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EDITORIALI
Costume e
società pag. 1
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Editoriali, recensioni e articoli
di cultura, società, costume
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pubblicato il 30 Ottobre 2007
INSEDIAMENTO RURALE MEDIOEVALE
Il palmento
nella terra dei Brettii
di Maria Zanoni
Su
un’ampia collina allungata tra le valli dei fiumi
Caronte e Busento nel territorio di Carolei, in
provincia di Cosenza, si conserva da secoli un
esemplare di palmento veramente interessante.
È la terra dei Brettii, intorno a Cosenza, definita
da Strabone metropoli di questa popolazione di
pastori, dediti a razzie, che nel 356 a. C. si era
staccata dal ceppo italico dei Lucani. Nell’area
compresa tra la Sila e la valle del Crati si
stanziarono sin dal V sec. a. C. i primi nuclei
originari brettii, che nel tempo abbinarono
all’attività pastorale quella del commercio di pece
e pellame, per “l’acquisto di generi di lusso (vino,
vasellame fine)”. È la terra dell’antico Acheruntia
dove incontrò la morte, per mano dei Bruzi, nel 331
a.C. il re d’Epiro Alessandro il Molosso, zio di
Alessandro Magno, venuto in Italia in difesa dei
tarantini in lotta contro la confederazione bruzia.
Tito Livio, narrando le vicende di Alessandro il
Molosso, descrive il suo insediamento su tre alture
vicine al fiume Acheronte, nei pressi della città di
Pandosia, che si trovava a sua volta presso i
confini tra le terre dei Lucani e dei Bruzi. In un
passo successivo cita la sottomissione di Cosentia e
Pandosia ai Romani nel 204-203 a.C. Quella stessa
Pandosia che Stefano di Bisanzio nel V secolo
definisce città dei Bruzi, fortificata e con tre "vertices",
viene collocata anche da Strabone nei pressi di
Cosentia e descritta come una città fortificata, un
tempo capitale degli Enotri. Questo territorio fu
percorso dai Visigoti, il cui re Alarico, secondo la
tradizione, fu sepolto in una tomba scavata nel
letto del Busento.
L’invasione barbarica spinse i piccoli proprietari
contadini sulle alture che davano maggiore
sicurezza, ma offrivano terra poco produttiva. Fino
all’arrivo dei monaci basiliani che si stabiliranno
proprio sulle zone montuose e le sfrutteranno, ai
fini agricoli. Tra fitti boschi di querce e
castagni, campo di battaglia tra Bizantini e
Longobardi, che avevano conquistato la parte
settentrionale della Regione, costituendo un
gastaldato con sede a Cosenza, in seno al ducato di
Benevento, si consumò la storia di questo territorio
sotto le grandi civiltà che si sono succedute nei
secoli.
Il fascino del luogo e del reperto indurrebbe a
ricostruire la storia passata con una certa
disinvoltura, alla luce anche dei rinvenimenti
archeologici di due nuclei di necropoli uno in
contrada Stidda e uno a Cozzo S. Giovanni. Ma il
sito, inedito, merita un’accurata indagine
archeologica. Solo un approccio globale al
territorio, impostato su metodologie
interdisciplinari, può consentire la ricostruzione
delle dinamiche insediative, delle forme di
occupazione ed organizzazione del territorio,
cogliendone tutti i risvolti storico-antropologici.
La mia ricerca sul campo è partita da un’analisi
storica del territorio, utilizzando documentazioni
topografiche e storico-letterarie, ma non
documentazione archeologica (che credo scarsa), per
tentare di collocare in uno spazio temporale e nel
contesto questo reperto di archeologia del vino.
La frazione Treti è un terrazzo collinare di natura
calcarea a strapiombo tra le valli dei fiumi Alimena
e Caronte. Il luogo ideale per insediamenti sparsi,
quali fattorie e nuclei di necropoli, in luoghi
sicuri, nei pressi di fonti d’acqua e di vie di
comunicazione (la via Istmica e poi la Popilia).
Questo imponente palmento, manufatto esemplare di
archeologia del vino, si conserva intatto e racconta
la storia del luogo meglio di mille pagine scritte.
Su un lastrone di roccia porosa di una sessantina di
metri quadrati, in leggera pendenza, su un
terrazzato a strapiombo sulla valle dell’Alimena,
sono scavate le due vasche a forma quadrata, con i
segni degli strumenti in ferro per la lavorazione
della roccia abbastanza leggibili. A fianco ad esse
una rampa con gradini di circa 10 cm di altezza e 30
di larghezza, per facilitare l’accesso alla parte
superiore del banco roccioso. La vasca più grande
misura 2 metri per 1,50 di lato ed è profonda circa
60 cm. La piccola di m. 1,25 X 1,20 comunica
attraverso due fori di circa 12 cm. di diametro con
la superiore. Sul lato sinistro si trova una
vaschetta a forma circolare del diamentro di 50 cm.
e profonda circa 35 cm. sul bordo della quale si
trova una boccola in ferro, in asse con l’altra
posizionata all’interno della vasca superiore dove
veniva calpestata l’uva. Doveva essere la pressa per
le vinacce; e gli agganci in ferro reggevano
l’argano che azionava la leva.
Tutt’intorno sul lastrone di roccia corrono due
canaline, profonde circa 4 cm, per il recupero del
mostro che scolava dalle ceste colme d’uva
appoggiate a monte e convogliavano i rigagnoli nel
pinàci. L’ampiezza delle vasche e i due fori di
comunicazione sul tramezzo portano a dedurre che la
fattoria fosse efficiente nella produzione di vino.
Poco distante dal palmento vi è una vasca circolare,
anch’essa scavata nella roccia, che poteva essere
una cella granaria o una cisterna di raccolta
dell’acqua della fattoria; e più a sud sul crinale
di roccia calcarea un gruppo di tre tombe, scavate
nella roccia, in fila parallela, mancanti delle
lastre litiche di copertura, divelte da tempo da
ignoti, ma con la risega ben visibile. La datazione
della necropoli è difficilmente determinabile, in
assenza di intervento archeologico e di reperti.
Il sito è collegato al fondovalle dell’Alimena (che
lo separa dal territorio di Mendicino) da una
scaletta scavata lungo la parete del costone
roccioso, su cui insistono alcune grotte. Dalla
distribuzione e dalle caratteristiche dei manufatti
rinvenuti, palmento e pozzo granario, sembra
probabile la loro appartenenza all’impianto di una
villa rustica tardoantica (IV-VII secolo dopo
Cristo) riutilizzata in epoca bizantina. Da tenere
presente, comunque, che il palmento possa essere
stato riadattato all’uso, anche dopo centinaia di
anni di abbandono. E non è escluso che possa essere
stato utilizzato anche in epoche più recenti, in un
territorio che ancora oggi produce buon vino, indice
di antica vocazione vitivinicola. Il Galanti, alla
fine del Settecento, evidenzia le “belle
coltivazioni” del territorio di Cosenza e dei suoi
Casali; e l’Arnoni, alla fine dell’Ottocento, scrive
che “il vino di Cosenza si confondeva facilmente con
i migliori vini di Francia”.
Abstract dal volume
“Percorsi mediterranei – I
PALMENTI, tracce di cultura materiale in Calabria” -
di M. Zanoni -
Ed. Arte26
nella foto: il palmento di Carolei
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pubblicato il 3
Febbraio 2007
DONNA
AL SUD -
IDENTITA'
FEMMINILE
di Maria Zanoni
Il
dibattito politico di questi giorni mi invita a fare
qualche riflessione sulla condizione della donna in
Calabria.
A me calabrese, che all’argomento ho dedicato il
volume “Immagine donna” (ed. Centro Arte e Cultura
26 – 2001), l’affermazione di “donna” Assunta
Almirante, la vedova del leader del MSI, che come
tanti altri italiani è rimasta legata a stereotipi
arcaici, da tempo superati, non è piaciuta.
La Almirante, intervenendo nel dibattito sulle Pari
Oppotunità, ha suggerito alla Santanchè "di andare a
farsi un viaggetto in Calabria, nelle parti interne,
dove se tu vai trovi ancora l’uomo che avanza a
cavallo dell’asino e la donna dietro che porta in
testa le sarcine".
La donna di Calabria non rinnega identità e
tradizioni, ma va fiera per aver portato le sarcine
in testa, anche se non le porta più.
Su questa terra gravano antichi pregiudizi,
alimentati anche da viaggiatori-scrittori-fotografi
troppo zelanti nel denunciare, le misere condizioni
di una regione travagliata da terremoti e malaria,
depauperata dalle piraterie turche, isolata, terra
di frontiera.
Proprio l’insistenza accanita a denunciarne gli
aspetti negativi ha impedito alla Calabria di
emergere nel panorama nazionale. Ma questa è storia
antica…
Le donne calabresi, già dalle passate generazioni,
hanno scritto significative pagine di storia,
lottando per affermare un ruolo preminente della
identità femminile, nonostante i soprusi, le
violenze, le costrizioni di una società in cui
l’uomo deteneva (e detiene) il primato di
superiorità.
La loro condizione esistenziale è stata in continua
altalena tra la totale o quasi subordinazione al
maschio (padre, marito, amante o datore di lavoro
che fosse) e l’affermazione di maggiore potere, di
un ruolo centrale nella società, rivestito già
all’interno della famiglia.
L’uomo, tradizionalmente abituato a rapportarsi alla
donna solo come madre, nella sfera pubblica, nel
mondo del lavoro, manifesta da sempre comportamenti
arroganti, discriminanti, di diffidenza nei
confronti della donna con cui vuole mantenere un
rapporto subalterno. Gli uomini di tutti i tempi
hanno costruito modelli femminili, tra mito e
realtà, sempre rapportati al loro mondo.
Ma il ruolo della donna è complementare a quello
dell'uomo: e quando va sposa, e quando genera un
figlio, e quando aiuta nel lavoro e quando dà
consigli.
Anche in questa terra di Calabria, sconosciuta o
misconosciuta a molti (anche ai calabresi stessi)
tante donne, le cui storie sommerse hanno superato
il muro di pregiudizi, di ostilità, hanno proiettato
nel futuro un ruolo senz’altro più autonomo, vivendo
con maggiore senso critico ed intensità emotiva la
cittadinanza femminile.
Certo, la cittadinanza femminile resta ancora oggi
incompiuta, al sud come al nord, ma la donna che è
entrata a fronte alta nel terzo millennio ha alle
spalle le lotte, i sacrifici, i silenzi delle
donne-nonne che hanno rivendicato nuovi ruoli, hanno
affermato una nuova identità.
Quante lacrime sono state versate, quante violenze
subite, quanto sangue sparso, quante privazioni,
sacrifici e rinunce hanno segnato il lungo cammino
della donna verso l'affrancamento dal ruolo di
vestale, angelo del focolare, relegata ad accudire
la casa e la famiglia fino a divenire donna manager,
soldato, magistrato?!? Dalle lotte per l’occupazione
delle terre, ai sacrifici ed alle solitudini di
vedove bianche, al primo taglio di capelli “à la
garçonne”, alle gonne corte al ginocchio, alle lotte
femministe per cancellare il patriarcato di
Mussolini che aveva affermato " Le donne sono angeli
o demoni, nate per badare alla casa, mettere al
mondo dei figli e portare le corna".
Quelle donne hanno lottato per affermare la volontà
di non essere più marginali nella sfera pubblica,
per vincere le resistenze a voler riconoscere alle
donne la capacità di rappresentanza degli interessi
generali, ed hanno regalato alle nuove generazioni
grandi spazi di libertà.
L'universo femminile, oggi in Calabria, gode di
orientamenti culturali autonomi, grazie all'azione
essenziale dell'istituzione scolastica, e manifesta
stili di vita ed esigenze di consumo moderni, pur
restando saldi, in molti casi, i rapporti familiari,
e dovendo, a volte, fare i conti con la scarsa
qualità dei servizi pubblici, con il clientelismo
politico, con l'inefficienza delle istituzioni, la
disoccupazione e lo scarso dinamismo economico.
L’immagine della donna calabra mostra fierezza,
onestà e dignità. Quella dignità di cui parla
Giovanni Paolo II nella Lettera alle donne del 29
giugno 1995: "E' necessario restituire alle donne il
pieno rispetto della loro dignità e del loro ruolo.
[…] Donna e uomo sono complementari".
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pubblicato l' 8 Marzo 2007
VOCI DI
DONNE
Diritti
negati e violenze sul filo della memoria in
"Dissonorata" di Saverio La Ruina
di Maria Zanoni
In
occasione della Giornata internazionale della donna,
“Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria”,
scritto e interpretato nei teatri di tutta
Italia da Saverio La Ruina, offre lo spunto per
riflettere sulla condizione femminile di ieri e di
oggi (e non solo nel meridione), sulla difficile
condizione della donna, la cui vita è ancora sospesa
tra schemi tradizionali e volontà di guardare avanti
e andare oltre.
Passano sul filo della memoria voci di donne
umiliate, violentate (fisicamente e
psicologicamente), tradite, soggiogate, ma anche
ribelli o rassegnate, sopravvissute al “delitto
d’onore”. Il dramma raccoglie le voci di donne
ribelli all’ingiusta prigionia di una mentalità
retrograda che, a volte, pagano con la vita il
disonore arrecato alla famiglia, per aver avuto un
figlio fuori dal matrimonio. Che si chiamino Suad o
Morabito, che vivano in Cisgiordania, in Francia o
in Calabria, poco importa. Il dolore, la rabbia, la
vergogna sono sempre le stesse.
…”cu a capa vasciata a cuntà i petri pi nterra…‘Un
davu retta a nisciunu e ‘un gavuzu mai l’uacchi a
‘nterra, ca si ‘nziammai si scontrinu cu quiddi ‘i
‘nu masculu, tuttu ‘u paisu mi chiami puttana”...
Esordisce così il monologo del bravo attore
calabro-lucano che occupa la scena, con solo una
seggiola di paglia (il segno dei tempi) sotto un
sapiente gioco di luci. Anche il semibuio parla e
lacera.
È la storia drammatica di una giovane donna della
prima metà del Novecento in un paesino del sud, in
cui si ritrovano le storie comuni di sopraffazione e
di dolore di donne, di ogni epoca e di ogni paese,
vittime di un mondo in cui, ancora oggi, l’uomo
detiene il primato di superiorità.
In una posa dimessa, nelle vesti scure della
protagonista senza nome, indossate sopra gli abiti
maschili, La Ruina offre una performance di indubbio
valore e senz’altro insolita.
Infatti, l’attore, giovane, si rivolge con
disinvoltura e padronanza in uno stretto dialetto
lucano ad un pubblico di giovani, soprattutto,
raccontando di un mondo che non ci appartiene più,
ma che ci restituisce il piacere del tempo.
In poco più di un’ora, l’attore-regista fa rivivere
gli usi e i costumi, i sacrifici, la dura lotta per
la sopravvivenza, i vissuti di una cultura contadina
e popolare, a volte disprezzata a volte rimpianta,
con i suoi valori ed i suoi linguaggi.
Rivive la cultura della classe subalterna
meridionale, con i suoi modi di formazione delle
giovani generazioni, nell’intento di riscoprire
l’identità della nostra cultura, pur nella
consapevolezza della sua inevitabile e necessaria
evoluzione storica.
Nel progetto culturale coraggioso e incisivo di
Saverio La Ruina e del suo gruppo “Scena Verticale”
traspare chiaramente la ferrea volontà di avvicinare
sempre più i giovani al teatro e, nel recupero del
dialetto, nell’analisi della realtà della propria
terra, si snoda un processo di ricerca identitaria.
Tra pause ben calcolate, significative, penetranti,
il sottofondo musicale di Gianfranco De Franco
("fiato" dei Mandara Project) sottolinea le voci
delle tante “donne-vittime”, sul filo di una
sottile, amara, ironia.
Il ruolo femminile, interpretato senza trucco da
Saverio, nella disinvoltura dei gesti, mette ancor
di più al centro dell’attenzione la protagonista,
facendo di lei un emblema e della sua voce un
monito.
Risuona, così, l’eco della storia commovente ed
emblematica di una giovane, costretta dalla dura
antica legge familiare, a passare i suoi anni nel
rispetto dei costumi del tempo che prevedevano che
si sposassero in ordine di età. Anche per questo
tante restavano “zitelle”.
Ed era per loro un’enorme vergogna passare tra la
gente ed essere additate come “zitelle”. “A fimmina
senza statu jè cumu ‘u panu senza livàtu” recitava
un antico detto.
Un motivo per molte per rintanarsi tra le mura
domestiche e vivere la propria vita, tra le rinunce
e le privazioni, in funzione degli altri.
Anticamente le ragazze prendevano marito già a 14 –
15 anni. Infatti, fin da tenera età venivano
abituate a pensare al matrimonio come ad una tappa
decisiva da raggiungere in giovanissima età, per una
sicura sistemazione. Spesso il marito che la
famiglia aveva scelto per lei era molto più vecchio,
cosicchè la giovane si trovava a dover iniziare
un’esistenza al fianco di un estraneo, votata ai
bisogni di uno sconosciuto ed agli interessi
familiari. E durante la vita matrimoniale, la
durezza del vivere quotidiano, l’ignoranza, la
mancanza di relazioni sociali, i tabù sessuali erano
vissuti dalla donna in silenzio, a fianco di un uomo
a volte geloso, che controllava giorno per giorno la
condotta della moglie.
Solo col passare degli anni l’abitudine attenuava le
difficoltà di questo legame.
La donna era sottomessa all'autorità del padre o dei
fratelli maggiori, fino al matrimonio, quando
passava all'obbedienza del marito. Sottrarsi a tale
controllo, non rispettare le regole, significava
uscire dalla sacralità del vincolo familiare, come
ribelle, e restare ai margini della società. Nella
società contadina tradizionale la forza della donna
stava nella funzione riproduttiva e la sua vita era
schiacciata sotto il peso del duro lavoro in casa e
nei campi; il suo ruolo, la sua funzione sociale
erano garantiti dalla famiglia. La famiglia
proponeva modelli di socializzazione, di
comportamento, plasmava le esperienze dei suoi
membri secondo i ruoli definiti. Era la famiglia a
soddisfare i bisogni umani fondamentali e coordinare
i rapporti economici. Nella famiglia patriarcale il
capofamiglia aveva un ruolo predominante, era il
perno intorno al quale ruotavano tutti i componenti
del nucleo: la moglie aveva l'impegno quotidiano di
accudire i figli e badare alle faccende domestiche;
al marito spettava il compito di sostentare la
famiglia stessa, organizzare il lavoro e
amministrare il patrimonio.
La donna assolveva tutti i suoi doveri di moglie,
madre e padrona di casa, all'interno della famiglia,
portando affetto, ma soprattutto rispetto ed
obbedienza al marito. Nel secolo scorso l’identità
sociale dell’uomo è sempre stata definita in
relazione al mestiere ed alle funzioni svolte in
ambito pubblico, mentre l’identità sociale della
donna era in stretta dipendenza dalla posizione
occupata nella famiglia e dal suo stato civile. La
stessa subordinazione della moglie al marito era
considerata garanzia necessaria dell’unità
familiare.
Se da un lato le donne erano prive di potere nella
sfera pubblica, nella famiglia rivestivano un ruolo
di potere indiscutibile; un potere che si è andato
sviluppando maggiormente da quando, lasciate sole
dai mariti in guerra o emigrati, hanno dovuto, come
capifamiglia, amministrare la casa, la famiglia ed
il lavoro. L'eredità delle passate generazioni di
una forte identità femminile - che alcuni, forse
erroneamente, hanno definito matriarcato -
s'interseca con la tendenza tipica della generazione
più emancipata di considerare il ruolo della donna
inferiore ed ha lasciato tracce evidenti ancora in
alcuni modelli di comportamento.
La giovane, dissonorata, rimasta incinta, perchè ha
ceduto alle lusinghe di uomo, nel timore che non
l’aspettasse, deve morire, bruciata viva, solo
perché ha infranto i costumi della tradizione, si è
sottratta alla violenza del potere maschile.
La morte lava la vergogna.
Ma l’epilogo, inaspettato, è significativo.
La dissonorata sopravvive a tanta barbarie. E solo
la maternità dà un significato positivo alla sua
esistenza.
La sopravvissuta, porta sulla pelle i segni
dell’ingiustizia, ma nel sorriso la gioia per la
nascita del figlio e nello sguardo l’ansia di
libertà, mai sopita.
Pubblicato su Tracce - La Provincia
cosentina - 7 marzo 2007
Nella foto: Saverio La Ruina al Teatro Sybaris
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pubblicato il 13
Feb 2006
REPERTO
ARCHEOLOGICO A CASTROVILLARI
Un palmento in grotta nella
valle del Coscile
di Maria Zanoni
Nel
corso delle mie ricerche sul campo
nell'ambito della cultura materiale di
tradizioni popolari, con particolare riferimento
alla comunità locale e al suo rapporto con
l'ambiente, in seguito alla preziosa segnalazione di
un amico, ho rinvenuto nella valle del Coscile a
ridosso dell'antico abitato di Castrovillari un
insediamento rupestre.
Si tratta di un palmento in grotta, elemento
costruttivo tipico dell'archeologia enotecnica, che
insiste in un sito dalle caratteristiche
topografiche e fisiche ricco di storia.
La natura e la localizzazione del reperto mi
consente di ipotizzare, alla luce delle autorevoli
testimonianze di storici locali del secolo scorso e
dall'analisi comparata con manufatti della stessa
natura esistenti in altre zone della regione, che
trattasi di uno degli insediamenti rupestri abitato
verosimilmente dai monaci basiliani.
Il costone roccioso della valle del Coscile (‘a
vadda per i castrovillaresi di un tempo) che nel
medioevo era ricca di piccole chiese, costruite alla
greca, di cui restavano ruderi fino al Seicento,
restituisce un prezioso reperto archeologico, utile
non solo ad illuminare maggiormente un periodo di
storia lontana della città del Pollino, ma anche a
fare un excursus storico antropologico sul rapporto
tra i contadini e la terra.
I resti di palmenti, di mulini ad acqua, di antichi
trappeti, primordiali industrie di trasformazione
dei prodotti agricoli, di cui era ricca la vallata
(come attesta Vincenzo Perrone nella sua ricerca sui
luoghi di culto e le contrade della città) sono beni
culturali importanti per indagare la centralità che
l'area assunse nelle relazioni economiche e civili
del Mediterraneo e ancor più per indagare le nostre
radici.
"Nel vasto territorio, alle falde del Monte
Sant'Angelo – afferma Biagio Cappelli, sulle
testimonianze di un cronista del seicento - si
trovavano le chiese di S. Iorio e di San Michele
Arcangelo, dipendenti dal Monastero di San Basilio
Craterete intorno al quale si sviluppò l'abitato di
San Basile.
Verso il 1540 il monastero di San Michele venne
abitato da un tardo emulo dei primi basiliani, S.
Bernardo di Rogliano, fondatore degli eremitani di
S. Maria del Colloreto".
Nella "vadda", non lontano dalla contrada rupestre
detta Li Murgi, produttrice di ottimo vino, inoltre,
erano sparse le chiese di S. Chianìa, S. Maria della
Scapola, S. Antonio Abate e S. Irene, con attigui
romitori, che ci riportano alle radici del
basilianesimo.
Le grotte costituirono il primo nucleo abitativo dei
monaci basiliani, che giungevano in Calabria dalle
sponde orientali del Mediterraneo in diverse
migrazioni dal VII secolo all'XI.
I monaci italo-greci fondavano le proprie radici
sulla Parola evangelica e come i benedettini della
chiesa latina erano copisti di manoscritti e insieme
coltivatori: praticavano l'agricoltura, dissodando
la terra, piantando vigneti, modificando i sistemi
di coltivazione e introducendo nuove piantagioni
arboree.
I monaci calabro-greci erano laici che provvedevano
al loro mantenimento con il lavoro. Abitavano in
grotte, per un ritorno alla natura, a diretto
contatto con Dio, lontano dalla cultura
dell'artificioso e del superfluo; poi con il passare
del tempo si organizzarono nei cenobi ed ebbero
proprietà fondiarie.
Erano vegetariani convinti e non disdegnavano il
vino.
Ritenevano, secondo le affermazioni di S. Giovanni
Crisostomo, che "il vino è stato dato per la gioia e
non per la vergogna nostra: è stato dato perché
ridiamo e non per diventare ridicoli; per star bene
e non per ammalarsi; per sostenere le debolezze del
corpo e non per indebolire le forze dell'animo".
Ai monaci basiliani spetta il merito di aver diffuso
massicciamente in tutta la Calabria la viticoltura,
probabilmente già introdotta dagli Enotri, e ad aver
lasciato traccia delle loro tecniche di
trasformazione dell'uva in vino tramite i palmenti.
Il termine Palmento per alcuni deriva dal latino
palmes palmitis (tralcio di vite), per altri da
"paumentum", l'atto di battere, pigiare.
Il palmento in grotta di Castrovillari presenta le
caratteristiche di una delle due tipologie
costruttive medioevali: la costruzione in muratura,
nei luoghi in cui non c'era roccia in cui poter
scavare le vasche.
Nel romitorio sono ben visibili, seppure deteriorate
dal tempo, le due vasche in muratura,
impermeabilizzate con malta mista a cocciopesto.
La vasca superiore, a forma rettangolare con gli
angoli arrotondati, misura cm 120 per 135 ed ha
pareti alte circa 60 cm. e spesse 30.
Serviva per pigiare l'uva con i piedi.
Quella inferiore, intercomunicante con la prima,
raccoglieva il mosto derivante dalla pigiatura.
L'interessante rinvenimento, su cui dovranno
svilupparsi ulteriori indagini della Soprintendenza
Archeologica, gioverà in modo determinante a meglio
illuminare la storia di Castrovillari e potrà
offrire nuove possibilità di valutazione e
promozione del territorio.
Solo l'Archeologia potrà collocare al giusto posto
nella vicenda storica del luogo le testimonianze
materiali che lo scavo restituisce.
Non dimentichiamo che per molti secoli la Calabria è
stata la centrale europea della seta, tanto per la
trattura quanto per la tessitura; che ha esportato
olio e ottimo vino (Lagaritano) verso i mercati
europei, in tempi antichissimi.
Lo sviluppo del commercio del vino ridisegna la
geografia urbana di Castrovillari.
Prima che alla fine dell'Ottocento avvenisse quella
che l'economista Manlio Rossi-Doria chiamò "una
rivoluzione agraria" che si realizzò attraverso
un'estesa riconversione delle colture, i Greci, i
Romani, i Bizantini, i Normanni, gli Svevi, gli
Albanesi ci hanno insegnato le tecniche della
coltivazione della vite e di vinificazione.
E la nostra terra, naturalisticamente bella, è ricca
di testimonianze di queste popolazioni che ci hanno
attraversato.
Conoscere il passato, attraverso i suoi segni, i
suoi riti, i suoi miti, i suoi simboli, significa
attraversare processi di civiltà, riempire di
contenuti lo spazio vuoto che la società
contemporanea, in declino, va scavandosi attorno.
Il palmento della città del Pollino non è esemplare
unico: ne è stato rinvenuto un altro di diversa
tipologia in località Monte Vecchio da Francesco Di
Vasto nel 1990.
E nella Locride sono stati rinvenuti più di
settecento palmenti scavati nella roccia, di origine
romana e bizantina, tra Ferruzzano e Bruzzano.
Un numero notevolissimo di manufatti di
paleoviticoltura, di diversa tipologia, segnalati
dal prof Orlando Sculli.
Un prezioso patrimonio che merita di essere
valorizzato e fruito.
I beni culturali, testimonianze dell'identità di un
popolo, diventano anche prodotti economici quando la
loro fruizione è gestita con una progettualità che
rispetti le specificità del territorio e gli aspetti
etici, economici, antropologici ed anche etnici; e
sono una preziosa risorsa identitaria per la
Calabria, in grado di attivare programmi di
investimento sul turismo culturale.
Cos'hanno più di noi i veneti, i romagnoli, i
toscani che propongono Strade del Vino, come sistemi
integrati di offerta turistica che si snodano lungo
percorsi culturali sui quali si collocano emergenze
artistiche ed architettoniche, luoghi del vino
visitabili (vigneti, aziende, cantine) e attività
imprenditoriali collegate (ristoranti, alberghi,
agriturismi, enoteche, ecc.) ???
Questa testimonianza di cultura materiale, va
analizzata, valorizzata e strappata all'onda
distruttiva di un facile modernismo, irrispettoso
della memoria storica e dell'ambiente.
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pubblicato il 21 Febbraio 2006
“Il mondo è un libro.
Chi non viaggia ne legge una pagina soltanto”
(Sant'Agostino).
di Maria Zanoni
Voglio iniziare con questa massima di Sant'Agostino le mie
riflessioni sul libro di Pierfranco Bruni sul
tema del viaggio e della diaspora nella letteratura
Italo – Albanese.
Nel suo recente volume Tra Girolamo De Rada ed
Ernesto Koliqi. Tracciati Arbereshe per viandanti
Bruni, partendo da Girolamo De Rada, passando per
Ernesto Koliqi, Ismail Kadaré, Nicola Misasi,
Giuseppe Schirò, porta testimonianze ben precise,
relative alla cultura arbereshe, come quelle di
Belli, de Custine, D’Annunzio, Douglas, Dumas,
Gramsci, Levi, Piovene.
Porta sulla scena delle minoranze linguistiche un
rapporto emblematico tra civiltà, vita e cultura.
Anche in questo lavoro affiorano i due segmenti
fondamentali che caratterizzano il viaggio
letterario di Pierfranco Bruni: la memoria e la
nostalgia.
La nostalgia (nòstos-àlgos, in greco) è la
sofferenza per il ritorno.
Ma è anche nostalgia verso l'ignoto.
È l’impulso di andare via, di fuggire da casa,
allontanarsi dal conosciuto, di vedere luoghi nuovi,
di acquisire conoscenza e nello stesso tempo è
desiderio di tornare.
Alla base del viaggio c’è sempre una contraddizione:
desiderio di fuga e necessità di ritorno.
Il mito di Ulisse in Omero e in Dante è reso vitale
dalle motivazioni al viaggio come ricerca
esistenziale.
Sembrano due poli opposti, in realtà sono due poli
univoci.
Ulisse e Dante sono eroi del viaggio: ambedue
valicano i confini di spazi proibiti.
Dante e il suo viaggio purificatore dell’anima.
Ulisse ed il suo nostos ad Itaca.
L’Ulisse di Omero torna ad Itaca e l’Ulisse di Dante
va oltre ogni limite verso l’ignoto, per “seguir
virtute e canoscenza” e non per vivere come bruti.
Dall’Odissea al turismo globale...
In un’epoca in cui si va sempre più verso il NON
LUOGO (come afferma Marc Augè) verso un mondo del
provvisorio e dell'effimero, nel quale individui
senza volto si sfiorano senza parlarsi,
con il racconto-confessione-espiazione si ripete e
si riafferma uno dei cardini della letteratura di
tutti i tempi (da Omero, a Dante, a... Bruni): il
potere salvifico della parola.
Bruni viaggia sui sentieri della poesia, tra
mediterraneità e metafora.
Il viaggio è metafora dell’abbandono ed il viandante
è il naufrago dell’esistenza.
Con la partenza si ha il distacco dal noto per
venire a contatto con l’ignoto.
Ed è qui che si incontra la propria identità.
Il viaggio è considerato nella sua circolarità:
partenza – percorso – arrivo (come raggiungimento
dei valori originari).
Il viaggio racchiude una polarità tra la fedeltà
alla terra natale, alle proprie radici e la
scommessa della ricerca, della conoscenza.
Per trovare la libertà, bisogna uscire dalla
struttura di un unico sistema e capire altre
culture: essere liberi è la possibilità di scegliere
i modi in cui dare senso alla propria vita.
Ce lo ha insegnato magnificamente un grande
globetrotter, Giovanni Paolo II°.
Il viaggio - come percorso da leggersi soprattutto
per le tappe che propone alla riconquista del
proprio io - assume dimensioni profonde, nel momento
in cui si assolutizza la frattura tra padronanza
certa di valori ed estraniazione dalla storia.
E Bruni nel suo saggio afferma che “nei Canti di
Milosào De Rada, più che essere un poeta della
liberazione, è un poeta del mito liberatorio
(Skanderbeg)..
E' nella letteratura che si registrano i modelli di
comprensione e di dilatazione della consapevolezza
di una identità” (dice ancora Pierfranco Bruni).
E ribadisce: “Appartenenza qui significa radici.
Significa consapevolezza storica e culturale di un
legame con la terra e con un popolo.
Le radici sono la continuità di un passato che in
poesia diventa fatto identitario come recupero di
memoria.
Il mito, la favola, la magia
della memoria restano e contano più della storia”.
È il mito che, prendendo il sopravvento sulla
storia, fa degli arbereshe un popolo fuori dal
tempo, con la loro epopea, ricca di coralità etnica
e culturale.
Nei Canti di De Rada (rileva Bruni) c'è un modello
di cultura mediterranea fondato soprattutto sul
valore della memoria.
È una cultura intrisa di intrecci orientali ed
occidentali, i cui valori di riferimento restano
quelli etnici e quelli spirituali.
“La malinconia, la dolcezza, la nostalgia, l'impatto
con la realtà sono connotati marcatamente
mediterranei”.
Ancora e sempre il Mediterraneo, al centro di quegli
itinerari di storia che hanno sempre caratterizzato
la cultura italo - albanese e la cultura d'Albania.
E proprio la Calabria, molo al centro del mare
nostrum, assomma spiritualità albanese e
spiritualità arbereshe.
Una ricca spiritualità che ha incontrato persino la
simpatia di Gabriele D’Annunzio, come attesta
Koliqi.
Bruni, ci guida alla lettura in chiave antropologica
ed esistenziale dei Tracciati Arbereshe per
viandanti, per scoprire la dimensione profondamente
mitico – onirica della diaspora albanese.
Qui, “il senso delle radici è un tangibile raccordo
tra memoria e presente”.
“È letteratura non più di fuga, ma di memoria”.
“La memoria costituisce l’anima della tradizione del
popolo arbereshe che si aggrappa al cuore di una
civiltà (quella ereditaria) che è segnata dalla
separazione”.
A Pierfranco Bruni il merito e il plauso di aver
scavato in quella letteratura del viaggio e tra gli
scrittori e viaggiatori che hanno raccontato la
storia del popolo Italo–Albanese, offrendo originali
elementi di conoscenza e d’interpretazione.
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pubblicato il 26 marzo 2006
Mario De Gaudio: l'uomo, lo scrittore, il
giornalista
di Pino
Barbarossa
“Non
accade spesso di imbattersi in pagine così altamente
liriche e profondamente religiose come quelle
dedicate da Mario De Gaudio alle acque del Giordano.
Siamo ben lungi dalla prosa sciatta di tanti teologi
che trascurano la forma a favore del contenuto, ma
pure ben lontani dalle forme vacue di tanti
letterati nelle cui pagine formalmente perfette
aleggia il vuoto di messaggi interpellanti. Qui si
uniscono letteratura e religione, bello e mistero,
fede e cultura”.
Così P.Stefano De Fiores, Ordinario di Mariologia
alla Pontificia Università Gregoriana, nella
Prefazione all’ultima pubblicazione di Mario De
Gaudio dal titolo “Le acque del Giordano” (1999).
Nato a Francavilla Marittima, in provincia di
Cosenza, nel 1928, De Gaudio lascia ben presto il
paese natìo alla volta della capitale dove compie
gli studi liceali ed universitari (All’inizio era
difficile –mi confidava- poter terminare una frase
di senso compiuto senza che mi interrompessero per
dirmi: le solite “e” ed “o” aperte. Si sente che sei
un meridionale!).
Nel 1951 consegue la Laurea in Lettere con una tesi
avente per argomento “La Poesia di Sergio
Corazzini”, relatore era Natalino Sapegno.
Subito “scoperto” dal conterraneo on. Gennaro
Cassiani, ne fu per alcuni anni il “segretario
particolare” riuscendo, neanche trentenne, a far
tesoro di tanti suggerimenti ed esperienze che lo
aiutarono nel prosieguo della sua attività
giornalistico-letteraria.
Entra, in qualità di giornalista professionista,
nella Redazione de “Il Messaggero” nel 1953 e qui
svolge attività dapprima di Capo del Servizio
Esteri, poi di redattore Capo fino a far parte dello
entourage direttivo.
Esperto dei problemi del Sud America, De Gaudio fu
inviato a seguire le drammatiche vicende politiche
del Cile. Fu il primo giornalista a raccogliere
notizie sulla vicenda umana e sulle ultime ore di
vita di Allende dalla viva voce della moglie,
signora Busi, fuggita a Roma un’ora dopo il suicidio
del marito.
Svolse anche attività di inviato speciale in Romania
ed in Russia, raccogliendo le voci del dissenso che
portarono alla caduta del Muro di Berlino.
Appena poteva e quasi sempre per le vacanze estive,
rientrava a Francavilla Marittima nella villetta che
aveva voluto chiamare “Sinopia” (come il titolo
della raccolta di poesie, datata 1979). Quella
“Terra Rossa” che gli consentiva di spaziare con lo
sguardo dal Monte Sellaro fino al litorale jonico,
era entrata nel suo sangue, indelebilmente. Come
indelebili -nelle sue poesie- i ricordi della
fanciullezza, della madre morta ancor giovane nel
1973, dei primi amori.
E’ del 1988 la raccolta di poesie “Memorie di
Stjbe”.
Così annota il prof. Ulivi: “De Gaudio evoca un
“ritorno arcaico”che non è semplicemente dettato
dall’affetto per il natìo luogo ma significa un
riattingere le radici dell’essere, con lo scopo che
si rinnovi, a caso vergine, il tessuto delle
emozioni elementari”.”Straordinaria –scrive il prof.
Spagnoletti- l’immagine della sacerdotessa sepolta
da 2800 anni nella terra di Macchiabate. Una
sopravvivenza non solo spirituale ma fisica, perché
così la memoria del de Gaudio l’ha desiderata ed
inseguita. Naturalmente Stjbe non è che il simbolo
avvertito dal bisogno di recuperare il senso di
un’antica civiltà, nel caso specifico di una civiltà
per eccellenza greca sulle rive dello Jonio, a cui
guarda il paese natìo”
“Il suo dolce poetare inteneriva il cuore”, così il
prof. Gesualdi presidente del Brutium nella
commemorazione tenuta nella Sala del Trono di
Innocenzo XII a Roma nell’anno della sua scomparsa
(2000).
Una sensibilità poetica sempre presente nella sua
vita: dalle giovanili “Voci di un giorno”(1948) a
“Quattro tempi d’amore”(1964) fino al “Rosso del
braciere” (1997) con prefazione del prof. Giorgio
Barberi Squarotti e che gli valsero il primo premio
“Palazzeschi” nel 1976 e il premio “Terracina”.
La sua attività giornalistica lo portò ad incontrare
molti personaggi pubblici di cui- sovente- diventava
amico sincero.
L’arguzia, l’intuizione e la semplicità erano le
caratteristiche principali ancorché non esclusive
del suo animo. Amico di Pertini come di Bevilacqua,
di Andreotti come di Argan, non lasciò mai
trasparire alcun impeto di vanagloria o di
presunzione. Fu per caso che mi accorsi, entrando
nella sua casa di Francavilla, di un quadro
regalatogli da Amintore Fanfani così come
dell’Onorificenza a Cavaliere di Gran Croce della
Repubblica per meriti culturali.
Si adattava a parlare con tutti e da buon
giornalista annotava ,sornione, ogni curiosità, ogni
particolare che facesse vibrare le corde della sua
fantasia.
Per la narrativa ha pubblicato “Dolcedorme”, romanzo
dal quale la RAI ha tratto uno sceneggiato
radiofonico e per il quale ha ottenuto la selezione
del “Viareggio” e l’opera prima del “Villa San
Giovanni” nel 1976.
Del 1983 è “Solleone” vincitore, l’anno seguente,
del Premio “Ragusa”.
Nell’introduzione Alberto Bevilacqua scrive:“De
Gaudio è un favolista che, col candore che compete
alla sua vocazione, applica qui i primi meccanismi
fantastici ad una storia affondata nel quotidiano e
nel domestico, convinto che giocare con la fantasia
sia alla portata di tutti a cominciare dai suoi
personaggi.Il tema di Solleone è questo: rivendicare
all’immagine lo spazio che deve avere nella vita di
ciascuno”.
Del 1990 , invece, è “Il Santuario della terra”, cui
vengono assegnati sia il Premio “Graniti-Taormina”
che il “Montalcino”.
Ispirato a personaggi del paese natìo,
“Fontanavecchia” (1993) è una raccolta di 13
racconti. “Siamo di fronte ad un’opera- si legge
nella prefazione di Barberi Squarotti-che congiunge
la misura breve e nervosa del racconto con la
continuità del romanzo. E’ anche questo il segno
dell’impegno di reinvenzione del genere che De
Gaudio ha esemplarmente compiuto”.
Presidente del Centro Studi “Corrado Alvaro” di Roma
, De Gaudio è stato anche Ispettore Onorario per le
zone Archeologiche di Timpone della Motta.
Uomo schivo e riservato, amava ricevere tanti
giovani desiderosi di intraprendere la carriera
giornalistica. Per tutti aveva un consiglio da dare,
compreso quello di “lasciar perdere”, laddove
ravvisava l’inutilità di un impegno non consono
all’attitudine del soggetto.
Profondamente religioso e mai bigotto, era l’anima
laica de “Il Messaggero” e volentieri si soffermava
a raccontare di quando il Direttore Emiliani gli
chiese di accompagnarlo da Giovanni Paolo II. Al
Pontefice polacco regalò una copia del dramma sacro
“La fanciulla di Nazareth” (1991) ed una elegia
composta in onore dell’indimenticata madre.
“Pregheremo per sua madre insieme” gli disse
Woityla. Rimase colpito dalla tenerezza del
Pontefice: “E’ un uomo profondamente mariano; parla,
anzi, vede la Madonna!”
Andato in pensione dal Messaggero, veniva
continuamente interpellato come consulente, avendo
più tempo per dedicarsi alla Calabria ed a
Francavilla, in particolare: “preparati a lunghe
conversazioni” mi diceva per telefono prima di
prendere il treno.
Amava fare il giornalista, per meglio dire era
giornalista , e così morì, proprio mentre esercitava
l’arte del comunicare. Era al telefono con lo
scultore Amelio, quando la morte lo strappò
all’affetto dei suoi cari. Si spense reclinando
dolcemente il capo; sul suo volto l’accenno ad un
sorriso, l’inizio di un eterno immergersi nel
mistero del Verbo, della Parola.
Volle essere sepolto a Francavilla, che ,oggi ,lo
ricorda con un premio giornalistico a lui dedicato.
Ne sarebbe stato contento.
“Tornare indietro è il sogno del poeta:/ricomporre
suoni e voci/da meandri di fantasie primordiali/in
altre dimensioni, testimonianze/ di epoche morte
della storia./Dolce carezza di una mano/ che non ha
fretta, lungo sonno/ nell’idea dell’irreale/” (da
“Memoria di Stjbe”)
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pubblicato il 4 ottobre 2006
S'accabadùra
-
Un rito arcaico di Eutanasìa in
Sardegna.
di Maria Zanoni
Eutanasia,
sì? Eutanasia, no? Questo è il problema.
Testamento biologico, accanimento terapeutico,
suicidio assistito ci pongono di fronte alla
delicata riflessione sulla vita e sulla morte.
In una società sempre più insensibile, abituata a
scene di morte (sgozzamenti e massacri in diretta
televisiva), infermiere che eliminano negli ospizi
anziani-malati-ingombranti, in una società in cui i
giovani si divertono a gettare sassi dal cavalcavia
e godono a tenersi come souvenir la scena ripresa
con la fotocamera del telefonino del compagno
rimasto infilzato sulle lance acuminate di un
cancello, il problema eutanasìa (buona morte) divide
le coscienze. E il senso vero e misterioso del
vivere e del morire, nella sua dimensione umana,
rischia di essere delegato ad una società distratta,
frettolosa, efficientista.
Eppure, questo non è un problema di oggi. Di
eutanasìa si parla sin dai tempi remoti.
L’argomento, infatti, ha suscitato particolare
interesse tra Antropologi e studiosi di tradizioni
popolari che hanno fatto ricerca su ritualità arcane
ed inquietanti della Sardegna dei tempi antichi. Le
comunità agro-pastorali sarde hanno sempre avuto un
particolare rapporto con la morte. L’ultimo atto
della vita umana nell’isola era vissuto con
coraggiosa rassegnazione, anzicchè con terrore.
Nelle campagne della Gallura era praticata una forma
di eutanasìa “rurale”, un macabro rituale che
affonda le sue radici nella notte dei tempi. Quando
un moribondo restava in agonia troppo a lungo, i
parenti che gli stavano attorno, per evitargli
atroci sofferenze, chiamavano la “femina
accabadòra”, colei che aveva il compito di porre
termine all’agonia del malato.
S’accabadòra, o agabbadòri, la cui definizione,
“finitrice”, trae origine dal sardo accabàre (a sua
volta dallo spagnolo acabàr, terminare, e
letteralmente: “dare sul capo”), era una donna
coraggiosa che, chiamata dai familiari del malato
terminale, dava la “buona” morte.
La femmina “accabadora” arrivava nella casa del
moribondo sempre nelle ore notturne, accompagnata da
una suonatrice di “matraca”, un tamburo cerimoniale,
ricavato da un cilindro di legno coperto da una
pelle d’asino da cui, al tocco di due bacchette,
scaturiva un rullio tenebroso. Dopo aver fatto
uscire i familiari dalla stanza, recitando preghiere
e formule, assestava un colpo al centro della fronte
del malato con “su mazzòlu” (un rudimentale
martello di legno di olivastro), provocandone la
morte.
S’accabadora andava via dalla casa in punta di
piedi, senza chiedere niente in cambio, quasi avesse
compiuto una “missione” ed i familiari del “malato”
le esprimevano profonda gratitudine per il servizio
reso al loro congiunto ed, a volte, le offrivano
prodotti della terra.
Questa donna, di solito anche levatrice, temuta e
rispettata nello stesso tempo, secondo alcune
testimonianze, ha esercitato fino alla metà del
Novecento una pratica, ritenuta illegale, ma
tacitamente accettata dalle Istituzioni e dalla
Chiesa.
Nel Museo Etnografico “Galluras” si conserva il
“mazzòccu” o “mazzòlu”, lo strumento usato in
questa usanza sconcertante, trovato nel 1981:
s’accabadora lo aveva nascosto in un muretto a secco
vicino a un vecchio stazzo che una volta era la sua
casa.
Studi approfonditi e analisi della documentazione
rinvenuta presso curie e diocesi sarde e presso
musei, hanno accertato la reale esistenza della
figura inquietante della accabadora.
Già nel 1828 l’inglese Henry Smyth, visitando la
Sardegna, scriveva:”Nella Barbagia vi era la
straordinaria usanza di strozzare una persona
morente nei casi disperati. Quest’atto era compiuto
da una salariata chiamata s’acabadora”
E anche lo scrittore inglese Jonh Warre Tyndale nel
1849 parla de sas acabadoras.
Francesco Poggi nell’opera “Usi natalizi, nuziali e
funebri della Sardegna” nel 1897 parla di acabadoras
che esercitavano in epoche assai remote il pietoso
ufficio di soffocare gli agonizzanti, perchè non
soffrissero inutilmente.
Gli ultimi episodi noti di accabadura avvennero a
Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952. Oltre i casi
documentati, moltissimi sono quelli affidati alla
trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti
ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto
a che fare con la “signora vestita di nero”.
Era un fatto naturale: la levatrice aiutava a
nascere, s'accabadora aiutava a morire.
Vi erano anche altri modi di praticare l’eutanasìa,
(ad esempio il soffocamento con un cuscino, o solo
con le mani) come testimonia una frase di uso comune
dalle parti di Aritzo:” t’inde ao de boga” (ti
soffoco, ti prendo per il collo).
Per metter fine ai giorni di un vecchio ammalato che
non riusciva ad esalare l’ultimo respiro, arrivavano
le mani della accabadora, che senza scrupolo alcuno
e senza il minimo rimorso, toglieva la vita,
convinta di aver assolto ad un compito necessario.
Giovanni Lilliu parla della rupe babaieca a Gairo,
dove venivano soppressi gli anziani e i malati.
Si racconta di eutanasia della “rupe” (Mucidorgiu
..cioè silenziatori) per indicare la pratica
mostruosa di alcuni figli che sopprimevano i
genitori troppo vecchi, spingendoli giù da una rupe,
sul ciglio di un burrone.
Eco, di una usanza lontana nei tempi, la pratica
dell’eutanasia “ante litteram” (già praticata da
Fenici, Etruschi e popoli africani), nei piccoli
paesi rurali della Sardegna, come presso altre
popolazioni sin dall’antichità, è un fenomeno
socio-culturale e storico, legato a culture
arcaiche, a condizioni di vita durissime, di leggi
economiche di sopravvivenza, che appartiene
all’indagine antropologica, non di certo agli
attuali dibattiti che coinvolgono società, mondo
religioso e politico.
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pubblicato Ottobre
2006
TERRA DEL VINO
ANTICHI METODI DI VINIFICAZIONE A BUONVICINO
di Maria
Zanoni
Alla
scoperta delle attività del mondo rurale di
oggi, anche con uno sguardo al passato, ci
inoltriamo, alla riscoperta dei colori e dei profumi
della campagna, tra inediti scenari di fruizione del
patrimonio culturale.
Buonvicino, un grazioso paese a pochi chilometri da
Diamante, incastonato nei verdi contrafforti
dell’Appennino tirrenico, il cui nome ricorda la sua
origine nel XIII secolo derivata dai rapporti di
buon vicinato tra i tre Casali (Salvato, Tripidone e
Trigiano) nei pressi dell'abbazia di San Ciriaco,
nella vallata del Corvino, popolosa per le molte
contrade, riesce ad offrire prodotti genuini da
un'agricoltura ancora a conduzione domestica.
In un mondo in cui l’urbanizzazione e
’industrializzazione indiscriminata hanno stravolto
antichissimi ritmi di vita, paesaggi, salubrità,
antichi mestieri, usi e tradizioni ed in cui
prodotti tipici di alta qualità rischiano di essere
sommersi da prodotti agro-industriali massificati,
in questo paese di origine basiliana, restano le
tracce di antiche civiltà. Come ai tempi della Magna
Grecia, sotto lo sguardo protettore di San Ciriaco,
benedicente dallo sperone roccioso "Zaccaniello"
sovrastante il paese, nelle antiche casette rurali,
abbarbicate ai terrazzamenti fertili coltivati a
vigneti, si trova ancora qualche antico palmento
alla greca.
Nelle terre dei vitigni autoctoni, dello zibibbo,
famoso sin dai tempi antichissimi per la produzione
delle uve passe usate per i panicèlli, ad esser ben
fortunati, si può trovare qualche famiglia che, come
nei tempi antichi, perpetua il rito della
vinificazione, come un momento sacro di lavoro
collettivo e convivialità. L’umanità e la generosità
della gente calabrese credo che in questo borgo
abbia la sua migliore espressione. E la famiglia
Amoroso, che il senso dell’ospitalità ce l’ha nel
sangue, ha invitato nel suo palmento in contrada
Scala, come nel salotto buono di casa, anche alcuni
giovani per “partecipare a fare il vino” e poi
sedersi tutti a tavola.
Qui le tecniche di vinificazione si tramandano da
padre in figlio, con la stessa passione e con gli
stessi strumenti tradizionali. Dopo aver varcato la
soglia del locale, senza aver pronunciato, ahimè, la
rituale frase benaugurale “Santu Martinu”,
c’immergiamo in un’atmosfera d’altri tempi, dove il
senso spiccato dell'ospitalità e della cordialità si
tocca con mano. È gente, che nei gesti quotidiani e
nell'ospitalità cordiale del pranzo, alla fine del
lavoro, rinnova il calore dei tempi antichi.
D’altronde, l’accoglienza e l’offerta di cibo
costituiscono uno dei modi autentici di comunicare
la cultura di un territorio e della sua gente.
La tradizione consolidata di pigiare le uve per
ricavarne un prodotto genuino qui non è stata
fagocitata dalla meccanizzazione e dalla
ristrutturazione dei processi produttivi. Le due
vasche per la pigiatura delle uve e per la raccolta
del mosto sono quelle di secoli addietro; sono state
solo imbiancate di recente con una pittura
impermeabile che assicura maggiore igiene, ma gli
strumenti per pressare le vinacce ottenute dalla
pigiatura dei grappoli con i piedi, rimaste a
fermentare un’intera nottata, sono quelli
tramandatici dai Greci colonizzatori, attraverso
l’operosità dei monaci bizantini che hanno avuto il
merito di diffondere maggiormente in queste terre la
vitivinicoltura.
Nel palmento si conserva ancora il grosso masso di
roccia, del peso di circa sei quintali, anticamente
chiamato màzara, che fa da contrappeso al pesante
tronco, azionato a mano, tramite un rudimentale
argano di legno (manganèllu) che pressa le vinacce.
E l’azione di filtro del mosto che scorre nella
vasca inferiore del palmento è rigorosamente
affidata ad un cestino di vimini. Poi la botte di
legno custodirà nella fresca e buia cantina il
faticoso lavoro di un anno. Non a caso, il proverbio
recita: “a vigna è na tigna”.
Partecipare oggi a questo “rito del vino”, secondo
tecniche consolidate nei secoli, soprattutto per i
giovani, ha il senso della promozione e della
rivalutazione di mestieri e di attività agricole di
alta dignità umana, quand'anche modesti, se valutati
solo sotto il profilo del mero aspetto economico,
per la loro inestimabile valenza ambientale e
culturale, lontani dal sistema di produzione
industriale standardizzata. Si favorisce la
permanenza e si tutelano dalla definitiva scomparsa
le attività rurali degli anziani, i beni materiali
della civiltà contadina, base della cultura, della
lingua, della genuinità alimentare, della storia e
della nostra identità.
È necessario moltiplicare le iniziative culturali,
le dimostrazioni in loco, le attività di ricerca e
di studio, per promuovere l'identità rurale, gli
antichi mestieri, gli usi ed i costumi tradizionali,
nonchè la lingua, per reimpostare l'antico rapporto
di complementarità fra città e campagna. Va
rivalutato lo stesso concetto di ruralità. Lo dico
forte in una mia recente ricerca sui beni culturali,
cosiddetti minori, inserita in un volume in corso di
pubblicazione da parte del Comitato nazionale
Minoranze del Ministero Beni Culturali: “Superando
l’antica concezione che il termine “rurale” indichi
un mondo agricolo, povero e arretrato dal punto di
vista culturale, miriamo alla conoscenza del suo
patrimonio (lingua, usi, costumi, beni materiali,
religione, tradizioni, prodotti tipici) per la loro
tutela e fruizione sociale, in quanto erede di
civiltà greca-romana-bizantina-araba, incrociatesi
nel Mediterraneo e fondamento della storia della
Calabria.
Anche i cosiddetti beni “minori” (palmenti, frantoi,
mulini, vecchie masserie) possono divenire una
risorsa culturale europea, con il loro carattere di
documento e veicolo di comunicazione, in una rete
storica, scientifica e didattica; possono divenire
una risorsa in grado di promuovere lo sviluppo
turistico, e quindi anche economico, delle aree
rurali, con opportuni interventi, che comportano
investimenti ingenti e una politica sinergica ed
integrata del territorio.
Salvaguardia e promozione passano soprattutto da
circuiti economici e sociali, a livello nazionale e
locale, in sinergia con attività terziarie,
primarie, secondarie e mirate operazioni di
marketing del territorio, in funzione di
un’industria turistica da modernizzare nelle sue
modalità di comunicazione e organizzazione.
Oggi, i beni culturali sono passati da un riduttivo
modo di pensare ad essi solo come un insieme di
risorse da catalogare, conservare e ammirare, ad
essere considerati elemento da utilizzare per
innescare anche processi di valorizzazione
economica. La funzione economica dei beni culturali
è strettamente connessa alla loro fruizione, che
rappresenta un valore d’uso per il territorio, sia
sotto il profilo economico che sotto quello
dell’identità storica e sociale della collettività.
Lo studio, l'interesse per il passato e le forme di
vita e di lavoro rende più consapevoli ed
indipendenti nelle scelte per il futuro”. |
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pubblicato il 2 Set
2006
I SEGNI DEL LEGAME
ALLA PROPRIA TERRA
di Filomena Pandolfi
Nell'introdurre
l'argomento oggetto di questo incontro, vorrei
ringraziare la dott.ssa Maria Zanoni per la stima
dimostratami nell'avermi affidato il compito di
parlare del suo ultimo libro "Segni del tempo".
In questo suo studio la nostra autrice apre delle
prospettive interessanti sul versante della
promozione dei beni culturali e del patrimonio
naturalistico, intesi come testimonianze della
storia di un popolo quale quello calabrese sempre
più orientato verso la ricerca della propria
identità e verso la riscoperta della propria memoria
storica.
Il lavoro di Maria Zanoni è un'incantevole proposta
di conoscenza del territorio calabrese, frutto della
sua assidua e costante indagine sul campo.
La Zanoni, infatti, ha prodotto in molti anni di
ricerca migliaia di immagini, documenti, di reperti
archeologici, registrazioni, filmati che le hanno
consentito di restituire alla memoria luoghi e
momenti di storia passata e presente.
Da queste immagini e dalle definizioni con cui la
ricercatrice descrive il patrimonio naturalistico e
culturale calabrese trasudano l'infinita passione e
la profonda sensibilità di una donna che si sente
intimamente ed intellettualmente legata alla propria
terra.
E sono proprio questa passione e questa sensibilità
a prenderci per mano durante la lettura del suo
libro ed a condurci verso un paradiso di emozioni,
di sentimenti, di esperienze, da vivere attraverso
il gusto della scoperta e della riscoperta dei
nostri tesori.
In questo libro Maria lavora molto sulle immagini,
affidandosi con straordinaria abilità al loro potere
evocativo che ci fa entrare nella storia e muoverci
nelle dimensioni del tempo e dello spazio nel
momento del loro incontro con i beni culturali.
Ed in funzione di questo incontro la sua ricerca
diviene una sapiente lettura delle risorse
territoriali della Calabria in un perfetto
equilibrio tra ieri ed oggi in grado di non
sottrarre al presente i suoi connotati , affinché il
presente non soccomba mai di fronte al passato, ma
dialoghi e si rapporti con esso.
Tale dialogo le permette, infatti, di offrire
un'immagine più completa dal punto di vista
antropologico del bene culturale.
Maria Zanoni nella sua opera ama definire la
Calabria "terra amara ma da amare, alpestre, dura e
fiera quanto mite ed accogliente, dalla lunga
storia".
E ci ricorda che furono i Greci a dare il nome alla
nostra terra, nome che significa terra "bella (dal
termine kalà) e fiorente (dal verbo brio), ma che
conserva intatti i segni delle nobili civiltà che
l'hanno attraversata lasciando lungo i loro percorsi
tracce profonde.
Tracce che delineano l'intenso rapporto tra passato
e presente all'interno di una dimensione in cui ogni
bene culturale appartenente al nostro territorio
viene connotato da un retrogusto storico importante,
in grado. di rispecchiare il nostro "modus vivendi,
la nostra cultura, la nostra tradizione.
L'opera della nostra scrittrice è uno studio o,
meglio, un viaggio all'interno del panorama
culturale calabrese che collega inesorabilmente il
passato al presente utilizzando valori e civiltà
della nostra bella Calabria.
1 beni culturali ci trasmettono un'eredità viva,
ricca di arte e storia, di immagini e linguaggi, che
giocano un ruolo fondamentale nel rapporto tra
l'antico ed il moderno.
Ed è all'interno di questo rapporto che nel
patrimonio culturale di un territorio entrano in
gioco, dunque, in tempi a volta lunghi a volte
brevi, fattori geografici, climatici, storici,
sociali, culturali. Ogni nostro prodotto diventa
vero elemento d’identità per una serie di fattori
che vanno dal clima e dal territorio favorevoli alla
facilità di produzione, dalla necessità di dare
sapore a un vitto insufficiente e monotono a
concezioni mediche e di tipo magico nonchè ad
identificazioni che affondano la loro origine in
precedenti forme di autorappresentazione della
popolazione calabrese. Esso, pertanto, riflette e
racconta il più generale stile di vita di questa
popolazione.
I nostri prodotti tipici evocano e, in qualche modo,
presentificano luoghi antropologici, fatti di
parole, memorie, ricordi, storie, persone,
relazioni. Attraverso i beni culturali si snoda, si
consuma, si risolve, talvolta si rafforza la
nostalgia del luogo di provenienza e si misura il
tipo di legame che con esso si continua ad avere.
La ricerca dei prodotti tipici rivela il bisogno di
stabilire un rapporto con la propria terra, la
propria storia, la propria cultura, la propria
sensibilità ed afferma l’esigenza di un equilibrio
alimentare, magari da inventare o da reinventare,
oltre a rappresentare anche un elemento d’identità
culturale con forti implicazioni economiche ed
ecologiche.
Il patrimonio culturale, pertanto, diviene il
tassello fondamentale del grande mosaico delle
risorse della Calabria e la corretta direzione nella
quale bisogna dirigersi è chiara: promozione del
territorio "a tutto campo", a 360 gradi, nella
consapevolezza che non esistano più barriere
artificiose che tengano separati i mondi
dell'enogastronomia da quello della cultura,
dell'arte, delle tradizioni popolari, dell'ambiente.
Oggi più che mai per essere competitivi e portare
avanti efficaci politiche di marketing territoriale
è necessario diversificare l'offerta turistica e
porla all'interno di un sistema integrato, dove gli
attori primari sono tenuti ad impegnarsi nella
valorizzazione del territorio, come un insieme
omogeneo di storia, costume e cultura che si
esprimono peculiarmente attraverso le sue tradizioni
eno gastronomiche e i suoi prodotti tipici.
Si tratta, quindi, di valorizzare le ricchezze
naturali e storico culturali integrandole in modo
perfettamente sinergico e coordinato in una logica
di mercato legata alla qualità dei servizi erogati
ed alla soddisfazione dell'ospite.
In realtà, il fondamentale obiettivo di questa
serata è proprio la promozione dell'enogastronomia
calabrese in funzione del recupero dei prodotti
tipici all'interno del medesimo territorio dì
appartenenza, sviluppando nel contempo l'intima
consapevolezza negli attori locali di possedere
sufficienti elementi di attrazione per la diffusione
di una mentalità turistica articolata su diversi
livelli. Questa vuole essere una nuova proposta
progettuale di creazione di un percorso itinerante
finalizzato alla valorizzazione dei beni culturali e
delle risorse del territorio a favore del turista
che oggi si mostra come un consumatore di
appartenenza che cerca sul territorio più che
altrove le sue modalità di fruizione dei tempo e
dello spazio.
Solo se condotte in questa nuova direzione, infatti,
le ulteriori azioni intraprese dagli operatori
diverranno più efficaci e consentiranno al nostro
prezioso ed importante patrimonio ricco di "saperi”
e di "sapori” di conservare una continuità
sostanziale ed un carattere solido riconoscibili
attraverso i valori dell'equilibrio e della
mescolanza, affermando alacremente il profondo
sentimento per i nostri luoghi di appartenenza e la
chiara tendenza a raggiungerli e a custodirli.
Concludo, pertanto, rivolgendo i miei più sentiti
complimenti per il suo prezioso lavoro a Maria
Zanoni, illustre ricercatrice, ma soprattutto donna
splendida, in una splendida terra che lei ha saputo
raccontarci con notevole apprezzamento per le più
energiche e sincere espressioni dell'intelletto
umano e con un altisonante amore per la verità.
Una verità che deve resistere in un popolo quale
quello calabrese che ha il dovere di recuperare il
gusto delle cose semplici e di ritrovare gli spazi
giusti per lasciare emergere la nostra meravigliosa
cultura.
Relazione di presentazione del volume
“Segni del tempo” a Morano Calabro – 26 agosto 2006
Nella foto da destra: Erminia Di Lorenzo,
Filomena Pandolfi, Maria Zanoni, Ciro Mortati e
l'on. Mario Pirillo a Morano - Museo
dell'Agricoltura - 26-8-06
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pubblicato il 2 Settembre
2006
Antichi palmenti
raccontano la storia della Calabria
di Maria Zanoni
“La
Calabria, possiede un ricco patrimonio di cultura
materiale, che ha avuto grande influenza nel
processo di trasformazione sociale, economica e
culturale di questa nostra terra, ma è quello meno
noto e documentato, che necessita di interventi di
recupero e valorizzazione”.
È quanto afferma Maria Zanoni, ricercatrice di
Antropologia Culturale, che sta effettuando uno
studio comparato sui palmenti (primordiali manufatti
per la vinificazione) venuti alla luce in questi
ultimi anni su tutto il territorio calabrese.
“La conoscenza delle testimonianze umane dei secoli
passati, attraverso lo studio e la valorizzazione
dei manufatti edilizi (vecchi mulini, palmenti,
frantoi) espressioni della cultura materiale, che
caratterizzano un ambiente storico-geografico,
permette la ricostruzione dei sistemi insediativi,
delle tecniche costruttive, delle tecnologie
agricole, dei metodi di produzione, degli usi
sociali ed economici e delle condizioni di vita
materiale del popolo nel tempo – dice la Zanoni.
Anche i cosiddetti beni “minori” possono divenire
una risorsa culturale in grado di promuovere lo
sviluppo turistico, e quindi anche economico, del
territorio, con opportuni interventi, che comportano
investimenti ingenti e una politica sinergica ed
integrata.
Salvaguardia e promozione passano soprattutto da
circuiti economici e sociali, a livello nazionale e
locale, in sinergia con attività terziarie,
secondarie e primarie, mirate operazioni di
marketing del territorio, in funzione di
un’industria turistica da modernizzare nelle sue
modalità di comunicazione e organizzazione.
Oggi, i beni culturali sono passati da un riduttivo
modo di pensare ad essi solo come un insieme di
risorse da catalogare, conservare e ammirare, ad
essere considerati elemento fruibile, da utilizzare
per innescare anche processi di valorizzazione
economica – chiosa l’antropologa.
La funzione economica dei beni culturali è
strettamente connessa alla loro fruizione, che
rappresenta un valore d’uso per il territorio, sia
sotto il profilo economico che sotto quello
dell’identità storica e sociale della collettività”.
La Calabria, accanto alle tante bellezze
paesaggistiche, artistiche, architettoniche,
possiede manufatti significativi per il loro valore
storico: antichi palmenti, vecchi mulini, frantoi,
filande, diffusi su tutto il territorio calabrese.
Questo ricco patrimonio di archeologia industriale
va rivalutato, con opportune iniziative, per
conoscere la nostra storia, per ricostruire, nei
suoi aspetti materiali, civiltà e culture diverse
che hanno lasciato i segni nella nostra terra.
Ci raccontano la storia della Magna Grecia, della
dominazione romana e della civiltà bizantina i circa
700 palmenti (vasche per pigiare l’uva) scavati
nella roccia più di duemila anni fa, rinvenuti nella
Locride dallo storico Orlando Sculli; offrono
interessanti spunti d’indagine archeologica i
quattro palmenti in grotta scoperti dalla prof.ssa
Zanoni nel territorio di Castrovillari; così come
l’antico palmento individuato dal prof Riccardo
Ugolino in contrada San Giorgio a Belvedere
Marittimo.
A dire della Zanoni - “Proprio il palmento di
Belvedere, già inserito degnamente in un percorso
agrituristico, manufatto simile ad un altro presente
nei vigneti dell’azienda Librandi di Cirò, potrebbe
essere uno dei più antichi finora rinvenuti”.
La vasca superiore, scavata in un masso di roccia
arenaria di circa 3 metri e 50 cm, è lunga 2 metri e
56 cm e larga m. 1,45. La vasca inferiore in cui
veniva raccolto il mosto è a forma di ciotola del
diametro di 1 metro.
Sulle colline della fertile riviera tirrenica dove
andavano insediandosi gli esuli della grande Sibari,
dopo la distruzione della ricca città nel 510 a. C,
vivevano popolazioni indigene di cultura enotria che
intrattenevano con i nuovi venuti rapporti
commerciali.
Sulle alture prossime al mare ed alle vallate
fluviali (pensiamo a Laos ed a Skidros) verso la
metà del VI secolo a.C. vivevano comunità indigene
di agricoltori.
La viticoltura a quel tempo era un’attività di
grande importanza per l’economia della regione.
Le fonti scritte ci attestano dell’alta qualità dei
vini prodotti in quel territorio, esportati in gran
quantità; e la documentazione archeologica (anfore
vinarie e monete su cui sono riprodotte scene
dionisiache) nonchè i palmenti testimoniano
l’organizzazione territoriale e le trasformazioni
del paesaggio agrario dalle epoche preelleniche a
quelle recenti.
I palmenti illustrano il lavoro e le tecniche di
trasformazione dell’uva e raccontano la storia di un
mondo contadino e pastorale, legato ad una cultura
trasmessa perlopiù oralmente che non ha potuto
lasciare molte testimonianze scritte.
Innovativi progetti di riqualificazione ambientale,
con percorsi di conoscenza del territorio che
permettano di rileggere le testimonianze della
cultura materiale, significative per il loro valore
storico rappresentano la risorsa ideale per le nuove
forme di turismo culturale alternativo.
Da: LA PROVINCIA del 13 agosto 2006 - pag. 36
Nella foto: l'antico palmento di Belvedere,
nell'Agriturismo di Contrada San Giorgio.
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pubblicato il 4 Luglio
2006
Un nuovo modo di
leggere la Calabria
Segni del tempo: beni
culturali e identità.
Un nuovo modo di leggere la Calabria e di porla ad
un pubblico più vasto.
di ALFREDO FREGA
In questi giorni è all'attenzione delle novità
librarie una recente opera di Maria Zanoni, studiosa
ed attivissima operatrice culturale, che ha come
obiettivo la sua regione, dove vive, immersa a tempo
pieno ad insegnare italiano e storia negli istituti
superiori ed a collaborare con la cattedra di
antropologia culturale presso l'Università degli
Studi della Calabria.
A Castrovillari, la città del Pollino per
antonomasia, dirige il Centro d'Arte e Cultura "26",
associazione di promozione culturale e ricerca
antropologica, luogo dove si creano progetti e si
realizzano mostre e convegni.
Il nuovo libro della Zanoni ha per titolo "Segni del
tempo. Beni culturali e identità" ed è stato
pubblicato dal Comitato Nazionale Minoranze
Etnico-Linguistiche del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, dipartimento dei beni
archivistici e librari. È il frutto di una sua
ricerca sul territorio di una delle regioni dove vi
sono importanti giacimenti culturali, storici,
artistici, tradizionali ed eredità vive i cui
depositari sono le popolazioni calabresi, quelle
autoctone e quelle che derivano dagli insediamenti
antichi che sono rappresentate dalle isole
linguistiche dei Greci di Calabria (RC), degli
Arbereshe / Italo- Albanesi (CS, CZ e KR) e degli
Occitani di origine valdese di Guardia Piemontese
(CS). Il testo, corredato da belle ed originali
illustrazioni da lei stessa realizzate, è
armonizzato nel suo assieme, avvincente e capace di
guidare il lettore attraverso ben studiati itinerari
di una Calabria dagli aspetti straordinari, tra
antico e contemporaneo, e che offre al visitatore le
stesse sensazioni e le stesse motivazioni che
indussero i viaggiatori stranieri tra il '700 e
l'800 a visitarla in lungo ed in largo, lasciando
testimonianze attraverso diari ed opere.
L’Autrice, esperta conoscitrice dei luoghi (in
precedenza aveva dato alle stampe "Riti e Miti:
immagini, storia, tradizioni dei paesi del Pollino",
"Salute e pane asciutto: Mediterraneo tra cultura
del l'alimentazione e stile di vita", in
collaborazione con M. A. Cauteruccio, Il concetto di
etnia nella cultura popolare contadina", in
"Etnie"), riassume i risultati di una sua ricerca
sul campo e li offre al lettore quali linee
essenziali per una conoscenza della Calabria sotto
l'aspetto soprattutto culturale.
Essendo l'Autrice una docente, siamo convinti anche
che in tale veste ha dato forma al suo lavoro perché
possa indirizzarsi alle scuole, aperte al
territorio, al fine di dare un contributo di
apprendimento e di crescita culturale alle nuove
generazioni, perché non vedano la loro terra
soltanto come luogo di sopraffazione criminale, di
rassegnazione, di insofferenza e di marginalità. Un
discorso, se si vuole, anche politico perché questa
terra diventi per la gioventù che sta crescendo un
laboratorio di idee dove le risorse umane e
culturali possano infondere loro fiducia e speranza.
E' una terra dove è possibile emulare in altri
luoghi il coraggio ed il grido dei "Giovani di
Locri". Tornando al contenuto del libro, esso si
apre con il viaggio, una motivazione ragionata da
parte dell'Autrice che, nel mettere in evidenza i
beni culturali che sono la ricchezza dei luoghi,
propone alle scuole progetti educativi atti a
formare, attraverso l’uso didattico del territorio,
quel settore del turismo culturale sostenibile ed
ecocompatibile che dovrà necessariamente aprirsi
anche ai percorsi alternativi rappresentati dalle
aree etnico-linguistiche.
Il secondo aspetto
trattato è tra storia e mito, un inno alla regione
che più di ogni altra condensa in sé questo binomio.
Ricorda lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro,
che di questa terra sacra ha scritto: "i miti si
amalgamano e le religioni si integrano in un solo
tessuto, che è poi quello della storia e della
stessa civiltà della regione". Si continua con la
Calabria quale terra di confine che racchiude secoli
di invasioni, di passaggi e di dominazioni, e poi la
sua ricostruzione, pur tra difficoltà di ogni sorta.
Seguono capitoli di gran de interesse come la via
dei parchi, la via Tirrenica, la via Ionica, così le
antiche tradizioni, luoghi e sapori, musei e siti
archeologici, le torri ed i castelli, i musei demo-etno-antropologici.
Maria Zanoni termina il suo lavoro auspicando che
proprio dagli itinerari culturali, alla ricerca dei
"segni del tempo", tra arte, natura, storia e
tradizioni, sta l'avvio del cosiddetto nuovo
"Rinascimento" della Calabria. Da parte nostra, pur
condividendo questa conclusione, poniamo
l'interrogativo che ancora manca nella nostra
regione una classe politica rinnovata e
culturalmente capace ad avviare quel processo
rinascimentale di cui questa terra ha fortemente
bisogno.
Pubblicato
in EUROMEDITERRANEO 16-31 maggio 2006 - pag 13
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pubblicato il 10 Giugno
2006
DAL LIBRO AL WEB
- IL
PORTALE CULTURALE “USABILE”
di Francesca Marino
Nella Società dell'Informazione siamo invasi da
immagini e parole, in tutte le forme.
Le informazioni vengono a noi in quantità ed anche
in "qualità", dato che possono essere "spinte" nei
nostri computer (push technology). Uno dei problemi
di fondo del nostro tempo è, infatti, quello della
sindrome da overload, il sovraccarico di dati.
Se per millenni la nostra evoluzione culturale ha
trovato un suo sviluppo, grazie alla brama di
cercare il sapere, oggi, sempre più, insorge la
necessità di saper cercare, selezionando, trovando
le parole chiave per le nostre indagini, scegliendo
il tempo e il luogo per averci a che fare. Non si
deve concepire l'uso delle tecnologie come una somma
di nuove funzioni, ma come una moltiplicazione di
opportunità.
L'accelerazione evolutiva in corso ci pone di fronte
alla necessità di una continua riconfigurazione dei
nostri assetti psicologici, una modificazione tale
da risolversi in una flessibilità che ci predisponga
continuamente ad imparare ed affrontare la fluidità
e la complessità del futuro digitale.
Nel WEB è la comunicazione a farla da padrone,
rilanciando il senso che sta alla base del concetto
stesso di navigazione interattiva, con una
prerogativa non indifferente: la personalizzazione
del percorso, l’autonomia della scelta.
Attraverso la comunicazione in rete vi è la
trasmissione organizzata del sapere, in una
connettività telematica che espande la coscienza e
che da forma all’intelligenza connettiva.
Il sito web è, essenzialmente, un insieme di
documenti organizzati in forma ipertestuale e, se
questi documenti hanno formati eterogenei, allora si
parla di ipertesto multimediale.
Inoltre, ogni testo per Internet dovrebbe essere
scritto tenendo conto di tutte le particolarità di
questo nuovo medium: l'ipertesto, i link, la stretta
relazione tra parole e immagini, le abitudini del
lettore online.
E per chi è a caccia di grandi numeri tra i propri
visitatori, è opportuno, e non solo etico, non
tralasciare nessuno. In definitiva, bisogna saper
progettare e realizzare il miglior sistema dei
collegamenti ai vari documenti dell’ipertesto, per
rendere a chiunque il sito facile da navigare, in
una parola: “usabile”.
Ad oggi, il formato che meglio garantisce la
possibilità di un collegamento di database e
l’elasticità per accogliere sempre più informazioni,
è quello “a portale”.
Nel web il portale ordina, indirizza, seleziona,
organizza e facilita l’accesso alle molteplici
risorse presenti in modo caotico ed indifferenziato
nel cyberspazio, sempre più ridondante di dati e
d’informazioni non strutturate.
Il portale culturale, poi, deve misurarsi con la
validità, l’affidabilità e il senso delle risorse
che individua e organizza, nonché con la loro
manutenzione e gestione.
Ricordando la definizione di bene culturale quale
«espressione dei valori storici, culturali,
naturali, morfologici ed estetici del territorio» e
che presenta un «interesse artistico, storico,
archeologico, etno-antropologico, archivistico e
bibliografico quale testimonianza avente valore di
civiltà», possiamo agevolmente immaginare quanto la
rete Internet e la struttura ipertestuale dei
contenuti digitali possano facilitare comprensione e
fruizione dei beni culturali, mettendo a
disposizione notevoli e differenti risorse,
dislocate in luoghi diversi.
Possiamo solo immaginare il numero d’informazioni e
dati ascrivibili al medesimo “bene culturale”, e
capiamo quale importante ruolo di sollecitazione
culturale possa esercitare un portale della cultura.
Ma attenzione: non si può realizzare una pagina o un
sito web prendendo testi pensati e scritti per la
carta e salvandoli in html. La scrittura online è
molto più complicata, perché Internet si evolve in
continuazione, e non si fa in tempo ad elaborare,
non tanto delle regole quanto delle idee, che queste
sono già superate. L’ipertesto sta al cyberspazio
come il libro alla stampa.
Imparare a scrivere per il web è particolarmente
importante e urgente, perché, passata l'euforia per
la novità del mezzo, su Internet oggi si cercano
soprattutto i contenuti; e poi perché,
contrariamente all'editoria tradizionale, riservata
comunque a pochi, su Internet possiamo scrivere e
pubblicare tutti. Senza strettoie, senza ostacoli e
persino senza soldi.
La prima cosa che chi scrive per il web deve sapere
è che Internet non ha lettori nel senso tradizionale
del termine: l’80% dei navigatori non legge riga per
riga, piuttosto "scorre" la pagina, cercando
rapidamente, come su una mappa visiva, quello che
più gli interessa.
Di sicuro sarà capitato un po’ a tutti, cercando
qualcosa, per una misteriosa catena di associazioni,
di essere approdati a tutt’altre informazioni, che
si sono rivelate la risposta preziosa a un quesito
in sospeso da tempo; esperienza che gli inglesi
chiamano serendipity.
Qualsiasi ricerca nel WEB è fatta velocemente, sia
perché navigare costa, sia perché Internet è un
mondo sterminato e la voglia di andare a trovare
altrove quello che stiamo cercando è sempre in
agguato.
Solo chi cattura nei primi 30 secondi l'attenzione
del lettore lo fa fermare sulla pagina. E allora?
Allora bisogna disseminare la pagina di segnali che
dicano immediatamente di cosa si parla e che rendano
subito chiaro il contenuto della pagina. Può
sembrare uno svantaggio e una corsa contro il tempo,
ma chi scrive per il web ha dalla sua parte due
grandi alleati: il design e l'ipertesto.
Il design è parte integrante del processo della
scrittura. Anche il testo viene presentato come
grafica e come immagine. La grafica, a sua volta,
può essere letta come un testo e può fornire
maggiori dati e informazioni di un'intera pagina
scritta. In uno scenario simile, anche il vuoto e lo
spazio bianco acquistano la loro importanza:
indirizzano e fanno fermare lo sguardo.
Ecco perché testo e grafica vanno sempre concepiti
insieme. Chi scrive non deve trasformarsi
improvvisamente in un grafico, ma necessita di
alcune informazioni: sullo schermo si legge con
maggiore difficoltà, quindi:
o testi brevi per chi consulta il web,
o titoli e sottotitoli chiari: la pagina web è uno
spazio in cui il lettore deve potersi orientare e
ritrovare,
o stessa struttura per documenti che trattano lo
stesso tema o dello stesso tipo.
In Internet il testo acquista una nuova dimensione:
cresce e si espande in profondità invece che in
lunghezza. Chi scrive per il pianeta digitale deve,
quindi, assolutamente imparare ad usare l’ipertesto
e a sfruttarne tutte le potenzialità.
Scrivere un documento ipertestuale significa
chiedersi chi è il nostro lettore, cosa vuole sapere
prima, cosa dopo, cosa considera più importante e
cosa invece un dettaglio. Significa non solo
scrivere un testo, ma organizzare l'informazione,
scegliere i link, cioè le porte che conducono avanti
nel percorso di lettura, e dare a queste porte dei
nomi semplici e brevi, ma che facciano immaginare e
capire al lettore cosa troverà oltre. Scegliere un
link e titolarlo è, infatti, uno dei compiti più
difficili e fa parte del "nuovo" talento editoriale.
Bisogna pensare alla pagina web che si sta scrivendo
come ad una mappa o ad un paesaggio visto dall'alto.
È così che il lettore la guarderà, farà su e giù con
gli occhi cercando quello che gli serve. Farne,
quindi, un percorso chiaro, fatto di luoghi e di
segnali ben precisi: titoli, sottotitoli, testi
brevi, spazi bianchi, indici, parole chiave scritte
in un altro corpo ed un altro colore, frecce, liste
numerate o a punti; tutto ciò consente di creare un
sito davvero fruibile.
Concludendo:
Un sito WEB culturale di qualità celebra la
diversità fornendo l’accesso a tutti i contenuti
culturali digitali. Dall'assoluta disponibilità
deriva l'essere-per-tutti.
Le informazioni web sono tali in quanto sono
disponibili a tutti, la cultura - in Internet - è
alla portata di tutti.
Si tratta di un notevole passo avanti e allo stesso
tempo di un evento che costringe la cultura stessa a
ripensarsi. Ad affinarsi. Lo scopo, rimane il
diffondere la conoscenza, individuando politiche e
strategie per campagne di comunicazioni mirate alla
valorizzazione delle identità ed alla fruizione del
nostro immenso patrimonio culturale, fatto di “SEGNI
DEL TEMPO”.
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pubblicato il 21 Maggio
2006
MERAVIGLIE E
STUPORI
BENI CULTURALI ED
ANTROPOLOGIA
di Francesco Fusca *
Relazione di
presentazione del volume SEGNI DEL TEMPO di M.
Zanoni alla Biblioteca Nazionale di Cosenza (20
maggio 2006)
Il Viaggio di Maria Zanoni prosegue.
La tappa tagliata oggi -2.006- s’intitola: Segni del
Tempo –Beni culturali ed identità- e porta la
Prefazione di Pierfranco Bruni.
Altre significative tappe di ricerca tagliate sono:
• 1989, Castrovillari - L’immagine e il Tempo-;
• 1999, Riti e Miti -Immagini/Storia/Tradizioni dei
Paesi del Pollino;
• 2001, Immagine donna -Ruolo femminile / Società
/Territorio in Castrovillari antica;
• 2003, Salute e pane asciutto -Mediterraneo tra
cultura dell’alimentazione e stile di vita (scritto
in collaborazione con M. Antonella Cauteruccio).
Una lettura trasversale e comparata, che riflette
sul percorso formativo e di studio dell’autrice, ci
indica il ricamo sottile dell’immaginario fil rouge
di una ricerca antropologica svolta con dedizione e
soprattutto con passione.
In effetti, i libri di Maria Zanoni si leggono
piacevolmente, mentre scorrono le pagine e le
immagini, tra un sorriso compiaciuto per le belle
cose e una delicata riflessione su come noi eravamo:
le Persone, la Natura, i Fatti, le Vicende umane e
naturali, e su come siamo…
La studiosa di Castrovillari non è alla ricerca di
eroi e di eroine, di personaggi storici; non indugia
su fatti ed avvenimenti eclatanti e roboanti, ma
accende i riflettori -e illumina a giorno- sugli
episodi e accadimenti, sulle persone e cose di tutti
i giorni, e li accarezza con una mano trèpida e pia
che fa tanta tenerezza, suscitando così sana
bonomìa.
Tuttavia, nei Segni del Tempo la Zanoni compie una
scelta strategica di ricerca e forse un salto di
qualità…
Le perplessità sono d’obbligo per chi, come noi, è
innamorato delle piccole cose, delle persone e dei
personaggi di paese e di contrada, di aspetti della
Natura che vanno scomparendo sia per l’incùria umana
-e tutti dicono che stiamo progredendo, l’Umanità,
che ci stiamo sviluppando e sempre più
civilizzando!- sia per un mal celato ma diffuso
vezzo di vivere alla giornata il quotidiano, in un
vomitevole “mordi e fuggi” e in un quanto mai
beffardo “usa e getta” di tutto e, ahimè!, di tutti…
Insomma, “bene culturale” non deve essere solo la
chiesa famosa, il reperto archeologico
significativo, il manoscritto di secoli addietro, ma
anche la pietra consumata dalle acque del fiume, la
crepa di una casa diroccata, una ragnatela, una
formica, il respiro del filo dell’erba e i fiori di
campo…
La Poesia -è di essa che chiaramente si parla!- è
nelle piccole cose come nelle grandi, è nei
personaggi famosi della Storia universale dell’Uomo
come negli uomini e nelle donne semplici, nei
contadini e nei pescatori, negli emigranti… di ogni
luogo della Terra e di ogni tempo…
Maria Zanoni -considerando complessivamente il
lavoro sin qui svolto- lascia cogliere cambiamenti
che sostanzialmente vanno nella direzione di una
visione armoniosa dell’Antropologia e della
Letteratura, della Storia dell’arte e
dell’Archeologia, della Gastronomia…, che si
dispiegano e chiaramente si manifestano
nell’odierna, suggestiva e colta proposta di
ricerca.
In effetti, scorrendo i capitoli attraverso cui si
snoda il volume, noi cogliamo i “luoghi fisici”
della Calabria -che sono, senza ombra di dubbio,
“luoghi dell’anima!- che disegnano alcuni tratti
salienti della costellazione e del paesaggio
mediterranei, e che affondano nell’antichità più
calda le emozioni ed i sentimenti di radici nobili,
colte e civili.
Un’occhiata ai capitoli illumina e suggerisce -per
la migliore Scuola italiana e della Cittadinanza
europea dei venticinque Paesi-membri, da quella
dell’infanzia sino alla scuola secondaria superiore-
itinerari di ricerca, spunti ed occasioni di lavoro
interdisciplinare, curiosità legittime per gli studi
letterari ed artistici, per gli usi e costumi, e per
le tradizioni di generazioni e generazioni di un
Popolo fiero e passionale, quello calabrese, nel
quale si stagliano armoniosamente sotto il profilo
socio-culturale anche Minoranze etniche e
linguistiche come, a mo’ d’esempio, gli Arbëreshë e
cioè gli Albanesi d’Italia.
Quali dunque i capitoli dei Segni del Tempo?
Eccoli: Il viaggio; Tra storia e mito; Terra di
confine; La ricostruzione; La via dei parchi; La via
tirrenica; La via jonica; Antiche tradizioni; Luoghi
e sapori; Musei e siti archeologici; Cartina Torri e
castelli di Calabria; Musei Demo-etno-antropologici.
In conclusione. Una conclusione quanto mai aperta,
quella che riguarda Maria Zanoni, si può così
sintetizzare: (A) la studiosa di Castrovillari ha
intrecciato e continua fondere l’impegno e il lavoro
quale promotrice e moltiplicatrice culturale attiva
e propositiva da circa trent’anni (nel campo
dell’Arte, della Letteratura, ecc.) con lo studio e
la produzione di personali opere significative; (B)
ella, nel suo lavoro professionale di docente nelle
Scuole secondarie superiori, incita e promuove nei
giovani e nelle giovani quei sentimenti e quel “dar
senso” alla vita attraverso l’impegno nello studio,
perché solo la Cultura (ma, oggi meglio le Culture,
le Civiltà, le Lingue…) libera o almeno slega un po’
dalle catene dell’ignoranza, in una strana “società
conoscitiva” dove imbonitori e imbroglioni di ogni
sorta e risma la fanno facilmente franca…
* Poeta di Spezzano Albanese (CS) –
Poèt ka Spixana - Ispettore tecnico – Dirigente del
MIUR
Nella foto da sin: Francesco Fusca, Elvira
Graziani, Maria Zanoni e Pierfranco Bruni.
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pubblicato il 29 Aprile
2006
SEGNI DEL TEMPO -
BENI CULTURALI E IDENTITA'
Il nuovo libro di
Maria Zanoni
IL VALORE DI UN RAPPORTO
TRA "ETNO" E STORIA
di Pierfranco Bruni
"Beni
culturali e identità". Uno studio attento che
precisa non solo alcuni particolari percorsi ma
puntualizza, in forme teoriche, un dettato su come
ragionare sul sistema del patrimonio culturale.
Maria Zanoni sottolinea nella sua ricerca alcuni
capisaldi. Uno di questi è il concetto di
“continuità” all’interno di un viaggio sul
territorio. Il bene culturale è cultura popolare, è
paesaggio, è antropologia nel “graffiato” delle
immagini ed è storia che riporta sulla scena il
passato pur vivendo il presente. Due temi
significativi che occupano, d’altronde, il dibattito
dei nostri giorni.
Ed è in questo contesto che Maria Zanoni intreccia
elementi storici con questioni antropologiche,
fenomeni linguistici con aspetti archeologici. Un
bene culturale “interpretato” a tutto tondo. L’esame
riguarda uno spaccato straordinario di Calabria. Un
territorio all’interno di una temperie e di una
visione completamente mediterranea. Gli elementi
mediterranei fanno da sfondo, anche se in molte
occasioni, diventano centrali per penetrare la
coscienza stessa degli ambienti, dei paesaggi e
delle storie locali. Ma il percorso è abbastanza
articolato.
Si pensi ad una Calabria che sul piano della cultura
etnica riferita alle minoranze linguistiche è
interessata da ben tre poli di riferimento. Gli
Italo–Albanesi, i Grecanici, gli Occitani–Valdesi.
Queste tre realtà sono raccontate grazie ad una
lettura non solo antropologica ma storica riferita
alle strutture presenti in queste comunità la linea
della cultura basiliana mi sembra un fatto
significativo come lo studio su alcuni palmenti
senza dimenticare il “diario” di bordo che va per
castelli e chiese. Ma il concetto di bene culturale
ha un’altra chiave di lettura che è quella collegata
al mondo contadino e alle attività produttive.
Dalle etnie presenti sul territorio alle cosiddette
culture del tempo ritrovato. Valori e civiltà sono
modelli di comparazione con il presente.
Ritornando al discorso sulle minoranze etnico –
linguistiche, definire un tracciato che va dalla
chiesa di San Basile ai supporti storici e artistici
di Frascineto, Civita, Lungro e alle forme di
tradizione e di antropologia mirata e dello sguardo
di Spezzano Albanese in un raccordo con la
“grecanicità” dei paesi dell’interno della provincia
di Reggio Calabria e alla lettura del “sito” di San
Sisto dei Valdesi e di Guardia Piemontese è un dato
di straordinaria rilevanza culturale, perché mette a
nudo, nella sua straordinaria meraviglia,
un’immagine articolata di una eredità che non smette
di confrontarsi con il contemporaneo.
Ma Maria Zanoni compie un vero e proprio viaggio in
quei “segni del tempo” che costituiscono la memoria
di una civiltà.
La Calabria è una testimonianza, ma è da
considerarsi una testimonianza all’interno di un
ambito molto più vasto qual è appunto la cultura del
Mediterraneo. La presenza delle etnie con quella più
vasta della cultura del patrimonio archeologico,
storico e antropologico è una “ricostruzione”
tangibile di un legame che si sistematizza
all’interno dei territori. Ed è qui che il concetto
di “etno” si incontra con quello di “mito” e questo
con quello di “rito”. Ma il bene culturale è la
chiave di lettura per addentrarsi in questo puntuale
ed affascinante “pellegrinaggio”. I siti qui restano
fondamentali.
I beni culturali sono tracciati di tempo che
testimoniano il vissuto delle civiltà. Sono
l’espressione di una trasmissione di eredità che
documentano identità, simboli e modelli di
appartenenza. Soprattutto quando l’esperienza del
bene culturale è fatta di linguaggi, di archeologia,
di storia, di arte, di letteratura. Messaggi che
lasciano segni e a questi segni bisogna fare
riferimento per leggere un territorio,
interpretarlo, definirlo in quella complessità che è
un intreccio di elementi geografici, storici,
estetici.
Il bene culturale è una dimensione in cui i valori
diventano partecipazione all’interno di una realtà
che coniuga passato e presente, ovvero quotidianità
e memoria. Ed è questo un “messaggio” implicito
nella ricerca della Zanoni.
È su questo piano che occorre penetrare il tessuto
di un patrimonio che è sempre vivibile nel momento
in cui il territorio stesso è un raccordo tra
ambiente, paesaggio e determinazione
storico–culturale. Il territorio è dentro un
ambiente e si osserva nel suo presente ma è il
portato di “infiltrazioni” che definiscono modelli
di appartenenza. In questo caso il rapporto tra
archeologia e storia è significativo. Non si può
definire culturalmente e quindi storicamente un sito
se lo stesso non lo si legge nella funzionalità di
un quotidiano in cui il territorio si trova a
vivere.
Proprio per questo una proposta di interpretazione
archeologica deve avere naturalmente un suo senso
attraverso una chiarificazione che ci offre soltanto
una attenta valutazione del valore etnico. L’etnia
sia in un contesto archeologico che storico ci porta
ad una verifica di quel rapporto tutto giocato tra
l’antico e il moderno, o meglio tra ciò che è stato,
ciò che si è trasmesso e ciò che è. Ciò che si
cattura immediatamente è il legame tra una relazione
di passato e il vivere il tempo nel quale si opera.
La ricerca di Maria Zanoni non smette di porre
all’attenzione tale importante problematica. Questi
due aspetti permettono di offrire un’immagine più
completa a quello che in senso piuttosto generale (o
generico) chiamiamo bene culturale. Come può essere
spiegata l’archeologia se non attraverso modelli in
cui il presupposto antropologico risulti fondante
per un inquadramento ragionato del territorio. Ma le
etnie o il presupposto “etno” ormai è da
riconsiderare in tutto quel percorso che richiama la
valenza di una comprensione della storia grazie ad
uno scavo di metodologia anche estetica nel tempo.
Il tempo va indagato. Sembra dirci questo studio, in
virtù di una rappresentazione del bene culturale.
Infatti il bene culturale è rappresentazione, ma
diventa tale solo se si compie quel percorso che
porta dall’archeologia alla storia modulando
l’approfondimento sul territorio attraverso la
presenza etnologica, antropologica, demologica. E
qui ci sono tutti questi elementi.
Le immagini parlano.
La Zanoni, d’altronde lavora sulle immagini e la
fotografia è fondamentale proprio in
quell’antropologia dello sguardo. Così anche i
cosiddetti linguaggi “tagliati” o lingue sommerse
devono essere presi in considerazione come tracciati
di un bene culturale nel quale è necessaria la
comparazione tra tempo archeologico e tempo storico.
Non si tratta di “eccessi di cultura” ma di
ridefinire anche una questione relativa al “taglio”
concettuale di bene culturale. Nella interazione tra
archeologia e storia il paesaggio della cultura ha
una straordinaria importanza proprio perché si
avverte la continuità della storia anche nella
lettura dell’ambiente. Questo ci permette di non
usare frammentazioni e di realizzare un corpus unico
tra le varie stagioni della civiltà e le epoche.
Il bene culturale si porta sempre con sé i “segni
del tempo” (i segni del tempo della Zanoni sono i
segni del tempo di un rapporto tra popolo e civiltà)
che diventano delle regole che, comunque, permettono
di non assentarci/si dal tempo che viviamo mentre ne
analizziamo i segni pregressi.
Anche l’archeologia, in una tale definizione, non
appartiene soltanto allo studio di un passato
lontano ma si stabilisce nella consequenzialità di
un rapporto con il presente dei territori.
Allora l’interpretazione di un sito è una forza non
slegata dalla nostra attualità perchè il rapporto
tra passato e presente, come si diceva, si delinea
nel momento in cui ci troviamo di fronte all’idea
del bene culturale. Per capire come viveva un popolo
all’interno di una civiltà e di una temperie del IV
secolo a.C. bisognerebbe rapportare quel popolo alle
esigenze di quel tempo, grazie a dei parametri ben
strutturati alle esigenze di una cultura
contemporanea.
Le rilevanze storiche non possono fare a meno di un
impatto con due concetti chiave: il tempo e lo
spazio.
Oggi ci muoviamo dentro queste due dimensioni per
parlare del passato, invece, si entra nella storia.
Ma il bene culturale non può fare a meno di questo
incontro. Ecco perché il valore “etno” assume una
sua sistematicità nel rappresentare e nel
comprendere il bene culturale come identità e come
realizzazione di una consapevolezza degli strumenti
e della società moderna e contemporanea.
L’antico, in fondo, è quasi sempre parcellizzato nel
moderno. Nel campo dei beni culturali recuperare la
componente etnologica (in una lettura integrata e
comparata dei territori) significa dare senso ad una
manifestazione articolata delle culture presenti in
un determinato contesto.
Questo mi sembra un dato sul quale bisognerebbe
riflettere, anche perchè il ruolo dei beni culturali
si è abbastanza ampliato ed è diventato trainante in
molti settori grazie, tra l’altro, proprio a un
legame duttile con i contesti territoriali. I beni
culturali si presentano chiaramente diversificati,
ma il territorio deve offrire una lettura omogenea,
nella quale il presente non perda i connotati e il
passato non affoghi il presente stesso.
La ricerca della Zanoni apre delle prospettive
interessanti proprio su questi versanti. E il valore
dell’ “etno” è una dimensione che interessa l’etica
e l’estetica del bene culturale all’interno di un
progetto il cui dialogo tra cultura, civiltà e
popoli resta indelebile.
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