Editoriali, recensioni e articoli
di cultura, società, costume
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pubblicato il 27 Gennaio 2013
IL PARCO ARCHEOLOGICO
DI SIBARI
sommerso dall'acqua e
dal fango
di Maria Zanoni
Gli
scavi di Sibari, tesoro archeologico, storico,
culturale inestimabile della Magna Graecia viene
sommerso dall'acqua e dal fango il 18 gennaio
scorso, per lo straripamento del fiume Crati.
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Il
Parco Archeologico di Sibari comincia a riaffiorare
dall'acqua, dopo gli interventi con le idrovore
(in una foto del 27 gennaio 2013).
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I danni
saranno ingenti, non quantificabili, nonostante gli
interventi con mezzi meccanici ed idrovore, per
prosciugare l'acqua ed il fango che hanno ingoiato
l'antica Sybaris.
Il Parco
del Cavallo, quello Strombi o dei Tori, la
Casa Bianca, l’area di Oasi, le fontane
monumentali, il teatro con la parte semicircolare
dell’orchestra, gli ordini della cavea, l’impianto
termale del I secolo d. C. le tabernae, le domus con
i sontuosi marmi, i preziosi mosaici sono
completamente in preda alle acque ed al fango.
Le
vestigia dell'antica città, fondata nel VI° secolo
a. C. da coloni greci alla foce del fiume Sybar, da
cui prese il nome, e che in breve tempo divenne
ricca e s'ingrandì fino ad arrivare a 300 mila
abitanti, che vivevano nel lusso sfrenato,
nell'eleganza della vita mondana, sono seriamente
compromesse.
Poche e
piccole pompe idrovore sono utilizzate per tirare
fuori l’immensa massa d’acqua alimentata non solo
dai fenomeni atmosferici, ma anche dal fenomeno
della "subsidenza", in quanto da
anni gli studi dell'ENEA hanno assodato che la
Piana di Sibari sta
scivolando verso il basso di quasi 3 millimetri
l’anno. Per questo è incredibile che il
fiume Crati possa straripare nella generale
indifferenza e lungo i suoi argini siano presenti
rigogliosi agrumeti.
Le
drammatiche condizioni degli scavi archeologici,
dunque, hanno spinto un gruppo di intellettuali a
sottoscrivere un appello al
Presidente della Repubblica, al
Presidente del Consiglio, al
Ministro della Cultura e a tutti gli
Enti competenti, per salvare il
patrimonio culturale dell'area, uno dei più
importanti della Calabria, dell’Italia e di tutta
l’umanità.
I soci del Centro
D'Arte e Cultura 26 hanno aderito all'iniziativa,
promossa dal Il Quotidiano della Calabria,
SALVIAMO SIBARI.
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Il Parco Archeologico di
Sibari completamente sommerso dalle acque, per
l'esondazione del fiume Crati (in una
foto del 22 gennaio 2013)
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Il Parco Archeologico di Sibari in una foto del 2005
Ph Maria Zanoni |
video
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pubblicato il 27 Luglio 2012
A Los Angeles con Marilyn Monroe a 50 anni
dalla sua misteriosa morte e… una goccia di
Chanel n. 5 sulla pelle
di Pierfranco Bruni
Los
Angeles. È il mese di agosto. Una città tra le
più importanti in una California immensa che ha
connotati italo – spagnoli. Luoghi molto
catalani. E la sua storia racconta simboli di
una lingua che ha la Spagna nel cuore. La prima
cosa che mi chiedono, prima di entrare nel mio
albergo, è se desidero visitare i luoghi del
mito di Marilyn. Sono un po’ distratto. Sapevo
di entrare nella città del mito ma non pensavo
che la mia interprete avesse questa velocità.
Giungo a Los Angeles quasi frastornato.
Cambiamenti di orari, turbolenze lungo la rotta,
confuso e con gli orecchi che sembrano aver
subito un tuffo nell’Oceano. Dico subito:
“Certo, sono qui proprio per lei ma ho bisogno
di cambiarmi d’abito. Marilyn non avrebbe
gradito un ospite vestito senza eleganza. Datemi
il tempo di indossare il mio vestito di lino
bianco con la camicia verde e poi si parte e a
domani pensiamo domani…”. Così siamo tutti
contenti.
Qui è nata e morta Marilyn Monroe. Era nata il 1
giugno del 1926. era un anno più grande di mia
madre. Un mito nell’attraversamento delle notti
immaginate alla ricerca di un sogno. E Marilyn è
stato un sogno. Nel velo della sua gonna bianca
alzata dal vento in eros tutto tuffato in una
seduzione capricciosa. Amava e moriva nel caldo
torrido di una città che ha finestre aperte sui
mediterranei. Ma sì.
Los Angeles non poteva che essere la città di
Marilyn. La bionda mediterranea che si è fatta
seppellire con la parrucca bionda che portava
nel film Gli spostati e vestita con un abitino
verde. Il biondo e il verde. Il sole e il mare.
Avevo sette anni quando morì Marilyn Monroe.
Eppure ho un ricordo molto lieve. Me la ricordo
nelle foto in bianco e nero dei settimanali che
non mancavano mai in casa mia. Le prime pagine
“sparate” con le immagini che riportano scene
dei suoi film. La bellezza che si faceva
seduzione. Sì, perché può esserci anche una
bellezza che ha la sua sobrietà da statua. Ma
Marilyn portava una bellezza sconvolgente.
Marilyn era l’attrazione.
Sono trascorse stagioni e gli anni hanno
consumato persino le rughe ma il fascino dei
ricordi dentro il mistero restano a solcare
ancora una leggenda. Meglio così. Era una estate
di tanti anni fa e c'era un forte caldo. Allora
come ora. La bella dai capelli biondi e dagli
occhi penetranti. Il vento tra i suoi capelli e
capelli come radici intrecciate nella terra.
Chiedeva amore ma l'amore era un incubo. Un
sogno vissuto sotto la luna. Una luna sul mare e
le vele lontane in un viaggio senza attese.
Forse Marilyn non ha mai atteso. L’attesa non
era dentro la sua vita. È morta nel sonno degli
dei con la nudità dei silenzi. Già, è stata
trovata completamente nuda. Ma la fisicità era
uno stile. La sua eleganza negli sguardi
tremanti.
Diceva spesso: “Sapevo di appartenere al
pubblico e al mondo non perchè avessi bellezza o
talento, ma perchè non ero mai appartenuta a
nessuno”.La sua morte resta ancora un mistero?
Forse sì o forse no. Ma Marilyn rincorre
giovinezza sui prati verdi e tra le stanze della
sua villa. Quanti amori e alla fine uno strazio
senza più amore. Si raccontano storie e le
storie diventano finzioni o illusioni. Il passo
è breve. Tra la finzione e l'illusione c'è il
sogno: il solo che smette di essere vero. Ma
Marilyn è morta. Suicidio? Omicidio? Cosa ha
deturpato la sua bellezza?
C'è chi dice che è stato un assassinio con tutte
le regole commesso da Cosa Nostra. Ad ucciderla
pare che sia stata una supposta contenente un
potente narcotico. Il sonno degli dei che corre
tra le vene e il sangue è un fiume che crede
nell’impossibile.
Marilyn dormiva nuda. E così che l'hanno
trovata. Con gli occhi nella morte e la morte
nel cuore. In quell'agosto torrido del 1962. Tra
il quattro e il cinque di agosto. Pare che a
scoprire il suo corpo inerte sia stata la sua
governante.
E poi il medico. La porta era chiusa a chiave. E
la chiave? C'è sempre un problema di chiave. Il
medico al suo arrivo non fece altro che
constatare l'avvenuta morte. Ci fu l'autopsia.
Anche questa un mistero. Come tutte le cose di
questo mondo quando non si riesce a trovare la
chiave, quella giusta, si parla di mistero.
Ebbene si. Non guasta questo mistero nella morte
di una donna che in vita è stata sempre un
mistero. Lasciamola nel suo mistero. Perchè
svelarlo?
Era bella in quella allegria che si faceva
inquietudine in cui la passione giocava con i
giorni e il suo corpo un alito nel tempo che non
invecchia. Marilyn non è invecchiata.
Gli incontri, i viaggi, le vacanze dalla parola,
i riposi vengono rivissuti con un pathos
inarrestabile che è humus del linguaggio. E
restano i ricordi – sensazioni che guidono le
nostre distrazioni, le nostre smemoratezze. E
poi non ricordiamo più perché tutto diventa una
sensazione come la musica.
E’ possibile vedere la musica? Sentiamo e
ascoltiamo la musica vivendola, rivivendola e
così il tempo che non c’è più noi lo percepiamo
nell’alito di quelle alchimie che sono parte
integranti della nostra memoria – sogno. Fuori
dalla storia perché, in fondo, il tempo non sa
che farsene della storia.
La figura di Marilyn diventa la metafora
di una giovinezza, di generazioni che hanno
sognato con lei il tempo intramontabile e,
appunto, gli amori impossibili. La metafora che
coniuga l’impareggiabile transito nelle stagioni
del tempo con il desiderio di essere catturati e
catturare quel destino di continuare ad amare il
volto, gli occhi, il corpo di donne per le quali
ci siamo sentiti leggeri nelle brughiere o nelle
acque tagliate dalle gondole con gondolieri che
non si abbandonano alle tristezze ma si lasciano
rapire dalle ironie. Questi amori ci lasciano la
quieta e la tempesta ed ecco perché continuano
ad insistere nella nostra vita – letteratura.
È vero: chi muore giovane il tempo non lo
raccoglie. E resta nella sua giovinezza a
cantare l'amore e l'inquietudine, l'angoscia e
la tristezza, la disperazione e il bisogno di
credere ai sogni infiniti e di viverli nella
fantasia che chiede sogni e colori.
Il bianco e il rosso erano i suoi colori tanto
che sulla sua tomba a Westwood Village Memorial
Park Cementery si sono alternati per anni, e
forse ancora oggi, fasci di rose rosse e poi
rose bianche.
E quel suo sorriso. Marilyn è la giovinezza che
resta nel tempo che invecchia e ci invecchia. Ma
il suo sorriso sulla sua bocca aveva la carezza
della luna. Chi troppo ama troppo perde e i suoi
sconvolgimenti si intrecciavano in un tempo che
non conosceva quotidiano.
I suoi amori erano le inquietudini. I Kennedy. I
fratelli. Tanto si è parlato. Forse adesso fanno
girotondo e Marilyn li ha presi per mano per un
inarrestabile giro giro girotondo. E con loro
c'è pure quel Miller, lo scrittore, il
drammaturgo che sposo Marilyn nel 1956. E
danzano sulla sabbia della luna. Finalmente
stanno insieme. Si sono ritrovati per non
perdersi più.
Quanti mariti. Almeno tre. Il primo nel 1942.
Marilyn aveva soltanto sedici anni. E poi nel
1954 il secondo marito. Era un campione di
baseball: Joe Di Maggio. E poi Arthur. Quel
Miller già famoso scrittore che tentò di
inserire Marilyn nel mondo della cultura ma non
ci riuscì. Era fatta di un'altra pasta. Si
abbandonava ai sogni, alle fantasie e poi ai
sonniferi.
La madre era pazza tanto che al primo matrimonio
di Marilyn non le fu concesso di assistere alla
cerimonia. Non si seppe mai il nome del padre.
La sua paura era quella di fare la fine della
signora Gladys Pearl Monroe, cioè la madre di
Marilyn.
E poi i suoi desideri si trasformarono in
angosce, in inquietudini, in tragedia. C'era
sempre una grande inquietudine che covava nel
cuore di Marilyn. Una allegria fatta di
inquietudine. Come in fondo erano i suoi films.
Così anche il suo ultimo film Gli spostati
risalente al 1961, che la vede insieme a Clarke
Gable, a Montgomery Clift, a Thelma Ritter. Un
film in bianco e nero. Come era stato quello del
1952 dal titolo La tua bocca brucia.
Marilyn cominciò la sua carriera posando per un
calendario. Le sue foto più belle. La sua
giovinezza senza segni. Il segno di un destino.
Un viaggio bruciato sull'onda di una grande
notorietà. Ma per Marilyn la vita fu passione? O
suoi amori furono vera vita?
Mi sono chiesto, spesse volte, se Marilyn non
fosse morta come è morta, che cosa sarebbe stato
di lei? Sarebbe invecchiata e sul suo viso le
tracce del tempo e sulle mani le rughe abbrunate
che contano gli anni. Ma così non è stato. E
continua a vivere. Con la sua allegria, con la
sua calda giovinezza e con gli occhi che
guardano il mare.
Con gli occhi belli e disperati che chiedono
amore e sono luci in una storia che è divenuta
un enigma. Ma senza il mistero, Marilyn sarebbe
ancora un mito? Perché continuo a domandami ciò.
Perché insisto?
Io sono a Los Angeles per fare altro e non solo
per visitare l’America del sogno di Marilyn.
Eppure ho negli occhi sempre il suo viso e tra
le parole trovo costantemente quelle della mia
interprete di origini madrilene: “Qui anche la
letteratura porta il nome del mito di Marilyn.
Come farà a parlare di letteratura del
Mediterraneo senza citare la famosa frase di
Marilyn: ‘Perchè non porto biancheria intima?
Mi danno così fastidio tutte quelle piegoline’.
Lei è uno scrittore e conosce bene le parole ma
lei ama la bellezza e i profumi e Marilyn,
inconsapevolmente, è anche il suo vocabolario.
Le ricordo un altro episodio. Lei in un suo
libro cita un profumo. Conoscerà certamente il
profumo di Marilyn perché un suo personaggio usa
lo stesso profumo di Marilyn, ovvero Chanel n.
5. Marilyn sosteneva che per andare a letto
indossa soltanto una goccia di Chanel n. 5.
Coincidenze?”
Poi mi guardò e riprese: “Ma so anche che lei
non crede alle coincidenze. Non dirò più nulla”.
Mi affascina e mi intimidisce sapere che domani
dovrò parlare della bellezza nella letteratura
nella città di Marilyn. Ho recuperato alcune
riflessioni che avevo annotato tra i miei
appunti che parlano della bellezza e sapevo,
comunque, che giungendo a Los Angeles non mi
sarei potuto sottrarre all’alchimia di Marilyn.
Trovi foglietti piegati: "Ho sognato la bellezza
per lo più a occhi aperti. Ho sognato di
diventare tanto bella da far voltare le persone
che mi vedevano passare".
E ancora: "Non voglio essere ricca, voglio
essere bellissima". Ecco perché non smise mai di
dire che alla sua morte non doveva mancare il
trucco sul suo viso. Aveva timore di invecchiare
e di invecchiare cedendo al tempo la sua
bellezza.
“Solo gli amori impossibili sono per sempre”
scrisse a mo’ di dedica Nantas Salvalaggio al
suo libro su Marilyn. Proprio vero. Sottoscrivo,
qui da Los Angeles, questa stupenda dedica di
uno dei miei pochi amici scrittori al quale ho
voluto molto bene.
Resterò a Los Angeles qualche altro giorno per
conferenze con gli italiani che vivono qui e per
gli americani che hanno desiderio di capire la
cultura italiana. Qui è nato un mito avvolto tra
la bellezza e la morte. Non riesco a ricordare
in quale mio romanzo ho citato il profumo di
Marilyn. Forse in “Quando fioriscono i rovi”.
Già, in quel romanzo in cui la bellezza conosce
solo il profumo della giovinezza. Il profumo
delle rose rosse e delle rose bianche.
C’è una frase del film A qualcuno piace caldo
del 1959 con Marilyn, Tony Curtis e Jack
Lemmon per la regia di Billy Wilder che mi scava
nella mente con una impressionante audacia. In
un dialogo Zucchero (Marilyn) chiede a Josephine
(Tony Curtis) : “Aspetta da molto?” e
Josephine risponde: “Non importa quanto
si aspetta, ma chi si aspetta”.
Malinconie che ci rapiscono ma che ci fanno fare
i conti con noi stessi. E gli amori vissuti e
abbandonati, alla fine, ci impongono di fare i
conti. Sempre con il tempo. Irraggiungibile come
le meteore nelle quali viviamo da giovani. Per
uno scrittore diventa sempre più difficile
ritrovarsi in questi conti, perché fare i conti,
attraverso il racconto e le parole che spingono
alla confessione, significa creare uno spazio in
quel tempo di ieri e nel tempo della scrittura
stessa. Ovvero tra il tempo nel quale si sono
vissute le avventure di un esistere e il tempo
nel quali ci si trova con le emozioni che
dettano, in una indefinibile nostalgia, percorsi
di esistenza vissuta.
Non finisce qui il mio viaggio tra le immensità
di Los Angeles. Ma resta una città, una grande
città. Andare nel tempo dei filamenti
sfilacciati è, comunque, restare lungo il fiume
della salvezza della memoria. E la letteratura,
nella profezia dei solchi traccianti, ci salva
perché restituisce brandelli di tempo
nell’archetipo delle memorie.
Los Angeles. Marilyn non è soltanto un mito. È
emozione. È una giovinezza perduta in un tempo
che non tornerà più. Resta tra i miei capelli
una goccia di Chanel n. 5.
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pubblicato il 27 Luglio 2012
La morte di Romano Battaglia
è una malinconia nei deserti dei miei viaggi
È morto lo scrittore che raccontava i sufi, ma lo
sguardo della sua amicizia scava solchi di
esistenza.
di Pierfranco Bruni
Non
è soltanto lo scrittore che mi mancherà. Le sue
parole e i suoi sguardi fatti di linguaggio sono
dentro di me. Mi mancherà la profezia dei suoi
incontri, delle sue telefonate, della sua voce.
Molto cara. Molto caro il suo sentiero tra
cristianità vera e sufismo. Storie dentro l’anima e
anime perse che hanno il trascorso di un inquieto
esistere. Romano Battaglia è morto. Era nato a
Marina di Pietrasanta il 31 luglio del 1933 e morto
il 22 luglio scorso). È finito “tra le braccia del
vento” (come si intitola il suo ultimo romanzo).
Mi mancherà. Alla Versiliana. Con
quel suo vestito bianco e la camicia celeste, la sua
pazienza, il suo essere tra i libri e la vita.
Qualche hanno fa in un incontro alla Versiliana,
Marina di Pietrasanta, volle presentare il mio
romanzo “Il mare e la conchiglia in un dialogare tra
i luoghi dannunziani e il mare che dava echi di
malinconia. Ricordo il suo affetto, la continuità, i
Natali, e le grandi estati in quel verde de “il
Caffè de La Versiliana”.
Con eleganza degli scrittori che
conoscono l’eleganza e degli uomini che sanno
ascoltare gli antichi detti sufi intravide il quel
mio libro la via dello sciamano che camminava tra le
mie parole. Ebbe ragione. Fu il libro che cambiò il
mio correre tra gli intagli delle non storie. E poi
andammo avanti in una Versilia in cui il sale e
l’odore del mare avevano il frammento del sogno e
con me, in quelle rarissime volte, c’era Rosaria ad
ascoltare.
Parlarono a lungo Romano e Rosaria
tra le ombre e le penombre del meriggio di agosto.
Io ero lì e accanto a me c’era Claudia Gerini. Tanto
tempo fa? No. Il tempo ora non ha la clessidra. E
Romano mi parlava anticipandomi il libro che stava
scrivendo o che avrebbe voluto scrivere. Mi parlava
di silenzio, di sabbia, di un personaggio chiamato
Annaluna, della strada di Sin, di amore nella
docezza di sapere che esiste o che “tu esisti”
rivolgendomi ad un amore.
Ricordo che mi parlò di Sufi come in
un suo romanzo. Un antico detto Sufi dice: “Il
cammino del fiume della vita è scritto nelle
sabbie”. La sabbia può essere una metafora ma può
anche raccogliere i segni di verità, di venità
nascoste, di verità dimenticate e che
misteriosamente e improvvisamente si rivelano, di
angoli di verità che conservano frammenti di tempo.
Ma la sabbia rimanda al deserto e il deserto ha
bisogno del vento per catturare le onde della vita o
per percepire il racconto della vita. Nel romanzo
“Sabbia” come raccontare la sabbia?
Romano Battaglia è uno scrittore vero
che riesce a vivere la parola, il sentimento,
l’emozione non con le costruzioni sintattiche ma
grazie al contatto con quella vita che muore e
rinasce sempre.
Le parole portate dal vento. O sarà
proprio il vento che porta le parole? Mi è tanto
piaciuto un riferimento ad un libro e a un film che
considero importanti: “Anonimo veneziano”. Una
Venezia che muore nella storia di un amore
frammentato e nell’attesa di lui che disperatamente
aspetta di morire sulle note di un “veneziano”
raccontato da Giuseppe Berto e portato sulla scena
da Enrico Maria Salerno.
La vita e la morte. Quella vita e
quella morte che si incontrano sempre sullo scenario
di una quotidianità che sembra di non appartenerci
ma che è, comunque, sempre dentro di noi. Così nel
racconto di Battaglia che ci offre questi due
personaggi: Fabio ed Eleonora. Ma anche qui gli
intrecci sono dentro la vita più che essere
manifestazione di un mero raccontare e il romanzo si
forma proprio dentro le dune di un deserto che è
metafora di esistenze.
Ancora il mondo dei Sufi: “Sotto la
sabbia/è sepolto il mistero della vita,/fra le dune
c’è il canto dell’universo./Chi non sa
ascoltare,/chi non sa immaginare/è lontano dalla
verità”.
Ed è vero ciò che dicono i vecchi
tuareg (come si legge nel romanzo): “…dicono che Dio
abita nel deserto./Per vederlo bisogna alzarsi
all’alba/quando sorge il sole./Non tutti riescono a
scorgerlo,/alcuni non sanno guardare”. Come nella
storia tra il padre e il figlio in “La strada di
Sin”. Ma non voglio citare titoli, attraversare
poesie, racconti. Romano è nell’alchimia della
parola.
Poesia nell'alchimia. Non è alchimia
l’ondulare di immaginazione? Una poetica che è
sempre segnata da un riflesso di immagini che giunge
dal cuore. Il cuore non come testimonianza ma come
esperienza di una costante e profonda spiritualità.
Si racconta ma il raccontare è una terapia che
sembra allontanarsi dal quotidiano dolore ma il
dolore, sì questo è vero, si fa esperienza di vita
nella speranza. Sono pagine di speranza nell'attesa
che coinvolge.
La
memoria è un groviglio di sensazioni e di immagini
che intrecciati al tempo - vita si divertono nel
labirinto. Si ha bisogno della luce. La luce
essenziale. Il veliero che naviga. Il faro che
illumina la nostalgia che è orizzonte. Quanti
destini vivono dentro di noi? E quanti restano in
attesa davanti alla nostra "caverna".
“Silenzio”. Titolo metafora. E’
vero: “La felicità non si ascolta,/ma si impara”. Le
voci e il silenzio sono una fede che ci porta per
mano nella preghiera. Perché la parola cosa è se non
preghiera e il tempo del silenzio che si intreccia
costantemente con quello dell’attesa non è forse un
incontro tra la fede e la preghiera? L’amore è una
costante di questo viaggio.
Viaggio e amore. Vita e tempo.
Così Romano Battaglia: “Mi sono chiesto se è il
tempo che passa o è la gente a passare quando non ha
saputo trattenere qualcosa di buono nel cuore.
L’assenza di ricordi e di valori, infatti, conduce
spesso all’annientamento di noi stessi o degli
altri. Dietro lo specchio che ci riflette si cela
un’immensa solitudine che avevamo sottovalutato”.
La fedeltà al cuore nello strazio del
quotidiano perché nel quotidiano le cose si
allontanano, si perdono, si allungano. "Mentre mi
avvicino alla mia terra, sento una quiete profonda
che mi dà la forza di riannodare il filo affettivo
della mia vita".
Si ritorna. Sempre. Perché il vero
richiamo è nell'amore e nella pazienza. Come ci
recitano i versi di Madre Teresa di Calcutta: “Fino
a quando sei viva, sentiti viva…/Non vivere di foto
ingiallite…/insisti anche se tutti si aspettano che
abbandoni”. Così in questo meraviglioso andare nella
vita e nel sogno di “Com’è dolce sapere che
esisti”.
In una delle ultime telefonata
parlammo dei dervisci e dei sufi e poi della magia
del vento e della solitudine. Non ci si comprende
fino in fondo se non si ancorano le solitudini ai
porti. E abbiamo bisogno di incanto per vivere
perché i tradimenti sono nel viaggio.
Ma cosa c’è oltre l’amore? Forse c’è
quell’uomo che si vendeva il cielo?
Cosa posso regalarti, Romano, amico
mio? Un ramoscello della Versilia? Questa mia
tristezza e questa malinconia che hanno il coraggio
di non abbandonarti e ritornare al mondo sufi: “C’è
sempre un filo d’erba o di luna che ti farà capire
quando l’amore è verità o quando l’amore è soltanto
un altro deserto oltre i deserti che ci abitano e
che abitiamo”.
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pubblicato il 17 dicembre 2012
Perché ho conosciuto
e non dimentico Carlo Maria Martini
L’uomo di chiesa
nella teologia del mistero viaggiante
di Pierfranco
Bruni
Avevo
avuto modo di conoscere il Cardinale Carlo Maria
Martini. Aveva una marcata sensibilità per il
concetto di “straniero”. In un convegno su cultura e
stranieri ci fu un suo limpido intervento che mi
accompagnò e mi accompagna nei miei studi sulle
etnie. Era il 2001, a Cesano Maderno, nel convegno:
"Integrazione e integralismi. La via del dialogo è
possibile?".
La letteratura, la
parola, la scrittura costituivano elementi di
comprensione in una dimensione etno –
antropologica. Nella sua singolare visione del
rapporto tra fede, mistero, vita, popoli c’era
sempre un disegno che superava il senso ontologico
della misericordia.
Il Cardinale era
nato il 15 febbraio del 1927. Nel suo dialogare non
ti lasciava con delle risposte ma si poneva con una
premessa di fondo che rispondeva ad una riflessione
metafisica: Cosa vuoi farne della fede? Quando mi
disse di aver letto un mio antico saggio sulla
“Simbologia del sacro nella letteratura” mi lasciò
con una domanda che sottolineava il tema del
rapporto tra la parola e la teologia del linguaggio
tra le civiltà.
Mi disse: “La
letteratura vive di sacro perché l’umanità della
parola è nel Cristo rivelante. Per questo il suo
saggio scava scava scava non solo nelle anime ma
anche nella memoria della salvezza”.
Ricordo bene. Tre
volte quello “scavare”. Poi ebbi modo di dialogare
brevemente in occasione del mio “Canto di Requiem”,
il mio lungo poemetto dedicato a Giovanni Paolo II e
mi invitò a definire quel mio scrivere come una
unica preghiera ma mi disse anche: “A lei manca non
la volontà di pregare, ma di pensare alle sue poesie
come se fossero una preghiera costante perché la sua
letteratura è una preghiera anche se lei non vuole
ammetterlo”. Frasi che mi diedero un tremore. Poi
sono rimaste cesellate nella mia anima. Continuo nel
tentativo di legare la poesia alla preghiera.
Il Cardinale
Martini ha sempre usato un linguaggio elegante. I
suoi libri sono un pensare nel pensiero. Le sue
riflessioni, sino a quella di queste ore, che
certamente farà discutere, riguardante l’accanimento
terapeutico o meno. Su questo non mi trova concorde.
Non mi ha trovato vicino tempo fa e tanto meno oggi.
Penso a Martini non solo come uomo di chiesa. Ma
come uomo di fede, come uomo in Cristo e “scavando”,
proprio come egli mi suggeriva, nei suoi testi e
nella sua presenza nella cristianità non posso fare
a meno di legare le sue parole, su questo tema, che
non condivido, al senso del Mistero, alla certezza
del Miracolo, allo sguardo della Grazia.
Siamo in Cristo
non con il corpo, soltanto, ma vi restiamo con
l’anima. E per un cristiano l’anima non ha esilio e
tanto meno debolezza ma speranza.
In quell’incontro
del 2001 il Cardinale Martini parlò del rapporto tra
lo straniero e la Bibbia. Annotai un concetto:
“Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande
messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri
comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa
comprendere che la morte di Gesù in croce abbatte
ogni frontiera e ci fa membri di un'umanità che
trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del
Risorto suscita in ogni credente il carisma della
accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da
questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di
Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta.
Abbiamo tanti motivi, umani e civili, per accogliere
lo straniero, motivi a cui forse pensiamo poco e che
sono certamente molto esigenti e radicali”.
Sono passati anni. Ma questo concetto resta una
sottolineatura che non dimentico. Io non raccolgo il
pensiero dell’autanasia ma il monito della preghiera
certamente. Pregare in Cristo per uscire dall’esilio
dell’anima.
Uno dei suoi ultimi libri che rileggo spesso è “Le
ali della libertà. L'uomo in ricerca e la scelta
della fede. Meditazioni sulla Lettera ai Romani”,
del 2009. Perché? Perché il legame tra perdono e
misericordia resta centrale e la figura del Paolo
viaggiatore ricercante in misterioso cammino è il
mio Paolo.
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pubblicato il 10 dicembre 2011
Mi sono innamorato di
Eva Kant e non di Lucia di Manzoni
Se rischio
posso anche vincere, se non rischio sono un perdente
di
Pierfranco Bruni
Ci
porteremo ancora suoni di conchiglie di anni lontani
tra le parole non smesse e le parole consumate?
Abbiamo abbandonato la giovinezza proprio nel
momento in cui i nostri cuori dovevano diventare
riferimento per generazioni che si sentono smarriti
e figli che ci guardano spavaldi e impauriti. Saremo
ancora belli e tristi come in quel tempo delle
rivoluzioni fallite? Ed è come se mi incontrassi in
uno specchio. Tanti anni fa.
Come passa il
tempo… Sono “I Camaleonti” con la loro malinconia
che mi ricordano il trascorrere delle stagioni e il
lento silenzio che attraversa il nostro abitare la
vita. Non solo il tempo passa, ma siamo noi che
mutiamo. La nostra generazione, amico mio, si è
lacerata nei dubbi e nelle certezze. Nelle certezze
perché era convinta di poter governare il mondo
portando il sogno come bandiera. I sogni saranno
potere. Che grande cazzata abbiamo commesso. Il
dubbio, perché nei momenti più opportuni abbiamo
cercato la vacanza dal vero impegno sostenendo che
non sapevamo dove andare.
Oggi sappiamo dove
andare ma non abbiamo più tempo. Non c’è nostalgia
in questo mio dire. C’è forse un po’ di rammarico.
Abbiamo studiato troppo in fretta e ci siamo
laureati perché conformisti puntavamo ad una
sicurezza. Ma la rivoluzione non è sicurezza e non
offre sicurezze. E sono stati gli altri, senza
togliersi né giacca e né cravatta, ad obbedire ai
poteri di ciò che è stata definita democrazia. Siamo
stati rivoluzionari al punto tale di essere stati
rivoluzionati.
Cominciare una
nuova battaglia? Io, amico mio, sono in un diverso
viaggio e non mi interessano più i carri armati, i
mercati delle borse e delle monete impazzite.
Osservo con molto distacco la caduta del mondo
moderno e tutto ciò che mi passa accanto mi passa
soltanto accanto. Non ha alcun disamore.
Sono sempre
innamorato di ciò che mi stupisce e di ciò che mi
smarrisce. Perché mi affascina l’intelligenza. Mi
infastidiscono i conformismi, lo sai bene, e i
progressisti. Indago sui reazionari alla Prezzolini
e non smette di affascinarmi la consacrazione della
conversione di Papini.
Un giorno tu mi
hai chiesto quali dei personaggi letterari, veri o
legati alla fantasia, ha lasciato in me un segno
incancellabile. E poi hai aggiunto quale scrittore o
quale poeta ti ha formato? E ancora mi hai domandato
quale libro non vorresti dimenticare. Belle domande,
amico mio, rischiose e capziose. Sai che per me il
rischio è stato sempre un cavallo di corsa vincente
e forse anche per questo mi hai posto davanti a
delle scelte. Chissà perché la mia vita ha sempre
indicato delle scelte? Lo sciamano, al quale sono
legato, mi avrebbe detto: rispondi sempre alle
domande ma devi non dimenticare che il silenzio è
peggio di una risposta violenta.
Ci sono domande
che chiedono il silenzio con una ulteriore domanda e
risposte che vanno date senza pensare che siano
risposte. E allora, caro amico ti scrivo e ti
rispondo. Molti fatti della mia vita sono legati al
mio essere ribelle e religiosamente terrorista.
Molti avvenimenti sono stati il susseguirsi di
impazzimenti che mi hanno dato l’allegria.
Molte sconfitte
sono il risultato di tantissime vittorie che ho
cercato di scordare o di ignorare. Se rischio posso
anche vincere. Ma se non rischio sono un perdente.
Se amo Cristo è perché lo considero uno sconfitto
nella sua dignità e nobiltà ed ha sempre rischiato
e giocato a carte scoperte come con Maria Maddalena.
Il personaggio che
ho amato di più? Potrei dirti Lucia del Manzoni?
Teresa del Foscolo? Concia di Pavese? Lucia mi
intristisce e mi scava ferite di angoscia come il
suo Renzo. Personaggi che mi infastidiscono perché
non hanno saputo capire e accettare la tragedia. Ma
quando mai Manzoni è stato tragico. È stato sempre
ridicolo, anche nelle sue conversioni vere o finte.
Teresa è una
straordinaria immagine ma ha una sensualità
rassegnante che non vive in Jacopo sconfortato e
sconfortante. La rassegnazione non è nel mio
viaggio. Io sono come Sandokan o come l’ultimo degli
Apache. Ho la spada o il fucile sempre in posizione
giusta.
Concia? Bella e
selvaggia e poi mi riporta alla mia Calabria oltre
che al mio Pavese. Straordinaria donna amante dai
capelli neri che scivolano tra le mani. Un amore
passato e importante. Ci sono tanti altri che mi
hanno accompagnato come le lontane di Silvia e altre
finzioni tra pagine lette e dimenticate volutamente.
Ti voglio rispondere con certezza.
La mia vita
passata è stata scavata sia da Eva che da Zakimort.
Chi è Zakimort? È il personaggio di un fumetto
pubblicato tra il 1965 e il 1974. Chi si nascondeva
dietro Zakimort? Una bellissima bionda dal nome
Fedra Garland. Il resto lo puoi trovare su Internet.
Fascinosa, corpo da amplessi mediatici, sguardo
pungente nella sua tuta aderentissima.
Ed Eva? Non certo
l’amante di Adamo. Eva Kant. Ovvero la compagna del
grande e astuto Diabolik, il quale data la sua
uscita nel 1962 mentre Eva compare nel 1963. Da
occhi verdissimi salva il terribile uomo nero dalla
ghigliottina. Si presenta come la vedova di Lord
Kant. Eva. Un personaggio affascinante non solo per
la sua femminilità e dolcezza ma anche per il suo
verace coraggio. Resterà la compagna di Diabolik e
anche lei sarà la donna in nero con gli occhi sempre
puntati avanti. Chi scegliere tra le due? Forse,
anzi sicuramente Eva.
Mi sono innamorato
di Eva per la raffinatezza e la sensualità oltre che
per quel fascino del mistero che la caratterizzava
ma anche per la sua fedeltà e il suo saper restare
in ombra. Eccoti accontentato. Diabolik ed Eva mi
hanno formato. Che delusione, diranno i ben
pensanti.
Uno scrittore che
vanta la sua classicità e la sua forza in
letteratura intrecciata alla storia si è formato su
Diabolik? Signori miei è così. E sono felice.
Passiamo avanti. Quale poeta? Ti sono sincero. Chi
continua ad accompagnarmi non è Pavese, che è dentro
di me, e neppure Dante. Che ci faccio io con il
Dante della Commedia? Ironia? O sincerità?
Il poeta che nelle
notti mi sfriculiava l’anima è stato Gustavo
Adolfo Becquer.
Non ti dirò altro.
Un poeta spagnolo.
Poi sono venuti
gli altri. Quale libro non vorrei dimenticare? Ti
rispondo subito. Tu sai che sono di nobili origini e
di sicure letture mai imposte e che casa mia è stata
sempre una grande biblioteca per generazioni. Ma il
libro che non vorrei dimenticare è Capitan Miki. Chi
è? Lo sai bene. Un Ranger del Nevada che dialogava
con gli Indiani, il cui primo album in striscia uscì
nel 1951.
Alta formazione e
scuole ben definite. Gli accademici ora si
guarderanno bene ad invitarmi nei loro convegni. Ma
tu sai che io non mi sono mai sfottuto delle
apparenze perché continua a viaggiare sulla
bicicletta di mio padre e aspetto ancora che i rovi
fioriscano nel mio paese del vento sapendo che c’è
il mare nella mia anima e le conchiglie nelle mie
solitudini.
Tutto qui? No,
caro amico mio. Io sono nato in via Carmelitani, tu
sai bene chi sono i Carmelitani, e non mi piacciono
i giorni di sempre perché so essere altro altrimenti
accetto di essere niente e amo profondamente la mia
donna fino ad addormentarmi nel rosso del suo
meriggio augurandole sempre che il dio del sole
resti sempre in lei e con lei.
Ti ho segmentato
un po’ della mia storia cercando di darti delle
risposte. Se mi chiedi quale film abbia segnato la
mia vita, qui avrei dei tremori. Ci sono stagioni
che mi hanno avvicinato a film diversi ma quello che
è più vicino al mio inquieto e bello vivere è senza
alcun dubbio “La prima notte di quiete” nel quale
campeggia la straordinaria figura di Delon.
Ma perché siamo
giunti a queste considerazioni? Forse perché si
comincia a tracciare una linea lungo i colori
dell’orizzonte? Siamo in caduta libera, amico mio, e
non abbiamo paracaduti, e siamo consapevoli di poter
inciampare in qualche nuvola di passaggio perché
sono sempre più convinto con Paracelso che “Chi è
muto, è muto nel cuore, non nella lingua”. Perché
“come tu parli, così è il tuo cuore”.
Ed ora cosa dirti
di più. Non disprezzo nessuno. Non mi fanno paura
gli scoiattoli e neppure i coccodrilli.
La politica? È una
distanza incolmabile che separa il mio essere al mio
quotidiano. Sono nel mio deserto. I giudizi non mi
interessano e le porte aperte servono per sbattere
fuori qualcuno e non viceversa. Io vivo il mio
tempo. Altro non so dirti. Abbiamo vissuto i giorni
delle rivoluzioni senza rivoluzionare.
Ci siamo
rivoluzionati restando gattopardi. Viviamo la
tradizione trafiggendo il futuro. Gli accampamenti
sono in folla ma i pensieri sono un volo. Oltre non
vado. Resto con i miei libri da scrivere e con le
mie pazienze turbate. Ma ti consegno una
osservazione di un monaco del deserto che ho
ritrovato nei labirinti della mia memoria: “Il
monaco deve vivere in modo che giammai la sua
coscienza possa rimproverargli qualcosa”.
Io che amo il
deserto e il mare ho conservato questo pensiero, che
come il precedente è di Agatone, ovvero un Padre del
deserto, che dice: “Non mi sono mai addormentato con
un risentimento contro qualcuno e, per quanto ho
potuto, non ho mai lasciato che qualcuno si
addormentasse con un motivo di risentimento verso di
me”.
Ora basta.
Non mi chiedere
altro.
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pubblicato il 16 ottobre 2011
LA FESTA DELLA
REPUBBLICA NELL’AMBITO DELLE CELEBRAZIONI DEL 150°
DELL’UNITA’ NAZIONALE
“I personaggi
politici di San Basile nel Risorgimento”
di
Maria Cristina
Tamburi
Il due giugno è
una giornata di grande importanza perché è la festa
di tutti gli italiani; essa ci ricorda
l’appartenenza ad un unico Stato, che è una
repubblica democratica come sancisce la nostra
Costituzione. Dobbiamo quindi essere fieri e
orgogliosi di far parte di uno Stato che si fonda su
principi democratici ed egualitari come, appunto,
quelli che sono alla base della Costituzione della
Repubblica Italiana.
Tali principi sono
stati stilati dai nostri Padri Costituzionalisti ma
sono stati perseguiti e raggiunti grazie al
sacrificio e alle lotte di quanti, nei secoli
precedenti, hanno contribuito a fare dell’Italia uno
stato libero, unito e democratico.
Quando il due
giugno del 1946 con un referendum popolare gli
Italiani hanno potuto liberamente scegliere
attraverso il voto la forma di governo in cui
identificarsi, (il voto era a suffragio universale
ed era la prima volta per le donne), hanno optato a
maggioranza per la Repubblica, concretizzando così
il loro bisogno di libertà, di giustizia e di
democrazia che per secoli , come un sogno, avevano
costituito l’aspirazione delle precedenti
generazioni.
Perciò la festa
della Repubblica, nell’anno in cui si festeggiano i
150 dell’unità nazionale, acquista ancor maggior
significato, se inclusa in quel percorso che vede
compiersi finalmente gli ideali risorgimentali, e ci
ricorda l’assurdità di tante altre guerre che ne
seguirono.
Il percorso, per
il suo compimento, è stato lungo è faticoso; ha
incontrato molte asperità e diffidenze. I
combattenti italiani si sono scontrati tra
incomprensioni ed errori ma alla fine ha trionfato
il sentimento unitario, nella capacità di mettere
insieme la progettualità e trovare un denominatore
comune che è lo spirito democratico
nell’affermazione della sovranità popolare. Sono
queste le basi della nostra Costituzione, i cui
articoli sanciscono l’equilibrio tra diritti e
doveri e i cui principi sono informati
all’uguaglianza di tutti e alla possibilità di
tutti di partecipare alla vita democratica dello
stato . Si è giunti così al superamento di faziose
posizioni e divisioni e a collocare con grande
dignità il nostro paese nel contesto dell’ Europa e
nel mondo.
Nel periodo
preunitario l’Italia era definita soltanto
un’espressione geografica e
in ambito di
politica estera era poco considerata; la motivazione
era nella sua divisione interna e nella sua
incapacità a rigettare l’assoggettamento ai governi
stranieri.
Le menti più
illuminate avevano, già dalla metà del “700,
concepito ideali di libertà e di uguaglianza ma il
cammino perché essi si attuassero era lungo e
doveva passare prima attraverso il compimento
dell’unificazione interna.
Questa rimaneva
ancora un’utopia agli inizi dell’”800, perché
ragioni dinastiche contrapponevano, l’un l’altro, i
piccoli e medi stati italiani tra politiche
localistiche e ingerenze straniere .
C’era però, da più
parti, l’afflato a una patria comune, che potè
prendere corpo ed attuarsi solo quando si riuscì a
convogliare più interessi intorno a questa idea e a
modificare i rapporti di forza e gli equilibri
internazionali, sacrificando però altri programmi,
magari validissimi ma anacronistici per quel tempo,
quali quelli repubblicani e/o federalistici.
Il nostro Sud pagò
lo scotto maggiore, perché rimase fuori dei giochi
della grande politica e questo determinò la fine del
Regno delle Due Sicile e innescò l’avvio a due
differenti Italie .
Per quanto si
possa presentare gloriosa l’epopea garibaldina, per
aver promosso
tra il “59 e il
“60 la grandiosa e coinvolgente azione di
volontariato, è semplicistico pensare che il suo
lasciar fare non rientrasse in interessi più vasti,
ineluttabili, in quel momento, al piano unitario e
quindi ad inevitabili compromissioni e a strategie
politiche .
Le condizioni, che
nei decenni precedenti non erano apparse mature, sia
perché la difficoltà nella circolazione delle idee
impediva l’attuazione di un piano organico comune,
impossibile da coordinare fintanto che si lavorava
in sette segrete e cospirazioni, sia perché tra la
gente circolavano idee confuse e il popolo agiva
sotto la spinta di motivazioni immediate e di
bisogni concreti più che per astratti ideali, e
soprattutto perché tra i regnanti non era stato
possibile un accordo per la nascita di uno stato
unitario confederale, parvero ad un tratto propizie
quando si cominciò a decidere alla luce del sole.
Molto sangue era
stato sparso e i tentativi, per quanto eroici, si
erano mostrati infruttuosi e destinati
all’insuccesso: così per i moti del 21 e del 31, del
44 e del 47 . L’anno 1848 sembrò aprire nuovi
orizzonti. In quella stagione, passata alla storia
come “primavera dei popoli” in tutta Europa si
risvegliò lo spirito di fierezza dei popoli che
portò all’attuazione del Risorgimento, inteso come
consapevolezza dei popoli ad autodeterminarsi per la
conquista della libertà. L’esempio delle cinque
gloriose giornate di Milano (18-22 marzo) e subito
dopo di Brescia indussero il re di Sardegna a
prendere le redini del movimento per l’indipendenza.
E’ la fase del passaggio “dalla guerra di popolo
alla guerra regia”.
Dal governo
borbonico la circostanza non fu compresa e
l’opportunità di una politica di più ampio respiro
andò persa. Eppure Ferdinando II di Borbone non fu
un sovrano inetto: aveva saputo dare impulso
all’economia, la marina mercantile era, al tempo, la
più florida; erano sorti opifici e industrie in
campo tessile e siderurgico che davano lavoro a
molti operai, il bilancio dello stato era in attivo
e questo aveva permesso un impulso demografico. Il
re però, come tutti i sovrani borbonici, perseguiva
una politica assolutistica. Chiuso nel suo
conservatorismo paternalistico era convinto che
bastavano elargizioni e poche libertà per mantenere
i sudditi sottomessi.
Ebbe ad
accorgersi dei mutati tempi solo all’indomani
dell’insurrezione della Sicilia che combatteva in
nome del separatismo isolano. Così pensando di
prevenire un’analoga situazione nelle province
continentali all’inizio del 1848 il re promise la
Costituzione, che promulgò entro il mese di
febbraio. Molti condannati politici vennero
graziati, fu concessa una certa libertà alla stampa
con l’abolizione della censura preventiva, fu
allargato il diritto di voto abbassando il censo ma
poche prerogative erano lasciate al Parlamento,
mentre a corte dilagava la corruzione.
Non erano queste
le aspettative dei liberali e dei democratici che
non si accontentavano di semplici concessioni.
Intanto dal nord e dal centro d’Italia si preparava
la prima guerra d’Indipendenza ma re Ferdinando,
per non inimi-
carsi l’Austria,
alla cui politica repressiva era fortemente legato,
si limitò a inviare solo uno sparuto gruppo di
combattenti al comando del generale Guglielmo Pepe
ma che presto si affrettò a revocare.
Fu proprio in quel
frangente che la popolazione di Napoli insorse.
Era la mattina del
15 maggio e doveva esserci l’instaurazione del nuovo
Parlamento; la seduta slittò per un apparente
disguido amministrativo: invece di definire il
neonato parlamento con la dicitura di Parlamento del
Regno di Napoli e di Sicilia si continuava la
tradizionale dicitura delle Due Sicilie . Ciò che
volevasi far passare come banale cavillo nascondeva
una ben diversa sostanza legale: in effetti nulla
era cambiato e in realtà il sovrano continuava nella
sua politica precedente. La seduta parlamentare non
ci fu e Napoli fu occupata dalle barricate. Nella
città i disordini furono presto sedati con la
forza ma nelle province il popolo era già in
subbuglio.
I parlamentari
calabresi Domenico Mauro, Ricciardi e Valente nei
giorni immediatamente seguenti lasciarono Napoli e
tornarono in Calabria. Qui i fatti della capitale
avevano avuto ampia eco. Il giorno due giugno si
convenne di indire a Cosenza un Comitato di salute
pubblica per la sicurezza della Calabria. Fu chiesto
al re di far giungere in Calabria una delegazione
ministeriale per discutere sulle misure da prendere,
ma il sovrano, che intanto aveva revocato la
costituzione, proclamò lo stato di assedio, facendo
pervenire truppe armate al comando dei generali
Busacca e Nunziante.
La situazione in
pochi giorni prese un altro orientamento e degenerò
in una vera guerra. Castrovillari, sede di
distretto, era diventata il quartier generale delle
truppe borboniche. Contingenti partivano da tutti
i comuni viciniori per fronteggiare l’emergenza. Si
trattava di uomini equipaggiati alla menpeggio
mentre l’insurrezione si trasformava in una
deflagrazione generale, che dalla provincia di
Calabria Citra interessò presto anche le province di
Calabria Ultra
1 e 2 .
Il ceto degli
agrari locali non volle esporsi per non perdere i
vantaggi acquisiti con la quotizzazione delle terre
ma il popolo, nella sua variegata composizione, non
era più contenibile. Tutti i decurionati del
circondario mandarono contingenti ; particolarmente
numerosi quelli arberesch . San Basile mandò una
forza di ben 69 uomini.
Per oltre un mese
si combattè senza quartiere, spostandosi di volta in
volta dove il caso lo richiedeva. Era il forte,
disperato eroismo della gente del popolo contro un
re che aveva tradito le loro aspettative.
Nulla all’inizio
lasciava pensare che si potesse giungere a tanto. La
speranza di aiuto era riposta nei fratelli
siciliani. Quando sbarcò, coi suoi uomini, il
generale siciliano Ribotti, le cose invece di
migliorare peggiorarono. Nacquero incomprensioni e
diffidenze reciproche tra i comandi e quelle
postazioni che erano state duramente conquistate
furono perse. Eppure nelle gloriose giornate della
battaglia di Monte Sant’Angelo i valorosi volontari,
capeggiati da Domenico Mauro, poterono, risalendo da
Morano, accamparsi nel valico di Campotenese nel
intento di strozzare così la via ai borbonici. Altri
uomini combattevano più a sud. Incalzati dalle
truppe di Busacco, non ostante la valorosa
resistenza, furono costretti alla resa e a
ripiegare su Cassano e Spezzano Albanese.
Resistevano
strenuamente alle porte del Pollino, su più fronti,
i nostri uomini comandati da Costantino Bellizzi,
insieme a quelli di: Frascineto, Spezzano Albanese,
Cassano, Saracena, Lungro, Morano, Acquaformosa e
altri coraggiosamente coordinati da Domenico Mauro.
Erano sopraffatti dalle truppe congiunte di
Nunziante e Busacco, in una radura nei pressi di
Rotonda, male equipaggiati, come scrisse più volte
il Mauro a suo fratello Vincenzo( il carteggio e gli
atti sono consultabili presso l’archivio privato di
casa Mauro), nella vana attesa che gli pervenissero
mezzi e rinforzi.
Alla fine,
stremati anche dalla fame, poichè i regi avevano
bloccato la strada per Mormanno, isolando il paese
che fino a quel momento aveva fatto generosamente
pervenire forniture e viveri, ai primi giorni di
luglio i valorosi combattenti furono completamente
travolti e trucidati. I pochi che poterono salvarsi
si dettero alla macchia e tornati alle loro case,
alcuni presero la via per l’esilio, altri
aspettarono sconfitti e delusi l’esito del lungo
processo di massa. Con esso il governo borbonico
volle dare prova di forza, meritandosi per la
ferocia dei verdetti, l’ignominia e il biasimo delle
diplomazie straniere. Llord Gladstone, in una
lettera, definì la giustizia borbonica “la
negazione di Dio”.
Sebbene nessuna
condanna capitale fosse eseguita, le pene furono
pesantissime e si aprirono per i nostri eroici
volontari le porte dei più malsani carceri
borbonici, come la Vicaria, Castelnuovo, Santo
Stefano, Santa Maria Apparente e i bagni penali di
Nisida e di Procida. Per farsi un’idea di quali
sofferenze siano state inflitte si rimanda alla
lettura delle Rimembranze di Luigi
Settembrini, che molti di quei bravi calabresi ebbe
come compagni di cella e che ricorderà con grande
affetto, in particolare Gennaro Placco per “la dolce
cadenza arbresch”.
Si concludeva tra
il 1851 e il 1852, dopo un lungo, logorante
processo, la triste e valorosa esperienza di quanti
hanno combattuto per tracciare la via ad un’ Italia
unita, libera e indipendente , come quella che il
due giugno viene cebrata.
L’elenco dei
nostri concittadini, condannati con relativa
differente penale,
è il seguente :
Aronne Biagio,
Aronne Giovanni, Bellizzi Andrea di Costantino,
Bellizzi Andrea
di Luigi, Bellizzi
Angelo, Bellizzi Arcangelo, Bellizzi D. Costantino,
Bellizzi
Filippo, Bellizzi
Francesco di Leopoldo, Bellizzi Francesco di
Vincenzo, Bellizzi Gabriele, Bellizzi Gennaro,
Bellizzi Ludovico, Bellizzi Michele, Bellizzi
Pietro, Bellizzi P.
Vincenzo, Bellizzi Gravina Luigi, Bellizzi Scafuzzo
Francesco, Bellusci Angelo, Bellusci
Francescantonio, Bellusci Pietro, Conte Domenico, De
Majio Giov. Andrea, Di Franco Francesco, Ferrara
Francesco, Ferrara Gennaro, Ferraro Vincenzo, Frega
Abramo, Frega Giuseppe, Frega Nicola, FregaRaffaele,
Gravina Luigi, Leone Ferdinando, Marcovicchio
Costantino, Moliterno Andrea, Paladino Vincenzo,
Perrone Giovanni, Perrone Vincenzo, Pugliese
Achille, Pugliese Angelo, Pugliese Arcangelo,
Pugliese Domenico, Pugliese Francescantonio,
Pugliese Gennaro, Pugliese Marzio, Pugliese Nicola,
Pugliese Pietro, Pugliese Vincenzo, Quartaruolo
Angelo, Quartaruolo Antonio, Quartaruolo Domenico di
Gennaro, Quartaruolo Domenico di Vincenzo, Rizzo
Gaetano, Sisca Carminantonio, Tamburi
Ambrosio,Tamburi Arcangelo,Tamburi Domenico,Tamburi
Domenico di Andrea,Tamburi D. Fedele di Pietro,
Tamburi Federico, Tamburi Francesco, Tamburi
Gennaro, Tamburi D. Giuseppe, Tamburi Michele,
Tamburi D. vincenzo,Tamburi Vincenzo di Ambrosio,
Tamburi Vincenzo di Luigi, Tarantini Antonio,
Vigilante Giuseppe.
Ben 69 uomini, tra
i quali i più pesantemente colpiti furono :
Costantino
Bellizzi, medico di anni 32,
Vincenzo Bellizzi,
sacerdote di anni 34 e Giovanni Andrea Di Maio, “
bracciale”
di anni 31.
La sentenza
emessa il 3-12-1851 dalla gran Corte Speciale di
Cosenza era di
reato di
cospirazione e partecipazione a banda armata, allo
scopo di
voler “cangiare”
la forma di governo , secondo gli atti depositati
presso l’ASC
fondo processi
politici.
Costantino
Bellizzi ebbe la condanna a 25 anni di reclusione ai
ferri. Il
15 dicembre fu
tradotto nelle carceri di Nisida e da lì trasferito
al bagno penale
di Procida, dove
morì, dopo qualche anno, il 19 aprile 1853 .
A Procida ebbe
modo di condividere la pesante pena con il Sig.
Leone Ricca
da Saracena, che
con le sue lettere fornisce chiare informazioni su
come
si svolgeva la
vita nel bagno penale, per i condannati ai ferri,
costretti a
mille stenti e a
lavorare, con i ceppi ai piedi per 24 ore.
(Leone Ricca, di
tempra più forte, riuscì a resistere. Riconquistata
la libertà ,
prese parte
all’allestimento della guardia nazionale, mentre il
figlio Giovan Battista, prese parte ai moti
garibaldini, combattè al Volturno e nel 66 alla
terza guerra d’Indipendenza), Costantino Bellizzi,
sopraffatto dai patimenti, logorato nel fisico e
nello spirito, moriva, come tanti altri patrioti,
senza vedere attuato i grandi ideali
dell’unità e
libertà dell’Italia.
Poco dopo moriva,
di crepacuore, anche suo padre Gabriele Bellizzi,
che tanto lustro aveva dato a San Basile, nel suo
incarico di sindaco negli anni 1844, 45 e 46; la
madre, donna Elena Tamburi gli sopravvisse nella
pena quotidiana dello straziante ricordo.
Per quanto
conclusasi tristemente questa pagina del
Risorgimento Italiano, vale la pena di ricordarla,
per comprendere che il Sud e la nostra area del
Pollino, non furono indifferenti al vento di libertà
che portò all’indipendenza e all’unità d’Italia e
che i suoi uomini non furono figure marginali nel
panorama politico di quegli anni.
A tutti loro la
nostra doverosa riconoscenza, nella speranza che il
loro nome e la loro impresa, per molto tempo
ignorati dalla storiografia ufficiale, abbiano una
degna memoria.
E’ il caso di
ricordare, con Foscolo, che :
A grandi cose
il nobil animo
accendono
l’urne dei
forti
e bella e santa
fanno al peregrin
la terra che le
ricetta…
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pubblicato il 2 agosto 2011
La Calabria e il
Risorgimento -
Premio
Pizzo - Diana Musolino - 57° Edizione -
Sabato 30 luglio 2011
Relazione del prof. Egidio Chiarella
Ufficio
Legislativo - Ministero Istruzione
Rivolgo alle signore e ai signori , presenti
stasera così numerosi, assieme a tanti giovani
studenti, un saluto cordiale e sincero, ma ritengo,
prima di esprimere delle veloci impressioni
personali sul lavoro di ricerca storica, relativo al
risorgimento calabrese, svolto all’interno
dell’Istituto Magistrale “ Campanella” di Lamezia
Terme, debba ringraziare e salutare l’associazione
che da 57 anni organizza il Premio – Pizzo, oggi
intitolato alla sua fondatrice Diana Musolino,
perché stasera ci offre l’occasione di vivere una
serata di alta qualità culturale, come lo è nella
sua tradizione.
Un saluto al presidente del comitato
organizzatore, prof. ssa Maria Angela Parini e,
consentitemi, ad Ercole Mercuri, Elio per
gli amici, ma soprattutto medico impegnato
culturalmente che ha voluto, assieme al comitato,
che io presentassi il testo scelto dagli
organizzatori, nella sezione letteraria del premio,
curato dalle professoresse lametine Franca
Sinopoli e Gina Scuglia, che assieme a un
folto gruppo di studenti dell’Istituto Magistrale
“Campanella” delle classi III – IV – V B,
supportate dal preside Martello, hanno analizzato
il particolare periodo storico-risorgimentale
calabrese, servendosi, tra l’altro, anche di testi
e fonti che sono appartenuti a Diana Musolino,
forniti dallo stesso dott. Mercuri.
Lo hanno fatto con professionalità, amore per
la ricerca, capacità di osservazione e con un
linguaggio duttile, scorrevole, appropriato, che
invita alla piacevole lettura, nonostante la materia
in questione si presenti, per ovvie ragioni, campo
di studio particolare e non di solo stretta
narrazione. Un lavoro che soprattutto ha il merito,
come si sottolinea nelle motivazioni che stanno alla
base della sua scelta in questo premio, di aver
remato contro corrente in un mare pieno di ostacoli
nel stabilire la verità sul contributo e sui
sacrifici dei calabresi durante il periodo del
risorgimento nel nostro Paese.
Una serata speciale quindi, perché unica e
speciale è stata, è e sarà la persona, primo sindaco
donna della Calabria, a cui s’ispira questa
manifestazione. A Lei l’Applauso della Calabria
positiva riunita qui stasera.
Il lavoro delle mie colleghe Franca Sinopoli
e Gina Scuglia, supportate dai ragazzi che le
hanno accompagnate in questo percorso culturale, è
un dono prezioso nell’anno in cui festeggiamo i 150
anni dell’Unità D’Italia. Ma soprattutto esso
rappresenta un atto di giustizia nei confronti di
questo nostro territorio, che tra Lamezia,
Catanzaro e Vibo, ha dato il suo grande
contributo al risorgimento italiano, come è stato
chiaramente e ampiamente dimostrato, anche nelle
altre province della nostra regione.
La Calabria purtroppo è assente nei libri di
storia, ma stasera esce allo scoperto in un
libro ricco di citazioni e documenti riconducibili
ad un passato da rivalutare, applicati al metodo
rigoroso della ricerca storica. I passaggi come
scrive il comitato del premio ci sono tutti:
ricerca, analisi, deduzione, elaborazione del
prodotto, accertamento della verità.
Tutto questo è stato possibile perché, a mio
avviso, il materiale riscontrato sul nostro
territorio ha radici accertati in luoghi, fatti,
personaggi, vicende, avvenimenti, che sono reali
testimoni di quanto la Calabria, abbia dato il
suo contributo di sangue, di cultura, di rischio, di
convinzione storica, di ricchezza materiale per
partecipare ad una stagione sociale aperta alle
prime luci libertarie, che dalla Francia si
affacciavano sul nostro paese. Una regione, la
nostra, anche strutturalmente coerente, checché se
ne dica sul servilismo delle popolazioni calabresi
verso il padrone di turno, con uno spirito
risorgimentale che se anche silente, ha sempre
attraversato le vene e la mente dei suoi
abitanti.
C’è da dire infatti, che i nostri conterranei
per troppo tempo sono stati vessati e privati dagli
elementi principali di sostentamento, che a volte
accecano la voce della rivoluzione che alberga
nell’animo dell’uomo, ritardandola forse, ma non
eliminandola.
Gli autori dell’opera premiata fanno
ruotare le informazioni e la ricerca accurata
attorno a tre spazi storico - letterari, ben
dettagliati e articolati, riconducibili
rispettivamente, seguendo la sua struttura:
1)
all’introduzione, alle poesie, alle
battaglie;
2)
ai documenti relativi alla spedizione dei
mille in Calabria, ai processi, ai fondi giudiziari,
alle biografie dei più noti uomini del risorgimento
sul nostro territorio;
3)
agli approfondimenti, con la sintesi
storica, il ruolo della massoneria e della
carboneria calabresi ed il ruolo delle minoranze
linguistiche in questo particolare risveglio
storico, sociale e civile, compresa una ricca e
appropriata bibliografia.
Un lavoro completo che ha il merito,
care professoresse Scuglia e Sinopoli, cari ragazzi
di III, IV, V B e caro preside prof. Martello, e per
questo vi ringraziamo a nome dei calabresi, di
contribuire a snidare coloro che hanno sempre
nascosto la verità su questo argomento che è
centrale nella storia del nostro Paese, accendendo
una luce su un percorso che mi auguro possa
continuare nelle sedi universitarie e nei cenacoli
culturali più autorevoli della regione, con l’aiuto
delle istituzioni regionali e nazionali, che
dovrebbero investire più fondi sui progetti di
studio e di ricerca che, come quello premiato
stasera, mirino a ridare alla nostra terra il ruolo,
che la storia ufficiale tante volte, come in questo
caso, non ha voluto riconoscerci.
L’Italia ha vissuto il suo grande
risorgimento, poi tradito da chi aveva il compito di
rivalutare il meridione e la Calabria, proprio
perché nel Mezzogiorno e nelle nostre comunità in
particolare è maturato un apporto indispensabile,
centrale, meritevole sicuramente di comparire nei
testi ufficiali che affollano le biblioteche e le
aule scolastiche della Nazione.
Tra i capitoli del primo spazio storico
–culturale del libro voglio indicarvi dei
capitoli avvincenti, quali quelli relativi alla
battaglia di Maida nel 1806; alla preparazione dei
moti rivoluzionari del 1847; alla battaglia
dell’Angitola, a due passi da dove parliamo stasera;
alla spedizione dei mille in Calabria, con la
battaglia di Soveria Mannelli e la sfilata delle
truppe garibaldine a Catanzaro: famoso il telegramma
di Garibaldi che annunciava il trionfo, forse
insperato, che lo portava ormai verso Napoli, con i
Borboni ormai completamente allo sbando: “ Dite
al mondo che con i miei bravi calabresi ho fatto
deporre le armi a 10.000 uomini”.
Nel secondo spazio espositivo del lavoro
premiato ci inoltriamo in una interessante
rassegna di documenti relativi ai processi che
diventano una prova evidente per il meridione e la
Calabria nella ribellione contro il regno borbonico,
che sta alla base della buona riuscita della
campagna bellica garibaldina nella nostra regione.
Per la sola Calabria si parla di oltre 8.000 anni di
condanna. Nel libro viene ricordato il processo a
carico di 16 imputati del comprensorio nicastrese,
per avvenimenti successivi al 15 maggio del 1848,
grazie alla collaborazione dell’archivio di Stato di
Lamezia Terme. Le condanne furono pesanti.
In questa sezione del libro primeggiano
una serie di biografie di uomini illustri calabresi
del tempo risorgimentale. Ne cito velocemente
qualcuno: Giovanni Nicotera di Sambiase in
Lamezia Terme, Ministro degli interni nel primo
governo Depretis, nipote dal lato materno di
Benedetto e Pasquale Musolino, illustri patrioti
di Pizzo. Francesco Fiorentino, sempre di
Sambiase, filosofo e deputato nel 1870, sostenitore
dell’annessione e del progetto risorgimentale, verso
l’unità d’Italia. Benedetto Musolino di Pizzo,
deputato, liberale e antiborbonico, fondatore
dei Figlioli della Giovane Italia, fu in carcere per
oltre tre anni e anche quando, liberato, fu messo
sotto sorveglianza durante la residenza nella sua
città, continuò assieme a Giovanni Nicotera a
preparare la rivoluzione del 1848.
Francesco Stocco e Felice Sacchi di
Nicastro, Gaetano Boca di Maida, Giovanni
Maria Cataldi,Giuseppe Maione e Orazio Scalfaro
di Sambiase, Antonio Toja e Antonio Miceli di
Gizzeria.
Nel terzo ed ultimo spazio del
testo troviamo invece degli interessanti
approfondimenti documentati, che dimostrano il
rigore scientifico degli autori e la loro seria
ricerca storica, anche in campo nazionale,
attraverso fenomeni come quelli legati alla
questione contadina; al contrasto
città-campagna; alla Massoneria e alla
carboneria in Calabria. La prima associazione
segreta, nel suo concetto di universalità, come
mente sempre attiva ed eterna, verso il
rafforzamento del sentimento di Patria e di libertà,
la seconda come braccio operativo nella difesa ad
oltranza di questi sacri principi.
Finisco questa mia riflessione citando
un articolo del corriere della sera del 29 maggio
2010 a cura dell’antropologo Vito Teti, mio
professore di tesi, assieme al Prof. Luigi Lombardi
Satriani, entrambi studiosi molto stimati in
Calabria e nel resto del Paese e figli di questa
terra vibonese, che ci ospita stasera.
Il docente universitario sottolinea in
questo articolo, come viene fatto nel volume
dell’Istituto magistrale “Campanella”, come nei
libri di storia il contributo della nostra regione
al risorgimento è quasi esclusivamente legato alla
spedizione di Attilio ed Emilio Bandiera. Ne
sviluppa poi una serie di episodi significativi
ignorati dalla storia ufficiale e finisce con una
riflessione che penso sta interamente nella
filosofia del lavoro premiato stasera.
I tanti calabresi che parteciperanno
alla spedizione dei Mille sposeranno la causa dell'
Italia unita, avranno sempre presente il sacrificio
di questi eroi fondatori. Il giovane Stato non
avrebbe mai riconosciuto questi martiri, che, di
fatto, non trovano posto nell' album risorgimentale
dei Pietro Micca, Ciro Menotti, Enrico Toti.
L'oblio è la conseguenza del «tradimento» del
Risorgimento meridionale. Ben presto quanti
avrebbero posto il problema della terra e di nuovi
rapporti sociali, sarebbero stati trattati,
combattuti, uccisi come briganti.
Lo studioso Calabrese sottolinea un
paradosso storico, che emerge anche nella ricerca
delle prof.sse Sinopoli e Scuglia, evidente nel
fatto che oggi sono gli eredi di quei martiri, dei
contadini, degli emigrati, cacciati, uccisi,
espropriati, a sostenere e a difendere le ragioni di
una Italia Unita, mentre gli eredi di quanto hanno
costruito le loro fortune sul sangue dei meridionali
sognano la divisione. Forse è da qui che dobbiamo
ripartire, anche per non autoassolverci e per non
dimenticare i tanti limiti e responsabilità dei
gruppi dirigenti meridionali.
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pubblicato il 18 aprile 2011
VITA E PENSIERO DI CARLO DE CARDONA
di Francesco De
Cunto
[...]
L'Italia sta attraversando un'epoca triste e
squallida, in cui ci siamo abituati, senza
più scandalizzarci, a vedere i nostri governanti
vivere per conquistare il potere al fine
di trarne vantaggi
personali.
Un'epoca in cui la politica è morta, perché si dà
per scontato che non debbano
esistere valori che la sottendano, perché è morto il
"progetto", perché è scomparsa
l'utopia e
la speranza arretra e si arrende.
Ci stiamo ormai persuadendo che la politica altro
non debba essere che la serva di un
potere
senza principi.
Ci auguriamo che Carlo De Cardona, con la sua
testimonianza, la sua opera e con
l'intera sua vita offerta all'elevazione sociale e
soprattutto morale delle nostre
popolazioni mediante l'organizzazione, la
cooperazione, sia uno stimolo perché la
politica possa costituire la leva della risalita
dalla deriva civile e morale del presente,
verso una
piena e coraggiosa responsabilità.
Responsabilità di decidere, di rispondere a se
stessi e agli altri della propria libertà, di
fondare su di essa e sull'uso vigile che se ne fa,
una nuova e condivisa morale
sociale.
Don Carlo De Cardona nasceva a Morano, da una
famiglia benestante, nel 1871.
Subito dopo l'ordinazione sacerdotale venne chiamato
dall'Arcivescovo di Cosenza,
Mons. Camillo Sorgente, come suo segretario
particolare, con l'intento palese di
suscitare
in Cosenza il movimento cattolico sociale.
Uomo di fervidissima spiritualità e di indomita
fede, Don Carlo, sebbene nutrisse in
cuor suo
tutt'altre aspirazioni, obbedì.
Da quel momento, in una Cosenza in cui la situazione
religiosa
era piuttosto semplice
e deprimente, senza una sola organizzazione
cattolica e con il dominio della
massoneria nella vita civile, conscio dello stato di
arretratezza culturale, sociale ed
economica
del Mezzogiorno, si impegnò, con tutte le forze, che
erano tante, per
ricercare e contrastare le cause di questa
arretratezza, impegnandosi nel movimento
sindacale cattolico, ispirando le prime leghe del
lavoro e quindi istituendo e
diffondendo su
tutto il territorio regionale le cooperative di
credito.
La fondazione della prima Cassa Rurale in Calabria,
nel 1901, è salutata dallo stesso
De Cardona come una catapulta contro l'usura, pur
nel suo minuscolo capitale... e,
proseguendo, ..."è ancora un'altra cosa molto più
importante: è una prima cellula
vivente nella massa amorfa e quasi inerte (almeno
rispetto alla società) dei volghi
campagnoli. Un mezzo sempre più forte e quindi più
atto a soddisfare bisogni, non
personali soltanto.
I piccoli e felici esperimenti accrescono la fiducia
dei compagni e
insieme il sentimento di una forza che non avrebbero
se fossero divisi, che hanno
perché uniti e d'accordo: ringagliardita così la
coscienza di classe, nasce in quei petti, ricchi di
intatte e fresche energie, lo slancio verso più alte
e degne mete di
progresso civile".
E' il principio di quello che si sarebbe chiamato il
Classismo Pedagogico
Decardoniano.
Poco prima dell'avvento del Fascismo queste banche
per i poveri e dei poveri sono
circa 200 dislocate su tutto il territorio regionale
e se ne trovano perfino in paesini
sperduti o in frazioni di paese. Con la finalità di
educare il popolo alla politica, De
Cardona promosse la formazione e la diffusione di
vari giornali, su cui si dibattevano
i problemi dell'emigrazione, dei bambini sfruttati,
dell'emancipazione della donna,
del clientelismo,
dei poteri occulti, dello sviluppo della Calabria e
del Mezzogiorno.
De Cardona non si stancò mai di invitare i
lavoratori ad imparare a leggere, a
scrivere, a istruirsi, ad educarsi, ad acquistare lo
spirito di risparmio, di pace e di
giustizia, nonché ad organizzarsi seriamente "
perché l'organizzazione"- diceva – "è il
segreto della
vittoria nelle battaglie del lavoro."
Per dare forza, coerenza, senso pratico e
credibilità alla sua azione sociale, partecipò
alla vita amministrativa impegnato come consigliere
comunale e provinciale,
incontrandosi, sul comune terreno dell'emancipazione
sociale, con il capo dei
socialisti cosentini, Pasquale Rossi, con il quale
peraltro non mancò di polemizzare
anche aspramente.
La costruzione, con il sostegno finanziario delle
sue Casse Rurali, di due centrali
elettriche metteva in evidenza le sue capacità
realizzatrici e dimostrava praticamente
le possibilità aperte dalla raccolta e dall'impiego
dei risparmi dei lavoratori e la bontà
della politica di
utilizzazione delle energie naturali e umane del
luogo.
Ma la sua frenetica attività dava fastidio ai
fascisti locali e quindi la sua Cassa Rurale
Federativa fu fatta fallire: Don Carlo conobbe
allora la strada dell'esilio -alternativa
al confino che gli sarebbe toccato- e, dopo aver
passato l'ultimo periodo della sua vita
in numerosi trasferimenti tra la Calabria, l'Umbria
e Roma, moriva solo, malato,
povero, ospite
nella casa del fratello Nicola, a Morano il 10 Marzo
del 1958.
Ci separa quasi un secolo, il XX secolo, un secolo "
non breve ", dalle intuizioni che
diedero corpo all'opera di Carlo De Cardona, ci
separa da lui, per restare solo
nell'ambito del
mondo cattolico, il Concilio Ecumenico Vaticano II.
La sua opera va, con rigore, letta nel contesto del
periodo a cavallo tra i due secoli
precedenti.
Carlo De Cardona è
indubbiamente un uomo del suo tempo.
Ciò tuttavia, in più di un passaggio aleggia nei
suoi scritti uno spirito, mi consentite,
profetico e sembra che Carlo De Cardona, parlando ai
contadini calabresi suoi
contemporanei, si rivolga a noi e all'Italia di
questi ultimissimi mesi, alzando il dito
accusatore, ma anche sostenendo il nostro cammino in
un tempo di grandi insicurezze
e insieme di
grandi possibilità.
All'uopo vorrei proporre solo qualche passo tratto
dai suoi scritti, lasciando ad
ognuno di noi
riflessioni e commenti sulla loro attualità.
"L'operaio che lavora, scriveva De Cardona nel 1909,
non è il bue che trascina sui
campi l'aratro, contento di una scorpacciata di
fieno, non è lo schiavo, strumento
cieco nelle mani del padrone che ne sfrutta i sudori
e le vigorose energie; l'operaio è
il divino falegname di Nazareth, che il lavoro
santifica con la preghiera "e poi" al
lavoro va solennemente, innanzi alla storia,
rivendicata la dignità e l'importanza del
fattore umano nel progresso della civiltà....il
liberismo, nell'operaio, non vede che
una macchina e, purtroppo, non sempre, la migliore
delle macchine: nel lavoro non
riconosce che una mercanzia da valutarsi,
semplicemente, alla stregua della
produzione e della ricchezza. Il liberismo ha
gettato l'operaio e il suo lavoro sul
mercato mondiale come una merce qualunque alla balia
della cupidigia e della più
sfrenata
concorrenza".
E sempre a proposito di lavoro: "Nel paganesimo
lavorare voleva dire servire, cioè
sacrificarsi nell'interesse e secondo la volontà di
altri, che erano i padroni. Nel
Cristianesimo lavorare voleva dire liberarsi. Oggi
la questione è qui: in che modo e
fino a che punto il lavoratore, perchè sia veramente
libero, avrà il possesso degli
strumenti del suo
lavoro: la macchina, il danaro, la terra."
E cambiando tema: "un popolo corrotto è come un
albero fradicio, buono soltanto a
sostenere le erbe che gli si arrampicano intorno al
tronco e sui rami secchi. A un
popolo dedito al male si mette facilmente la catena
del servaggio, come ad un cane si
mette guinzaglio.
Le idee di libertà, di giustizia, di progresso non
sono intese, o sono fraintese, dai lavoratori che
hanno l'animo abbrutito dal vizio."
E ancora "Ora è inutile e indecoroso che i
lavoratori aspettino l'elemosina di un po'
di aiuto dalle sovrastanti classi borghesi: bisogna
che facciano da sé; ...occorre che
mettendo insieme i loro piccoli risparmi creino un
capitale collettivo, il quale servirà
loro di mezzo per aiutarsi in caso di infermità, per
aprire scuole, per non lasciarsi
opprimere dal fisco e dall'usura, per essere forti e
liberi e capaci, all'uopo, di dettar la
legge a chi finora
ha creduto di manomettere impunemente la giustizia."
E quindi "Abbattere la tirannia dei potenti che
vogliono governare anche sulla
coscienza dei
deboli e degli oppressi è il nostro impegno".
E a proposito della Calabria e del Mezzogiorno: “Il
nostro risorgimento è legato,
come per le altre regioni d'Italia, non ai vari
lamenti e alla passiva accettazione di
aiuti dal potere
centrale, ma ai generosi sacrifici che vorremo e
sapremo fare".
E in un’altra occasione: "Accrescere poco a poco,
anno per anno, la ricchezza della
Calabria, ecco il
nostro sogno, e non solo la ricchezza materiale, ma
la ricchezza morale, ma la ricchezza civile, la
ricchezza d'animo, lo spirito del bene, la luce del
pensiero."
E ancora: "Non ci può essere una grande Italia,
finché c'è una Calabria misera e
negletta"
E sulla scuola:
"Non vogliamo come si fa oggi la scuola che coltiva
e sviluppa
semplicemente l'intelligenza, trascurando
completamente la vita morale del fanciullo."
E alla vigilia
della I guerra mondiale: “Il nemico vero oggi non è
l'Austria, non è la Germania, non è la Russia o
l'Inghilterra: il nemico vero d'Italia oggi è ...la
paura.".
E concludo con
un'esortazione che De Cardona rivolgeva ai suoi
contadini perché trovassero nell'organizzazione e
nella cooperazione le motivazioni per superare le
angosce, le
difficoltà e la miseria del momento: "Forti, perché
uniti, liberi, perché forti": ecco l'ideale
delle nostre organizzazioni. Non vi fate ingannare,
o amici. Non
credete alle maligne bugie di coloro che ci vogliono
servi, e perciò disuniti."
Si è già detto che
obiettivo principale del circolo è quello di
diffondere la cultura e i
valori fondanti
della nostra Carta Costituzionale, a nostro parere
presupposto
indispensabile
per la formazione di un unico e forte soggetto
politico, l'Ulivo, ove
partiti,
organizzazioni, movimenti, singole personalità dalle
diverse tradizioni, affrontino, uniti, e nel
rispetto delle varie ispirazioni e motivazioni, le
sfide che ci attendono.
"Forti, perché
uniti, liberi, perché forti." Può' essere un buon
viatico.
(dal Discorso introduttivo della presentazione del
circolo culturale: "Carlo De Cardona" –
Castrovillari
15/12/2001)
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