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EDITORIALI
Costume e
società
pag. 2
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Editoriali,
recensioni e articoli di cultura, società, costume
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pubblicato il 7 maggio 2009
TRADIZIONI
MEDITERRANEE
Risorse da
conoscere e valorizzare
di
Maria Zanoni
Il
prezioso ed inestimabile patrimonio culturale
della Calabria poggia le sue fondamenta sulla
conoscenza, la comunicazione e la cultura del
rispetto, nella convinzione forte che la cultura
e solo la Cultura, come rispetto dell’ambiente,
dei Beni culturali, come legalità, può
rappresentare una leva di sviluppo
socio-culturale di un territorio, martoriato, ma
anche sconosciuto o misconosciuto.
Le
popolazioni del Mediterraneo devono
riconsiderare la loro storia, la loro cultura,
le loro tradizioni, perchè, attraverso un
dialogo costruttivo, possano trovare punti
comuni su cui costruire un futuro migliore.
Devono riappropriarsi delle loro radici, per
aprirsi alle offerte della società
interculturale; e trasmettere alle nuove
generazioni usi e costumi del passato, anche
delle Comunità di minoranza etnico-linguistica
presenti sul territorio, che rischiano
l’estinzione.
La
promozione dell'educazione alla tutela del
patrimonio culturale è strumento di sviluppo del
territorio.
La
mia indagine nell’orizzonte folklorico
tradizionale dell’area mediterranea, della
Calabria in particolare, è basata principalmente
su feste particolarmente significative per riti,
miti e simboli.
In
questi rituali che ancora sopravvivono alle
cancellazioni del tempo, sono presenti antichi
valori umani ed elementi culturalmente
significanti per scavare nel nostro passato
remoto e ritrovare il nostro senso di
appartenenza, nella società consumistica
contemporanea.
I
riti e le tradizioni collettive nella nostra
terra, molo naturale al centro del Mediterraneo,
(che mi piace definire “culture di mare”),
si
susseguono secondo una ritualistica
consolidatasi nei secoli che si ripropone
puntuale.
In
molte tradizioni contadine italiane, seppur
geograficamente lontane tra loro, troviamo
alcuni temi comuni che sembrerebbero legare
indissolubilmente il mondo agrario ad antiche
tradizioni pagane. Le forme estatiche, i rituali
di fertilità sembrano essere filo conduttore di
una cultura subalterna, mai del tutto scomparsa.
Popoli di prevalente cultura contadina,
attraversati da civiltà diverse provenienti
dall’Oriente, che si son trovati, per secoli,
stretti tra un clero influente e il potere di
avidi feudatari, hanno saputo lasciare un ricco
patrimonio di valori, civiltà e culture,
abbisognevoli di recupero, conservazione e
valorizzazione.
Non
è un caso che queste tradizioni si siano
conservate in zone favorite dall’isolamento e
accomunate dalla paura del negativo nella vita
quotidiana e delle angustie della povertà
agricola. Il sopravvivere di una cultura
subalterna contadina ancora attaccata a queste
credenze, attraverso ricordi, narrazioni,
trasformazioni, ha permesso che le stesse
arrivassero fino ad oggi.
In
Calabria, come in tutto il meridione, il sistema
festivo costituisce parte essenziale del
dispositivo con cui le diverse comunità
procedono alla formazione dei loro orizzonti
identitari.
Le
feste popolari sono una forma primaria
molto importante della cultura umana, il cui
clima nasce dalla sfera spirituale e
ideologica del popolo; e le fasi delle loro
evoluzioni storiche sono legate a periodi di
crisi nella società.
Rinascere, rinnovarsi erano caratteri peculiari
delle feste popolari, sia laiche che
ecclesiastiche. Nelle feste i popoli rivivono i
momenti più significativi della loro storia.
Molti riti oggi sono scomparsi e molti hanno
subito trasformazioni.
Nella nostra società post-industriale alcune
forme liturgiche sono diverse dalle ritualità
folkloriche tradizionali ed a volte assumono
l’aspetto di sagre ed animazioni etnoturistiche.
In
alcuni rituali, credenze e comportamenti che si
ripetono annualmente, il popolo manifesta il suo
bisogno di evasione dalla realtà, ieri come
oggi.
I
riti della Settimana Santa e la festa del
Carnevale, in cui la tradizione cattolica si è
innestata su quella pagana, da sempre hanno
offerto al popolo la possibilità di estraniarsi
dal reale, anche se solo per qualche giornata,
di dimenticare convenzioni e ruoli sociali. In
particolare in questi due rituali, uno di natura
laica, l’altro ecclesiastica, il popolo ha
cercato di espellere le forze malefiche che
sembravano influenzare il suo vivere quotidiano
e, rinnovato e purificato, ricercava la gioia.
Questo anelito di felicità, questa pratica di
riscatto umano e territoriale sono collettivi.
Sin dalle epoche più remote della società si
formò una duplice percezione del mondo e della
vita umana: accanto ai riti e ai miti
ecclesiastici, seri della preghiera, del pianto
e della penitenza stavano i culti comici ed
ingiuriosi nei confronti della divinità.
Le
feste tradizionali della Calabria esprimono un
ricco patrimonio di storia e cultura, legate
molte volte alla natura e sempre cariche di un
forte simbolismo. Parliamo dell’Affruntata di
Vibo Valentia, della processione delle “varette”
a Cassano Ionio”, dei “vattienti” di Nocera
Terinese e di di Verbicaro, ci riferiamo a
tradizioni suggestive come il rito
greco-bizantino del “rubare l’acqua” a San
Demetrio Corone, alle “Kalimere e Vallje” di
Frascineto e Civita, alla Giudaica di Laino
Borgo e a tante altre.
Le
tradizioni popolari, religiose ed anche
alimentari a queste legate, come tutti gli altri
Beni Culturali e ambientali (monumenti, Chiese,
ruderi, torri, castelli, palazzi, musei, siti e
parchi archeologici, parchi naturali) sono
un’industria antica che può costituire una
valida spinta allo sviluppo socio-culturale
futuro della regione.
Il
patrimonio artistico-culturale, oltre che
materiale, è un'importante risorsa da
salvaguardare. Di questo immenso patrimonio
occorre costruire il valore nel presente,
attraverso il riconoscimento sociale della sua
importanza e la sua introduzione in circuiti
virtuosi di fruizione e valorizzazione. In
sostanza i beni culturali devono essere vissuti
come risorsa territoriale, non solo come
monumenti.
E
non è ancora troppo tardi per prendere coscienza
dell’immensa ricchezza che questa terra
possiede, soggetta nel tempo alla legge
inesorabile del progressivo disfacimento, per
poter intervenire con una doverosa ed oculata
azione di tutela e valorizzazione.
Nella foto: Maria Zanoni
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pubblicato il 20 dicembre 2008
LA CULTURA DEL TURISMO
di Egidio
Chiarella
Il
nostro territorio non è immune dal processo
naturale di nascita, crescita, declino, che
coinvolge tutte le cose!
Saper governare in modo corretto la possibilità
di fare rivivere
i momenti sociali, culturali e religiosi più
significativi del nostro passato, significa
scongiurare la scomparsa di un patrimonio
inestimabile, necessario al rafforzamento
dei valori che sono alla base del progresso
della nostra regione. Solo attraverso un
coinvolgimento diretto e fattivo di tutte le
realtà sociali, economiche, culturali, che
insistono in un determinato ambito si può
realmente incidere sullo sviluppo turistico
sostenibile.
Partendo, dunque, da un dato certo che ogni
calabrese va fiero della bellezza straordinaria
della propria
terra, sia per le sue coste, sia per gli
splendidi paesaggi dell'interno, è probabile,
invece, che pochi conoscano a fondo le
inesauribili tracce di storia popolare, che
fanno grandissima la nostra regione, anche sul
piano dell'interesse storico-culturale, nonché
sociale e religioso.
Quello che, ancora manca, è la volontà ferrea
che questo patrimonio
di bellezze storiche, legato alle nostre
tradizioni popolari, diventi la "materia
prima", esclusiva ed inimitabile, di
una immensa industria dell'accoglienza e di una autentica risorsa
economica. Ma al dì là della valenza
strettamente economica e commerciale di questa
risorsa, pur fondamentale per il potenziamento
dell'occupazione in Calabria, credo che lo
sviluppo di una "cultura del turismo” intesa
come opera di divulgazione
e di valorizzazione dei nostri "beni popolari e
folklorici",
potrebbe rappresentare anche l'occasione di una
sorta di "Rinascita Calabrese".
La riscoperta di un forte orgoglio regionale mi
sembra, infatti,
assolutamente indispensabile, in un momento
storico e politico in cui alla
solidarietà etnica e all'abbattimento delle
frontiere (valori sacrosanti ed indispensabili)
fanno riscontro, però, l'affievolimento delle
identità culturali di ciascuno ed
insieme un
deleterio senso di sradicamento. Il
recupero ed il
rafforzamento delle proprie radici
storiche e della propria fisionomia di popolo,
accoppiate ad una intelligente "cultura del
turismo", che valorizzi e richiami alla
memoria le antiche e nobili tradizioni calabresi
e che rinnovi
l'interesse ed il rispetto verso beni trascurati
e degradati, si porterebbe dietro, un autentico
risveglio dello spirito e della coscienza
calabrese, spesso depressi e mortificati.
Su queste basi nasce l'impianto di una mia
proposta di legge regionale, che attraverso
un'attenta e concertata pianificazione
territoriale vuole promuovere lo sviluppo di
Grandi eventi, per la rivitalizzazione di aree
storico-turistiche attualmente in declino o per
il mantenimento di quelle realtà, che riescono a
mantenere una loro precisa fisionomia, in
un’ottica di salvaguardia del nostro patrimonio
culturale e sociale.
Nella foto:
L'on. Prof. Egidio Chiarella,
presidente IV Commissione Regione Calabria.
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pubblicato 20
novembre 2008
Riconsiderare il Mediterraneo e raccogliere le
parole e i luoghi d’Europa.
Tra la poesia e il viaggio
di Pierfranco Bruni
Sulle
orme di San Paolo e incontrando le piazze della
recita e dell’incontro. Ancora una volta sono
stato ad Ankara. Non mi affascina più, pur non
dimenticando il paesaggio solcato dall’Apostolo
delle Genti.
Non mi
affascina quella cultura, ma è certamente
diversa da quella Albanese o Macedone. In
Macedonia ho toccato la visibile invivibilità.
Un mondo che si chiude. Un mondo chiuso
all’Occidente.
In
Turchia il bisogno di capire l’Occidente c’è. Ma
i miei pensieri vanno oltre. Mi accorgo
definitivamente di un passaggio di tempo e di
luoghi e di culture quando giungo a Basilea e
poi in Francia. Da Mulhouse a Strasburgo e
successivamente da Strasburgo a Nancy e da qui a
Francoforte. Parlando di letteratura italiana
del Novecento ho sempre nei pensieri il viaggio
di San Paolo tra il deserto e il mare, perché
Paolo è il viaggiatore che viaggia per parlare
guardando negli occhi. Il primo scrittore
cristiano.
Proprio a Strasburgo ho toccato questo tema e ho
affrontato il rapporto tra la piazza e San
Paolo. Dall’Agorà alla Medina. Sì, perché anche
la Medina, nella sua complessità, è una piazza
che diventa mercato e incontro di lingue. Ma non
riesco a dimenticare il freddo di Strasburgo e
l’eleganze delle donne di Strasburgo. Queste
donne che sembrano recitare tra i boulevard e i
battelli. Ho segnato negli appunti.
Ore
7,40. Strasburgo. Sembra ancora buio. È ancora
buio. Il freddo ghiaccia il naso e le mani. Ci
sfiora come un taglio i capelli mentre
camminiamo costeggiando la cattedrale. Ci sono
occhi di donne che hanno il chiarore prévertiano
anche se Prévert non è di queste parti.
L’Alsazia non è la Bretagna. Ieri sera serata
importante all’Istituto Italiano di Cultura.
Ho
parlato della piazza nell’Italia della cultura
contadina. Tanto interesse e domande. Il viaggio
è sempre un incontro che non si ferma in un
luogo o in un porto. Continua anche nel
ricordare immagini e colori. Mi hanno chiesto
perché mi interesso di poesia. Non c’erano
ragazzi. Perché poi parlare sempre ai ragazzi o
alle ragazze? Finalmente ho potuto svolgere una
conferenza senza mediare le parole. Un pubblico
che aveva quasi la mia stessa età. Forse, anzi
certamente, più giovane. Qualcosa in meno della
mia età e qualche leggerezza di tempo in più. Ha
incuriosito il mio approccio poetico e il mio
raccontare la piazza come viaggio e come luogo
che resta nell’inquieto e nella fantasia del
mistero.
Perché
mi occupo di poesia? Ho risposto così: “Per
cercare di capire cosa dicono gli sguardi delle
donne che incontro. Per tentare di penetrare gli
occhi che non hanno bisogno di parole per
esprimersi”. L’ho tirata lì senza rifletterci
su. Una donna giovane, archeologa per vocazione
e docente per mestiere, mi ha detto subito: “Che
strano. Non avevo mai sentito un tale giudizio”.
Accento alsaziano. E poi mi ha chiesto se amassi
realmente l’Agorà e se io mi sentissi di vivere
al centro dell’agorà. Mi ha sorpreso. Occhi
vivaci ma malinconici. Fabienne. Mi ha detto:
“Lei mi sembra di vivere l’agora ma di cercare
un approdo che non ha”. Ancora sorpresa. È
possibile. Ho risposto. Mi ha detto ancora che
era stata a Tunisi e aveva ascoltato una mia
conferenza su Cesare Pavese. Si trovava a Tunisi
per una campagna di scavo. Mi ha detto anche che
era presente quando mesi fa sono stato
nuovamente a Strasburgo per parlare di Pasolini
e le etnie. Viene spesso a Roma. Ma poi altre
domande, altri incontri.
Strasburgo è meravigliosa. Nonostante il freddo.
I battelli, le case che ricordano l’urbanistica
tirolese. Forse quella svizzera. Dolcezze,
eleganza, stile e profumi. Niente di orientale.
Prima o poi dovrò rivedere il mio concetto di
Mediterraneo. Bisogna viaggiare per capire
cosa è realmente il Mediterraneo e cosa
rappresenta l’Europa. Nessun odore di spezie
orientali. Qui la poesia e la lingua sono
dolcezza e gli sguardi sono preci e incisivi. Mi
sembra di vivere in un tuffo improvviso le
pagine di Simenon. I Bistrot sono ricordi
antichi del Commissario che ho tanto amato. Come
i ragazzi che si baciano in piedi tra le porte
della notte. Nostalgie. Il freddo è intenso.
Sono
le 8,06 e tutto è ancora grigio. Passano i
passanti. Spiccano le insegne luminose. I
battelli fanno eco con l’acqua. Qui c’è una
atmosfera completamente diversa rispetto a
Istabul. Devo essere sincero? Amo i boulevard
più che la confusione delle Medine. Squilla il
telefonino. È l’archeologa docente. Mi saluta e
dice che non può venire in Lorena,
all’Università di Nancy. Non ero stato io ad
invitarla. Mi dà la buona giornata in francese e
io rispondo in italiano. Bene bien, mi dice.
Comunque mi comunica che sarà a Roma, per un
convegno, la prossima settimana. La inviterò a
cena.
Mi
affaccio alla finestra in attesa dell’autista.
Spiccano ancora le insegne. Il rosso è
splendente come pure l’azzurro. Questi luoghi mi
affascinano. Mi affascinano questi luoghi dove i
profumi hanno delicatezza e grazia e non portano
incenso e le poesie sono poesie nella leggerezza
delle parole che si fanno intense. Il mio
Mediterraneo se ne va in frantumi e tutto un
mondo che era dentro di me si sgretola.
La
civiltà ha un costo? Mi convinco sempre più che
ho bisogno di riconsiderare le mie riflessioni
sul tema di un Mediterraneo, che resta solo
un termine, un concetto, una parola. Mi
considero veramente mediterraneo? Parigi resta
Parigi e lo sguardo di Fabienne è incantevole.
Sì,
il Mediterraneo comincia ad infastidirmi.
Forse sto diventando vecchio o sto
ringiovanendo. Non sopporto più viaggiare tra i
Balcani. Non mi interessa più comprendere
l’Adriatico e il Mediterraneo. Il mare resta
sempre il mare. Certo. Ma vuoi mettere una donna
coperta di seta e di profumi inebrianti con una
donna d’Oriente che cerca di accattivarsi ancora
con la danza del ventre. L’età, il tempo, il
passare degli anni fanno scherzi.
Cammino tra le strade e la bellezza mi entra
negli occhi. Anche qui i foulard e le pashimine
hanno un altro odore. Restano avvolte tra i
capelli. Ma hanno un altro tocco. La femminilità
affascina. Non sono uno sciamano. Non mi dicono
nulla. Preferisco gli chansonier che riportano
nostalgie e ricordi sulle onde di una giovinezza
sbiadita. Prévert è ritornato a farsi sentire.
Lascio l’Alsazia e la Lorena. Vado a
Francoforte. Ascolto le parole e i segni di un
cammino che mi cammina dentro.
Perché
sono partito pensando a San Paolo: da Ankara
dove tutto resta avvolto nella storia di Ataturk
a Strasburgo dove non ci sono donne velate ma
occhi che domandano perché “ti occupi di poesia?
Vuol dire che sei un poeta?”. Non voglio dire
nulla. È che, a lungo andare, i viaggi ti
cambiano dentro e ti fanno toccare con mano la
realtà. La poesia ha sempre il suo fascino. Dove
andrò? Ci sono occhi che mi scrutano. Hanno
sguardi. Forse perché ho sempre avuto
l’attrazione per “Questo amour…”.
E il
Mediterraneo. È tutto questione di profumi. I
profumi mi cambiano come i viaggi.
Edith Piaf e
Charles Aznavour cantano nel ritornello
il richiamo di un amore. Un amore che non c’è o
un amore che vorrei.
Ritorno a Roma da Francoforte. Ma il viaggio
continua. Domani telefonerò a Fabienne per
sentire il suo accento alsaziano. Ma nulla di
più.
L’Italia è nel Mediterraneo. Forse sì o forse
no. Ma smettiamola con questa farse del
Mediterraneo fascino e mistero. Il primo a
doversi ricredere sono proprio io. Ma San Paolo
non c’entra. Resta il viaggio nella fede oltre
il Mediterraneo stesso.
Dovrò
ripensare il “mio” Mediterraneo. Certamente sì.
E lo farò. Eluard mi penetra più di Hikmet. E
Paul Geraldy recita: “Il Ricordo è un poeta. Non
ne fare uno storico”. Ed io ricordo. Senza
nostalgie.
Nella
foto: il dott.
Pierfranco Bruni, Archeologo direttore Ministero
Beni e Attività Culturali. |
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pubblicato il 27 Gen 2008
L’ARTE DEL GUSTO
Saperi e sapori mediterranei
di Maria Zanoni
La
presentazione del “Golosario” 2008 -
guida alle cose buone d’Italia - di Paolo
Massobrio, un evento culturale ed
enogastronomico di alta qualità del gusto,
invita a qualche riflessione sul mangiar bene.
La meritoria opera del critico enogastronomico
milanese, fondatore del Club Papillon, riserva
ampio spazio ai prodotti tipici genuini di
Calabria ed alle aziende Agricole, enoteche,
boutique del gusto, produttrici di eccellenze.
Alla guida dei luoghi del gusto e dei produttori
di cose buone di tutte le regioni italiane si
affianca “Adesso 2008”, 366 giorni da vivere con
gusto.
Elegante e raffinata la veste grafica di
un’opera che lo stesso autore definisce: “ Non
un’agenda, ma il diario della vita. È il ricordo
che diventa memoria, è la famiglia che non ti
abbandona mai, perchè il gusto l’hai scoperto
lì” - afferma Paolo Massobrio, dall’alto della
sua esperienza - si occupa da oltre vent’anni,
come giornalista, di enogastronomia e di
economia agricola.
Massobrio ha curato con passione l’opera,
nell’intento di portare la bellezza ed il gusto
nella famiglia, distratta e frettolosa dell’era
Internet.
Il volume, illustrato dall’artista milanese,
Letizia Fornasieri, coniuga arte, saperi e
sapori, nelle sue sezioni dedicate al gusto, ai
consigli per la spesa e la casa, al vino, al
giardino.
Dalle pagine traspare chiaramente il gusto per
la vita, per i prodotti tipici, genuini, per i
sapori e gli odori di antica tradizione, che
rischiano di scomparire negli anni del Fast Food
e del frettoloso self service. Paolo Massobrio
invita a mangiare sano, cucinando con passione,
perchè il cibo, oltre che salute, è anche
cultura. Gli alimenti sono beni culturali che
fanno parte di un ecosistema sociale.
L’arte culinaria, perchè di una forma d’arte si
tratta, durante la sua lunga storia, ha
realizzato pietanze, di forme, colori, sapori e
profumi di innegabile attrattiva; ma
fondamentalmente nelle sue rielaborazioni, nelle
reinvenzioni tradisce una matrice senza dubbio
contadina. I piatti tipici della tradizione
contadina, appartenenti a rituali alimentari
legati all’antica sacralità naturalistica, nel
tempo, sono stati trasformati.
La società sazia e consumistica di oggi, col
progressivo livellamento delle classi sociali,
l’avanzata inarrestabile della massificazione
dei gusti e delle abitudini, la
desacralizzazione dell’esistenza, sta
sgretolando gli antichi modelli. E in funzione
di un’alimentazione standardizzata, omologante,
all’insegna degli stili moderni, self service e
fast food, si è molto allontanata dagli antichi
modelli, basati sulla socialità, sullo stare
insieme a tavola, sulla dimensione conviviale,
sulla comunicazione, sulla lentezza della
cottura, sulla genuinità e salubrità.
Lo
affermava con forza nel 2003 il volume “Salute e
pane asciutto. Mediterraneo tra cultura
dell’alimentazione e stile di vita”. Gli Autori, Cauteruccio e Zanoni, invitavano al recupero ed
alla valorizzazione delle risorse del territorio
calabrese, che sono sì un prodotto economico, ma
anche un bene culturale. Vanno adeguatamente
protetti e valorizzati i prodotti
enogastronomici tradizionali, i cui metodi di
conservazione, lavorazione e stagionatura
risultano consolidati nel tempo, nella cultura e
nella tradizione della nostra terra.
L’attenzione alle valenze simboliche, sociali e
culturali dei cibi, alla scelta oculata tra ciò
che fa bene mangiare e ciò che è opportuno
evitare, è segno di sensibilità, di rifiuto di
un’alimentazione sostanzialmente “artificiale”
della società postmoderna. La dieta mediterranea
appare, dunque come l’antidoto al “villaggio
globale alimentare”, alle attuali manipolazioni
e combinazioni che ribaltano la dieta
tradizionale. Così, “dieta mediterranea” andrà a
significare “alimentarsi” della storia, dei
simboli, dei riti, dei beni culturali del
territorio.
Nella foto: Maria Zanoni con
Paolo Massobrio
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pubblicato il 5 Gen 2008
PROMUOVERE LA CALABRIA
LE PIETRE
DIVENTANO PAROLE E SUONI
di Cesare Pitto
L'occasione di presentare il libro di Maria
Zanoni "I Palmenti — tracce di cultura materiale
in Calabria" apre uno spazio per una personale
riflessione non distaccata dai temi agitati da
tanti antropologi e demologi che hanno in vano
modo percorso le strade della Calabria ed in
particolare di questa Calabria del Pollino che è
anche Basilicata, Campania e, in sostanza,
Mezzogiorno.
Una lettura comparata dei territori nelle sue
componenti storiche ed etno-antropologiche
riesce a rilevare il dialogo tra memoria, segni
di civiltà e popolo.
Lo sforzo intrapreso dall'autrice è quello di
inseguire nella contemporaneità i segni della
storica trasformazione dei prodotti vitivinicoli
in elementi nutritivi, in cibo e bevande, in
piacere della mensa e al fine in convivio.
Segni di pietra che lasciano ancora intendere
nella struttura dei palmenti la fatica
dell'uomo, la conservazione del bene, l'ansietà
del nutrimento nei tempi di assenza vegetale.
Da questo punto di vista il volume spazia dalle
tracce del tempo d'interesse archeologico fino
agli usi e costumi di un recente passato della
civiltà contadina e poi i segni talvolta
drammatici del cambiamento.
Filo conduttore del lavoro è la presenza fisica
del palmento, una traccia di cultura materiale
che corre lungo le epoche e si apre nella realtà
odierna. le pietre diventano parole, suoni, e
riecheggiano nei canti popolari caratteristici
del territorio calabrese.
Le ormai quasi del tutto scomparse
manifestazioni legate alla civiltà contadina
escono dalla memoria delle persone più anziane
oltre che dai segni del territorio, e resistono
nelle tradizioni legate alle festività, dal
Carnevale ai riti di passaggio della primavera,
alla celebrazione del Natale e dell'inverno, in
attesa della ri-fecondazione della tema.
Anche il passaggio da una civiltà agraria a
quella industriale e post-industriale — qui in
Calabria non ben definita — apre al contesto le
problematiche del cambiamento e del bisogno di
un itinerario anche interiore che attraverso la
rivitalizzazione eno-gastronomica dei luoghi
produce un senso del nuovo antico abitare.
Perché è storia recente del territorio un
processo di urbanizzazione con fortune e danni
rapidamente cresciuti che aprono il tramonto
della civiltà contadina ad una tematica che
Ernesto De Martino definiva apocalissi
culturali.
Al tema della fine del mondo veniva allora come
oggi sottoposto ad una interrogazione
socio-antropologica a vasto raggio che
sconfinando nei territori della psicologia,
dell'etnologia, della storia delle religioni e
della filosofia si apriva a questioni radicali e
attuali del senso dell'uomo e della cultura in
questa condizione.
È merito dell'autrice aver tenuto il filo di
questo discorso anche attraverso una sequenza
delle immagini. Immagini del passato anche
recente con le lotte per la terra che le
rappresentazioni delle rare foto del secondo
dopoguerra ponevano al bisogno delle masse
contadine che avevano fame di terra e lavoro.
L'occupazione delle terre incolte dal Pollino a
tutta la Calabria segnata nel '49 del sangue
sparso a Melissa viene ricordato e presentato
dall'autrice che ci ricorda come "quel movimento
di lotta che nasceva fra i braccianti poveri,
affamati di tema, incominciava a diventare
movimento di classe".
Dì conseguenza i libri che raccontano riti e
miti intorno alla produzione vitivinicola fanno
diventare questi beni materiali minori una
risorsa culturale europea passando dal
documento, veicolo di comunicazione, ad una rete
di consapevolezza che permette la ricostruzione
scientifica degli insediamenti, delle tecniche
agricole, dei metodi di produzione e di una
riproposizione di usi sociali e qualità della
vita che possono ridare identità storica e
sociale alla comunità, promuovere la Calabria.
Si potrebbe dire che nel testo vi è anche una
costante attenzione ad una lingua nazionale, che
comprende il dialetto e la lingua della
minoranza arberesh che propone nella diversità
l'ipotesi formulata da Jakobson, cioè superare
le distanze fra le persone e fra i gruppi ma
anche e in opposizione, istituire se stessi e
gli altri come soggetti di una comunicazione e
pertanto riconoscere e qualificare le distanze e
le diversità.
La dignità del grande fiume osserva Sergio Salvi
ne “Le lingue tagliate”, non è incompatibile con
quella della tenue vena. Da questo punto di
Vi-sta, allora, è importante come ha fatto
l'autrice ripercorrere il cammino del vino
dall'epoca tardo antica ai giorni nostri
interpretandola come presenza, assenza e
desiderio fino ad esaltarne i valori religiosi,
terapeutici e qualche volta miracolosi.
In Italia questo volume mi fa pensare che
esistano pochi luoghi capaci di esprimere in un
ambito territoriale morfologicamente
circoscritto come questa terra, la Calabria,
tutto ciò che di bello esiste nel nostro paese.
Tra questi rari e suggestivi luoghi dove si
concentra una tale varietà di paesaggi e di
habitat scaturisce un'identità artistica e
storica che ha bisogno di essere riproposta al
panorama culturale e turistico (perché no)
italiano ed europeo.
Una risorsa che va salvaguardata e sfruttata al
meglio attraverso politiche di promozione che
consentano di veicolare anche l'esterno dei
confini nazionali e regionali di questo
territorio. Giustamente, l'autrice prende in
considerazione visiva non solo i reperti e i
luoghi ma anche la produzione ed i risultati
agro-alimentari. Infatti, la bellezza e la
memoria dei luoghi si riverbera anche nella
tradizione eno-gastronomica intimamente connessa
con la qualità e tipicità dei prodotti. Il tema
principale diventa perciò un meraviglioso
delicato da cercarsi nel territorio circostante
con pazienza e con immense soddisfazioni e
sorprese.
Si raffigura così un viaggio mitico fra le
attrattive del territorio, tra i suoi
impareggiabili beni culturali, il più delle
volte nascosti e troppe volte trascurati.
Da questo punto di vista una tutela sarà
esercitata dall'istituzione provinciale e da
quella regionale attraverso la collaborazione di
strutture di collaborazione turistiche e con il
consorziamento dei segmenti del turismo
ricettivo e delle attività alberghiere e
agro-turistiche di tipo innovativo. Questi
itinerari potranno fornire l'incentivazione per
l'incremento della qualità e della tipicità dei
prodotti con le relative nicchie di proposte.
L'elemento di protezione del territorio, con una
intensificazione dei contatti fra turismo e
consumo agro-alimentare nelle nicchie
territoriali può contribuire istituendo dei
percorsi e degli itinerari qualificati,
all'impossibilità economica di ricorrere ad
apparati di distribuzione che l'attuale mercato
non riesce a soddisfare.
Foto: Maria Zanoni ed il prof.
Cesare Pitto - Ordinario di Antropologia
Culturale Unical
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pubblicato
il 25 Maggio 2007
GRAN FESTA DEL PANE AD ALTOMONTE
IL PANE
TRA SAPORI E SAPERI
di Maria Zanoni
Il pane, padrone di casa ad Altomonte.
Quattro giorni dedicati alla festa del pane,
bene culturale, ricco di tradizione, che
l'assessorato al turismo del Comune, con la
collaborazione della Regione, della Provincia,
della Camera di Commercio e di diverse
associazioni nazionali, ha voluto legare al
territorio. Visite guidate ad antichi forni,
restaurati in abitazioni private, momenti di
degustazione e percorsi organizzati tra i vicoli
del centro storico, lungo un preciso itinerario,
opportunamente segnalato per i visitatori, che
dall’anfiteatro porta fino alla trecentesca
Chiesa di Santa Maria della Consolazione ed al
Museo di Arte Sacra, sono stati un evento di
straordinaria valenza culturale.
Alla scoperta del centro storico, dunque, delle
tradizioni enogastronomiche, degli antichi
sapori e della nostra storia, con esperienze
didattiche (interessante la mostra dei pani
tipici di varie regioni italiane) e degustazioni
guidate di pane con formaggi, salumi, miele e di
crespelle calde preparate con antica maestria da
panificatori locali. L’evento ha avuto un
momento toccante con la benedizione del pane da
parte del neo vescovo Bertolone nel Duomo.
Di pane, come alimento principale delle
popolazioni calabresi dall’antichità fino ad
oggi, tra cultura dell’alimentazione
mediterranea e stile di vita, parlano le 271
pagine del volume “Salute e pane asciutto” -
edizioni Arte26 – 2003 – Autori: Maria Antonella
Cauteruccio e Maria Zanoni, che ha avuto il suo
spazio nella mostra bibliografica, insieme ad
altre pregevoli opere sul prezioso alimento.
Il pane occupava la maggior parte
dell’alimentazione della popolazione: “Si allu
mutu lli cacci ‘u pani - lli veni la parola”, si
soleva dire. Dunque, il pane come alimento
basilare dell’alimentazione ed elemento di
coesione delle popolazioni mediterranee. “A
chine te caccia llu pane, càcciacce 'a vita” (A
chi ti toglie il pane, togligli la vita)
suggeriva la filosofia della sopravvivenza.
Quella sopravvivenza che era legata alla buona
annata, poichè si consumavano i prodotti
coltivati nei campi. Il focolare con il forno,
il paiolo e la pignatta sono stati per molti
secoli gli elementi chiave della cucina
contadina, espressione della centralità del
mangiare.
Si panificava una volta alla settimana; e,
quando si era costretti a risparmiare tempo da
dedicare ai lavori nei campi o la legna che
alimentava il forno, si faceva il pane in casa
ogni mese o ogni due mesi. Le famiglie più
povere si servivano dei forni pubblici di
antichissima origine baronale, soprattutto in
prossimità delle feste; e pagavano per l’uso. Il
pane, alimento principale, veniva consumato a
qualsiasi ora, solo o con companatico. Ma sempre
il pane scuro, ottenuto dalla mistura di farine
di cereali inferiori, perchè quello bianco di
grano il contadino lo vedeva solo una o due
volte all’anno: a Pasqua ed a Natale, seppure
c’era la possibilità. Le farine più usate, oltre
quella di grano, nei paesi della provincia di
Cosenza erano: quella di avena, granturco, orzo,
castagne; e, in tempi di crisi estrema, anche di
lupini e di ghiande. Ogni pane era buono a
riempire la pancia, anche quando faceva la
muffa. Il pane era il volto di Cristo e non ne
andava buttata neanche una fetta; e nemmeno
poteva essere posato sulla tavola girato
sottosopra, perchè si credeva fosse un grave
peccato. La miseria non permetteva di buttarne
neanche un pezzo. Anche i pezzi di pane indurito
venivano utilizzati e resi commestibili con
minestre saporite.
La licùrdia, antichissima pietanza di origine
mediterranea, era, infatti, una zuppa preparata
con acqua bollente in cui erano stati uniti
olio, cipolle, pezzetti di pomodoro, sedano,
uova e un pizzico di sale, che veniva versata
sul pane raffermo. Comunque sia, il pane
risolveva il problema della fame.
Fare il pane in casa era un’arte che si
tramandava di madre in figlia. Le donne si
alzavano al mattino molto presto e preparavano
la pasta con il lievito che la sera precedente
erano andate a prendere in prestito dalle vicine
o dalle comari. Impastavano la farina nella
màdia e poi formavano dei pani rotondi che
sistemavano su di un canovaccio steso sul letto
e ricoprivano con delle coperte, perchè col
calore lievitassero. Intanto si riscaldava il
forno, con fascine di legna; e quando la volta
diventava bianca, toglievano la brace, e, dopo
essersi segnate la fronte con la croce ed aver
recitato: “Santu Martinu, panu cuttu e furnu
chijnu”, nella credenza di allontanare il
malocchio, mettevano a cuocere i pani, lasciando
alla “bocca” del forno lo spazio per le pitte.
Una di quelle focacce, a forma circolare del
diametro di 30 centimetri, sfornate prima del
pane, solitamente veniva mandata in dono a chi
aveva prestato il lievito. Era una gioia per
tutta la famiglia sfornare il pane e sistemarlo
a raffreddare nella madia.
Nella cultura contadina la panificazione seguiva
dei rituali religiosi, primitivi, magici, misti
a quelli cristiani, tramandati alla terra di
Calabria dai suoi dominatori. Nell’antica Grecia
la coltura del grano era un vero e proprio culto
alle divinità: si offrivano pani e focacce per
propiziare la buona riuscita della semina
durante le feste Panepsie, che si celebravano in
Atene in onore di Apollo, dio che portava a
maturazione i frutti.
Anche nell’antica Roma venivano offerti cereali
e focacce agli dei.
Alla dea Cerere, protettrice del frumento e dei
frutti della terra, prima dei raccolti si
facevano sacrifici con focacce e vino. Questi
riti si erano diffusi in tutta l’area
mediterranea; e la cultura subalterna
meridionale è ricca di tracce di questi antichi
rituali. L’arte della panificazione, perchè di
una forma d’arte si tratta, durante la sua lunga
storia, ha realizzato forme, colori, sapori e
profumi di innegabile attrattiva; ma
fondamentalmente nelle sue rielaborazioni, nelle
reinvenzioni tradisce una matrice senza dubbio
contadina. I forni erano momenti di socialità.
Ad Altomonte son tornati ad esserlo alla grande.
Recuperiamo la tradizione e valorizziamo le
risorse del territorio. Il possibile futuro
sviluppo passa attraverso la riappropriazione
della nostra identità mediterranea e la sua
affermazione.
Nella foto in alto a destra:
Maria Zanoni con il sindaco di Altomonte
Giampietro Coppola e il consigliere regionale
Egidio Chiarella.
Nella foto di gruppo in
basso: al microfono l'assessore al Turismo del
Comune di Altomonte, Enzo Barbieri con le
Autorità regionali e provinciali
all'inaugurazione dell'evento nell'anfiteatro.
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pubblicato il 12 Gennaio 2007
IL
PRODIGIO DELLA FEDE
di Maria Zanoni
Uno dei
santuari più suggestivi della Calabria, quello
della Madonna delle Armi, sul monte Sèllaro,
ultima propaggine della catena del Pollino che
si stende nella baia di Sibari, è sempre più
meta di fedeli e curiosi, da quando, Vincenzo
Rimola, un giovane di Spezzano Albanese,
ristoratore per mestiere, poeta per vocazione,
ha additato a tutti il fenomeno della
“visione” del volto della Madonna, stagliato
sulla montagna, vicino all’ascetario
quattrocentesco delle Armi.
Un effetto di luci ed ombre sul costone
roccioso, ricoperto di macchia mediterranea,
che restituisce non solo allo sguardo, ma
anche alle riprese fotografiche, le sembianze di
un volto, con occhi, naso e bocca antropomorfi.
Sulla strada della “Caccianova” che da Doria
porta a Francavilla Marittima dalle 8 del
mattino fino a mezzogiorno si può osservare il
prodigio della pietas popolare.
È il paesaggio naturale antropizzato che assume
valenze fortemente mistiche, nel momento in cui
s’incontra con animi puri, vibranti d’intensità
emotive particolari.
Non di apparizione si può parlare. Rimola non è
il solo a beneficiare della “visione” (e neanche
visione o apparizione si può definire).
Il prodigio delle trasformazioni cromatiche e
dei movimenti del sole può portare come
conseguenza l’incremento della devozione
mariana, ma non può lasciare spazio a fenomeni
di suggestione collettiva o speculazioni.
Il prodigio della fede, il miracolo sta proprio
in questo fervore di fede.
Ciò che Rimola addita agli altri non risulta
frutto di falsità intenzionale. Nei nostri paesi
la devozione popolare è rimasta ancora fervida.
Nella società del terzo millennio, dove l’uomo
esplora senza limiti i segreti della natura,
naviga nel grande mare di Internet e arriva a
decifrare i codici del genoma umano, l’uomo del
ventunesimo secolo, consumista e arrivista, è
però inquieto ed insicuro ed ha sempre più
bisogno di spiritualità.
Qui in Calabria, crocevia di popoli e civiltà,
spesso il sentimento religioso è vissuto in
espressioni magiche di una fede miracolosa,
manifestazioni dell’animo popolare. E la fede
religiosa, intrisa di mistero, se non viene
vissuta con equilibrio può sfociare in forme
ambigue – afferma la Chiesa – che, preoccupata,
è molto cauta di fronte al moltiplicarsi di
fenomeni di visioni, apparizioni e statue
sanguinanti; e mette in guardia i fedeli dal
lasciarsi trascinare in devozioni ingannevoli.
Le apparizioni o rivelazioni private approvate
dal Magistero della Chiesa sono, infatti,
pochissime e non sono dogma di fede.
Prima che la Chiesa indaghi e si pronunci su
fenomeni come questi passa molto tempo.
Intanto nessuno può impedire a chi crede di
rivolgere un pensiero e una preghiera alla
vergine delle rocce. Sta in questo il grande
miracolo.
Il racconto di Vincenzo Rimola, innanzitutto, ha
avuto il grande merito di metterci di fronte ad
un episodio di spiritualità popolare,
che, come altri che suscitano chiaramente
reazioni emotive, va indagato e ripensato, da
un punto di vista antropologico, sociologico,
religioso.
Nella società meridionale ancora oggi esiste un
legame indissolubile tra luoghi, paesi, Madonne,
Santi patroni e individui, che cercano prove di
carattere miracolistico, alla ricerca vana di
segni che manifestino l'onnipotenza divina
dispiegata su questa terra. È forte la
convinzione che l'immagine del santo non è
solamente un segno che fa riferimento ad altra
realtà, ma è il luogo della presenza stessa del
Santo, soprattutto quando ci si trova in
prossimità di un importante luogo di culto.
Ed il Santuario della Madonna delle Armi,
costruito nel 1440 su una precedente chiesa
basiliana del IX – X sec, sulle rocce (in greco
armòn significa roccia) è stato nel tempo
meta continua di pellegrini e devoti. Alla
Vergine delle rocce, la cui immagine si conserva
su una lastra di pietra, ritrovata in una delle
grotte abitate dai monaci bizantini, la
tradizione attribuisce molti miracoli.
È un segno dei tempi la nostalgia del sacro, che
trova un riscontro anche nell’interesse che i
mass-media dimostrano nei confronti degli
avvenimenti religiosi.
L’insicurezza e il conseguente bisogno di valori
assoluti cui ancorare la vita, nascono dalla
crisi del mondo tecnologico, elargitore di
benessere materiale e di pensieri di utilità
egoistica che soffocano certe facoltà spirituali
di cui oggi si avverte drammaticamente la
mancanza.
In questa non facile esperienza dell’invisibile
e dell’eterno, mi sembra opportuno
concludere, citando un brano del Discorso del 7
settembre 1991 di Papa Giovanni Paolo II:
“Non si può pensare di vivere la vera devozione
alla Madonna, se non si è in piena sintonia con
la Chiesa e col proprio vescovo. Si illuderebbe
di essere accolto da Lei come figlio chi non si
curasse di essere, al tempo stesso, figlio
obbediente della Chiesa, alla quale spetta il
compito di verificare la legittimità delle varie
forme di religiosità”.
Nella foto: Vincenzo Rimola,
sulla strada della Caccianova, rivolge uno
sguardo di fede alla figura della Madonna
visibile sulle rocce del monte Sellaro (indicata
con la freccia).
Nel riquadro sembra di notare i tratti di un
volto. La foto è stata scattata da Maria Zanoni.
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pubblicato il 13 Dicembre 2007
NUOVO TEMPO -
GIOVANI,
MUSICA E POESIA
di Maria Zanoni
I giovani protagonisti alla Fiera della Cultura,
promossa dal G.A.L. Pollino, con la
partecipazione delle Associazioni e dei Comuni
di Castrovillari e del suo hinterland, presso il
Protoconvento Francescano della città del
Pollino nei giorni 12 e 13 dicembre 2007.
Lo spazio riservato al Centro d’Arte e Cultura
26, associazione di promozione culturale al suo
trentesimo anno di attività, è stato dedicato a:
GIOVANI, POESIA & TERRITORIO. Al Teatro Sybaris
si è tenuto un recital di poesie ed un concerto
di chitarra folk acustica e percussioni,
dedicato alla poesia ed alla musica di Fabrizio
De Andrè.
Un gruppo di giovani che coltiva la poesia,
nobile arte un tempo appannaggio solo di élite e
colti anziani, ha declamato i versi scelti da
recenti pubblicazioni dei poeti locali Anna M.
Basile, Ciro Cauteruccio, Antonio e Carmine
Zofrea, Maria Zanoni. Si sono alternati al
leggìo Marco e Giuseppe Fioravante, Claudia
Rende, Adele Stigliano ed Antonio Zofrea. Alla
kermesse hanno partecipato i gruppi musicali
Acoustic Friends Duet (Luca Oliveto e Manuel
Alessandria) e Sand Creek Trio, il gruppo di
Fazio, Chimenti e Giordano, noto al grande
pubblico per la capacità stilistica di
ripercorrere nel tempo la memoria storica della
meravigliosa canzone d’Autore italiana e per la
forte passione per Fabrizio De Andrè.
Il
sognatore mediterraneo, come lo definisce il
critico letterario Pierfranco Bruni in una sua
recente pubblicazione, è dentro un processo
culturale che ha ramificazioni poetiche,
esistenziali ed umane. È un personaggio che ha
caratterizzato alcune generazioni ed ancora
affascina con una cultura che cammina nel solco
della tradizione. Il linguaggio della musica di
De Andrè, il cantautore che penetra civiltà,
etnie e nostalgie, è un tutt’uno con i versi,
sul piano esistenziale e letterario. Musica e
poesia, come espressione dell’anima delle
generazioni di tutti i tempi. Come nuovo tempo.
I giovani, dunque, protagonisti di una serata di
promozione della cultura del territorio, ricca
di emozioni e sensazioni, contro le nuove forme
di frustrazioni e solitudini della società
globale postmoderna e per sconfiggere la crisi
della letteratura che ha caratterizzato gli
ultimi decenni del Novecento.
Nella foto:
momenti della Kermesse
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pubblicato
il 1 Dicembre 2007
IN ALTO I CALICI
IL VINO,
ORGOGLIO DELLE NOSTRE RADICI CULTURALI
di Maria Zanoni
In alto i calici, per sorseggiare la cultura del
vino di Calabria. Una degustazione di vini
tipici per apprezzare il bouquet intrecciato di
conoscenza e amore per la propria terra, per le
antiche tradizioni enogastronomiche.
Nella sala dell’Hotel Garden a Praia a Mare si è
tenuto un incontro tematico, moderato da
Filomena Pandolfi, esperta in Marketing
territoriale: “Calici di vino, sorsi di cultura”
che ha riscosso grande successo.
Un appuntamento di rilievo, organizzato dalla
Pro Loco di Praia, in collaborazione con quelle
di San Nicola Arcella, Aieta e Tortora e con il
patrocinio dell’Amministrazione Comunale,
guidata da Carlo Lomonaco. Un plauso particolare
al dinamico presidente della locale Proloco,
Franco Di Giorno, che ha proposto, in forma
nuova e originale, al numeroso pubblico presente
in sala, enoturisti ed appassionati del buon
bere, degustazioni di alcuni tra i migliori vini
della Calabria, abbinati ai prodotti tipici di
qualità, espressione del patrimonio regionale,
offrendo spunti di seduzione visiva ma,
soprattutto, suscitando emozioni. È con questo
intento che vino e cultura si sono incontrati,
come segno di orgoglio verso le nostre radici
storiche e culturali, di rispetto verso il
territorio ed i suoi prodotti, patrimonio di
conoscenza, capacità e passione. In questa
direzione, dunque, il contributo di
presentazione del mio recente studio sulla
cultura del vino, “Percorsi mediterranei”, edito
da Arte26, con il patrocinio dell’Assessorato
alla cultura della Regione.
La storia della viticoltura in Calabria è
narrata dai “palmenti”, antichi testimoni di
archeologia del vino, vasche per la pigiatura
dell’uva, scavate nella roccia all’epoca dei
Greci, dei Romani e dei Bizantini, che,
illustrati in volume, raccontano la storia delle
nostre tradizioni enogastronomiche, meglio di
mille pagine scritte.
Se qualcuno si aspettava un libro noioso, un
concentrato di tecnica e ampelografia per
addetti ai lavori, è rimasto deluso,
nell’incontro con una pubblicazione che fa della
promozione del territorio e dei suoi beni
culturali la sua colonna portante. Promuovere la
conoscenza del nostro prezioso patrimonio di
cultura materiale che va ad affiancarsi a quello
ricchissimo naturalistico, artistico e storico è
una necessità improcrastinabile.
La conoscenza dell’originalità dei nostri vini,
dei prodotti tipici di qualità contribuisce alla
promozione di corretti stili di vita, sicurezza
alimentare e rafforza il legame con il
territorio e la sua cultura enogastronomica.
Voci autorevoli come quelle dell’assessore
regionale all’Agricoltura, Mario Pirillo, e
dell’assessore provinciale al Bilancio, Rachele
Grosso Ciponte, hanno rimarcato la valenza
dell’incontro, come azione promozionale dei vini
regionali che vantano un illustre passato con il
quale ben pochi altri possono competere, in
funzione dell'inserimento di più vini calabresi
nelle liste dei ristoratori locali.
Una serata dedicata alla degustazione che ha
comunicato soprattutto emozioni, sorseggiando
vini di qualità, percependone profumi e
cogliendone il retrogusto, indice di cultura
enologica in terra enotria.
nella foto da sinistra:
Giovanni De Rose, consigliere regionale UNPLI,
Carlo Lomonaco, sindaco di Praia, Franco Di
Giorno, presidente Proloco Praia, Filomena
Pandolfi, Esperta in Marketing territoriale,
Maria Zanoni, scrittrice, Mario Pirillo,
assessore regionale all'Agricoltura e Rachele
Grosso Ciponte, assessore provinciale al
Bilancio.
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pubblicato il 7 Novembre 2007
NUOVA SCOPERTA DI ARCHEOLOGIA DEL VINO
Palmento
rinvenuto a Belvedere
di MARIA ZANONI
Sulla collina in contrada San Giorgio a
Belvedere è venuto alla luce un altro palmento
antico.
Il reperto di archeologia del vino va a
collocarsi a fianco dei quasi mille palmenti
rinvenuti in tutta la regione. Nel mio recente
volume “I Palmenti, tracce di cultura materiale
in Calabria” edito da Arte26, con il patrocinio
dell’Assessorato alla Cultura della Regione e
della Provincia di Cosenza, sono censite ed
illustrate queste vasche per la pigiatura
dell’uva, scavate nella roccia, all’epoca dei
Greci, dei Romani, dei Bizantini, che
costituiscono un patrimonio molto interessante
per aprire ulteriori spiragli alla conoscenza
della nostra storia, degli insediamenti rurali,
dell’economia del territorio.
Queste arcaiche pigiatrici che sopravvivono a
cielo aperto o in vecchi casolari nelle campagne
raccontano la storia delle masse contadine,
dall’antichità ad oggi, meglio di mille pagine
scritte. E l’antico palmento affiorato qualche
giorno fa nel territorio di Belvedere a qualche
centinaio di metri di distanza da un altro
magnifico esemplare di epoca romana, già
rinvenuto qualche anno fa, racconta la storia
della vitivinicoltura sulla costiera tirrenica
al tempo dell’insediamento romano (dal III
secolo a. C. al III dopo Cristo), quando sui
fertili terrazzamenti tra il mare e i monti
fioriva la coltivazione della vite e dell’ulivo.
Sotto i Romani il territorio era organizzato in
“fundi” sparsi indirizzati a produzioni di
elevato valore mercantile, soprattutto vino ed
olio. La documentazione archeologica del
territorio intorno a Belvedere (determinante il
lavoro dell’archeologo Fabrizio Mollo)
testimonia che sulla fascia tirrenica vi furono
numerose ville produttive di proprietà delle
aristocrazie romane, con forte utilizzo di
manodopera servile.
Col processo di romanizzazione si ha la fine
degli insediamenti lucani e brettii e sorgono
ville a S. Litterata di Belvedere, a Cirella, a
Fischija di Scalea, a San Nicola Arcella, a
Fiuzzi di Praia a Mare. Le ville rustiche
intorno a Blanda e Laos vengono abbandonate
verso il III secolo dopo Cristo. Le fattorie
agricole romane dotate di palmenti e celle
vinarie erano organizzate intorno all’approdo
marittimo di Capo Tirone, come attestano anche i
rinvenimenti subacquei di epoca romana.
In questo contesto, verosimilmente, il palmento
per la vinificazione apparteneva ad una villa
rustica, una struttura eminentemente produttiva,
inserita nel sistema dei latifundia, dedita
principalmente alla produzione di vino, come le
altre “ville rustiche” rinvenute a S. Litterata,
Fontanelle, Cotura, Vetticello. Anche i due
impianti per la vinificazione rinvenuti in
contrada Fischija a Scalea testimoniano l’antica
cultura del vino nel territorio, così come il
nome “Parmint” della piazza principale di
Belvedere. La documentazione archeologica
(anfore vinarie e monete su cui sono riprodotte
scene dionisiache) e le fonti scritte ci
attestano dell’alta qualità dei vini prodotti in
quel territorio, esportati in gran quantità,
come il Chiaretto di Belvedere e Cirella,
definito già nel Cinquecento “da signori e non
da famiglie”, lo zibibbo di Diamante, il vino di
Cetraro definito zucchero e cannella.
La mia ricerca sul campo (che cede il passo ora
all’Archeologia) spero apporti un contributo
alla conoscenza e valorizzazione di questi beni
materiali legati alla cultura del vino.
Nel mio recente libro “Percorsi mediterranei”
non c’è solo la passione della ricerca
antropologica, ma la manifestazione di un
incontro tra la cultura contadina nella temperie
archeologica e la contestualità storica. Questi
reperti materiali sono strumenti di verifica e
di valutazione sul piano dell’indagine.
I due palmenti di Belvedere si possono ammirare
all’interno di un percorso agrituristico che
dall’antico palmento ha preso il nome. Qui la
passione nella preparazione dei cibi e la
squisita accoglienza verso l’ospite da parte
della famiglia Cristofaro Riente non è riversata
solo nella elaborazione dei piatti tipici della
nostra terra con prodotti genuini, ma anche
nella valorizzazione di questi beni culturali.
L’antico palmento, degnamente inserito in un
percorso turistico-culturale, testimonia
l’antica grande vitalità del luogo nella
coltivazione della vite e nella produzione di
buon vino, ed è sinonimo anche di cultura e
amore per la propria terra. Il cibo, come i
palmenti sono beni culturali da tutelare e
valorizzare, perchè dipendono direttamente dalla
cultura di un popolo, con i suoi riti, i suoi
miti, i suoi codici simbolici, i suoi valori,
espressi nelle tradizioni popolari.
Un patrimonio inestimabile di beni materiali,
saperi e sapori che ci riconducono alle nostre
radici culturali, pertanto meritano di essere
conosciuti e apprezzati e fruiti.
Nella foto:
la vasca superiore del palmento
scavata nella roccia. In primo piano è visibile
la canalina di scolo del mosto nella vasca
inferiore (poco visibile, perchè interrata) e
sulla parete di fondo si vedono i due fori per
l'inserimento dei pali della pressa in legno.
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pubblicato il 3
Novembre
2007
IL
SENSO DELL'ETNO-ARCHEO-ANTROPOLOGIA
di
Pierfranco Bruni
Il
senso dell’etno – archeologia – antropologia
trova nella ricerca di Maria Zanoni il punto di
maggiore chiarificazione.
Uno studio che certamente farà discutere.
Positivamente.
Il recente libro di Maria Zanoni dedicato ai
Palmenti (ma è molto di più) pone delle
interessanti “invasioni di campo” in
quell’articolato processo culturale che
interessa sia l’archeologia che l’antropologia.
Tre titoli o un titolo con due “giustificazioni”
o esplicitazioni. Percorsi mediterranei. I
palmenti. Tracce di cultura materiale in
Calabria. Edito nella collana del Centro
Arte e Cultura 26.
L’indagine riguarda la cultura contadina
all’interno di precisi territori della Calabria
con incursioni di analisi in altri contesti
geografici. Nella cultura contadina o della
civiltà pre-contadina i palmenti attraversano
sia l’elemento archeologico che quello
antropologico.
Le scoperte
che la Zanoni compie non sono soltanto da
definirsi come “rivelazioni” di luoghi e di
materiali. Ma credo che si vada oltre perché
interessa l’apparato teorico del legame tra
archeologia e antropologia.
Cosa fa l’archeologo secondo Maria Zanoni?
L’archeologo scava nella memoria storica del
territorio attraverso la ricerca certamente ma
anche grazie ad un dialogo che penetra l’humus
(ovvero il vero tessuto di una umanità sul
territorio) che è fatto di strati, di connivenze
con i resti di epoche, con la contaminazione di
passaggi di civiltà, di culture, di identità.
L’archeologo non si sporca soltanto le mani nel
terricci, nella terra, nello “scavo” vero e
proprio ma deve avere la capacità di leggere il
colore del terreno, il senso delle deposizioni e
il battere dei passi del tempo.
Le
testimonianze che vede, che legge, che sente non
sono altro che un rimembrare elementi di
civiltà. Portarli alla luce significa, tra
l’altro, dare la possibilità di interpretare una
composizione di passaggi e paesaggi epocali. La
differenza tra un archeologo e uno storico non
sta soltanto nella tipicità del materiale con il
quale occorre confrontarsi. Sta soprattutto
nella capacità di penetrare il valore storico di
un determinato materiale. Il dato storico è
diverso da quello archeologico anche se è
naturale convivere nella contaminazione degli
stili che l’incontro del e con il tempo rende
malleabili. Forse l’archeologo è il conoscitore
del profondo. Ovvero dell’inconscio che il
terreno preserva.
I palmenti (anche se non entro nel merito delle
ricerche o della collocazione o dei luoghi: il
lettore dovrà leggere il libro altrimenti il
gioco è tutto scoperto e non mi piace disputare
una tale partita su tali argomenti) sono la
manifestazione di un incontro tra la cultura
contadina nella temperie archeologica e nella
contestualità storica. La Zanoni lo dice molto
bene. In modo particolare nelle geografie del
Mediterraneo sono espressioni di vita che
restano ad identificare una precisa identità e
anche una precisa “etimologia” dei luoghi
stessi.
Tutto ciò che affiora appena, sembra dirci la
Zanoni, e tutto ciò che non affiora prepara il
lavorio della pre-storia. Ci si immerge, con la
ricercatrice e con questo testo, in quel
“sottosuolo” che diventa mistero.
L’archeologo, dunque, indaga e assume una
funzione fondamentale proprio in virtù di un
collegamento tra i “sistemi” archeologici (parla
di sistemi culturali e mentali) e quelli
etno-antropologici. Il territorio, d’altronde,
deve costantemente fare i conti con una visione
sia etnica (per le varie eredità che insistono
sullo stesso territorio) sia antropologica
(perché le culture che convivono su un
territorio sono sempre il portato di una
misurazione storica, la cui storia stessa
proviene da modelli di civiltà che costituiscono
il senso di una tradizione e di una identità).
In virtù di
ciò, secondo lo studio in questione, il modello
di riappropriazione culturale ci permette di
leggere un determinato territorio grazie ad una
valenza che presenta elementi materiali. Si è
già detto che l’archeologo lavora certamente su
materiali ma è anche vero che questi materiali
devono permettere una interpretazione e quindi
una chiarificazione di un sostrato sia
archeologico che antropologico. In altri termini
l’archeologia opera all’interno di un bacino di
ricerca che puntualizza due riferimenti
centrali: il territorio e i popoli. Ovvero la
geografia reale che ha il compito di descrivere
e quindi di definire una visibilità ed un
immagine del territorio stesso e l’identità di
una cittadinanza espressa dalla civiltà che si è
manifestata sul territorio e all’interno di
esso.
Tutte le testimonianze, tutti i reperti, tutte
le presenze chiaramente materiali sono strumenti
di verifica e di valutazione sul piano
dell’indagine. Ciò si evidenzia man mano che la
ricerca va avanti. Una testimonianza diventa non
solo una rappresentazione del territorio ma
sostanzialmente una espressività di codici e di
elementi etno-antropologici. All’interno di una
tale riflessione le relazioni tra aspetto fisico
del territorio e quello più direttamente
antropologico delle culture sommerse che vi
hanno abitato costituiscono il vero dato di una
comprensione di ciò che si è manifestato in un
determinato luogo.
Proprio per
questo il riferimento archeologico non vive di
episodicità ma si caratterizza per la sua
articolazione d’indagine e di continuità tra
cultura di appartenenza, elementi ereditati,
bagagli di contaminazione e ciò che è
concretamente visibile. Non possono esserci via
di mezzo almeno nella sostanza teorica. Tutto
ciò è ben dimostrato e documentato da Maria
Zanoni.
È, comunque, naturale che l’impatto che
l’archeologo vive è inizialmente pratico ma
questa sua praticità è certamente dettata da
basi teoriche in quanto la ricerca parte dalla
conoscenza diretta di una questione ma il
“viaggio” sul territorio si stabilizza su
presupposti di analisi sul terreno. Leggere il
terreno significa non solo capirlo e conoscerlo
dal punto di vista archeologico, storico e
geografico ma significa altresì definirlo nella
sua specificità culturale.
Oggi, e qui ripropongo una mia riflessione già
datata nei miei studi, l’archeologo non può
studiare un territorio o una situazione
archeologica senza fare i conti con il valore e
l’essenza antropologica. Archeologia e
antropologia devono per ragioni di “mestiere”
convivere, raccordarsi, e parlarsi sul vero
senso del termine. Altrimenti la stessa indagine
non può offrire quegli effetti completi di cui
si ha bisogno per contestualizzare un luogo.
Il luogo, dunque, è un territorio ben definito o
meglio il territorio caratterizza un luogo.
Una
insistenza che percorre tutto il lavoro di Maria
Zanoni. Ma sul luogo definito tale convivono
fenomeni e fattori pre – archeologici o meglio
tali fenomeni e tali fattori sono la risultante
di una sistematica insistenza di civiltà e di
insediamenti di popoli. I popoli insediati
creano vita e la quotidianità porta a
manifestazioni di relazioni concrete con il
luogo. I popoli che vivono si definiscono nei
materiali che usano. I popoli che abbandonano un
luogo o che scompaiano lasciano sempre tracce di
materiali.
Proprio per
questo deve essere un fatto ormai ovvio far
convivere l’archeologia con l’antropologia. Nel
tempo delle contaminazioni i luoghi e i popoli
sono sempre più espressione di civiltà. Una
espressività che si sviluppa in un rapporto
culturale ben definito da questa ricerca. Il
senso dell’etno-archeologia – antropologia trova
proprio qui il suo punto di maggiore
chiarificazione.
Uno studio
che certamente farà discutere. Positivamente.
Nella foto: un
palmento in grotta rinvenuto da Maria Zanoni nel
territorio di Castrovillari
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