “Città di Dio”
agostiniana che, comunque, cercava di farsi mistero.
La ragione
agostiniana vive in uno scontro efficace tra fede
(quindi certezza) e mistero (quindi dubbio). Ma
Pascal che ha anteposto alla ragione della storia la
ragione del cuore è entrato immediatamente in una
teologia che è quella della parola. Ma il mistero
ancora una volta non si serve della teologia della
parola.
La crisi della
Chiesa è il non voler ammettere la possibilità di un
cristianesimo oltre la storia. Questo è uno dei
punti nodali che pone una discussione sulla
cristocentricità della missione religiosa cristiana.
Il Cristo come centralità del sacro non subisce
neppure “virtualmente” la crisi della fede perché è
corpo e anima ma è, soprattutto, l’invisibile
visione che è vivente nei cuori. Senza questa
visibile visione vivente tutto diventa storia e
tutto si lega ad una spiegazione delle ragioni
fondamentali dell’uomo e dei popoli. Non saprei se
accettare la discussione sulla ricerca della fede o
dell’andare incontro alla fede.
Se parto da un
presupposto mistico – alchemico (alchemico perché il
mistero è un Oriente di pietre incastonate nelle
verità non assolute e i paraggi dell’anima non
conoscono punizioni) la ricerca della fede cosa
diventa? Io non posso cercare la fede. È la fede che
mi viene incontro.
È la fede che si
intreccia nel mio essere e trasforma il mio tempo in
un non tempo che è l’indivisibile camminamento
nell’eternità. Il camminare non è il cercare. Io
cammino dentro l’attesa. Non cerco nell’attesa. Io
vivo l’attesa. Il mistero diventa così invalicabile
e non ha bisogno più nè di un logos nè di una
teologia perché il mio “sottosuolo” ha già dentro di
sé il vuoto e la separazione tra l’essere e la
ragione.
La filosofia
kirkegaardiana è molto più dentro il concetto di
sacro – cristiano che in quello di teologia –
storia. E se questo è il presupposto per focalizzare
il mio sguardo sul Cristo della fede – mistero e non
della fede – dubbio non posso che disconoscere la
Chiesa come struttura pietrina.
Cristo è il potere
della volontà come rappresentazione dell’anima nella
coscienza dei viandanti. Forse le riflessioni del
saggio “L’anticristo” di Nietzsche hanno una loro
attenzione verso quel sacro che non si definisce
nella volontà di potere come rappresentazione (si
entra e si esce dalle filosofie tardo romantiche
decadenti) ma nell’attesa di un “Ecce homo”.
Ciò mette in
discussione le ragioni dell’ateo perché nel sangue
di “Ecce homo” c’è la purificazione della storia
teologica in mistero camminante. Le crisi sono
dovute a grandi confusioni in cui teologia,
filosofia e mistero si annunciano come voci
dialoganti. Ma non lo sono perché, in fondo,
costituiscono un assoluto. La Chiesa è un assoluto
perché, oltretutto, ha posto nel suo mosaico la
teologia e la certezza del credo – credere.
E perché, allora,
il grande rifiuto di Celestino V? E perché
l’abbandono di Benedetto XVI nel seguire la chiesa
cattolica apostolica? Forse solo la contemplazione
salverà il Cristo in Croce? E il Cristo risorto chi
lo condurrà tra la conoscenza e la perseveranza
nella proposta di fede? Abbiamo dimenticato Dio. Se
Dio è morto qualcuno lo avrà ucciso? Ma Dio è morto?
Lo abbiamo soltanto dimenticato e le responsabilità
della Chiesa non sono poche.
Perché credo? E se
credo ho veramente fede? Agostino resta per me una
“confessione” aperta come è tale Paolo ma è Pietro
che mi pone dei seri interrogativi e con Pietro la
struttura della consegna delle Chiavi.
Vivo non nella
ricerca ma tra due pilastri che sono l’eresia nei
confronti di una Chiesa che non mi appartiene e non
condivido nella sua struttura pietrina (quindi,
potrebbe anche non chiamarsi eresia perché non vi
sono dentro) da una parte e l’utopia dall’altra.
Eretico nei confronti della gerarchia del clero ma
anche in una teologia clericale sorridente ad una
utopia di un Cristo senza le gerarchie della
chiesa.
Ma Cristo è eresia
oggi. Cristo vivrebbe oggi da eretico. Ed io non
vorrei viverlo nell’utopia del mistero. Ma nella
verità della salvezza divina oltre la Chiesa.
Quando scriveremo
la storia dell’utopia non potremo che scrivere
parimenti la storia dell’eresia. E il mio Cristo è
un navigante vivente tra l’eresia della modernità e
l’utopia di una Croce che è dentro di noi. Ma se è
dentro di noi la Croce anche la Redenzione è il
rilevante mistero che accompagna l’utopia del Cristo
dimenticato in Cristo vivente.
La teologia resta
una impalcatura che ha bisogno della storia come
rivelazione. La fede nel credo e la cristocentricità
sono senza le ragioni della storia perché sono
mistero rivelante. Oggi è un grande dramma porre
questioni del genere. Soprattutto perché ci troviamo
a confrontarci con una chiesa autoritaria ma
decadente.
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pubblicato il 23 Maggio 2013
Fatima, la monaca Carmelitana nella magia raccontata
da Alarcon De La Valle,
ha
abitato il paese Lorenzo delle Grazie
di Pierfranco Bruni
Se la storia vive
di documenti è anche necessario affidarsi al mistero
per interpretare l’invisibile che le parole
mascherano. E l’invisibile c’è e resta invisibile.
C’è dentro la nostra percettibile capacità di essere
impeccabili. Spesso mi diceva così il mio amico
Alarcon De La Valle. Il mio unico e vero amico.
Conosciuto negli anni Settanta in un città che aveva
l’odore di un Oriente sbarcato tra le rive
dell’Occidente cristiano.
Un amico che aveva
come stile la profondità dello sguardo e come
cammino il silenzio della pazienza. Scriveva, ma per
Alarcon la scrittura era un vizio, come per Pavese,
a volte assurdo a volte diventava un vero e proprio
mestiere. Ma la scrittura nella sua scrittura era un
gioco. Giocare con le parole e soprattutto con i
personaggi era il suo viaggiare tra le epoche
servendosi dei documenti ma soprattutto dell’anima,
del cuore e della percezione del limite tra spazio e
sublime.
Mi raccontò del
destino di una monaca dei Carmelitani. Alarcon,
dimentico di dirlo, era un principe ma il suo
principato era tra le terre della Magna Grecia. Nei
luoghi di Pitagora e tra le donne che sapevano amare
nell’eros della bellezza dei sibariti. Un principe
della contea del lusso dei sibariti.
Allora, la monaca
dei Carmelitani. Era una giovane donna. Dagli occhi
intensi. Verdi e neri. Verdi come il mare di Tunisi.
E neri come le olive delle campagne della Magna
Grecia. Giunse, così mi disse Alarcon, in un presto
mattino dalle luci con scintille antelucane, in un
paese del Sud chiamato Lorenzo delle Grazie. Questo
paese, che era stato abitato anche da Alarcon, aveva
un convento chiamato delle Carmelitane dai piedi
nudi (perché non scalze?).
Venne mandata in
questo paese dalla lontana Siviglia. Quasi in
esilio. Perché lì avevano scoperto che, di notte,
usciva dalla Casa Generalizia e si incontrava, in
segreto, con il francescano Pier De La Luna. Si era
in un tempo di inquisizioni e la Spagna possedeva
tutte le chiavi delle parole misteriose per
inquisire nei tribunali del dubbio.
Arrivò al convento
di Lorenzo delle Grazie e si fece assegnare una
celletta che non aveva finestre e chiese
semplicemente dei fogli e del materiale per potervi
scrivere. Accettò l’esilio per lunghi anni e quando
morì trovarono la cella piena di figli, tutti
scritti di storie. Fogli sparsi e senza essere
numerati. Una scrittura sottile e a volte
indecifrabile.
Questi fogli sono
stati studiati per molti anni da Alarcon, il quale
interpretò un misterioso dialogo tra la monaca e
Pier De La luna che dopo la sua partenza aveva fatto
perdere le tracce. Alarcon mi disse che, in sogno,
comunicavano e si parlavano e tutto ciò che era
scritto nelle pagine della Carmelitana dai piedi
nudi, in esilio nella cella del convento, aveva
qualcosa di magico perché accanto ad ogni parola
c’era un segno, un simbolo, una foglia di rosa.
Tanto che la monaca venne chiamata, dopo la sua
morte, la monaca dalle foglie di rosa.
E’ rimasto tutto un
mistero. Ma dal giorno in cui la monaca morì il
convento venne chiuso e nessuno vi abitò più. Tutte
le altre monache vennero trasferite. Furono scritti
libri di storia sul convento e sulla monaca
riportando documenti e bibliografie. Alarcon mi
disse soltanto che la monaca carmelitana, venuta da
Siviglia, si chiamava Fatima.
Nella sua cella
venne trovato anche un rosario e su ogni grano c’era
un segno, un inciso, un graffio. In una mano stretta
conservava un petalo di rosa rosso.
Alarcon,
raccontandomi, questo destino mi disse anche che tra
il convento e il castello c’era un passaggio
sotterraneo che partiva proprio dalla cella della
monaca e conduceva in una stanza del castello.
Studiando la stanza del castello Alarcon trovò, in
un angolo, un petalo di una rosa rossa. Nessuno
seppe che in quella stanza del castello venne
trovato morto Pier De La Luna.
Tutta questa storia
è una storia vera come è vera la verità che viene
raccontata con la fantasia e con il gioco
inevitabile del mistero.
Nel paese di
Lorenzo delle Grazie c’è un castello e ci sono i
resti di un convento ma anche i resti di una
abitazione abitata dalle Carmelitane dai piedi nudi,
ma nessuno ha mai saputo del passaggio segreto e
neppure del petalo di rosa rossa trovato nella
stanza del castello. Fu una storia d’amore?
Il principe Alarcon
mi ha lasciato una bella e affascinante eredità che
è quella di scoprire il resto della storia e di
rivelarla soltanto ai miei figli con la promessa che
loro dovranno rivelarla soltanto ai loro figli e
così via di seguito.
Alarcon non so dove
sia finito. Forse ha lasciato la città dai colori
d’Oriente nell’Occidente cristiano per recarsi a
Siviglia o è ritornato ad abitare il suo castello
nel paese della Magna Grecia dove le donne hanno la
bellezza della terra dopo la pioggia e lo sguardo
del mare dopo le tempeste. Non lo so. L’ho cercato.
Ma non ho avuto notizie.
Quello che posso
dire soltanto è che Alarcon è un personaggio reale,
la monaca Carmelitana è morta nella cella del
convento e Pier De La Luna ha abitato una stanza del
castello. Il petalo della rosa rossa non è la storia
della rosa scarlatta.
La leggenda finisce
qui. Ma qui comincia una storia che si perde proprio
nel momento in cui abbiamo bisogno di testimoniarla
con i documenti.
Alarcon mi ha detto
ancora prima di far perdere le sue tracce: “Amico
mio, quando cominci con la ragione a voler dare
senso alle storie il tuo viaggio finisce. Non
chiedere mai spiegazioni a ciò che reputi
impossibile. Non stupirti se il miraggio del segreto
insiste nel restare segreto. Non infilare mai il
dito nel silenzio del mistero pensando di dare voce
ad una storia che non ha bisogno di diventare
storia. La magia, amico mio, sta proprio qui. Gioca
sempre con l’alchimia che ti vive dentro. Non
tentare di capirla. Fermati prima che lo specchio
possa infrangersi e coprirti di ferite. La bellezza
dura se la custodisce. E tu, amico mio, custodisci
sempre, con il silenzio. Agli storici regala un
sorriso. A te stesso il sogno. Così vivi tutto ciò
che ti ho raccontato con il sogno. Il resto non ha
importanza”.
Finisce qui il
viaggio di Alarcon nei miei pensieri.
Caro amico mio,
caro principe, così tu vuoi ed io non ti cercherò.
Custodirò tutto ciò che mi hai raccontato nel sogno
del mio cuore. Poi se accadrà altro dipende dai fili
dell’alchimia che hai lasciato lungo le strade della
magia.
Se questa storia è
inventata prendetela con beneficio di inventario e
ogni riferimento è puramente letterario. Se, invece,
ha preso il sopravvento la fantasia nel mistero ogni
fatto è puramente casuale.
Che dirvi di più?
Ma dove è finito Alarcon?
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pubblicato il 20 Maggio 2013
Non è
vero che se Dio è morto noi lo abbiamo ucciso.
Dio
non è morto e la Fortezza e Giobbe sono la salvezza
dalla sconfitta in questo nostro tempo di deserti
di
Pierfranco Bruni
Ci
sono giorni in cui il tempo si misura con l’orologio
e le lancette segnano il passo nella sabbia. Ci sono
giorni in cui si cercano le parole per trasformare
il quotidiano della malinconia nella comprensione
dell’altro. E l’altro, oltre Sartre, c’è. Esiste.
Perché è nel cuore della pietà che vive. È nel cuore
della compassione che si fa vita. È nel cuore della
speranza che si intreccia alla misericordia.
Ci
sono giorni in cui la solitudine viaggia tra gli
sguardi e lo scavo nell’anima. Poi basta ritornare
ad un paese dell’anima o della geografia reale per
scompaginare i fogli della solitudine. “Un paese
vuol dire non essere soli” (Cesare Pavese). Perché
in questo paese ci sono le memorie che
proustianamente si fanno frammenti di tempo perduto
e ritrovato. Ma abbiamo bisogno di memorie preganti.
Noi
io e voi e tu in quale caduta del perduto e del
ritrovato ci troviamo ad abitare le nostalgie del
presente? C’è sempre la “caduta” perché c’è sempre
uno “straniero” (Camus) che occupa gli angoli della
nostra pazienza. Se non ci fosse la pazienza ci
affideremmo alla disperazione (Dalai Lama). Ma se
non ci fosse il Venerdì di Passione non ci sarebbe
la rivoluzione vera della Redenzione. Tutto questo
passa nei percorsi delle voci e dei silenzi che sono
la vera metafisica del conflitto di questa nostra
contemporaneità.
Non
so se siamo moderni o contemporanei. Non so se siamo
nel presente o se viviamo nel quotidiano. Siamo
figli di un Mediterraneo dell’anima perché ci
portiamo dentro una eredità occidentale, ma non
smettiamo di confrontarci e scontrarci con un Cristo
che ha la sua universale memoria e presenza nella
fedeltà mediterranea. Un Cristo universale è un
Cristo che si porta la Croce di una storia
profondamente scavata nel Getsemani di un
Mediterraneo tra inclusioni e frontiere. Un Cristo
che è Nascita ed è Passione. E non abbiamo bisogno
di difenderci e neppure di essere difesi da chi non
ha superato l’ira di una modernità che ha i fili di
una costante sconfitta.
Questo uomo sconfitto, quasi quasimodiano o
straziato nell’ungarettiana essenza, deve superare,
attraversandolo comunque, il deserto. Si è nel
deserto. Siamo nel deserto. O siamo deserto? Tutto
il circo che ci circonda è un demone, nell'arco dei
deletti e dei castighi, caduto dall’ultima stella e
non abbiamo bisogno di stringere l’anima intorno al
moralismo del dogma o dei cerchi danteschi (che
tanto male hanno fatto all’uomo della speranza e
della compassione) perché nel paolino concetto di
bellezza si incentra tutta la salvezza che non
abbiamo. Dante è stato ed è la dannazione
dell'Occidente che non ha compreso l'Oriente.
È un
viaggio senza estetica quello che camminiamo perché
è un viaggio dove la notte nera è l’ira, la rabbia,
il tormento dell’intolleranza.
Incontrando uno sciamano nelle terre che furono dei
Dakota mi disse: “Quando qualcuno ti colpisce con
una offesa e ti lancia pensando di ferirti con la
sua rabbia tu non rispondere. Sorridi. Quando
qualcuno usa la parola come freccia per colpire il
tuo cuore tu non ascoltare. Poniti in attesa del
vento. Fermati e osserva i tuoi passi e poi continua
nel tuo camminare. Ogni qualvolta la povere e la
sabbia copriranno i tuoi piedi tu cammina. Cammina
sempre. Il Grande Spirito albeggia nella
compassione. Non ti porre in competizione l’agguato
è sempre di fronte a te ma tu hai tante strade da
vivere. Non rispondere ma porta in alto il tuo volo.
Il silenzio è salvico viaggio”.
Ritorno spesso a meditare sulle parole dello
sciamano. Poi continuo a leggere i miei poeti, i
miei scrittori, la mia compagna filosofia dentro il
poeta Abshu. Il dubbio e la Grazia, come mi ha
sempre raccontato Simone Weil, sono un dono. La
parola non ha certezza. Ha salvezza. Quella della
speranza. Quella del Cristo sanguinante in Croce e
quello che ritrova Maria di Magdala nella Luce della
pazienza.
Questo nostro tempo di distacchi è un tempo
sconfitto. Non è vero che se Dio è morto noi lo
abbiamo ucciso. Nietszche è sulle mie rughe ma i
viandanti del deserto sono pellegrini dell’attesa e
la perdizione è il disastro che si intreccia nella
contemporanea realtà. Ma noi siamo perdenti e forti.
La
Fortezza e Giobbe sono la salvezza dalla sconfitta.
Giobbe accompagna le nostre vite perché ha segnato
la salvezza dei disperati.
Se il
nostro tempo è sconfitto dobbiamo avere il coraggio
di sfidarlo. Bisogna sfidarlo con la speranza e la
pazienza.
Non
vogliamo vincere. Non si vince mai. Vogliamo
proporre la serenità (Seneca) e non il contrappasso
(Dante ha ucciso il concetto di amore perdonante).
Vogliamo proporre la carità (San Francesco di Paola)
nella contemplazione e nella compassione (Budda).
Se
questo nostro tempo è sconfitto dobbiamo avere il
coraggio di sfidarlo con la Grazia, la speranza, la
pazienza. Dobbiamo avere coraggio di trasformare il
dubbio in salvezza! Dobbiamo avere la pazienza di
rivolgere la Speranza in Fortezza (San Giuseppe
Moscati).
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pubblicato l'8 Maggio 2013
Quando Andreotti
volle presentare Francesco Grisi al Premio Strega
del 1986 e rafforzò il Sindacato Libero Scrittori
di Pierfranco Bruni
Era il 1986 quando
Giulio Andreotti, dopo aver letto e discusso con
Francesco Grisi e alcuni suoi amici e tra questi
intavolò un ragionamento letterario con chi scrive
chiedendomi addirittura quando di “vero” poteva
esserci nei primi capitoli del romanzo (proprio lui
mi fece una domanda sulla “verità” tra storia e
personaggi in Grisi), volle, con la sua consueta
ironia, presentare il romanzo “A futura memoria” al
Premio Strega di quell’anno.
Volle presentarlo
nella rosa dei romanzi che dovevano formare la prima
decina e successivamente la cinquina. Mi disse che
conosceva le pagine di Grisi già dal 1985 e lo aveva
incuriosito la presenza di due personaggi: il
cardinale, guarda un po’, e la rivoluzionaria
Eleonor e poi la madre di Mara che un bel giorno
scompare per chiudersi in un convento di clausura.
Andreotti era molto
amico di Francesco Grisi. Fece una brillante
relazione su “A futura memoria” scavando nelle
radici letterarie del cattolico Grisi in un
confronto, a tutto tondo, con la letteratura
dell’ambiguità cristiana sottolineato da Diego
Fabbri. Andreotti portò bene a Grisi. Tanto che non
solo venne inserito nei primi venti e poi dieci
romanzi ma addirittura arrivò alla cinquina.
Andreotti era
convinto, da attento lettore, che Grisi, quell’anno,
avrebbe vinto il Premio Strega. Si era su questa
strada. Grisi era ormai il candidato più accreditato
soprattutto perché il romanzo aveva una sua
particolare originalità e questo Andreotti lo ebbe a
sottolineare immediatamente.
Ma quell’anno,
proprio nelle fasi ultime della selezione, morì
Maria Bellonci e a lei venne conferito il premio “a
futura memoria” per il romanzo “Rinascimento
privato”. La Bellonci era scomparsa nel maggio del
1986. Venne conferito il Premio alla Bellonci
giustamente per la sua storia e come ideatrice, tra
gli altri, dello stesso Premio. Ma il vero vincitore
rimase Francesco Grisi, al secondo posto, con “A
futura memoria”, appunto.
Un episodio che
Giulio Andreotti raccontò anche quando svolgemmo il
Convegno Nazionale su Francesco Grisi svoltosi a
Roma, a Palazzo Sora, il 26 e 27 febbraio del 2009.
In questa occasione
Andreotti racconto, attraverso aneddoti, la storia
letteraria di Grisi partendo dai primi libri di
critica, del suo legame con Debenedetti sino alla
costituzione del Sindacato Libero Scrittori
Italiani, voluta anche da Giulio Andreotti. Tra il
1969 e il 1970 ci fu una frequentazione tra Grisi e
Andreotti in funzione del dibattito tra cultura
cattolica e cultura marxista.
Andreotti
incoraggiò fortemente sia la scissione del Sindacato
Nazionale Scrittori sia, soprattutto, la nascita del
nuovo Sindacato Cattolico incarnato da Grisi, De
Feo, Fabbri, Del Bo (che è stato ministro
democristiano).
Infatti la prima
seduta del nuovo Sindacato fu inaugurata con la
relazione di Giuseppe Spataro, cattolico e
democristiano, che ricopriva la carica di Vice
presidente del Senato. Con il Sindacato Libero
Scrittori, Andreotti ebbe sempre ottimi rapporti.
Inaugurò numerosi convegni e con Grisi fece parte di
molti premi letterari.
Ma al di là della
vicenda legata alla nascita del Sindacato, Andreotti
ebbe un ruolo importante nella vita di Grisi e la
ebbe anche nel terzo romanzo, che forma la trilogia
con “Maria e il vecchio”, “La poltrona nel Tevere”
che risale al 1993, nel quale si racconta del
rapimento di Moro e si metaforizza la presenza del
“presidente”.
Io che ho vissuto
il percorso grisiano dal 1977, data dell’incontro
tra me e Grisi, in poi ho sempre considerato
centrale il rapporto tra Andreotti e Francesco. Una
delle testimonianze pregne di significato resta la
corrispondenza, che in parte ho riportato nel mio
testo “Spirito e Verità. Lettere inedite”. Grisi in
Andreotti “leggeva” un riferimento come maestro di
grande ironia.
D’altronde tutta la
scrittura di Grisi si basa su un processo letterario
e marcatamente ironico. Ricordarlo oggi significa
anche marcare l’importanza che Andreotti dava alla
letteratura. Aveva scommesso su “A Futura memoria”.
E non si era sbagliato.
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pubblicato il 2 Maggio 2013
PER LA PACE E L’UGUAGLIANZA
di
Egidio Chiarella
Il vangelo di Luca,
dice il mio insegnante di catechesi, mons.
Costantino Di Bruno, può essere definito il vangelo
dei “quattro attori”. Quali sono gli attori a cui si
riferisce? Il primo è il Padre onnipotente che, con
la sua grazia, agisce sempre per salvezza del mondo.
Il secondo attore è Gesù, quale mediatore tra l’uomo
e il Padre, strumento della storia per la
redenzione dell’uomo. Il terzo è l’uomo, che si apre
al Signore con la conversione del suo cuore.
Il quarto attore è
l’altro fratello, che in qualche modo si oppone
sempre ad un processo di pace e di amore di
qualcuno. Lo stesso che blocca il cammino verso la
verità della Parola o insidia il prossimo con la
tentazione, il dubbio, la promessa facile. Un
tentativo corrente, capace di spingere chiunque a
guardare dall’altra parte, rispetto all’orizzonte
illuminato dalla luce della fede. Di quest’ultimo
attore il mondo è pieno. Troppi luoghi e posti di
comando convergono su questa categoria di uomini.
Basta guardarsi intorno, sia nella vita personale,
che in quella sociale. La comunità attuale ne sta
subendo i contraccolpi!
Il brano evangelico
sulla conversione di Zaccheo ci presenta i “quattro
attori” nel loro inequivocabile ruolo. Il Padre è
colui che spinge Gesù verso Gerusalemme, per la
salvezza dell’umanità. Il figlio Gesù segue la
missione affidatagli, portando sul suo cammino la
verità e la conversione dei cuori, in chiunque lo
segui o si fermi ad ascoltare le sue parole.
Zaccheo, che sale sul sicomòro per vedere il
“mandato” di Dio, è l’uomo che si converte. La folla
che mormora per la scelta di Gesù di fermarsi a casa
di un peccatore, rappresenta l’altro fratello,
sempre infastidito o assente, per la salvezza del
prossimo. Il “quarto attore” rimane, quindi, lontano
dalla Parola del Signore.
Nella parabola del
Figliol Prodigo è il fratello di sangue, che si
rattrista per il perdono offerto dal padre, al
figlio ritrovato. La presenza del quarto attore è
purtroppo ovunque. Zaccheo si pente, si converte,
dovrebbe essere festa; non è invece così! Gesù viene
guardato con sospetto, perché la sua azione
“sconvolge”, ma nel bene, la storia immutata di chi
non vuole mettersi in discussione. Così succede,
ancora oggi, quando si cerca di portare sulla strada
maestra chi ha sbagliato. Provateci! Vi accorgerete
che il perdono e la liberazione del peccato, sono
troppe volte vissuti come una possibilità teorica,
piuttosto che come una reale possibilità nella vita
di un credente.
I giovani
dovrebbero discostarsi dal “quarto attore”, sia per
non subire e annullare le tante insidie nei loro
confronti, sia perché non lo diventino essi stessi,
rispetto ad altri. Zaccheo era un peccatore, ma
pentendosi cambia la sua storia e offre, a quella
gente, l’ occasione di toccare con mano la bontà e
la grazia di Dio, professata attraverso Gesù.
Zaccheo, di piccola statura, fa fatica a vedere il
Messia, perché attorniato da una grande folla.Cosa
s’inventa?
Per superare gli
ostacoli che rendono insoddisfatto quel suo
desiderio, non si rassegna, ma utilizza la saggezza
e l’intelligenza. Scappa in avanti e sale su un
albero. Non può perdere quella opportunità. Un
monito, questo, per i giovani e per tutti noi, a non
rassegnarsi mai. Qualunque sia la situazione da
superare! Quante volte non si usano le potenzialità
di cui si è in possesso, per risolvere una qualsiasi
questione che affligge il cuore e la mente di un
uomo? Aspettiamo magari che qualcuno lo faccia per
noi, mentre il tempo annulla una buona circostanza,
che forse non si ripeterà mai più.
Zaccheo, su
richiesta di Gesù, lo ospita nella sua casa e si
pente. Lo fa compiendo due gesti centrali per la sua
conversione. Per giustizia restituisce il maltolto,
quattro volte in più del suo valore e per carità
dona metà dei suoi averi ai poveri. La giustizia
consente di riscattarsi nella società civile di cui
si fa parte e di essere cittadinanza attiva. La
carità apre il cuore umano all’amore verso gli
altri, alla solidarietà e soprattutto, come ha
scritto più volte Benedetto XVI, alla
fraternità. Dote, del cuore umano, necessaria per
rimettere in moto, pur nelle differenze, un’epoca di
pace e di uguaglianza. Presupposti essenziali per
individuare una economia a sostegno di quel bene
comune, solo e sempre annunciato.
Roma,
13 Aprile 2013 (Zenit.org)
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pubblicato il 31 marzo 2013
Appunti sull’Anima. È morto il mio amico poeta
“maledetto”.
Franco Califano e se la noia resta la malinconia
vince
di
Pierfranco Bruni
È morto non
soltanto un personaggio della canzone vera, della
canzone fatta con le parole, con il linguaggio
dell’esperienza, con la testimonianza del quotidiano
dolore nell’ironia che cammina nel nostro presente.
È morto un poeta. Un poeta di quelli che hanno nella
loro vita e nel loro linguaggio il “maledetto” dello
stagione del decadente, che ha saputo giocare sino
alla fine una partita con la noia, con la
malinconia, con l’amore, con il tempo, con il
disperante segno del viaggiare dentro la sensualità
del tempo.
Franco Califano.
In questa Pasqua del 2013. L’ironia tutta
intrecciata nel soffocante miraggio di una
“maledizione” che viveva nel tentativo di superare
la noia e vive l’amore con la profondità del tempo e
dei sorrisi strappati alla tentazione di superare
ogni giorno la morte.
Erano anni
difficili. Metà anni Settanta. Era il mio percorso
in quella Casa dello Studente di Roma, De Dominicis,
e le sue parole mi accompagnavano tra libri non
studiati e letti e libri scavati con l’agonia del
vivere con i tanti poeti maledetti, decadenti,
emertici. Anni di fuoco e di tempeste. E Franco ci
recitava che tutto il resto è noia. Per superarla
bisognava attraversarla.
Concerti alla
ricerca di quelle emozioni che ci facevano superare
la solitudine di una serata. Ebbene, in uno di quei
concerti, io ragazzo di periferia e ribelle come
sempre nella vita e innamorato dell’avventure, urlai
fino a raggiungere il suo sguardo. Il dopo concerto,
e il nostro sguardo si fece stretta di mano, un
abbraccio nel sudore della contentezza ma anche
nello scambio di un sudore trasportato da pelle a
pelle. Maledetta noia. E fu così che conobbi il
Franco della poesia che ha segnato non una
generazione ma un’epoca della parola sussurrata e mi
ha segnato con quella sua voce roca, con quel suo
vivere segnando gli attimi e con il suo coraggio di
non accogliere la vulgata comunista, Franco
anticomunista, di quegli anni e anche degli anni
suoi difficile quando venne aiutato da Bettino Craxi
nel 1983. Sino ai giorni successivi.
Il suo coraggio e
il suo non formarsi ad una canzone fragilmente detta
impegnata e in molte occasioni futule. Franco recitò
la malinconia del pianto e del non piangere. Del
pianto sulle nostre vite. E lo recitammo, lo
cantammo sulla scalinata di Piazza di Spagna nelle
sere di giugno, di luglio in una Roma infuocata
negli anni terribili della mia giovinezza.
È passato tanto
tempo ma la sua coerenza nella parola, negli
atteggiamenti, nel vivere cercando di uccidere le
nostalgie sono rimasti dentro i miei passi di
disubbidiente. E se in me non è mai passata la
passione, e non la ragione, della disubbidienza lo
devo anche a lui. È uno dei poeti che mi ha formato
in una stagione di sorrisi e di ribellione. Cantò
l’amore nella stranezza dei rapporti e negli attimi
che fuggono e non li ritrovi più.
Gli attimi.
L’amore è l’estrema consolazione. È il tutto. Mi
ritornano i passaggi di una canzone che si intitola
proprio “Attimi”. Una verseggiare che spinge l’anima
ad uscir fuori e farsi vento, tempesta, naufraga,
marea. Attimi nell’amore. Ma sono gli attimi che
fermano la vita nell’amore e l’amore nella vita: “Ci
sono attimi in cui tu mi manchi,/e in quei momenti
mi sento male./Ci sono attimi in cui non ti penso/e
so benissimo cosa fare./E tu che balli nei miei
pensieri,/donna di oggi, donna di ieri,/chissà se
vivi le mie emozioni/se a volte hai le mie sensazioni”.
Un poeta nella
libertà del suo destino che non ha mai smesso dire
quello che sentiva e distante dalla prigionia delle
consuetudini. Era un vero artista. Il sorriso della
donna che si affaccia dalla finestra. Rose e
crisantemi. Un canto e un contracanto. Sempre nella
libertà. Sapeva di vivere la vita alla giornata
camminando sulle ali della morte e sul volo della
vita di una farfalla. Parafrasando un po’ il suo
recitativo.
Ma Franco è stato
un maestro. Un maestro vero! Il coraggio di un
maestro nella sua visione di essere alla ricerca
della luce.
In quella Roma
anni Settanta (fine anni Settanta) è stato il mio
compagno di versi e di serata che trasportato la mia
perenne solitudine oltre il fiume che scorreva nella
lentezza del vento. Ma mi legava a Franco un’altra
amicizia “maledetta” e bella perché essere poeta
maledetto è vivere la bellezza e il sottosuolo fino
in fondo.
Mi legava a Franco
una donna e una voce straordinariamente profonda,
anche nel mio essere e nel mio tempo, Mia Martini.
La mia calabrese Mia. E devo ricordare quel
“Minuetto” scritto da Franco e cantato
meravigliosamente da Mia. Mia e Franco in un
minuetto di storie incrociate sugli orizzonti dei
dubbi.
“E'
un'incognita ogni sera mia.../Un'attesa, pari a
un'agonia. Troppe volte vorrei dirti: no!/E poi ti
vedo e tanta forza non ce l'ho!/Il mio cuore si
ribella a te, ma il mio corpo no!/Le mani tue,
strumenti su di me,/che dirigi da maestro esperto
quale sei”.
Ma qui siamo ad
anni più tardi rispetto al 1977 e 1978. Mia Martini
e il suo “Minuetto” è il mio viaggio di fine Liceo.
Califano è l’iniziazione dei miei anni universitari.
Tra i due si è consumata la rivoluzione della mia
vita. E ora mi ritornano con la passione che non ho
mai perso nella sensualità delle sconfitte e delle
vittorie pronto a pagare sempre, come Franco mi ha
insegnato. E poi in anni successivi “La nevicata del
56” che mi riporta a mio padre, al mio paese, ai
miei sogni abbandonati nelle sfreccianti malinconie.
La poesia. Sì la
poesia. Ma come non può definirsi poesia un impatto
testuale come “Appunti sull’Anima”. Così solo un
passo: “Ma noi che navighiamo sopra un vecchio
relitto,/chi pensava mai che fosse naufragato in un
letto;/questa roccia d'amore dopo tante
ferite/meritava il suo premio e non due vite
finite./Appunti sull'anima,/far l'amore al buio, non
vedersi più...”.
Poeta che penetra
l’anima. Poeta che attraversa il buio. Poeta che non
smette di vivere e credere nella passione perché in
ogni passione ci sonno pezzi di esistenza. Mi ha
insegnato di non vivere la vita mai a metà. Non si
vive mai a metà. Avevamo appuntamenti non mantenuti.
Ma in questi concerti che aveva avviato ci sarebbe
stato un incontro magari senza appuntamento.
Mancheremo a questo appuntamento. Ora “si va”. Si va
verso una meta che nessuno sa… Quante amicizie
ancorati ai ricordi e al presente. Quante amicizie
mai rivelate. Franco era un amico nella vita e nel
raccontare gli amori. L’amore. Ma tutta la vita è
sensualità sotto le lune.
C’è un promessa,
Caro Franco, e te la devo. Tu mi seguirai e mi
accompagnerai con la luce della tua anima e mi
porterai a scriverla…
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pubblicato il 27 marzo 2013
IO NON SONO UN ESSERE
UMANO, CARO FRANCO BATTIATO, MA TU SEI UNA DELUSIONE !
DIMMELO TU! TI MANCA IL CORAGGIO DI DEFINIRTI?
Ma i dervisci danzanti non ti appartengono.
di Pierfranco
Bruni
Ebbene! Io sono
uno, dei tanti o pochi, impresentabili, che ha
votato per la destra, perché la mia cultura, la mia
formazione, i miei autori, la mia vita è di destra.
Sono una persona prima di tutto, ma ciò detto oltre
le metafore, sono uno dei tanti o pochi che “non
appartiene agli esseri umani” come ci ha
classificato l’amante dell’Oriente dei sufi, ovvero
Franco Battiato.
Prendetevi paura
perché non ho né timore né tremore di uno
impresentabile che non è, tra l’altro, un essere
umano, quale io sono.
Dove siamo finiti
caro Battiato e proprio tu che ti reputavi un
“soggetto” serio e da ascoltare con attenzione sei
caduto nelle briciole di un linguaggio comunista e
nazista. Ho pietà per me per le parole che hai
pronunciato e oggi ti dico che ho un po’ di vergogna
di me stesso per aver ascoltato e letto i testi di
un uomo che ha nei miei confronti una tale
concezione - considerazione.
Hai mentito e
continui a mentire nel nome dei sufi, della cultura
islamica, del mondo buddista. Perché chi proviene da
queste lezioni non pronuncia quelle parole. Lo dico
con serenità. Continui a mentire nel tentare di
dettare insegnamenti. Mi rendo conto della fragilità
dell’essere umano.
Io che citavo i
tuoi versi. Tutti non veri perché soltanto chi ha un
livore e anche un senso del ridicolo della storia
può pronunciare le parole che tu hai pronunciato.
Questa destra italiana non presentabile e non
appartenente agli essere umani. Posso capire l’annunziatura
comunista di Lucia, pecorella smarrita e
manzoniamente ritrovata, ma il tuo linguaggio, mio
caro Franco, è proprio un ferro battuto sui tamburi
del vento.
La tua poesia, se
poesia è, (perché un orientale, l’amore per
l’Oriente, intreccia vita e poesia: non lo sapevi?)
che fine ha fatto? I tuoi rimandi a tutto un mondo
tradizionalista occidentale ed orientale, esoterico,
musulmano e tibetano che strade stanno percorrendo?
Mi auguro che il sole e le nuvole di Parigi abbiano
dislocato altrove le tue alchimie verso piramidi
rovesciate altrimenti saresti non solo una delusione
ma anche la fine di un viaggio. Il tuo viaggio nelle
parole vere.
Mi dispiace non
tanto per me che ho letto e considerato i tuoi
testi, oggi li scaccerei dai miei passi dopo la
marxista considerazione che hai degli uomini come
me, di destra senza alcuna conversione e senza una
Damasco da giustificare, ma con il difetto o vizio
della coerenza che appartiene agli Illuminati.
Mi dispiace per
te.
Sì, perché chi
segue i passi dei Maestri, si veste con la
tradizione dei Maestri e canta con le pause dei
Maestri scivolare nella rozzezza significa che sulla
tua strada ci sono stati solo piccoli uomini e
cattivi maestri e quella storia che recitano i
dervisci danzanti o i monaci tibetani non ti
appartiene, non è parte integrante del tuo modo di
essere. Forse solo del tuo modo di vestire, a volte,
ma Proust la pensava bene quando diceva che tutta la
vita si muove sulla messa in prova di un vestito
nuovo.
Sei una delusione.
Ed io non sono uno
di quelli che la patologia leggendaria vuole che si
offra l’altra guancia. Dopo il primo schiaffo
reagisco. Magari con il silenzio come sanno fare i
veri guerrieri impeccabili o gli sciamani del
silenzio e dell’ascolto.
Ponendomi in
ascolto, ti dico che sei stato irrispettoso a
pronunciare quella frase. E non porgendoti l’altra
guancia, perché non meriti più nulla, spezzerò tutti
i tuoi cd e ne farò un falò. Un falò sotto la luna
come fecero i partigiani comunisti, raccontati da
Pavese, della vita di Santa. Così potrai finalmente
accusarmi di nazista tanto sarei pari alle parole
che tu hai usato nei miei confronti. Ti pare poco?
Per me non esisti
più. Lo so che te ne frega poco. Ma non esisti non
solo per la frase che hai pronunciato e non avresti
dovuto per essere tu un essere umano, e lo sei (vedi
non faccio discriminazioni), “Humanitas” ti dice
qualcosa?, ma per aver spezzato una tradizione, la
tua tradizione, perché tu puoi mutare opinione,
posizione, atteggiamento ma ciò che hai scritto
resta e allora rileggiti.
Forse lungo le vie
dell’assessorato ti sei un po’ smarrito. Questo te
lo devi proprio per ritrovare un certo “centro di
gravità permanente”.
Sei una delusione!
Non raccontarmi e non raccontarti più nulla.
Con una frase hai
spezzato la tua storia. Punto.
Il resto lo affido
non ai tuoi danzatori sciamani, perché li hai uccisi
con quella frase, ma alla mia storia di impeccabile
guerriero di luce che pone al centro il cuore
dell’uomo, della persona, della speranza.
Tu resta non so
dove. Fatti tuoi e dei tuoi desideri.
Io sono e resto di
destra e quindi non sono un essere umano.
Tu non so cosa
sei: un essere umano. Certamente! Ma se io dovessi
scegliere tra te e me non sceglierei te
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pubblicato il 25 marzo 2013
Nella preghiera la misura della fede!
di Egidio Chiarella
“Benvenuto
tra di noi, Papa Francesco! La Sua guida sarà
luce per tutti, nelle tenebre di un relativismo
ormai senza frontiere. Il cuore di Benedetto XVI
batte ora nel Suo. A noi cristiani l’umiltà e la
volontà di capire questo mistero e fare la nostra
parte, in piena coscienza, per l’affermazione della
Chiesa di Cristo, verità perenne per le strade del
mondo”.
Nella prima apparizione pubblica, il nuovo
pontefice, ci ha invitato alla preghiera e al
silenzio! Sono rimasto molto colpito! Ecco perché mi
permetto di dedicare, a Sua Santità, questa mia
riflessione odierna, nella certezza che da umile
successore di Pietro saprà condurci al gusto
naturale della preghiera, misura della fede e
strumento, troppe volte dimenticato, di dialogo
quotidiano con Dio.
Sant’Agostino, nel rapporto che si instaura tra
credente e preghiera, diceva: “Aut mali, aut male,
aut mala”. Non si prega bene quando si è cattivi
(mali); quando si prega malamente (male); quando si
chiedono cose cattive (mala). Quest’uomo del
Signore, che conobbe la conversione dopo anni di
inquietudine e di vita dissoluta, in poche parole,
chiarisce un concetto fondamentale nella vita di un
fedele, indicando tre atteggiamenti umani che
vanificano la sua relazione con Dio.
La nostra società ha perso il gusto di pregare e ha
tramutato questo appuntamento straordinario
dell’uomo con l’Altissimo, in un abitudinario
“resoconto” occasionale. Eppure la sostanza
dell’essere umano tende al cielo, avverte nella
preghiera, magari nelle forme più “romanzate”
possibili, un canale di comunicazione con il mondo
che non si conosce, ma si ferma qui! Il pericolo di
cadere nelle grinfie dei venditori ambulanti della
fede, sta a due passi della propria quotidianità. Il
rischio di invalidare la natura dell’essere anima e
corpo, è a portata di mano! La persona, in quanto
tale, non necessita di formule magiche per avere
coscienza del Creatore, ma di umiltà del cuore e
comunanza totale con la Parola di Cristo e la sua
Santa Chiesa.
La storia dell’uomo attesta la verità di queste mie
ultime parole, che solo la cecità dello spirito può
ribaltare a favore di comportamenti fuorvianti e
soprattutto lontani dalla verità del Vangelo. Ma
anche chi è nella Parola, come dice il vescovo
Agostino, deve capire che la sua fede si misura,
sempre, dalla maniera con la quale porge la sua
preghiera al Signore. I Padri medievali dicevano:
lex orandi, lex credendi. La legge della preghiera è
la legge della fede. Da una preghiera fatta male,
con contenuti inopportuni, deriva un credere
distorto; al contrario da una buona formula di
preghiera si ha una corretta fede. L’uomo non deve,
certo, pregare dopo aver fatto un corso di
formazione; nessuno lo ha mai organizzato! Gesù
vuole che l’uomo si sappia immergere in un silenzio
cosmico assoluto e parli al Padre con il cuore pieno
della sua Parola. Sia umile e sappia rispettare
l’altro che prega nella casa del Signore, che non ha
titolari particolari. La casa di Dio è la casa di
tutti.
È Gesù, come si legge in Luca, che racconta la
Parabola della vedova, che ebbe giustizia grazie
alla sua continua insistenza, per insegnare alla
folla e ai suoi discepoli che bisogna continuamente
pregare senza mai stancarsi. La preghiera parte
essenziale della vita e non momento di invocazione
per superare un momento di crisi. È sempre Gesù che
tra il pubblicano e il fariseo, che si recano al
Tempio per pregare, indica nel primo l’uomo che sarà
ascoltato dal Signore e non nel dotto della sacra
scrittura, che pregando si vanta con Dio delle sue
azioni, denigrando coloro, che come il pubblicano,
sono ingiusti, adulteri; non pagano la decima due
volte la settimana e non seguono i culti ufficiali.
Ma Gesù invita, chi crede, a pregare assieme nella
semplicità, per rendere più forte la richiesta al
Padre. Così in Matteo: “Poiché dovunque due o tre
son radunati nel nome mio, quivi son io in mezzo a
loro”. L’’augurio è che ritorni il gusto della
preghiera e conquisti il cuore dei giovani,
solitamente invasi da altre forme di relazione con
l’infinito. Anche il nostro culto, proprio per
rendere partecipi le nuove generazioni, come vuole
Cristo, avrebbe bisogno di purificazione. Il mio
parroco, nei suoi scritti, ha più volte sottolineato
che esso è divenuto per noi commercio di idee umane;
scambio di sensazioni terrene; musica, canti,
incensi, cerimonie, celebrazione dell’uomo e del suo
peccato; grida contro questa o quell’altra
ingiustizia sociale; momento per rivendicazioni;
pulpito dal quale cercare un plauso universale. In
tale modo, Cristo Gesù rimane sempre più nascosto da
questo culto, perché l’uomo ne ha preso tutto il
posto. Ha conquistato la scena. L’esteriorità ha
fagocitato l’interiorità. Così i giovani non
capiscono! Se la misura è questa, quale sarà la
nostra fede?
Roma, Marzo 2013 (Zenit.org)
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pubblicato il 15 marzo 2013
PAPA
FRANCESCO. IL CORAGGIO E LA MISERICORDIA
IN UN MIO
ANTICO INCONTRO NEL NOME DELLA CARITA’ TRA I
POPOLI
di
Pierfranco Bruni
La
carità, la povertà e i processi di un mondo
legato al dubbio della spiritualità da una
parte e ai costanti relativismi dall’altra.
Tre aspetti che sono dentro la religiosità
del Cristo. Di quel Cristo popolo che
abbraccia le incertezze di tutti e ne fa il
dono di una misericordia dentro i passi
della fede. Il nuovo Papa è un segno
tangibile non solo di una rottura di schemi
nel mondo del Vaticano ma è soprattutto un
linguaggio diverso che si affaccia nel
registro del trono di Pietro e parla con il
volto, lo sguardo, la speranza di una
esperienza che va oltre la Chiesa gerarchia.
Ho avuto
modo di conoscere il Cardinale Jorge Mario
Bergoglio nei miei viaggi in Argentina e
proprio in quella città di italiani, di
europei, di spagnoli, di una America Latina
che sa di essere occidentale ma sa anche di
doversi confrontare con i Paesi di un
Oriente che si impone con la sue religioni
ma anche con le sue forme di cattolicesimo,
Buenos Aires, il dialogo si è improntato su
due aspetti fondamentali dentro la cultura
moderna: la speranza e l’attesa.
Ora
Francesco, il Papa Francesco, è nel solco di
un carisma emblematico. Il Francesco
d’Assisi, la povertà che si è fatta
esistenza nella chiesa popolo e nella chiesa
che si pone in ascolto anche fuori dalle
retoriche delle liturgie. Ma nel Papa
Francesco ci sono molti elementi, che
emergono dalla sua parola, dai suoi scritti,
da quel suo linguaggio che vuole restare
silenzio per ascoltare, lo ricordo benissimo
nella mia conferenza su Giovanni Paolo II e
Jacopo da Todi in una città religiosa, bella
e assordante come è tutta l’Argentina del
tango vissuto nell’anima, che riportano ad
un altro Francesco: Francesco di Paola.
La povertà
e la carità. Per un sacerdote, un vescovo,
un cardinale che ha una formazione da
gesuita potrebbe aprire, ciò, delle chiavi
di lettura sui temi teologici del
progressismo e dell’incontro tra teologia e
cultura in senso lato. Ma Francesco, questo
nuovo Papa, ha dalla parte sua un esempio
molto caro che è quello di San Giuseppe
Moscati. Anche Moscati è nella formazione
dei gesuiti. E cosa significa questo?
Diceva San
Giuseppe Moscati: “Non dimentichiamo di fare
ogni giorno, anzi, ogni momento, l’offerta
delle nostre azioni a Dio compiendo tutto
per amore”. E c’è il francescano ai piedi
della misericordia che si fa bellezza.
Questa è la fede della centralità di una
cristocentricità che esclude forme e poteri
dentro i quali la Chiesa degli ultimi tempi
era precipitata.
Ci sono
problemi etici da affrontare. Problemi in
cui le povertà avanzano. Fattori di
precarietà esistenziale. Paure. Tremori
d’anima. Perdita di contatto con il sacro.
Religiosità che si confonde con regole oltre
il sacro. Civiltà nuove in cui i feticci di
una antropologia si trasformano in strazi di
esistenza per le famiglie. Papa Francesco sa
dell’eredità che si porta dietro ma noi
sappiamo in quale cultura, in quale
contesto, in quali strutture reali ha
sviluppato il suo messaggio pastorale.
Ricordo
che mi disse che c’è la preghiera che deve
coronarci le mani con il rosario dei giorni
ma c’è soprattutto l’esempio che deve
rappresentarci. Una bella missione dentro
una Chiesa che si è frammentata e mettere
insieme i cocci di una struttura nel nome di
una nuova visione della Chiesa non è
certamente facile.
Ma la fede
non è facile. Perché la grazia ci porta a
ciò che spesso diceva Giuseppe Prezzolini
che nella verità Dio è sempre un rischio. Io
che, in questi anni, ho combattuto la mia
battaglia, buona o non buona non ha
importanza in questa occasione, per tentare
di far capire come si può essere eretici
restando in Cristo ora la presenza di un
gesuita – francescano mi pone realmente una
questione che non è assolutamente etico o
teologica ma profondamente metafisica.
Lo dico
sin da ora e non potrò essere smentito.
Francesco sarà il Papa della svolta perché
sarà il sacerdote che camminerà con noi
oltre le apparenze. E se ho visto bene come
in Argentina era considerato e come era
amato in nome non della carica che rivestiva
ma della parola che offriva e dei segni di
umiltà provvidenziale che lanciava posso ben
dire che nell’anima di una Nazione quando il
sorriso si fa verità e speranza si è già
oltre la tristezza che cammina nei cuori
feriti e vuoti.
Il
Cardinale nel passaggio pastorale ha segnato
di speranza il cammino. C’è sempre una vita
nascosta con Cristo in Dio, direbbe San
Paolo e questo nuovo Papa è un viandante che
non solo viene da molto lontano, come
direbbe Giovanni Paolo II, che lo incoronò
Cardinale, ma proseguendo il suo cammino si
fa pellegrino dei popoli e delle genti.
Perché l’America Latina è un grande popolo
ma è anche una civiltà in sofferenza e
costituisce l’esempio non solo di una
geografia territoriale ma di una geografia
di anime che sono quelle americane, quelle
Occidentali e le storie intrecciate nelle
altre religioni che non ammettono confronti.
E Papa
Francesco il confronto lo ha già chiesto
perché lo ha vissuto nella sua formazione.
Le sue origini piemontesi lo rendono un uomo
di terra come era San Francesco. Il suo
modello cristiano non nasce dalla teologia
della saggezza ma dal mistero
misericordioso.
Il mistero
e la preghiera. Due altri elementi che sono
nel suo pellegrinaggio religioso. Portare
l’esempio: è questo il vero testamento di
fede in una chiesa che trema nelle
divisioni. E l’esempio è un gesto di
pazienza nel comunicare il coraggio
dell’esserci nella preghiera, o meglio di
dare un senso alla preghiera. E quando si da
un senso alla preghiera anche la
testimonianza non ha bisogno della
tolleranza perché il rosario è già il
superamento della intolleranza. Un Papa
nuovo, dunque. Non direi nuovo.
Un Papa di
cui abbiamo bisogno. Celestino V fece la
grande rinuncia nei confronti di una chiesa
in decadenza. Benedetto XVI ha fatto la
grande rinuncia nei confronti di una chiesa
che non si è saputa contrapporre al
relativismo. Francesco ha accettato perché
la Chiesa deve ritornare a suoi due
pilastri: la cristocentricità come dono tra
i popoli nel “Cantico delle Creature” e la
forza di saper guardare oltre con il volto,
lo sguardo, gli occhi di Maria.
La Chiesa
dagli antichi orizzonti nella tradizione
della Grazia eterna. Il suo Francesco è un
simbolo. In questo buio devastante l’uomo
del relativismo aveva persino smesso di
leggere i simboli.
Questo
Papa ci invita ad abitarli i simboli nel
nome di un Cristo risorto lungo i passi del
nostro essere uomini. Lo ricordo. Con la sua
umiltà, il suo sorriso, la sua attenzione
mentre tentavo di legare il “Cantico delle
Creature” alla “Terra Promessa” di Giuseppe
Ungaretti. Fu incontro nel nome di Giovanni
Paolo II.
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pubblicato il 10 marzo 2013
CRISTO E
GIUDA
LA SALVEZZA E
IL TRADITO
TRA I CHIODI
E LA CORDA
di
Pierfranco Bruni
Entriamo
nei giorni della religiosa meditazione e
nella Settimana della Croce, della Passione
e della Rivelazione. Salvezza e tradimento.
O tradimento e Redenzione. Un viaggio
inesorabile dentro la fede, il pentimento,
la rinuncia, la salvezza, il dolore, la
croce, il suicidio. Se la Croce resta una
sfida il viaggio del Messia è una
indefinibile rottura di schemi giocati tra
la tradizione, l’ermeneutica, il mistero,
l’evangelizzazione e la rivoluzione in una
cristianità in cui la religione può restare
fuori dalla teologia delle liturgie.
Ma Cristo
è una sfida e la sfida più imponente, mai
rischiosa, più importante e resistente sul
piano di una chiarificazione esistenziale
dove i “demoni” sono serpenti che abitano i
“sottosuoli” dell’anima e dell’abitato
nostro metafisico è tutta giocata tra il
personaggio “io” e l’umanità di una civiltà
che trova la sua grotta nei disamori. Ma
perché Cristo si impone come misericordia
nei cuori coraggiosi? Perchè tradimento e
tradito sono viaggi inesorabile nel mistero
della salvezza? Giuda? I suoi occhi del
tradimento quanti tradimenti hanno dovuto
subire?
Ci sono
quattro personaggi che scivolano in quel
campo di sangue che ha la terra tremante.
C’è Giuda, quello che ha tradito. Pilato,
quello che si è lavato le mani. Barabba,
quello che la folla ha risparmiato. Pietro,
quello che per tre volte ha rinnegato ma è
riuscito ad incontrare lo sguardo di Cristo.
Incontrare
lo sguardo di Cristo. Il punto sta qui. Lo
ha incontrato o Cristo ha cercato lo sguardo
di Pietro? Cammino lungo il pensiero
contemplante, non teologico, ma misterioso
di un Giuda pentito e suicidatosi per non
essere riuscito a chiedere perdono prima che
Cristo venisse messo in Croce o per non aver
avuto il tempo e forse neppure la forza e il
coraggio. Pietro si è salvato dopo aver
rinnegato e quindi dopo aver tradito perché
i suoi occhi hanno visto gli occhi di
Cristo. Rinnegare, negare, tradire.
Tre verbi
che hanno una consolidata matrice teologica
certamente ma anche gnostica e sinottica.
Tre concetti che richiamano metafore. Qual è
la differenza tra Giuda e Pietro? C’è una
differenza di fondo? Giuda si sporca le mani
e l’anima per i trenta denari che
restituisce o che servono per acquistare il
campo di sangue nel quale individua un
albero dove poter legare la corda per la sua
morte. Una morte suicida. Vendersi, vendere
Cristo, suicidarsi. Tre peccati ma Cristo
che ha perdonato Maria di Magdala in una
incastro pesante dentro il quale ha
coinvolto tutti coloro che avevano un
peccato da farsi perdonare (chi ha avuto il
coraggio di scagliare la pietra?) avrebbe
potuto non accogliere il perdono di uno dei
dodici al quale guardava con molta
attenzione?
Perché
Giuda non è riuscito, dopo il bacio, a
riparlare con Cristo? Chi ha impedito ciò?
C’è la storia che recita il suo teatro e la
misericordia non si serve della storia ma
della Grazia. In Giuda la Grazia non arriva.
In Pietro, invece, il rinnegare tre volte,
per ben tre volte, non è segno di un
tradimento eterno.
Quel
rinnegare viene condonato perché è lo
sguardo di Cristo che lo illumina e proprio
Pietro diventa la pietra della Chiesa.
Mentre tre volte Pietro rinnega, Giuda
consuma il suo “delitto” su tre verbi:
vendersi, acquistare, tradire. Un triangolo
che si pone ai piedi della Croce.
Ma il
problema vero non è teologico (nonostante
l’intreccio dei sinottici: Matteo, Marco o
Luca) ma è completamente vissuto su una
“epistemologia” in cui il dubbio ha tre
angoli spezzati: la possibilità della
salvezza, la capacità di catturare la
verità, l’indolenza dei sacerdoti che
guardano al Cristo morente, perché da loro
condannato, nell’ultimo sussulto del Dio
perché mi hai abbandonato. Il mio viaggiare
è inquieto e disperante ma non conosce la
follia del dubbio ma soltanto il dubbio
lungo la strada piana del deserto che
introduce nei labirinti che incrociano fede,
religione e retorica.
La
salvezza è credere. La verità è la salvezza
del credere. L’abbandono è il timore
dell’essere stato abbandonato. Giuda
comprende tutto questo nell’ultima “seduta”
in cui Cristo invita a fare in fretta nel
consumare il tradimento? Giuda, secondo
Giuseppe Berto, dice: perché sei stato Tu
Cristo a scegliermi? Il vero prediletto è
Giuda o Pietro? Il vero colpevole, se di
colpa bisogna parlare, è il morente con la
corda al collo è il portatore di una Croce
tradita?
Al centro
di tutto c’è chiaramente la misericordia ma
prima della misericordia c’è il dolore e il
dolore passa inevitabilmente attraverso la
conoscenza o la ricerca o la grazia della
verità. Conoscenza, ricerca, grazia.
Giuda ha
percorso questi tre viaggi perché nel suo
dubbio c’era la necessità di giungere, o
raggiungere, alla verità. Quella verità che
leggeva nella illuminazione di Cristo. Non
della Croce. Sfidava Cristo. Infatti, il suo
gesto, quello di Giuda, è stato un gesto di
sfida. Io ti sfido Cristo a rivelarmi la
verità contro la corruzione e la falsità.
Hanno duellato sino alla fine.
Giuda e
Cristo. Gli occhi e il volto sono immagini e
immaginario dentro quella tradizione tra
teologia, filosofia e mistero. E sono stati
morenti entrambi. L’uno appeso ad una corda.
L’altro inchiodato su un legno. La morte è
giunta per entrambi. Ed entrambi hanno dato
un segno preciso: quello di portare la
salvezza.
La morte
supera la vita e ci offre la verità.
Inquieti entrambi. Disperato Giuda nel
sangue del suo campo. Nell’attesa della
speranza Cristo nel suo grido finale. Pilato
non passa inosservato. Ma non riesce a
comprendere la differenza tra la
misericordia e la grazia nonostante la
presenza di Claudia. Barabba è il confuso
che smarrendosi cerca la via della
conversione.
Due
personaggi non secondari nella teatralità
del dolore cristiano. Ma chi resta nel
sangue e muore tra la disperante voce
strozzata e l’urlo dei vinti in cerca della
speranza illuminante sono Giuda e Cristo.
Pilato proseguirà con i suoi sensi di colpa
la sua morte – vita. Barabba nella
dichiarazione della devozione resterà
trafitto della forza di Cristo. Pietro
proseguirà il suo cammino sino alla croce
nella bellezza – sacrificio della parola
cristiana. Ma il tutto si consuma tra
Getsemani e il Golgota e il campo di sangue.
L’attesa si lega al destino.
L’attesa
di conoscere il destino. Oppure quale
destino possibile per la morte del
traditore? Per me Giuda resta il tradito.
Chiariamo questa visione. Il tradito al
quale non è stata data la possibilità della
voce misericordiosa per un progetto nel
“destino” tra l’intreccio teologico e
mistico.
Il Giuda
tradito è nel mistero. Così come lo è il
Cristo abbandonato nel luogo della
solitudine e abbandonato nell’ultimo verbo
che lo ha condotto al tremore del cielo. Non
è bastata la pazienza del deserto e lo
spazio nella distesa del deserto, non sono
bastate le rose di Gerico o il Cantico dei
Cantici (dell’A.T.), non l’amore della
Magdala o la persuasione di Giuseppe e il
pianto di Maria o il dubbio delle sorelle di
Lazzaro. Nulla è bastato sino alla
consumazione dell’atto finale tutto
disputato intorno all’Orto degli Ulivi, il
Golgota e il sangue disseminato nel campo di
Giuda. Lì si cambia la storia e la storia
non è più rappresentazione e neppure scavo
per una teologia dei saperi. Ma mistero.
Mistero salvifico. Mistero morente. Ma la
morte è rivelante. E so lo è per Cristo lo è
anche per Giuda il traditore tradito.
Perché è
Cristo che resterà la nostra anima. Perché è
Cristo che resterà la nostra consolazione
orante. Prendo atto, nella mia riflessione
misericordiosa, che nel tradimento c’è
l’anima del tradito ma so anche che ho
bisogno di superare il deserto e vivere i
miei labirinti oltrepassando i sottosuoli
che si agitano.
Cristo ci
aiuta. Cristo è. Se Cristo è, quel
è è essere io dentro noi, noi dentro
la voce del è.
Ma se
Cristo è, questo è o questo essere è anche
la presenza di Giuda che non smette di
agitare i nostri tremori. La nostra vita di
fede e non di fedeli? Ma la nostra vita in
Cristo resta nel dubbio della morte
evitabile – inevitabile di Giuda.
Tutto ciò
che accadrà dopo ha il respiro dell’ombra, e
ancora oggi, e se si vuole la luce si ha
bisogno di attraversare le ombre e di
rendere vero Giuda. Quel dolore, come quello
di Gesù non lo possiamo non considerare
salvifico. Il pentimento di Giuda,
pentimento disperato. E la morte in Croce di
Cristo che è salvezza che prepara la
redenzione. La morte si vince attraversando
la luce. Paolino il messaggio e, lungo
questa strada, ci conduce, se pur nel dubbio
del mistero in fede, nel Cristo. Nel Cristo
dell’urlo inquietante che diventa
Rivelazione di vita. |
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