Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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Editoriali, recensioni e articoli di cultura, società, costume


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 pubblicato il 27 Gennaio 2013

IL PARCO ARCHEOLOGICO DI SIBARI

sommerso dall'acqua e dal fango

 

di Maria Zanoni

 

Gli scavi di Sibari, tesoro archeologico, storico, culturale  inestimabile della Magna Graecia viene sommerso dall'acqua e dal fango il 18 gennaio scorso, per lo straripamento del fiume Crati.

Il Parco Archeologico di Sibari comincia a riaffiorare dall'acqua, dopo gli interventi con le idrovore (in una foto del 27 gennaio 2013).

 

I danni saranno ingenti, non quantificabili, nonostante gli interventi con mezzi meccanici ed idrovore, per prosciugare l'acqua ed il fango che hanno ingoiato l'antica Sybaris.

 Il Parco del Cavallo, quello Strombi o dei Tori, la Casa Bianca, l’area di Oasi, le fontane monumentali, il teatro con la parte semicircolare dell’orchestra, gli ordini della cavea, l’impianto termale del I secolo d. C. le tabernae, le domus con i sontuosi marmi, i preziosi mosaici sono completamente in preda alle acque ed al fango.

Le vestigia dell'antica città, fondata nel VI° secolo a. C. da coloni greci alla foce del fiume Sybar, da cui prese il nome, e che in breve tempo divenne ricca e s'ingrandì fino ad arrivare a 300 mila abitanti, che vivevano nel lusso sfrenato, nell'eleganza della vita mondana, sono seriamente compromesse.

Poche e piccole pompe idrovore sono utilizzate per tirare fuori l’immensa massa d’acqua alimentata non solo dai fenomeni atmosferici, ma anche dal fenomeno della "subsidenza", in quanto da anni gli studi dell'ENEA hanno assodato che  la Piana di Sibari sta scivolando verso il basso di quasi 3 millimetri l’anno. Per questo è incredibile che il fiume Crati possa straripare nella generale indifferenza e lungo i suoi argini siano presenti rigogliosi agrumeti.

 

Le drammatiche condizioni degli scavi archeologici, dunque, hanno spinto un gruppo di intellettuali a sottoscrivere un appello al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, al Ministro della Cultura e a tutti gli Enti competenti, per salvare il patrimonio culturale dell'area, uno dei più importanti della Calabria, dell’Italia e di tutta l’umanità.

I soci del Centro D'Arte e Cultura 26 hanno aderito all'iniziativa, promossa dal Il Quotidiano della Calabria, SALVIAMO SIBARI.

Il Parco Archeologico di Sibari completamente sommerso dalle acque, per l'esondazione del fiume Crati (in una foto del 22 gennaio 2013)

 

Il Parco Archeologico di Sibari in una foto del 2005

Ph Maria Zanoni

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pubblicato il 27 Luglio 2012

A Los Angeles  con  Marilyn Monroe a 50 anni dalla sua misteriosa morte e… una  goccia di Chanel n. 5 sulla pelle

  

di Pierfranco Bruni

 

Los Angeles. È il mese di agosto. Una città tra le più importanti in una California immensa che ha connotati italo – spagnoli.  Luoghi molto catalani. E la sua storia racconta simboli di una lingua che ha la Spagna nel cuore. La prima cosa che mi chiedono, prima di entrare nel mio albergo, è se desidero visitare i luoghi del mito di Marilyn. Sono un po’ distratto. Sapevo di entrare nella città del mito ma non pensavo che la mia interprete avesse questa velocità.

Giungo a Los Angeles quasi frastornato. Cambiamenti di orari, turbolenze lungo la rotta, confuso e con gli orecchi che sembrano aver subito un tuffo nell’Oceano. Dico subito: “Certo, sono qui proprio per lei ma ho bisogno di cambiarmi d’abito. Marilyn non avrebbe gradito un ospite vestito senza eleganza. Datemi il tempo di indossare il mio vestito di lino bianco con la camicia verde e poi si parte e a domani pensiamo domani…”. Così siamo tutti contenti.  

Qui è nata e morta Marilyn Monroe. Era nata il 1 giugno del 1926. era un anno più grande di mia madre. Un mito nell’attraversamento delle notti immaginate alla ricerca di un sogno. E Marilyn è stato un sogno. Nel velo della sua gonna bianca alzata dal vento in eros tutto tuffato in una seduzione capricciosa. Amava e moriva nel caldo torrido di una città che ha finestre aperte sui mediterranei. Ma sì.

Los Angeles non poteva che essere la città di Marilyn. La bionda mediterranea che si è fatta seppellire con la parrucca bionda che portava nel film Gli spostati e vestita con un abitino verde. Il biondo e il verde. Il sole e il mare. Avevo sette anni quando morì Marilyn Monroe.

 

Eppure ho un ricordo molto lieve. Me la ricordo nelle foto in bianco e nero dei settimanali che non mancavano mai in casa mia. Le prime pagine “sparate” con le immagini che riportano scene dei suoi film. La bellezza che si faceva seduzione. Sì, perché può esserci anche una bellezza che ha la sua sobrietà da statua. Ma Marilyn portava una bellezza sconvolgente. Marilyn era l’attrazione.

Sono trascorse stagioni e gli anni hanno consumato persino le rughe ma il fascino dei ricordi dentro il mistero restano a solcare ancora una leggenda. Meglio così. Era una estate di tanti anni fa e c'era un forte caldo. Allora come ora. La bella dai capelli biondi e dagli occhi penetranti. Il vento tra i suoi capelli e capelli come radici intrecciate nella terra. Chiedeva amore ma l'amore era un incubo. Un sogno vissuto sotto la luna. Una luna sul mare e le vele lontane in un viaggio senza attese.

Forse Marilyn non ha mai atteso. L’attesa non era dentro la sua vita. È morta nel sonno degli dei con la nudità dei silenzi. Già, è stata trovata completamente nuda. Ma la fisicità era uno stile. La sua eleganza negli sguardi tremanti.

 

Diceva spesso: “Sapevo di appartenere al pubblico e al mondo non perchè avessi bellezza o talento, ma perchè non ero mai appartenuta a nessuno”.La sua morte resta ancora un mistero? Forse sì o forse no. Ma Marilyn rincorre giovinezza sui prati verdi e tra le stanze della sua villa. Quanti amori e alla fine uno strazio senza più amore. Si raccontano storie e le storie diventano finzioni o illusioni. Il passo è breve. Tra la finzione e l'illusione c'è il sogno: il solo che smette di essere vero. Ma Marilyn è morta. Suicidio? Omicidio? Cosa ha deturpato la sua bellezza?

C'è chi dice che è stato un assassinio con tutte le regole commesso da Cosa Nostra. Ad ucciderla pare che sia stata una supposta contenente un potente narcotico. Il sonno degli dei che corre tra le vene e il sangue è un fiume che crede nell’impossibile.

Marilyn dormiva nuda. E così che l'hanno trovata. Con gli occhi nella morte e la morte nel cuore. In quell'agosto torrido del 1962. Tra il quattro e il cinque di agosto. Pare che a scoprire il suo corpo inerte sia stata la sua governante.

 

E poi il medico. La porta era chiusa a chiave. E la chiave? C'è sempre un problema di chiave. Il medico al suo arrivo non fece altro che constatare l'avvenuta morte. Ci fu l'autopsia. Anche questa un mistero. Come tutte le cose di questo mondo quando non si riesce a trovare la chiave, quella giusta, si parla di mistero. Ebbene si. Non guasta questo mistero nella morte di una donna che in vita è stata sempre un mistero. Lasciamola nel suo mistero. Perchè svelarlo?

Era bella in quella allegria che si faceva inquietudine in cui la passione giocava con i giorni e il suo corpo un alito nel tempo che non invecchia. Marilyn non è invecchiata.

Gli incontri, i viaggi, le vacanze dalla parola, i riposi vengono rivissuti con un pathos inarrestabile che è humus del linguaggio. E restano i ricordi – sensazioni che guidono le nostre distrazioni, le nostre smemoratezze. E poi non ricordiamo più perché tutto diventa una sensazione come la musica.

 

E’ possibile vedere la musica? Sentiamo e ascoltiamo la musica vivendola, rivivendola e così il tempo che non c’è più noi lo percepiamo nell’alito di quelle alchimie che sono parte integranti della nostra memoria – sogno. Fuori dalla storia perché, in fondo, il tempo non sa che farsene della storia.

      La figura di Marilyn diventa la metafora di una giovinezza, di generazioni che hanno sognato con lei il tempo intramontabile e, appunto, gli amori impossibili. La metafora che coniuga l’impareggiabile transito nelle stagioni del tempo con il desiderio di essere catturati e catturare quel destino di continuare ad amare il volto, gli occhi, il corpo di donne per le quali ci siamo sentiti leggeri nelle brughiere o nelle acque tagliate dalle gondole con gondolieri che non si abbandonano alle tristezze ma si lasciano rapire dalle ironie. Questi amori ci lasciano la quieta e la tempesta ed ecco perché continuano ad insistere nella nostra vita – letteratura.

È vero: chi muore giovane il tempo non lo raccoglie. E resta nella sua giovinezza a cantare l'amore e l'inquietudine, l'angoscia e la tristezza, la disperazione e il bisogno di credere ai sogni infiniti e di viverli nella fantasia che chiede sogni e colori.

 

Il bianco e il rosso erano i suoi colori tanto che sulla sua tomba a Westwood Village Memorial Park Cementery si sono alternati per anni, e forse ancora oggi, fasci di rose rosse e poi rose bianche.

E quel suo sorriso. Marilyn è la giovinezza che resta nel tempo che invecchia e ci invecchia. Ma il suo sorriso sulla sua bocca aveva la carezza della luna. Chi troppo ama troppo perde e i suoi sconvolgimenti si intrecciavano in un tempo che non conosceva quotidiano.

I suoi amori erano le inquietudini. I Kennedy. I fratelli. Tanto si è parlato. Forse adesso fanno girotondo e Marilyn li ha presi per mano per un inarrestabile giro giro girotondo. E con loro c'è pure quel Miller, lo scrittore, il drammaturgo che sposo Marilyn nel 1956. E danzano sulla sabbia della luna. Finalmente stanno insieme. Si sono ritrovati per non perdersi più.

 

Quanti mariti. Almeno tre. Il primo nel 1942. Marilyn aveva soltanto sedici anni. E poi nel 1954 il secondo marito. Era un campione di baseball: Joe Di Maggio. E poi Arthur. Quel Miller già famoso scrittore che tentò di inserire Marilyn nel mondo della cultura ma non ci riuscì. Era fatta di un'altra pasta. Si abbandonava ai sogni, alle fantasie e poi ai sonniferi.

La madre era pazza tanto che al primo matrimonio di Marilyn non le fu concesso di assistere alla cerimonia. Non si seppe mai il nome del padre. La sua paura era quella di fare la fine della signora Gladys Pearl Monroe, cioè la madre di Marilyn.

E poi i suoi desideri si trasformarono in angosce, in inquietudini, in tragedia. C'era sempre una grande inquietudine che covava nel cuore di Marilyn. Una allegria fatta di inquietudine. Come in fondo erano i suoi films. Così anche il suo ultimo film Gli spostati risalente al 1961, che la vede insieme a Clarke Gable, a Montgomery Clift, a Thelma Ritter. Un film in bianco e nero. Come era stato quello del 1952 dal titolo La tua bocca brucia. Marilyn cominciò la sua carriera posando per un calendario. Le sue foto più belle. La sua giovinezza senza segni. Il segno di un destino. Un viaggio bruciato sull'onda di una grande notorietà. Ma per Marilyn la vita fu passione? O suoi amori furono vera vita?

 

Mi sono chiesto, spesse volte, se Marilyn non fosse morta come è morta, che cosa sarebbe stato di lei? Sarebbe invecchiata e sul suo viso le tracce del tempo e sulle mani le rughe abbrunate che contano gli anni. Ma così non è stato. E continua a vivere. Con la sua allegria, con la sua calda giovinezza e con gli occhi che guardano il mare.

Con gli occhi belli e disperati che chiedono amore e sono luci in una storia che è divenuta un enigma. Ma senza il mistero, Marilyn sarebbe ancora un mito? Perché continuo a domandami ciò. Perché insisto?

Io sono a Los Angeles per fare altro e non solo per visitare l’America del sogno di Marilyn.

Eppure ho negli occhi sempre il suo viso e tra le parole trovo costantemente quelle della mia interprete di origini madrilene: “Qui anche la letteratura porta il nome del mito di Marilyn. Come farà a parlare di letteratura del Mediterraneo senza citare la famosa frase di Marilyn:  ‘Perchè non porto biancheria intima? Mi danno così fastidio tutte quelle piegoline’. Lei è uno scrittore e conosce bene le parole ma lei ama la bellezza e i profumi e Marilyn, inconsapevolmente, è anche il suo vocabolario. Le ricordo un altro episodio. Lei in un suo libro cita un profumo. Conoscerà certamente il profumo di Marilyn perché un suo personaggio usa lo stesso profumo di Marilyn, ovvero Chanel n. 5. Marilyn sosteneva che per andare a letto indossa soltanto una goccia di Chanel n. 5.

Coincidenze?”

 

Poi mi guardò e riprese: “Ma so anche che lei non crede alle coincidenze. Non dirò più nulla”. Mi affascina e mi intimidisce sapere che domani dovrò parlare della bellezza nella letteratura nella città di Marilyn. Ho recuperato alcune riflessioni che avevo annotato tra i miei appunti che parlano della bellezza e sapevo, comunque, che giungendo a Los Angeles non mi sarei potuto sottrarre all’alchimia di Marilyn. Trovi foglietti piegati: "Ho sognato la bellezza per lo più a occhi aperti. Ho sognato di diventare tanto bella da far voltare le persone che mi vedevano passare".

E ancora: "Non voglio essere ricca, voglio essere bellissima". Ecco perché non smise mai di dire che alla sua morte non doveva mancare il trucco sul suo viso. Aveva timore di invecchiare e di invecchiare cedendo al tempo la sua bellezza.

“Solo gli amori impossibili sono per sempre” scrisse a mo’ di dedica Nantas Salvalaggio al suo libro su Marilyn. Proprio vero. Sottoscrivo, qui da Los Angeles, questa stupenda dedica di uno dei miei pochi amici scrittori al quale ho voluto molto bene.

 

Resterò a Los Angeles qualche altro giorno per conferenze con gli italiani che vivono qui e per gli americani che hanno desiderio di capire la cultura italiana. Qui è nato un mito avvolto tra la bellezza e la morte. Non riesco a ricordare in quale mio romanzo ho citato il profumo di Marilyn. Forse in “Quando fioriscono i rovi”. Già, in quel romanzo in cui la bellezza conosce solo il profumo della giovinezza. Il profumo delle rose rosse e delle rose bianche.

C’è una frase del film A qualcuno piace caldo del 1959 con Marilyn, Tony Curtis e Jack Lemmon per la regia di Billy Wilder che mi scava nella mente con una impressionante audacia.  In un dialogo Zucchero (Marilyn) chiede a Josephine (Tony Curtis) : “Aspetta da molto?” e Josephine risponde: “Non importa quanto si aspetta, ma chi si aspetta”.

Malinconie che ci rapiscono ma che ci fanno fare i conti con noi stessi. E gli amori vissuti e abbandonati, alla fine, ci impongono di fare i conti. Sempre con il tempo. Irraggiungibile come le meteore nelle quali viviamo da giovani. Per uno scrittore diventa sempre più difficile ritrovarsi in questi conti, perché fare i conti, attraverso il racconto e le parole che spingono alla confessione, significa creare uno spazio in quel tempo di ieri e nel tempo della scrittura stessa. Ovvero tra il tempo nel quale si sono vissute le avventure di un esistere e il tempo nel quali ci si trova con le emozioni che dettano, in una indefinibile nostalgia, percorsi di esistenza vissuta.

 

Non finisce qui il mio viaggio tra le immensità di Los Angeles. Ma resta una città, una grande città. Andare nel tempo dei filamenti sfilacciati è, comunque, restare lungo il fiume della salvezza della memoria. E la letteratura, nella profezia dei solchi traccianti, ci salva perché restituisce brandelli di tempo nell’archetipo delle memorie.

Los Angeles. Marilyn non è soltanto un mito. È emozione.  È una giovinezza perduta in un tempo che non tornerà più. Resta tra i miei capelli una goccia di Chanel n. 5.

 

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pubblicato il 27 Luglio 2012

La morte di Romano Battaglia

è una malinconia nei deserti dei miei viaggi

 

 È morto lo scrittore che raccontava i sufi, ma lo sguardo della sua amicizia scava solchi di esistenza.

 

  di Pierfranco Bruni

 

Non è soltanto lo scrittore che mi mancherà. Le sue parole e i suoi sguardi fatti di linguaggio sono dentro di me. Mi mancherà la profezia dei suoi incontri, delle sue telefonate, della sua voce. Molto cara. Molto caro il suo sentiero tra cristianità vera e sufismo. Storie dentro l’anima e anime perse che hanno il trascorso di un inquieto esistere. Romano Battaglia è morto. Era nato a Marina di Pietrasanta il 31 luglio del 1933 e morto il 22 luglio scorso). È finito “tra le braccia del vento” (come si intitola il suo ultimo romanzo).

 

Mi mancherà. Alla Versiliana. Con quel suo vestito bianco e la camicia celeste, la sua pazienza, il suo essere tra i libri e la vita. Qualche hanno fa in un incontro alla Versiliana, Marina di Pietrasanta, volle presentare il mio romanzo “Il mare e la conchiglia in un dialogare tra i luoghi dannunziani e il mare che dava echi di malinconia. Ricordo il suo affetto, la continuità, i Natali, e le grandi estati in quel verde de “il Caffè de La Versiliana”.

Con eleganza degli scrittori che conoscono l’eleganza e degli uomini che sanno ascoltare gli antichi detti sufi intravide il quel mio libro la via dello sciamano che camminava tra le mie parole. Ebbe ragione. Fu il libro che cambiò il mio correre tra gli intagli delle non storie. E poi andammo avanti in una Versilia in cui il sale e l’odore del mare avevano il frammento del sogno e con me, in quelle rarissime volte, c’era Rosaria ad ascoltare.

 

Parlarono a lungo Romano e Rosaria tra le ombre e le penombre del meriggio di agosto. Io ero lì e accanto a me c’era Claudia Gerini. Tanto tempo fa? No. Il tempo ora non ha la clessidra. E Romano mi parlava anticipandomi il libro che stava scrivendo o che avrebbe voluto scrivere. Mi parlava di silenzio, di sabbia, di un personaggio chiamato Annaluna, della strada di Sin, di amore nella docezza di sapere che esiste o che “tu esisti” rivolgendomi ad un amore.

Ricordo che mi parlò di Sufi come in un suo romanzo. Un antico detto Sufi dice: “Il cammino del fiume della vita è scritto nelle sabbie”. La sabbia può essere una metafora ma può anche raccogliere i segni di verità, di venità nascoste, di verità dimenticate e che misteriosamente e improvvisamente si rivelano, di angoli di verità che conservano frammenti di tempo. Ma la sabbia rimanda al deserto e il deserto ha bisogno del vento per catturare le onde della vita o per percepire il racconto della vita. Nel romanzo “Sabbia” come raccontare la sabbia?

 

Romano Battaglia è uno scrittore vero che riesce a vivere la parola, il sentimento, l’emozione non con le costruzioni sintattiche ma grazie al contatto con quella vita che muore e rinasce sempre.

Le parole portate dal vento. O sarà proprio il vento che porta le parole?  Mi è tanto piaciuto un  riferimento ad un libro e a un film che considero importanti: “Anonimo veneziano”. Una Venezia che muore nella storia di un amore frammentato e nell’attesa di lui che disperatamente aspetta di morire sulle note di un “veneziano” raccontato da Giuseppe Berto e portato sulla scena da Enrico Maria Salerno.

La vita e la morte. Quella vita e quella morte che si incontrano sempre sullo scenario di una quotidianità che sembra di non appartenerci ma che è, comunque, sempre dentro di noi. Così nel racconto di Battaglia che ci offre questi due personaggi: Fabio ed Eleonora. Ma anche qui gli intrecci sono  dentro la vita più che essere manifestazione di un mero raccontare e il romanzo si forma proprio dentro le dune di un deserto che è metafora di esistenze.

 

Ancora il mondo dei Sufi: “Sotto la sabbia/è sepolto il  mistero della vita,/fra le dune c’è il canto dell’universo./Chi non sa ascoltare,/chi non sa immaginare/è lontano dalla verità”.

Ed è vero ciò che dicono i vecchi tuareg (come si legge nel romanzo): “…dicono che Dio abita nel deserto./Per vederlo bisogna alzarsi all’alba/quando sorge il sole./Non tutti riescono a scorgerlo,/alcuni non sanno guardare”. Come nella storia tra il padre e il figlio in “La strada di Sin”. Ma non voglio citare titoli, attraversare poesie, racconti. Romano è nell’alchimia della parola.     

Poesia nell'alchimia. Non è alchimia l’ondulare di immaginazione? Una poetica che è sempre segnata da un riflesso di immagini che giunge dal cuore. Il cuore non come testimonianza ma come esperienza di una costante e profonda spiritualità. Si racconta ma il raccontare è una terapia che sembra allontanarsi dal quotidiano dolore ma il dolore, sì questo è vero, si fa esperienza di vita nella speranza. Sono pagine di speranza nell'attesa che coinvolge.

 

  La memoria è un groviglio di sensazioni e di immagini che intrecciati al tempo - vita si divertono nel labirinto. Si ha bisogno della luce. La luce essenziale. Il veliero che naviga. Il faro che illumina la nostalgia che è orizzonte. Quanti destini vivono dentro di noi? E quanti restano in attesa davanti alla nostra "caverna".

“Silenzio”.  Titolo metafora. E’ vero: “La felicità non si ascolta,/ma si impara”. Le voci e il silenzio sono una fede che ci porta per mano nella preghiera. Perché la parola cosa è se non preghiera e il tempo del silenzio che si intreccia costantemente con quello dell’attesa non è forse un incontro tra la fede e la preghiera? L’amore è una costante di questo viaggio.

      Viaggio e amore. Vita e tempo. Così Romano Battaglia: “Mi sono chiesto se è il tempo che passa o è la gente a passare quando non ha saputo trattenere qualcosa di buono nel cuore. L’assenza di ricordi e di valori, infatti, conduce spesso all’annientamento di noi stessi o degli altri. Dietro lo specchio che ci riflette si cela un’immensa solitudine che avevamo sottovalutato”.

 

La fedeltà al cuore nello strazio del quotidiano perché nel quotidiano le cose si allontanano, si perdono, si allungano. "Mentre mi avvicino alla mia terra, sento una quiete profonda che mi dà la forza di riannodare il filo affettivo della mia vita".

Si ritorna. Sempre. Perché il vero richiamo è nell'amore e nella pazienza. Come ci recitano i versi di Madre Teresa di Calcutta: “Fino a quando sei viva, sentiti viva…/Non vivere di foto ingiallite…/insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni”. Così in questo meraviglioso andare nella vita e nel sogno di  “Com’è dolce sapere che esisti”.

 

In una delle ultime telefonata parlammo dei dervisci e dei sufi e poi della magia del vento e della solitudine. Non ci si comprende fino in fondo se non si ancorano le solitudini ai porti. E abbiamo bisogno di incanto per vivere perché i tradimenti sono nel viaggio.

Ma cosa c’è oltre l’amore? Forse c’è quell’uomo che si vendeva il cielo?

Cosa posso regalarti, Romano, amico mio? Un ramoscello della Versilia? Questa mia tristezza e questa malinconia che hanno il coraggio di non abbandonarti e ritornare al mondo sufi: “C’è sempre un filo d’erba o di luna che ti farà capire quando l’amore è verità o quando l’amore è soltanto un altro deserto oltre i deserti che ci abitano e che abitiamo”.

 

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pubblicato il 17 dicembre 2012

Perché ho conosciuto e non dimentico Carlo Maria Martini

L’uomo di chiesa nella teologia del mistero viaggiante

  

di Pierfranco Bruni

 

Avevo avuto modo di conoscere il Cardinale Carlo Maria Martini. Aveva una marcata sensibilità per il concetto di “straniero”. In un convegno su cultura e stranieri ci fu un suo limpido intervento che mi accompagnò e mi accompagna nei miei studi sulle etnie. Era il 2001, a Cesano Maderno, nel convegno: "Integrazione e integralismi. La via del dialogo è possibile?".

La letteratura, la parola, la scrittura costituivano elementi di comprensione in una dimensione etno – antropologica.  Nella sua singolare visione del rapporto tra fede, mistero, vita, popoli c’era sempre un disegno che superava il senso ontologico della misericordia.

Il Cardinale era nato il 15 febbraio del 1927. Nel suo dialogare non ti lasciava con delle risposte ma si poneva con una premessa di fondo che rispondeva ad una riflessione metafisica: Cosa vuoi farne della fede? Quando mi disse di aver letto un mio antico saggio sulla “Simbologia del sacro nella letteratura” mi lasciò con una domanda che sottolineava il tema  del rapporto tra la parola e la teologia del linguaggio tra le civiltà.

Mi disse: “La letteratura vive di sacro perché l’umanità della parola è nel Cristo rivelante. Per questo il suo saggio scava scava scava non solo nelle anime ma anche nella memoria della salvezza”.

 

Ricordo bene. Tre volte quello “scavare”. Poi ebbi modo di dialogare brevemente in occasione del mio “Canto di Requiem”, il mio lungo poemetto dedicato a Giovanni Paolo II e mi invitò a definire quel mio scrivere come una unica preghiera ma mi disse anche: “A lei manca non la volontà di pregare, ma di pensare alle sue poesie come se fossero una preghiera costante perché la sua letteratura è una preghiera anche se lei non vuole ammetterlo”. Frasi che mi diedero un tremore. Poi sono rimaste cesellate nella mia anima. Continuo nel tentativo di legare la poesia alla preghiera.

 

Il Cardinale Martini ha sempre usato un linguaggio elegante. I suoi libri sono un pensare nel pensiero. Le sue riflessioni, sino a quella di queste ore, che certamente farà discutere, riguardante l’accanimento terapeutico o meno. Su questo non mi trova concorde. Non mi ha trovato vicino tempo fa e tanto meno oggi. Penso a Martini non solo come uomo di chiesa. Ma come uomo di fede, come uomo in Cristo e “scavando”, proprio come egli mi suggeriva, nei suoi testi e nella sua presenza nella cristianità non posso fare a meno di legare le sue parole, su questo tema, che non condivido, al senso del Mistero, alla certezza del Miracolo, allo sguardo della Grazia.

 

Siamo in Cristo non con il corpo, soltanto, ma vi restiamo con l’anima. E per un cristiano l’anima non ha esilio e tanto meno debolezza ma speranza.

In quell’incontro del 2001 il Cardinale Martini parlò del rapporto tra lo straniero e la Bibbia. Annotai un concetto: “Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di un'umanità che trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta. Abbiamo tanti motivi, umani e civili, per accogliere lo straniero, motivi a cui forse pensiamo poco e che sono certamente molto esigenti e radicali”.

 

Sono passati anni. Ma questo concetto resta una sottolineatura che non dimentico. Io non raccolgo il pensiero dell’autanasia ma il monito della preghiera certamente. Pregare in Cristo per uscire dall’esilio dell’anima.

Uno dei suoi ultimi libri che rileggo spesso è “Le ali della libertà. L'uomo in ricerca e la scelta della fede. Meditazioni sulla Lettera ai Romani”, del 2009. Perché? Perché il legame tra perdono e misericordia resta centrale e la figura del Paolo viaggiatore ricercante in misterioso cammino è il mio Paolo.

 

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pubblicato il 10 dicembre 2011

Mi sono innamorato di Eva Kant e non di Lucia di Manzoni

Se rischio posso anche vincere, se non rischio sono un perdente

 di Pierfranco Bruni

 

Ci porteremo ancora suoni di conchiglie di anni lontani tra le parole non smesse e le parole consumate? Abbiamo abbandonato la giovinezza proprio nel momento in cui i nostri cuori dovevano diventare riferimento per generazioni che si sentono smarriti e figli che ci guardano spavaldi e impauriti. Saremo ancora belli e tristi come in quel tempo delle rivoluzioni fallite? Ed è come se mi incontrassi in uno specchio. Tanti anni fa.

Come passa il tempo… Sono “I Camaleonti” con la loro malinconia che mi ricordano il trascorrere delle stagioni e il lento silenzio che attraversa il nostro abitare la vita. Non solo il tempo passa, ma siamo noi che mutiamo. La nostra generazione, amico mio, si è lacerata nei dubbi e nelle certezze. Nelle certezze perché era convinta di poter governare il mondo portando il sogno come bandiera. I sogni saranno potere. Che grande cazzata abbiamo commesso. Il dubbio, perché nei momenti più opportuni abbiamo cercato la vacanza dal vero impegno sostenendo che non sapevamo dove andare.

 

Oggi sappiamo dove andare ma non abbiamo più tempo. Non c’è nostalgia in questo mio dire. C’è forse un po’ di rammarico. Abbiamo studiato troppo in fretta e ci siamo laureati perché conformisti puntavamo ad una sicurezza. Ma la rivoluzione non è sicurezza e non offre sicurezze. E sono stati gli altri, senza togliersi né giacca e né cravatta, ad obbedire ai poteri di ciò che è stata definita democrazia. Siamo stati rivoluzionari al punto tale di essere stati rivoluzionati.

Cominciare una nuova battaglia? Io, amico mio, sono in un diverso viaggio e non mi interessano più i carri armati, i mercati delle borse e delle monete impazzite. Osservo con molto distacco la caduta del mondo moderno e tutto ciò che mi passa accanto mi passa soltanto accanto. Non ha alcun disamore.

 

Sono sempre innamorato di ciò che mi stupisce e di ciò che mi smarrisce. Perché mi affascina l’intelligenza. Mi infastidiscono i conformismi, lo sai bene, e i progressisti. Indago sui reazionari alla Prezzolini e non smette di affascinarmi la consacrazione della conversione di Papini.

Un giorno tu mi hai chiesto quali dei personaggi letterari, veri o legati alla fantasia, ha lasciato in me un segno incancellabile. E poi hai aggiunto quale scrittore o quale poeta ti ha formato? E ancora mi hai domandato quale libro non vorresti dimenticare. Belle domande, amico mio, rischiose e capziose. Sai che per me il rischio è stato sempre un cavallo di corsa vincente e forse anche per questo mi hai posto davanti a delle scelte. Chissà perché la mia vita ha sempre indicato delle scelte? Lo sciamano, al quale sono legato, mi avrebbe detto: rispondi sempre alle domande ma devi non dimenticare che il silenzio è peggio di una risposta violenta.

 

Ci sono domande che chiedono il silenzio con una ulteriore domanda e risposte che vanno date senza pensare che siano risposte. E allora, caro amico ti scrivo e ti rispondo. Molti fatti della mia vita sono legati al mio essere ribelle e religiosamente terrorista. Molti avvenimenti sono stati il susseguirsi di impazzimenti che mi hanno dato l’allegria.

Molte sconfitte sono il risultato di tantissime vittorie che ho cercato di scordare o di ignorare. Se rischio posso anche vincere. Ma se non rischio sono un perdente. Se amo Cristo è perché lo considero uno sconfitto nella sua dignità e nobiltà ed  ha sempre rischiato e giocato a carte scoperte come con Maria Maddalena.

Il personaggio che ho amato di più? Potrei dirti Lucia del Manzoni? Teresa del Foscolo? Concia di Pavese? Lucia mi intristisce e mi scava  ferite di angoscia come il suo Renzo. Personaggi che mi infastidiscono perché non hanno saputo capire e accettare la tragedia. Ma quando mai Manzoni è stato tragico. È stato sempre ridicolo, anche nelle sue conversioni vere o finte.

 

Teresa è una straordinaria immagine ma ha una sensualità rassegnante che non vive in Jacopo sconfortato e sconfortante. La rassegnazione non è nel mio viaggio. Io sono come Sandokan o come l’ultimo degli Apache. Ho la spada o il fucile sempre in posizione giusta.

Concia? Bella e selvaggia e poi mi riporta alla mia Calabria oltre che al mio Pavese. Straordinaria donna amante dai capelli neri che scivolano tra le mani. Un amore passato e importante. Ci sono tanti altri che mi hanno accompagnato come le lontane di Silvia e altre finzioni tra pagine lette e dimenticate volutamente. Ti voglio rispondere con certezza.

La mia vita passata è stata scavata sia da Eva che da Zakimort. Chi è Zakimort? È il personaggio di un fumetto pubblicato tra il 1965 e il 1974. Chi si nascondeva dietro Zakimort? Una bellissima bionda dal nome Fedra Garland. Il resto lo puoi trovare su Internet. Fascinosa, corpo da amplessi mediatici, sguardo pungente nella sua tuta aderentissima.

 

Ed Eva? Non certo l’amante di Adamo. Eva Kant. Ovvero la compagna del grande e astuto Diabolik, il quale data la sua uscita nel 1962 mentre Eva compare nel 1963. Da occhi verdissimi salva il terribile uomo nero dalla ghigliottina. Si presenta come la vedova di Lord Kant. Eva. Un personaggio affascinante non solo per la sua femminilità e dolcezza ma anche per il suo verace coraggio. Resterà la compagna di Diabolik e anche lei sarà la donna in nero con gli occhi sempre puntati avanti. Chi scegliere tra le due? Forse, anzi sicuramente Eva.

 

Mi sono innamorato di Eva per la raffinatezza e la sensualità oltre che per quel fascino del mistero che la caratterizzava ma anche per la sua fedeltà e il suo saper restare in ombra. Eccoti accontentato. Diabolik ed Eva mi hanno formato. Che delusione, diranno i ben pensanti.

Uno scrittore che vanta la sua classicità e la sua forza in letteratura  intrecciata alla storia si è formato su Diabolik? Signori miei è così. E sono felice. Passiamo avanti. Quale poeta? Ti sono sincero. Chi continua ad accompagnarmi non è Pavese, che è dentro di me, e neppure Dante. Che ci faccio io con il Dante della Commedia? Ironia? O sincerità?

Il poeta che nelle notti mi sfriculiava l’anima è stato Gustavo Adolfo Becquer.

Non ti dirò altro. Un poeta spagnolo.

 

Poi sono venuti gli altri. Quale libro non vorrei dimenticare? Ti rispondo subito. Tu sai che sono di nobili origini e di sicure letture mai imposte e che casa mia è stata sempre una grande biblioteca per generazioni. Ma il libro che non vorrei dimenticare è Capitan Miki. Chi è? Lo sai bene. Un Ranger del Nevada che dialogava con gli Indiani, il cui primo album in striscia uscì nel 1951.

Alta formazione e scuole ben definite. Gli accademici ora si guarderanno bene ad invitarmi nei loro convegni. Ma tu sai che io non mi sono mai sfottuto delle apparenze perché continua  a viaggiare sulla bicicletta di mio padre e aspetto ancora che i rovi fioriscano nel mio paese del vento sapendo che c’è il mare nella mia anima e le conchiglie nelle mie solitudini.

 

Tutto qui? No, caro amico mio. Io sono nato in via Carmelitani, tu sai bene chi sono i Carmelitani, e non mi piacciono i giorni di sempre perché so essere altro altrimenti accetto di essere niente e amo profondamente la mia donna fino ad addormentarmi nel rosso del suo meriggio augurandole sempre che il dio del sole resti sempre in lei e con lei.

Ti ho segmentato un po’ della mia storia cercando di darti delle risposte. Se mi chiedi quale film abbia segnato la mia vita, qui avrei dei tremori. Ci sono stagioni che mi hanno avvicinato a film diversi ma quello che è più vicino al mio inquieto e bello vivere è senza alcun dubbio “La prima notte di quiete” nel quale campeggia la straordinaria figura di Delon.

 

Ma perché siamo giunti a queste considerazioni? Forse perché si comincia  a tracciare una linea lungo i colori dell’orizzonte? Siamo in caduta libera, amico mio, e non abbiamo paracaduti, e siamo consapevoli di poter inciampare in qualche nuvola di passaggio perché sono sempre più convinto con Paracelso che “Chi è muto, è muto nel cuore, non nella lingua”. Perché “come tu parli, così è il tuo cuore”. 

Ed ora cosa dirti di più. Non disprezzo nessuno. Non mi fanno paura gli scoiattoli e neppure i coccodrilli.

 

La politica? È una distanza incolmabile che separa il mio essere al mio quotidiano. Sono nel mio deserto. I giudizi non mi interessano e le porte aperte servono per sbattere fuori qualcuno e non viceversa. Io vivo il mio tempo. Altro non so dirti. Abbiamo vissuto i giorni delle rivoluzioni senza rivoluzionare.

Ci siamo rivoluzionati restando gattopardi. Viviamo la tradizione trafiggendo il futuro. Gli accampamenti sono in folla ma i pensieri sono un volo. Oltre non vado. Resto con i miei libri da scrivere e con le mie pazienze turbate. Ma ti consegno una osservazione di un monaco del deserto che ho ritrovato nei labirinti della mia memoria: “Il monaco deve vivere in modo  che giammai la sua coscienza possa rimproverargli qualcosa”.

Io che amo il deserto e il mare ho conservato questo pensiero, che come il precedente è di Agatone, ovvero un Padre del deserto, che dice: “Non mi sono mai addormentato con un risentimento contro qualcuno e, per quanto ho potuto, non ho mai lasciato che qualcuno si addormentasse con un motivo di risentimento verso di me”.

Ora basta.

Non mi chiedere altro.

 

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pubblicato il 16 ottobre 2011

LA FESTA DELLA REPUBBLICA  NELL’AMBITO DELLE CELEBRAZIONI DEL 150° DELL’UNITA’  NAZIONALE

“I personaggi politici di San Basile nel Risorgimento”

 di

Maria Cristina Tamburi

 

Il due giugno è una giornata di grande importanza perché è la festa di tutti gli italiani; essa ci ricorda l’appartenenza ad un unico Stato, che è una repubblica democratica come sancisce la nostra Costituzione. Dobbiamo quindi essere fieri e orgogliosi di far parte di uno Stato che si fonda su principi democratici ed egualitari come, appunto, quelli che sono alla base della Costituzione della Repubblica Italiana.

Tali principi sono stati stilati dai nostri Padri Costituzionalisti ma sono stati perseguiti e raggiunti grazie al sacrificio e alle lotte di quanti, nei secoli precedenti, hanno contribuito a fare dell’Italia uno stato libero, unito e democratico.

Quando il due giugno del 1946 con un referendum  popolare gli Italiani  hanno potuto liberamente scegliere attraverso il voto la forma di governo  in cui identificarsi, (il voto era a suffragio universale ed era la prima volta per le donne), hanno optato a maggioranza per la Repubblica, concretizzando così il loro bisogno di libertà, di giustizia  e di democrazia che per secoli , come un  sogno, avevano costituito l’aspirazione delle  precedenti generazioni.

 

Perciò la festa della Repubblica, nell’anno in cui si festeggiano i 150 dell’unità nazionale, acquista ancor maggior significato, se inclusa in quel percorso che vede compiersi finalmente gli ideali risorgimentali, e ci ricorda l’assurdità di tante altre guerre che ne seguirono.

Il percorso, per il suo compimento, è stato lungo è faticoso; ha incontrato molte asperità e diffidenze. I combattenti italiani si sono scontrati tra incomprensioni ed errori ma alla fine ha trionfato il sentimento unitario, nella capacità di mettere insieme la progettualità e trovare un denominatore comune che è lo spirito democratico nell’affermazione della sovranità popolare. Sono queste le basi della nostra Costituzione, i cui articoli sanciscono l’equilibrio tra diritti e doveri e i cui principi sono informati all’uguaglianza di tutti  e alla possibilità di tutti di partecipare alla vita democratica  dello stato . Si è giunti così al superamento di faziose posizioni e divisioni e a collocare con grande dignità il nostro paese  nel contesto dell’ Europa e nel mondo.

 

Nel periodo preunitario l’Italia era definita soltanto un’espressione geografica e

in ambito di politica estera era poco considerata; la motivazione era nella sua divisione interna e nella sua incapacità a rigettare l’assoggettamento ai governi stranieri.

Le menti più illuminate avevano, già dalla metà del “700, concepito ideali di libertà e di uguaglianza ma il cammino perché essi si attuassero era  lungo e doveva passare prima attraverso il compimento dell’unificazione interna.

Questa rimaneva ancora un’utopia agli inizi dell’”800, perché ragioni dinastiche contrapponevano, l’un  l’altro, i piccoli e medi stati italiani tra politiche localistiche e ingerenze straniere .

C’era però, da più parti, l’afflato a una patria comune, che potè prendere corpo ed attuarsi solo quando si riuscì a convogliare più interessi intorno a questa idea e a modificare i rapporti di forza e gli equilibri internazionali, sacrificando però altri programmi, magari validissimi ma anacronistici per quel tempo, quali quelli repubblicani e/o federalistici.

 

Il nostro Sud pagò lo scotto maggiore, perché rimase fuori dei giochi della grande politica e questo determinò la fine del Regno delle Due Sicile e innescò l’avvio a due differenti Italie .

Per quanto si possa presentare gloriosa l’epopea garibaldina, per aver promosso

tra  il “59 e il “60 la grandiosa e coinvolgente azione di volontariato, è semplicistico pensare che il suo lasciar fare non rientrasse in interessi più vasti, ineluttabili, in quel momento, al piano unitario e quindi ad inevitabili compromissioni e a strategie politiche .

Le condizioni, che nei decenni precedenti non erano apparse mature, sia perché la difficoltà nella circolazione delle idee impediva l’attuazione di un piano organico comune, impossibile da coordinare fintanto che si lavorava in sette segrete e cospirazioni, sia perché tra la gente circolavano idee confuse e il popolo agiva sotto la spinta di motivazioni immediate e di bisogni concreti più che per astratti ideali, e soprattutto perché tra i regnanti non era stato possibile un accordo per la nascita di uno stato unitario confederale, parvero ad un tratto propizie quando si cominciò a decidere alla luce del sole.

 

Molto sangue era stato sparso e i tentativi, per quanto eroici, si erano mostrati infruttuosi e destinati all’insuccesso: così per i moti del 21 e del 31, del 44 e del 47 . L’anno 1848 sembrò aprire nuovi orizzonti. In quella stagione, passata alla storia come “primavera dei popoli” in tutta Europa si risvegliò lo spirito di fierezza dei popoli che portò all’attuazione del Risorgimento, inteso come consapevolezza dei popoli ad autodeterminarsi per la conquista della libertà. L’esempio delle cinque gloriose giornate di Milano (18-22 marzo) e subito dopo di Brescia indussero il re di Sardegna a prendere le redini del movimento per l’indipendenza. E’ la fase del passaggio “dalla guerra di popolo alla guerra regia”.

Dal governo borbonico la circostanza non fu compresa e l’opportunità di una politica di più ampio respiro andò persa. Eppure Ferdinando II di Borbone non fu un sovrano inetto: aveva saputo dare impulso all’economia, la marina mercantile era, al tempo, la più florida; erano sorti opifici e industrie in campo tessile e siderurgico che davano lavoro a molti operai, il bilancio dello stato era in attivo e questo aveva permesso un impulso demografico. Il re però, come tutti i sovrani borbonici, perseguiva una politica assolutistica. Chiuso nel suo conservatorismo paternalistico era convinto che bastavano elargizioni e poche libertà per mantenere i sudditi sottomessi.

 

 Ebbe ad accorgersi dei mutati tempi solo all’indomani dell’insurrezione della Sicilia che combatteva in nome del separatismo isolano. Così pensando di prevenire un’analoga situazione nelle province continentali all’inizio del 1848 il re promise la Costituzione, che promulgò entro il mese di febbraio. Molti condannati politici vennero graziati, fu concessa una certa libertà alla stampa con l’abolizione della censura preventiva, fu allargato il diritto di voto abbassando il censo ma poche prerogative erano lasciate al Parlamento, mentre a corte dilagava la corruzione.

 Non erano queste le aspettative dei liberali e dei democratici che non si accontentavano di semplici concessioni. Intanto dal nord e dal centro d’Italia si preparava la prima guerra d’Indipendenza ma  re Ferdinando, per non inimi-

carsi l’Austria, alla cui politica repressiva era fortemente legato, si limitò a inviare solo uno sparuto gruppo di combattenti al comando del generale Guglielmo Pepe ma che presto si affrettò a revocare.

 

Fu proprio in quel frangente che la popolazione di Napoli insorse.

Era la mattina del 15 maggio e doveva esserci l’instaurazione del nuovo Parlamento; la seduta slittò per un apparente disguido amministrativo: invece di definire il neonato parlamento con la dicitura di Parlamento del Regno di Napoli e di Sicilia si continuava la tradizionale dicitura delle Due Sicilie . Ciò che volevasi far passare come banale cavillo nascondeva una ben diversa sostanza legale: in effetti nulla era cambiato e in realtà il sovrano continuava nella sua politica precedente. La seduta parlamentare non ci fu e Napoli fu occupata dalle barricate. Nella città i disordini furono presto sedati  con la forza  ma nelle province il popolo era già in subbuglio.

I parlamentari calabresi Domenico Mauro, Ricciardi e Valente  nei giorni immediatamente seguenti lasciarono Napoli e tornarono in Calabria. Qui i fatti della capitale avevano avuto ampia eco. Il giorno due giugno si convenne di indire a Cosenza un Comitato di salute pubblica per la sicurezza della Calabria. Fu chiesto al re di far giungere in Calabria una delegazione ministeriale per discutere sulle misure da prendere, ma il sovrano, che intanto aveva revocato la costituzione, proclamò  lo stato di assedio, facendo pervenire truppe armate al comando dei generali Busacca e Nunziante.

 

 La situazione in pochi giorni prese un altro orientamento e degenerò in una vera guerra. Castrovillari, sede di distretto, era diventata il quartier generale delle truppe borboniche.  Contingenti  partivano da tutti i comuni viciniori per fronteggiare l’emergenza. Si trattava di uomini equipaggiati alla menpeggio mentre l’insurrezione si trasformava in una deflagrazione generale, che dalla provincia di Calabria Citra interessò presto anche le province di Calabria Ultra

1 e 2 .

Il ceto degli agrari locali non volle esporsi per non perdere i vantaggi acquisiti con la quotizzazione delle terre ma il popolo, nella sua variegata composizione, non era più contenibile. Tutti i decurionati del circondario mandarono contingenti ; particolarmente numerosi quelli arberesch . San Basile mandò una forza di ben 69 uomini.

Per oltre un mese si combattè senza quartiere, spostandosi di volta in volta dove il caso lo richiedeva. Era il forte, disperato eroismo della gente del popolo contro un re che aveva tradito le loro aspettative. 

Nulla all’inizio lasciava pensare che si potesse giungere a tanto. La speranza di aiuto era riposta nei fratelli siciliani. Quando sbarcò, coi suoi uomini, il generale siciliano Ribotti, le cose invece di migliorare peggiorarono.  Nacquero incomprensioni e diffidenze reciproche tra i comandi e quelle postazioni che erano state duramente conquistate furono perse. Eppure nelle gloriose giornate della battaglia di Monte Sant’Angelo i valorosi volontari, capeggiati da Domenico Mauro, poterono, risalendo da Morano, accamparsi nel valico di Campotenese nel intento di strozzare così la via ai borbonici. Altri uomini combattevano più a sud. Incalzati dalle truppe di Busacco, non ostante la valorosa resistenza, furono costretti alla resa e a  ripiegare su Cassano e Spezzano Albanese.

 

Resistevano strenuamente alle porte del Pollino, su più fronti, i nostri uomini comandati da Costantino Bellizzi, insieme a quelli di: Frascineto, Spezzano Albanese, Cassano, Saracena, Lungro, Morano, Acquaformosa e altri coraggiosamente coordinati da Domenico Mauro. Erano sopraffatti dalle truppe congiunte di Nunziante e Busacco, in una radura nei pressi di Rotonda, male equipaggiati, come scrisse più volte il Mauro a suo fratello Vincenzo( il carteggio e gli atti sono consultabili presso l’archivio privato di casa Mauro), nella vana attesa che gli pervenissero mezzi e rinforzi.

Alla fine, stremati anche dalla fame, poichè i regi avevano bloccato la strada per Mormanno,  isolando il paese che fino a quel momento aveva fatto generosamente pervenire forniture e viveri, ai primi giorni di luglio i valorosi combattenti furono completamente travolti e trucidati. I pochi che poterono salvarsi si dettero alla macchia e tornati alle loro case,  alcuni presero la via per l’esilio, altri aspettarono sconfitti e delusi l’esito del lungo processo di massa. Con esso il governo borbonico volle dare prova di forza, meritandosi  per la ferocia dei verdetti, l’ignominia e il biasimo delle diplomazie straniere. Llord Gladstone, in una lettera,  definì la giustizia borbonica “la negazione di Dio”.

 

Sebbene nessuna condanna capitale fosse eseguita, le pene furono pesantissime e si aprirono per i nostri eroici volontari le porte dei più malsani carceri borbonici, come la Vicaria, Castelnuovo, Santo Stefano, Santa Maria Apparente e i bagni penali di Nisida e di Procida. Per farsi un’idea di quali sofferenze siano state inflitte si rimanda alla lettura delle Rimembranze di Luigi Settembrini, che molti di quei bravi calabresi ebbe come compagni di  cella e che ricorderà con grande affetto, in particolare Gennaro Placco per “la dolce cadenza arbresch”.

Si concludeva tra il 1851 e il 1852, dopo un lungo, logorante processo, la triste e valorosa esperienza di quanti hanno combattuto per tracciare la via  ad un’ Italia unita, libera e indipendente , come quella che il due giugno viene cebrata.

L’elenco dei nostri concittadini, condannati con  relativa  differente penale,

è il seguente :

Aronne Biagio, Aronne Giovanni, Bellizzi Andrea di Costantino, Bellizzi Andrea

di Luigi, Bellizzi Angelo, Bellizzi Arcangelo, Bellizzi D. Costantino, Bellizzi

Filippo, Bellizzi Francesco di Leopoldo, Bellizzi Francesco di Vincenzo, Bellizzi Gabriele, Bellizzi Gennaro, Bellizzi Ludovico, Bellizzi Michele, Bellizzi Pietro, Bellizzi P. Vincenzo, Bellizzi Gravina Luigi, Bellizzi Scafuzzo Francesco, Bellusci Angelo, Bellusci Francescantonio, Bellusci Pietro, Conte Domenico, De Majio Giov. Andrea, Di Franco Francesco, Ferrara Francesco, Ferrara Gennaro, Ferraro Vincenzo, Frega Abramo, Frega Giuseppe, Frega Nicola, FregaRaffaele, Gravina Luigi, Leone Ferdinando, Marcovicchio Costantino, Moliterno Andrea, Paladino Vincenzo, Perrone Giovanni, Perrone Vincenzo, Pugliese Achille, Pugliese Angelo, Pugliese Arcangelo, Pugliese Domenico, Pugliese Francescantonio, Pugliese Gennaro, Pugliese Marzio, Pugliese Nicola, Pugliese Pietro, Pugliese Vincenzo, Quartaruolo Angelo, Quartaruolo Antonio, Quartaruolo Domenico di Gennaro, Quartaruolo Domenico di Vincenzo,  Rizzo Gaetano, Sisca Carminantonio, Tamburi Ambrosio,Tamburi Arcangelo,Tamburi Domenico,Tamburi Domenico di Andrea,Tamburi D. Fedele di Pietro, Tamburi Federico, Tamburi Francesco, Tamburi Gennaro, Tamburi D. Giuseppe, Tamburi Michele, Tamburi D. vincenzo,Tamburi Vincenzo di Ambrosio, Tamburi Vincenzo di Luigi, Tarantini Antonio, Vigilante Giuseppe.

 

Ben 69 uomini, tra i quali i più pesantemente colpiti furono :

Costantino Bellizzi, medico di anni 32,

Vincenzo Bellizzi, sacerdote di anni 34 e Giovanni Andrea Di Maio, “ bracciale”

di anni 31.

 La sentenza emessa il 3-12-1851 dalla gran Corte Speciale di Cosenza era di

reato   di cospirazione e partecipazione a banda armata, allo scopo di

voler “cangiare” la forma di governo , secondo gli atti depositati presso l’ASC

fondo processi politici.

Costantino Bellizzi ebbe la condanna a 25 anni di reclusione ai ferri. Il

15 dicembre fu tradotto nelle carceri di Nisida e da lì trasferito al bagno penale

 di Procida, dove morì, dopo qualche anno, il 19 aprile 1853 .

A Procida ebbe modo di condividere la pesante pena con il Sig. Leone Ricca

da Saracena, che con le sue lettere fornisce chiare informazioni su come

 si svolgeva la vita nel bagno penale, per i condannati ai ferri, costretti a

 mille stenti  e a lavorare, con i ceppi ai piedi per 24 ore.

(Leone Ricca, di tempra più forte, riuscì a resistere. Riconquistata la libertà ,

prese parte all’allestimento della guardia nazionale, mentre il figlio Giovan Battista, prese parte ai moti garibaldini, combattè al Volturno e nel 66 alla terza guerra d’Indipendenza), Costantino Bellizzi, sopraffatto dai patimenti, logorato nel fisico e nello spirito, moriva,  come tanti altri patrioti, senza vedere attuato i grandi ideali

dell’unità  e libertà dell’Italia.

Poco dopo moriva, di crepacuore, anche  suo padre Gabriele Bellizzi, che tanto lustro aveva dato a San Basile, nel suo incarico di sindaco negli anni 1844, 45 e 46; la madre, donna Elena Tamburi gli sopravvisse nella pena quotidiana  dello straziante ricordo.      

Per quanto conclusasi tristemente questa pagina del Risorgimento Italiano, vale la pena di ricordarla, per comprendere che il Sud e la nostra area del Pollino, non furono indifferenti al vento di libertà che portò all’indipendenza e all’unità d’Italia e che i suoi uomini non furono figure marginali nel panorama politico di quegli anni.

A tutti loro la nostra doverosa riconoscenza, nella speranza che il loro nome e la loro impresa, per molto tempo ignorati dalla storiografia ufficiale, abbiano una degna memoria.

 E’ il caso di ricordare, con Foscolo, che :

A grandi cose

il nobil animo accendono

l’urne dei forti

e bella e santa fanno al peregrin

la terra che le ricetta…

 

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pubblicato il 2 agosto 2011

La Calabria  e il Risorgimento -  Premio Pizzo - Diana Musolino - 57° Edizione - Sabato 30 luglio 2011

 

      Relazione del prof. Egidio Chiarella

 Ufficio Legislativo -  Ministero Istruzione

  

Rivolgo alle signore e ai signori , presenti stasera così numerosi, assieme a tanti giovani studenti, un saluto cordiale e sincero, ma ritengo, prima di esprimere delle veloci impressioni personali sul lavoro di ricerca storica, relativo al risorgimento calabrese, svolto all’interno dell’Istituto Magistrale “ Campanella” di Lamezia Terme, debba ringraziare e salutare l’associazione che da 57 anni organizza il Premio – Pizzo, oggi intitolato alla sua fondatrice Diana Musolino, perché stasera ci offre l’occasione di vivere una serata di alta qualità culturale, come lo è nella sua tradizione.

     Un saluto al presidente del comitato organizzatore, prof. ssa Maria Angela Parini e, consentitemi, ad  Ercole Mercuri, Elio per gli amici, ma soprattutto medico impegnato culturalmente che ha voluto, assieme al comitato, che io presentassi il testo scelto dagli organizzatori, nella sezione letteraria del premio, curato dalle professoresse lametine Franca Sinopoli e Gina Scuglia, che assieme a un folto gruppo di studenti dell’Istituto Magistrale “Campanella” delle classi III – IV – V B,  supportate dal preside Martello, hanno analizzato il particolare periodo storico-risorgimentale calabrese, servendosi, tra l’altro,  anche di testi e fonti che sono appartenuti a Diana Musolino, forniti dallo stesso dott. Mercuri.

 

     Lo hanno fatto con professionalità, amore per la ricerca, capacità di osservazione e con un linguaggio duttile, scorrevole, appropriato, che invita alla piacevole lettura, nonostante la materia in questione si presenti, per ovvie ragioni, campo di studio particolare e non di solo stretta narrazione. Un lavoro che soprattutto ha il merito, come si sottolinea nelle motivazioni che stanno alla base della sua scelta in questo premio, di aver remato contro corrente in un mare pieno di ostacoli nel stabilire la verità sul contributo e sui sacrifici dei calabresi durante il periodo del risorgimento nel nostro Paese.

 

     Una serata speciale quindi, perché unica e speciale è stata, è e sarà la persona, primo sindaco donna della Calabria,  a cui  s’ispira questa manifestazione. A Lei l’Applauso della Calabria positiva riunita qui stasera.

 

    Il lavoro delle mie colleghe Franca Sinopoli e Gina Scuglia, supportate dai ragazzi che le hanno accompagnate in questo percorso culturale, è un dono prezioso nell’anno in cui festeggiamo i 150 anni dell’Unità D’Italia. Ma soprattutto esso rappresenta un atto di giustizia nei confronti di questo nostro territorio, che tra Lamezia, Catanzaro e Vibo, ha dato il suo grande contributo  al risorgimento italiano, come è stato chiaramente e ampiamente dimostrato, anche nelle altre province della nostra regione.

 

     La Calabria purtroppo è assente nei libri di storia, ma stasera esce allo scoperto in un libro ricco di citazioni e documenti riconducibili ad un passato da rivalutare, applicati al metodo rigoroso della ricerca storica. I passaggi come scrive il comitato del premio ci sono tutti: ricerca, analisi, deduzione, elaborazione del prodotto, accertamento della verità.

    

     Tutto questo è stato possibile perché, a mio avviso, il materiale riscontrato sul nostro territorio ha radici accertati in luoghi, fatti, personaggi, vicende, avvenimenti, che sono reali testimoni di quanto la Calabria, abbia dato il suo contributo di sangue, di cultura, di rischio, di convinzione storica, di ricchezza materiale per partecipare ad una stagione sociale aperta alle prime luci libertarie, che dalla Francia si affacciavano sul nostro paese. Una regione, la  nostra, anche strutturalmente coerente, checché se ne dica sul servilismo delle popolazioni calabresi verso il padrone di turno, con uno spirito risorgimentale che se anche silente, ha sempre attraversato le vene e la mente dei suoi abitanti.    

     C’è da dire infatti,  che i nostri conterranei per troppo tempo sono stati  vessati e privati dagli elementi principali di sostentamento, che a volte accecano la voce della rivoluzione che alberga nell’animo dell’uomo, ritardandola forse, ma non eliminandola.

 

     Gli autori dell’opera premiata fanno ruotare le informazioni e la ricerca accurata attorno a tre spazi storico - letterari, ben dettagliati e articolati, riconducibili rispettivamente, seguendo la sua struttura:

 

1)    all’introduzione, alle poesie, alle battaglie;

2)     ai documenti relativi alla spedizione dei mille in Calabria, ai processi, ai fondi giudiziari, alle biografie dei più noti uomini del risorgimento sul nostro territorio;

3)     agli approfondimenti, con la sintesi storica, il ruolo della massoneria e della carboneria calabresi ed il ruolo delle minoranze linguistiche in questo particolare risveglio storico, sociale e civile, compresa una ricca e appropriata bibliografia.

 

     Un lavoro completo che ha il merito, care professoresse Scuglia e Sinopoli, cari ragazzi di III, IV, V B e caro preside prof. Martello, e per questo vi ringraziamo a nome dei calabresi, di contribuire a snidare coloro che hanno sempre nascosto la verità su questo argomento che è centrale nella storia del nostro Paese, accendendo una luce su un percorso che mi auguro possa continuare nelle sedi universitarie e nei cenacoli culturali più autorevoli della regione, con l’aiuto delle istituzioni  regionali e nazionali, che dovrebbero investire più fondi sui progetti di studio e di ricerca che, come quello premiato stasera, mirino a ridare alla nostra terra il ruolo, che la storia ufficiale tante volte, come in questo caso, non ha voluto riconoscerci.

 

     L’Italia ha vissuto il suo grande risorgimento, poi tradito da chi aveva il compito di rivalutare il meridione e la Calabria, proprio perché nel Mezzogiorno e nelle nostre comunità in particolare è maturato un apporto indispensabile, centrale, meritevole sicuramente di comparire nei testi ufficiali che affollano le biblioteche e le aule scolastiche della Nazione.

     Tra i capitoli  del primo spazio storico –culturale del libro voglio indicarvi dei capitoli avvincenti, quali quelli relativi  alla battaglia di Maida nel 1806; alla preparazione dei moti rivoluzionari del 1847; alla battaglia dell’Angitola, a due passi da dove parliamo stasera; alla spedizione dei mille in Calabria, con la battaglia di Soveria Mannelli e la sfilata delle truppe garibaldine a Catanzaro: famoso il telegramma di Garibaldi che annunciava il trionfo, forse insperato, che lo portava ormai verso Napoli, con i Borboni ormai completamente allo sbando: “ Dite al mondo che con i miei bravi calabresi ho fatto deporre le armi a 10.000 uomini”.

 

     Nel secondo spazio espositivo del lavoro premiato ci inoltriamo in una interessante rassegna di documenti relativi ai processi che diventano una prova evidente per il meridione e la Calabria nella ribellione contro il regno borbonico, che sta alla base della buona riuscita della campagna bellica garibaldina nella nostra regione. Per la sola Calabria si parla di oltre 8.000 anni di condanna. Nel libro viene ricordato il processo a carico di 16 imputati del comprensorio nicastrese, per avvenimenti successivi al 15 maggio del 1848, grazie alla collaborazione dell’archivio di Stato di Lamezia Terme. Le condanne furono pesanti.

    

     In questa sezione del libro primeggiano una serie di biografie di uomini illustri calabresi del tempo risorgimentale. Ne cito velocemente  qualcuno: Giovanni Nicotera di Sambiase in Lamezia Terme, Ministro degli interni nel primo governo Depretis, nipote dal lato materno di Benedetto e Pasquale Musolino, illustri patrioti di Pizzo. Francesco Fiorentino, sempre di Sambiase, filosofo e deputato nel 1870, sostenitore dell’annessione e del progetto risorgimentale, verso l’unità d’Italia.   Benedetto Musolino di Pizzo, deputato, liberale e antiborbonico, fondatore dei Figlioli della Giovane Italia, fu in carcere per oltre tre anni e anche quando, liberato, fu messo sotto sorveglianza durante la residenza nella sua città, continuò assieme a Giovanni Nicotera a preparare la rivoluzione del 1848.

 Francesco Stocco e Felice Sacchi di Nicastro, Gaetano Boca di Maida, Giovanni Maria Cataldi,Giuseppe Maione e Orazio Scalfaro di Sambiase, Antonio Toja e Antonio Miceli di Gizzeria.

 

     Nel terzo ed ultimo spazio del testo troviamo invece degli interessanti approfondimenti documentati, che dimostrano il rigore scientifico degli autori e la loro seria ricerca storica, anche in campo nazionale, attraverso fenomeni come quelli legati alla questione contadina; al contrasto città-campagna; alla Massoneria e alla carboneria in Calabria. La prima associazione segreta, nel suo concetto di universalità, come mente sempre attiva ed eterna, verso il rafforzamento del sentimento di Patria e di libertà, la seconda come braccio operativo nella difesa ad oltranza di questi sacri principi.

 

      Finisco questa mia riflessione citando un articolo del corriere della sera del 29 maggio 2010 a cura dell’antropologo Vito Teti, mio professore di tesi, assieme al Prof. Luigi Lombardi Satriani, entrambi studiosi molto stimati in Calabria e nel resto del Paese e figli di questa terra vibonese, che ci ospita stasera.

     Il docente universitario sottolinea in questo articolo, come viene fatto nel volume dell’Istituto magistrale “Campanella”, come nei libri di storia il contributo della nostra regione al risorgimento è quasi esclusivamente legato alla spedizione di Attilio ed Emilio Bandiera. Ne sviluppa poi una serie di episodi significativi ignorati dalla storia ufficiale e finisce con una riflessione che penso sta interamente nella filosofia del lavoro premiato stasera.

 

     I tanti calabresi che parteciperanno alla spedizione dei Mille sposeranno la causa dell' Italia unita, avranno sempre presente il sacrificio di questi eroi fondatori. Il giovane Stato non avrebbe mai riconosciuto questi martiri, che, di fatto, non trovano posto nell' album risorgimentale dei Pietro Micca, Ciro Menotti, Enrico Toti. L'oblio è la conseguenza del «tradimento» del Risorgimento meridionale. Ben presto quanti avrebbero posto il problema della terra e di nuovi rapporti sociali, sarebbero stati trattati, combattuti, uccisi come briganti.

 

     Lo studioso Calabrese sottolinea un paradosso storico, che emerge anche nella ricerca delle prof.sse Sinopoli e Scuglia, evidente nel fatto che oggi sono gli eredi di quei martiri, dei contadini, degli emigrati, cacciati, uccisi, espropriati, a sostenere e a difendere le ragioni di una Italia Unita, mentre gli eredi di quanto hanno costruito le loro fortune sul sangue dei meridionali sognano la divisione. Forse è da qui che dobbiamo ripartire, anche per non autoassolverci e per non dimenticare i tanti limiti e responsabilità dei gruppi dirigenti meridionali.

 

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pubblicato il 18 aprile 2011

VITA E PENSIERO DI CARLO DE CARDONA 

di Francesco De Cunto

 

[...] L'Italia sta attraversando un'epoca triste e squallida, in cui ci siamo abituati, senza più scandalizzarci, a vedere i nostri governanti vivere per conquistare il potere al fine di trarne vantaggi personali.

Un'epoca in cui la politica è morta, perché si dà per scontato che non debbano esistere valori che la sottendano, perché è morto il "progetto", perché è scomparsa l'utopia e la speranza arretra e si arrende.

Ci stiamo ormai persuadendo che la politica altro non debba essere che la serva di un potere senza principi.

Ci auguriamo che Carlo De Cardona, con la sua testimonianza, la sua opera e con l'intera sua vita offerta all'elevazione sociale e soprattutto morale delle nostre popolazioni mediante l'organizzazione, la cooperazione, sia uno stimolo perché la politica possa costituire la leva della risalita dalla deriva civile e morale del presente, verso una piena e coraggiosa responsabilità.

 

Responsabilità di decidere, di rispondere a se stessi e agli altri della propria libertà, di fondare su di essa e sull'uso vigile che se ne fa, una nuova e condivisa morale sociale.

Don Carlo De Cardona nasceva a Morano, da una famiglia benestante, nel 1871. Subito dopo l'ordinazione sacerdotale venne chiamato dall'Arcivescovo di Cosenza, Mons. Camillo Sorgente, come suo segretario particolare, con l'intento palese di suscitare in Cosenza il movimento cattolico sociale.

Uomo di fervidissima spiritualità  e di indomita fede, Don Carlo, sebbene nutrisse in cuor suo tutt'altre aspirazioni, obbedì.

Da quel momento, in una Cosenza in cui la situazione religiosa era piuttosto semplice e deprimente, senza una sola organizzazione cattolica e con il dominio della massoneria nella vita civile, conscio dello stato di arretratezza culturale, sociale ed economica del Mezzogiorno, si impegnò, con tutte le forze, che erano tante, per ricercare e contrastare le cause di questa arretratezza, impegnandosi nel movimento sindacale cattolico, ispirando le prime leghe del lavoro e quindi istituendo e diffondendo su tutto il territorio regionale le cooperative di credito.

 

La fondazione della prima Cassa Rurale in Calabria, nel 1901, è salutata dallo stesso De Cardona come una catapulta contro l'usura, pur nel suo minuscolo capitale... e, proseguendo, ..."è ancora un'altra cosa molto più importante: è una prima cellula vivente nella massa amorfa e quasi inerte (almeno rispetto alla società) dei volghi campagnoli. Un mezzo sempre più forte e quindi più atto a soddisfare bisogni, non personali soltanto.

I piccoli e felici esperimenti accrescono la fiducia dei compagni e insieme il sentimento di una forza che non avrebbero se fossero divisi, che hanno perché uniti e d'accordo: ringagliardita così la coscienza di classe, nasce in quei petti, ricchi di intatte e fresche energie, lo slancio verso più alte e degne mete di progresso civile".

E' il principio di quello che si sarebbe chiamato il Classismo Pedagogico Decardoniano.

 

Poco prima dell'avvento del Fascismo queste banche per i poveri e dei poveri sono circa 200 dislocate su tutto il territorio regionale e se ne trovano perfino in paesini   sperduti o in frazioni di paese. Con la finalità di educare il popolo alla politica, De Cardona promosse la formazione e la diffusione di vari giornali, su cui si dibattevano i problemi dell'emigrazione, dei bambini sfruttati, dell'emancipazione della donna, del clientelismo, dei poteri occulti, dello sviluppo della Calabria e del Mezzogiorno.

De Cardona non si stancò mai di invitare i lavoratori ad imparare a leggere, a scrivere, a istruirsi, ad educarsi, ad acquistare lo spirito di risparmio, di pace e di giustizia, nonché ad organizzarsi seriamente " perché l'organizzazione"- diceva – "è il segreto della vittoria nelle battaglie del lavoro."

 

Per dare forza, coerenza, senso pratico e credibilità alla sua azione sociale, partecipò alla vita amministrativa impegnato come consigliere comunale e provinciale, incontrandosi, sul comune terreno dell'emancipazione sociale, con il capo dei socialisti cosentini, Pasquale Rossi, con il quale peraltro non mancò di polemizzare anche aspramente.

La costruzione, con il sostegno finanziario delle sue Casse Rurali, di due centrali elettriche metteva in evidenza le sue capacità realizzatrici e dimostrava praticamente le possibilità aperte dalla raccolta e dall'impiego dei risparmi dei lavoratori e la bontà della politica di utilizzazione delle energie naturali e umane del luogo.

Ma la sua frenetica attività dava fastidio ai fascisti locali e quindi la sua Cassa Rurale Federativa fu fatta fallire: Don Carlo conobbe allora la strada dell'esilio -alternativa al confino che gli sarebbe toccato- e, dopo aver passato l'ultimo periodo della sua vita in numerosi trasferimenti tra la Calabria, l'Umbria e Roma, moriva solo, malato, povero, ospite nella casa del fratello Nicola, a Morano il 10 Marzo del 1958.

Ci separa quasi un secolo, il XX secolo, un secolo " non breve ", dalle intuizioni che diedero corpo all'opera di Carlo De Cardona, ci separa da lui, per restare solo nell'ambito del mondo cattolico, il Concilio Ecumenico Vaticano II.

 

La sua opera va, con rigore, letta nel contesto del periodo a cavallo tra i due secoli precedenti.

Carlo De Cardona è indubbiamente un uomo del suo tempo.

Ciò tuttavia, in più di un passaggio aleggia nei suoi scritti uno spirito, mi consentite, profetico e sembra che Carlo De Cardona, parlando ai contadini calabresi suoi contemporanei, si rivolga a noi e all'Italia di questi ultimissimi mesi, alzando il dito accusatore, ma anche sostenendo il nostro cammino in un tempo di grandi insicurezze e insieme di grandi possibilità.

All'uopo vorrei proporre solo qualche passo tratto dai suoi scritti, lasciando ad ognuno di noi riflessioni e commenti sulla loro attualità.

"L'operaio che lavora, scriveva De Cardona nel 1909, non è il bue che trascina sui campi l'aratro, contento di una scorpacciata di fieno, non è lo schiavo, strumento cieco nelle mani del padrone che ne sfrutta i sudori e le vigorose energie; l'operaio è il divino falegname di Nazareth, che il lavoro santifica con la preghiera "e poi" al lavoro va solennemente, innanzi alla storia, rivendicata la dignità e l'importanza del fattore umano nel progresso della civiltà....il liberismo, nell'operaio, non vede che una macchina e, purtroppo, non sempre, la migliore delle macchine: nel lavoro non riconosce che una mercanzia da valutarsi, semplicemente, alla stregua della produzione e della ricchezza. Il liberismo ha gettato l'operaio e il suo lavoro sul mercato mondiale come una merce qualunque alla balia della cupidigia e della più sfrenata concorrenza".

 

E sempre a proposito di lavoro: "Nel paganesimo lavorare voleva dire servire, cioè sacrificarsi nell'interesse e secondo la volontà di altri, che erano i padroni. Nel  Cristianesimo lavorare voleva dire liberarsi. Oggi la questione è qui: in che modo e fino a che punto il lavoratore, perchè sia veramente libero, avrà il possesso degli strumenti del suo lavoro: la macchina, il danaro, la terra."

E cambiando tema: "un popolo corrotto è come un albero fradicio, buono soltanto a sostenere le erbe che gli si arrampicano intorno al tronco e sui rami secchi. A un popolo dedito al male si mette facilmente la catena del servaggio, come ad un cane si mette guinzaglio. Le idee di libertà, di giustizia, di progresso non sono intese, o sono fraintese, dai lavoratori che hanno l'animo abbrutito dal vizio."

 

E ancora "Ora è inutile e indecoroso che i lavoratori aspettino l'elemosina di un po' di aiuto dalle sovrastanti classi borghesi: bisogna che facciano da sé; ...occorre che mettendo insieme i loro piccoli risparmi creino un capitale collettivo, il quale servirà loro di mezzo per aiutarsi in caso di infermità, per aprire scuole, per non lasciarsi opprimere dal fisco e dall'usura, per essere forti e liberi e capaci, all'uopo, di dettar la legge a chi finora ha creduto di manomettere impunemente la giustizia."

E quindi "Abbattere la tirannia dei potenti che vogliono governare anche sulla coscienza dei deboli e degli oppressi è il nostro impegno".

E a proposito della Calabria e del Mezzogiorno: “Il nostro risorgimento è legato, come per le altre regioni d'Italia, non ai vari lamenti e alla passiva accettazione di aiuti dal potere centrale, ma ai generosi sacrifici che vorremo e sapremo fare".

E in un’altra occasione: "Accrescere poco a poco, anno per anno, la ricchezza della Calabria, ecco il nostro sogno, e non solo la ricchezza materiale, ma la ricchezza morale, ma la ricchezza civile, la ricchezza d'animo, lo spirito del bene, la luce del pensiero."

 

E ancora: "Non ci può essere una grande Italia, finché c'è una Calabria misera e negletta"

E sulla scuola: "Non vogliamo come si fa oggi la scuola che coltiva e sviluppa semplicemente l'intelligenza, trascurando completamente la vita morale del fanciullo."

E alla vigilia della I guerra mondiale: “Il nemico vero oggi non è l'Austria, non è la Germania, non è la Russia o l'Inghilterra: il nemico vero d'Italia oggi è ...la paura.".

E concludo con un'esortazione che De Cardona rivolgeva ai suoi contadini perché trovassero nell'organizzazione e nella cooperazione le motivazioni per superare le angosce, le difficoltà e la miseria del momento: "Forti, perché uniti, liberi, perché forti": ecco l'ideale delle nostre organizzazioni. Non vi fate ingannare, o amici. Non credete alle maligne bugie di coloro che ci vogliono servi, e perciò disuniti."

 

Si è già detto che obiettivo principale del circolo è quello di diffondere la cultura e i valori fondanti della nostra Carta Costituzionale, a nostro parere presupposto indispensabile per la formazione di un unico e forte soggetto politico, l'Ulivo, ove partiti, organizzazioni, movimenti, singole personalità dalle diverse tradizioni, affrontino, uniti, e nel rispetto delle varie ispirazioni e motivazioni, le sfide che ci attendono.

"Forti, perché uniti, liberi, perché forti." Può' essere un buon viatico.

 

(dal Discorso introduttivo della presentazione del circolo culturale: "Carlo De Cardona" – Castrovillari 15/12/2001) 

 

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