Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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EDITORIALI 

Costume e società   pag. 1


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Editoriali, recensioni e articoli di cultura, società, costume


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pubblicato il 30 Ottobre 2007

INSEDIAMENTO RURALE MEDIOEVALE

Il palmento nella terra dei Brettii

di Maria Zanoni

Su un’ampia collina allungata tra le valli dei fiumi Caronte e Busento nel territorio di Carolei, in provincia di Cosenza, si conserva da secoli un esemplare di palmento veramente interessante.

È la terra dei Brettii, intorno a Cosenza, definita da Strabone metropoli di questa popolazione di pastori, dediti a razzie, che nel 356 a. C. si era staccata dal ceppo italico dei Lucani. Nell’area compresa tra la Sila e la valle del Crati si stanziarono sin dal V sec. a. C. i primi nuclei originari brettii, che nel tempo abbinarono all’attività pastorale quella del commercio di pece e pellame, per “l’acquisto di generi di lusso (vino, vasellame fine)”. È la terra dell’antico Acheruntia dove incontrò la morte, per mano dei Bruzi, nel 331 a.C. il re d’Epiro Alessandro il Molosso, zio di Alessandro Magno, venuto in Italia in difesa dei tarantini in lotta contro la confederazione bruzia.

Tito Livio, narrando le vicende di Alessandro il Molosso, descrive il suo insediamento su tre alture vicine al fiume Acheronte, nei pressi della città di Pandosia, che si trovava a sua volta presso i confini tra le terre dei Lucani e dei Bruzi. In un passo successivo cita la sottomissione di Cosentia e Pandosia ai Romani nel 204-203 a.C. Quella stessa Pandosia che Stefano di Bisanzio nel V secolo definisce città dei Bruzi, fortificata e con tre "vertices", viene collocata anche da Strabone nei pressi di Cosentia e descritta come una città fortificata, un tempo capitale degli Enotri. Questo territorio fu percorso dai Visigoti, il cui re Alarico, secondo la tradizione, fu sepolto in una tomba scavata nel letto del Busento.

L’invasione barbarica spinse i piccoli proprietari contadini sulle alture che davano maggiore sicurezza, ma offrivano terra poco produttiva. Fino all’arrivo dei monaci basiliani che si stabiliranno proprio sulle zone montuose e le sfrutteranno, ai fini agricoli. Tra fitti boschi di querce e castagni, campo di battaglia tra Bizantini e Longobardi, che avevano conquistato la parte settentrionale della Regione, costituendo un gastaldato con sede a Cosenza, in seno al ducato di Benevento, si consumò la storia di questo territorio sotto le grandi civiltà che si sono succedute nei secoli.

Il fascino del luogo e del reperto indurrebbe a ricostruire la storia passata con una certa disinvoltura, alla luce anche dei rinvenimenti archeologici di due nuclei di necropoli uno in contrada Stidda e uno a Cozzo S. Giovanni. Ma il sito, inedito, merita un’accurata indagine archeologica. Solo un approccio globale al territorio, impostato su metodologie interdisciplinari, può consentire la ricostruzione delle dinamiche insediative, delle forme di occupazione ed organizzazione del territorio, cogliendone tutti i risvolti storico-antropologici.

La mia ricerca sul campo è partita da un’analisi storica del territorio, utilizzando documentazioni topografiche e storico-letterarie, ma non documentazione archeologica (che credo scarsa), per tentare di collocare in uno spazio temporale e nel contesto questo reperto di archeologia del vino.

La frazione Treti è un terrazzo collinare di natura calcarea a strapiombo tra le valli dei fiumi Alimena e Caronte. Il luogo ideale per insediamenti sparsi, quali fattorie e nuclei di necropoli, in luoghi sicuri, nei pressi di fonti d’acqua e di vie di comunicazione (la via Istmica e poi la Popilia).

Questo imponente palmento, manufatto esemplare di archeologia del vino, si conserva intatto e racconta la storia del luogo meglio di mille pagine scritte. Su un lastrone di roccia porosa di una sessantina di metri quadrati, in leggera pendenza, su un terrazzato a strapiombo sulla valle dell’Alimena, sono scavate le due vasche a forma quadrata, con i segni degli strumenti in ferro per la lavorazione della roccia abbastanza leggibili. A fianco ad esse una rampa con gradini di circa 10 cm di altezza e 30 di larghezza, per facilitare l’accesso alla parte superiore del banco roccioso. La vasca più grande misura 2 metri per 1,50 di lato ed è profonda circa 60 cm. La piccola di m. 1,25 X 1,20 comunica attraverso due fori di circa 12 cm. di diametro con la superiore. Sul lato sinistro si trova una vaschetta a forma circolare del diamentro di 50 cm. e profonda circa 35 cm. sul bordo della quale si trova una boccola in ferro, in asse con l’altra posizionata all’interno della vasca superiore dove veniva calpestata l’uva. Doveva essere la pressa per le vinacce; e gli agganci in ferro reggevano l’argano che azionava la leva.

Tutt’intorno sul lastrone di roccia corrono due canaline, profonde circa 4 cm, per il recupero del mostro che scolava dalle ceste colme d’uva appoggiate a monte e convogliavano i rigagnoli nel pinàci. L’ampiezza delle vasche e i due fori di comunicazione sul tramezzo portano a dedurre che la fattoria fosse efficiente nella produzione di vino.

Poco distante dal palmento vi è una vasca circolare, anch’essa scavata nella roccia, che poteva essere una cella granaria o una cisterna di raccolta dell’acqua della fattoria; e più a sud sul crinale di roccia calcarea un gruppo di tre tombe, scavate nella roccia, in fila parallela, mancanti delle lastre litiche di copertura, divelte da tempo da ignoti, ma con la risega ben visibile. La datazione della necropoli è difficilmente determinabile, in assenza di intervento archeologico e di reperti.

Il sito è collegato al fondovalle dell’Alimena (che lo separa dal territorio di Mendicino) da una scaletta scavata lungo la parete del costone roccioso, su cui insistono alcune grotte. Dalla distribuzione e dalle caratteristiche dei manufatti rinvenuti, palmento e pozzo granario, sembra probabile la loro appartenenza all’impianto di una villa rustica tardoantica (IV-VII secolo dopo Cristo) riutilizzata in epoca bizantina. Da tenere presente, comunque, che il palmento possa essere stato riadattato all’uso, anche dopo centinaia di anni di abbandono. E non è escluso che possa essere stato utilizzato anche in epoche più recenti, in un territorio che ancora oggi produce buon vino, indice di antica vocazione vitivinicola. Il Galanti, alla fine del Settecento, evidenzia le “belle coltivazioni” del territorio di Cosenza e dei suoi Casali; e l’Arnoni, alla fine dell’Ottocento, scrive che “il vino di Cosenza si confondeva facilmente con i migliori vini di Francia”.

Abstract dal volume “Percorsi mediterranei – I PALMENTI, tracce di cultura materiale in Calabria” - di M. Zanoni - Ed. Arte26


nella foto: il palmento di Carolei

 

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pubblicato il 3 Febbraio 2007

DONNA AL SUD - IDENTITA' FEMMINILE

di Maria Zanoni



Il dibattito politico di questi giorni mi invita a fare qualche riflessione sulla condizione della donna in Calabria.

A me calabrese, che all’argomento ho dedicato il volume “Immagine donna” (ed. Centro Arte e Cultura 26 – 2001), l’affermazione di “donna” Assunta Almirante, la vedova del leader del MSI, che come tanti altri italiani è rimasta legata a stereotipi arcaici, da tempo superati, non è piaciuta.
La Almirante, intervenendo nel dibattito sulle Pari Oppotunità, ha suggerito alla Santanchè "di andare a farsi un viaggetto in Calabria, nelle parti interne, dove se tu vai trovi ancora l’uomo che avanza a cavallo dell’asino e la donna dietro che porta in testa le sarcine".

La donna di Calabria non rinnega identità e tradizioni, ma va fiera per aver portato le sarcine in testa, anche se non le porta più.
Su questa terra gravano antichi pregiudizi, alimentati anche da viaggiatori-scrittori-fotografi troppo zelanti nel denunciare, le misere condizioni di una regione travagliata da terremoti e malaria, depauperata dalle piraterie turche, isolata, terra di frontiera.

Proprio l’insistenza accanita a denunciarne gli aspetti negativi ha impedito alla Calabria di emergere nel panorama nazionale. Ma questa è storia antica…

Le donne calabresi, già dalle passate generazioni, hanno scritto significative pagine di storia, lottando per affermare un ruolo preminente della identità femminile, nonostante i soprusi, le violenze, le costrizioni di una società in cui l’uomo deteneva (e detiene) il primato di superiorità.

La loro condizione esistenziale è stata in continua altalena tra la totale o quasi subordinazione al maschio (padre, marito, amante o datore di lavoro che fosse) e l’affermazione di maggiore potere, di un ruolo centrale nella società, rivestito già all’interno della famiglia.
L’uomo, tradizionalmente abituato a rapportarsi alla donna solo come madre, nella sfera pubblica, nel mondo del lavoro, manifesta da sempre comportamenti arroganti, discriminanti, di diffidenza nei confronti della donna con cui vuole mantenere un rapporto subalterno. Gli uomini di tutti i tempi hanno costruito modelli femminili, tra mito e realtà, sempre rapportati al loro mondo.

Ma il ruolo della donna è complementare a quello dell'uomo: e quando va sposa, e quando genera un figlio, e quando aiuta nel lavoro e quando dà consigli.
Anche in questa terra di Calabria, sconosciuta o misconosciuta a molti (anche ai calabresi stessi) tante donne, le cui storie sommerse hanno superato il muro di pregiudizi, di ostilità, hanno proiettato nel futuro un ruolo senz’altro più autonomo, vivendo con maggiore senso critico ed intensità emotiva la cittadinanza femminile.

Certo, la cittadinanza femminile resta ancora oggi incompiuta, al sud come al nord, ma la donna che è entrata a fronte alta nel terzo millennio ha alle spalle le lotte, i sacrifici, i silenzi delle donne-nonne che hanno rivendicato nuovi ruoli, hanno affermato una nuova identità.

Quante lacrime sono state versate, quante violenze subite, quanto sangue sparso, quante privazioni, sacrifici e rinunce hanno segnato il lungo cammino della donna verso l'affrancamento dal ruolo di vestale, angelo del focolare, relegata ad accudire la casa e la famiglia fino a divenire donna manager, soldato, magistrato?!? Dalle lotte per l’occupazione delle terre, ai sacrifici ed alle solitudini di vedove bianche, al primo taglio di capelli “à la garçonne”, alle gonne corte al ginocchio, alle lotte femministe per cancellare il patriarcato di Mussolini che aveva affermato " Le donne sono angeli o demoni, nate per badare alla casa, mettere al mondo dei figli e portare le corna".

Quelle donne hanno lottato per affermare la volontà di non essere più marginali nella sfera pubblica, per vincere le resistenze a voler riconoscere alle donne la capacità di rappresentanza degli interessi generali, ed hanno regalato alle nuove generazioni grandi spazi di libertà.

L'universo femminile, oggi in Calabria, gode di orientamenti culturali autonomi, grazie all'azione essenziale dell'istituzione scolastica, e manifesta stili di vita ed esigenze di consumo moderni, pur restando saldi, in molti casi, i rapporti familiari, e dovendo, a volte, fare i conti con la scarsa qualità dei servizi pubblici, con il clientelismo politico, con l'inefficienza delle istituzioni, la disoccupazione e lo scarso dinamismo economico.

L’immagine della donna calabra mostra fierezza, onestà e dignità. Quella dignità di cui parla Giovanni Paolo II nella Lettera alle donne del 29 giugno 1995: "E' necessario restituire alle donne il pieno rispetto della loro dignità e del loro ruolo. […] Donna e uomo sono complementari".

 

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pubblicato l' 8 Marzo 2007

VOCI DI DONNE

Diritti negati e violenze sul filo della memoria in "Dissonorata" di Saverio La Ruina

di Maria Zanoni

In occasione della Giornata internazionale della donna, “Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria”, scritto e interpretato nei teatri di tutta Italia da Saverio La Ruina, offre lo spunto per riflettere sulla condizione femminile di ieri e di oggi (e non solo nel meridione), sulla difficile condizione della donna, la cui vita è ancora sospesa tra schemi tradizionali e volontà di guardare avanti e andare oltre.

Passano sul filo della memoria voci di donne umiliate, violentate (fisicamente e psicologicamente), tradite, soggiogate, ma anche ribelli o rassegnate, sopravvissute al “delitto d’onore”. Il dramma raccoglie le voci di donne ribelli all’ingiusta prigionia di una mentalità retrograda che, a volte, pagano con la vita il disonore arrecato alla famiglia, per aver avuto un figlio fuori dal matrimonio. Che si chiamino Suad o Morabito, che vivano in Cisgiordania, in Francia o in Calabria, poco importa. Il dolore, la rabbia, la vergogna sono sempre le stesse.

…”cu a capa vasciata a cuntà i petri pi nterra…‘Un davu retta a nisciunu e ‘un gavuzu mai l’uacchi a ‘nterra, ca si ‘nziammai si scontrinu cu quiddi ‘i ‘nu masculu, tuttu ‘u paisu mi chiami puttana”...

Esordisce così il monologo del bravo attore calabro-lucano che occupa la scena, con solo una seggiola di paglia (il segno dei tempi) sotto un sapiente gioco di luci. Anche il semibuio parla e lacera.

È la storia drammatica di una giovane donna della prima metà del Novecento in un paesino del sud, in cui si ritrovano le storie comuni di sopraffazione e di dolore di donne, di ogni epoca e di ogni paese, vittime di un mondo in cui, ancora oggi, l’uomo detiene il primato di superiorità.

In una posa dimessa, nelle vesti scure della protagonista senza nome, indossate sopra gli abiti maschili, La Ruina offre una performance di indubbio valore e senz’altro insolita.
Infatti, l’attore, giovane, si rivolge con disinvoltura e padronanza in uno stretto dialetto lucano ad un pubblico di giovani, soprattutto, raccontando di un mondo che non ci appartiene più, ma che ci restituisce il piacere del tempo.
In poco più di un’ora, l’attore-regista fa rivivere gli usi e i costumi, i sacrifici, la dura lotta per la sopravvivenza, i vissuti di una cultura contadina e popolare, a volte disprezzata a volte rimpianta, con i suoi valori ed i suoi linguaggi.

Rivive la cultura della classe subalterna meridionale, con i suoi modi di formazione delle giovani generazioni, nell’intento di riscoprire l’identità della nostra cultura, pur nella consapevolezza della sua inevitabile e necessaria evoluzione storica.

Nel progetto culturale coraggioso e incisivo di Saverio La Ruina e del suo gruppo “Scena Verticale” traspare chiaramente la ferrea volontà di avvicinare sempre più i giovani al teatro e, nel recupero del dialetto, nell’analisi della realtà della propria terra, si snoda un processo di ricerca identitaria.

Tra pause ben calcolate, significative, penetranti, il sottofondo musicale di Gianfranco De Franco ("fiato" dei Mandara Project) sottolinea le voci delle tante “donne-vittime”, sul filo di una sottile, amara, ironia.
Il ruolo femminile, interpretato senza trucco da Saverio, nella disinvoltura dei gesti, mette ancor di più al centro dell’attenzione la protagonista, facendo di lei un emblema e della sua voce un monito.

Risuona, così, l’eco della storia commovente ed emblematica di una giovane, costretta dalla dura antica legge familiare, a passare i suoi anni nel rispetto dei costumi del tempo che prevedevano che si sposassero in ordine di età. Anche per questo tante restavano “zitelle”.

Ed era per loro un’enorme vergogna passare tra la gente ed essere additate come “zitelle”. “A fimmina senza statu jè cumu ‘u panu senza livàtu” recitava un antico detto.
Un motivo per molte per rintanarsi tra le mura domestiche e vivere la propria vita, tra le rinunce e le privazioni, in funzione degli altri.

Anticamente le ragazze prendevano marito già a 14 – 15 anni. Infatti, fin da tenera età venivano abituate a pensare al matrimonio come ad una tappa decisiva da raggiungere in giovanissima età, per una sicura sistemazione. Spesso il marito che la famiglia aveva scelto per lei era molto più vecchio, cosicchè la giovane si trovava a dover iniziare un’esistenza al fianco di un estraneo, votata ai bisogni di uno sconosciuto ed agli interessi familiari. E durante la vita matrimoniale, la durezza del vivere quotidiano, l’ignoranza, la mancanza di relazioni sociali, i tabù sessuali erano vissuti dalla donna in silenzio, a fianco di un uomo a volte geloso, che controllava giorno per giorno la condotta della moglie.

Solo col passare degli anni l’abitudine attenuava le difficoltà di questo legame.
La donna era sottomessa all'autorità del padre o dei fratelli maggiori, fino al matrimonio, quando passava all'obbedienza del marito. Sottrarsi a tale controllo, non rispettare le regole, significava uscire dalla sacralità del vincolo familiare, come ribelle, e restare ai margini della società. Nella società contadina tradizionale la forza della donna stava nella funzione riproduttiva e la sua vita era schiacciata sotto il peso del duro lavoro in casa e nei campi; il suo ruolo, la sua funzione sociale erano garantiti dalla famiglia. La famiglia proponeva modelli di socializzazione, di comportamento, plasmava le esperienze dei suoi membri secondo i ruoli definiti. Era la famiglia a soddisfare i bisogni umani fondamentali e coordinare i rapporti economici. Nella famiglia patriarcale il capofamiglia aveva un ruolo predominante, era il perno intorno al quale ruotavano tutti i componenti del nucleo: la moglie aveva l'impegno quotidiano di accudire i figli e badare alle faccende domestiche; al marito spettava il compito di sostentare la famiglia stessa, organizzare il lavoro e amministrare il patrimonio.

La donna assolveva tutti i suoi doveri di moglie, madre e padrona di casa, all'interno della famiglia, portando affetto, ma soprattutto rispetto ed obbedienza al marito. Nel secolo scorso l’identità sociale dell’uomo è sempre stata definita in relazione al mestiere ed alle funzioni svolte in ambito pubblico, mentre l’identità sociale della donna era in stretta dipendenza dalla posizione occupata nella famiglia e dal suo stato civile. La stessa subordinazione della moglie al marito era considerata garanzia necessaria dell’unità familiare.

Se da un lato le donne erano prive di potere nella sfera pubblica, nella famiglia rivestivano un ruolo di potere indiscutibile; un potere che si è andato sviluppando maggiormente da quando, lasciate sole dai mariti in guerra o emigrati, hanno dovuto, come capifamiglia, amministrare la casa, la famiglia ed il lavoro. L'eredità delle passate generazioni di una forte identità femminile - che alcuni, forse erroneamente, hanno definito matriarcato - s'interseca con la tendenza tipica della generazione più emancipata di considerare il ruolo della donna inferiore ed ha lasciato tracce evidenti ancora in alcuni modelli di comportamento.

La giovane, dissonorata, rimasta incinta, perchè ha ceduto alle lusinghe di uomo, nel timore che non l’aspettasse, deve morire, bruciata viva, solo perché ha infranto i costumi della tradizione, si è sottratta alla violenza del potere maschile.
La morte lava la vergogna.
Ma l’epilogo, inaspettato, è significativo.

La dissonorata sopravvive a tanta barbarie. E solo la maternità dà un significato positivo alla sua esistenza.
La sopravvissuta, porta sulla pelle i segni dell’ingiustizia, ma nel sorriso la gioia per la nascita del figlio e nello sguardo l’ansia di libertà, mai sopita.


Pubblicato su Tracce - La Provincia cosentina - 7 marzo 2007

Nella foto: Saverio La Ruina al Teatro Sybaris

 

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pubblicato il 13 Feb 2006

REPERTO ARCHEOLOGICO A CASTROVILLARI

Un palmento in grotta nella valle del Coscile

 

di Maria Zanoni

 

Nel corso delle mie ricerche sul campo nell'ambito della cultura materiale di tradizioni popolari, con particolare riferimento alla comunità locale e al suo rapporto con l'ambiente, in seguito alla preziosa segnalazione di un amico, ho rinvenuto nella valle del Coscile a ridosso dell'antico abitato di Castrovillari un insediamento rupestre.
Si tratta di un palmento in grotta, elemento costruttivo tipico dell'archeologia enotecnica, che insiste in un sito dalle caratteristiche topografiche e fisiche ricco di storia.

La natura e la localizzazione del reperto mi consente di ipotizzare, alla luce delle autorevoli testimonianze di storici locali del secolo scorso e dall'analisi comparata con manufatti della stessa natura esistenti in altre zone della regione, che trattasi di uno degli insediamenti rupestri abitato verosimilmente dai monaci basiliani.

Il costone roccioso della valle del Coscile (‘a vadda per i castrovillaresi di un tempo) che nel medioevo era ricca di piccole chiese, costruite alla greca, di cui restavano ruderi fino al Seicento, restituisce un prezioso reperto archeologico, utile non solo ad illuminare maggiormente un periodo di storia lontana della città del Pollino, ma anche a fare un excursus storico antropologico sul rapporto tra i contadini e la terra.

I resti di palmenti, di mulini ad acqua, di antichi trappeti, primordiali industrie di trasformazione dei prodotti agricoli, di cui era ricca la vallata (come attesta Vincenzo Perrone nella sua ricerca sui luoghi di culto e le contrade della città) sono beni culturali importanti per indagare la centralità che l'area assunse nelle relazioni economiche e civili del Mediterraneo e ancor più per indagare le nostre radici.

"Nel vasto territorio, alle falde del Monte Sant'Angelo – afferma Biagio Cappelli, sulle testimonianze di un cronista del seicento - si trovavano le chiese di S. Iorio e di San Michele Arcangelo, dipendenti dal Monastero di San Basilio Craterete intorno al quale si sviluppò l'abitato di San Basile.
Verso il 1540 il monastero di San Michele venne abitato da un tardo emulo dei primi basiliani, S. Bernardo di Rogliano, fondatore degli eremitani di S. Maria del Colloreto".

Nella "vadda", non lontano dalla contrada rupestre detta Li Murgi, produttrice di ottimo vino, inoltre, erano sparse le chiese di S. Chianìa, S. Maria della Scapola, S. Antonio Abate e S. Irene, con attigui romitori, che ci riportano alle radici del basilianesimo.
Le grotte costituirono il primo nucleo abitativo dei monaci basiliani, che giungevano in Calabria dalle sponde orientali del Mediterraneo in diverse migrazioni dal VII secolo all'XI.

I monaci italo-greci fondavano le proprie radici sulla Parola evangelica e come i benedettini della chiesa latina erano copisti di manoscritti e insieme coltivatori: praticavano l'agricoltura, dissodando la terra, piantando vigneti, modificando i sistemi di coltivazione e introducendo nuove piantagioni arboree.
I monaci calabro-greci erano laici che provvedevano al loro mantenimento con il lavoro. Abitavano in grotte, per un ritorno alla natura, a diretto contatto con Dio, lontano dalla cultura dell'artificioso e del superfluo; poi con il passare del tempo si organizzarono nei cenobi ed ebbero proprietà fondiarie.

Erano vegetariani convinti e non disdegnavano il vino.
Ritenevano, secondo le affermazioni di S. Giovanni Crisostomo, che "il vino è stato dato per la gioia e non per la vergogna nostra: è stato dato perché ridiamo e non per diventare ridicoli; per star bene e non per ammalarsi; per sostenere le debolezze del corpo e non per indebolire le forze dell'animo".

Ai monaci basiliani spetta il merito di aver diffuso massicciamente in tutta la Calabria la viticoltura, probabilmente già introdotta dagli Enotri, e ad aver lasciato traccia delle loro tecniche di trasformazione dell'uva in vino tramite i palmenti.
Il termine Palmento per alcuni deriva dal latino palmes palmitis (tralcio di vite), per altri da "paumentum", l'atto di battere, pigiare.

Il palmento in grotta di Castrovillari presenta le caratteristiche di una delle due tipologie costruttive medioevali: la costruzione in muratura, nei luoghi in cui non c'era roccia in cui poter scavare le vasche.
Nel romitorio sono ben visibili, seppure deteriorate dal tempo, le due vasche in muratura, impermeabilizzate con malta mista a cocciopesto.

La vasca superiore, a forma rettangolare con gli angoli arrotondati, misura cm 120 per 135 ed ha pareti alte circa 60 cm. e spesse 30.
Serviva per pigiare l'uva con i piedi.
Quella inferiore, intercomunicante con la prima, raccoglieva il mosto derivante dalla pigiatura.
L'interessante rinvenimento, su cui dovranno svilupparsi ulteriori indagini della Soprintendenza Archeologica, gioverà in modo determinante a meglio illuminare la storia di Castrovillari e potrà offrire nuove possibilità di valutazione e promozione del territorio.
Solo l'Archeologia potrà collocare al giusto posto nella vicenda storica del luogo le testimonianze materiali che lo scavo restituisce.

Non dimentichiamo che per molti secoli la Calabria è stata la centrale europea della seta, tanto per la trattura quanto per la tessitura; che ha esportato olio e ottimo vino (Lagaritano) verso i mercati europei, in tempi antichissimi.

Lo sviluppo del commercio del vino ridisegna la geografia urbana di Castrovillari.

Prima che alla fine dell'Ottocento avvenisse quella che l'economista Manlio Rossi-Doria chiamò "una rivoluzione agraria" che si realizzò attraverso un'estesa riconversione delle colture, i Greci, i Romani, i Bizantini, i Normanni, gli Svevi, gli Albanesi ci hanno insegnato le tecniche della coltivazione della vite e di vinificazione.

E la nostra terra, naturalisticamente bella, è ricca di testimonianze di queste popolazioni che ci hanno attraversato.
Conoscere il passato, attraverso i suoi segni, i suoi riti, i suoi miti, i suoi simboli, significa attraversare processi di civiltà, riempire di contenuti lo spazio vuoto che la società contemporanea, in declino, va scavandosi attorno.
Il palmento della città del Pollino non è esemplare unico: ne è stato rinvenuto un altro di diversa tipologia in località Monte Vecchio da Francesco Di Vasto nel 1990.

E nella Locride sono stati rinvenuti più di settecento palmenti scavati nella roccia, di origine romana e bizantina, tra Ferruzzano e Bruzzano.
Un numero notevolissimo di manufatti di paleoviticoltura, di diversa tipologia, segnalati dal prof Orlando Sculli.
Un prezioso patrimonio che merita di essere valorizzato e fruito.

I beni culturali, testimonianze dell'identità di un popolo, diventano anche prodotti economici quando la loro fruizione è gestita con una progettualità che rispetti le specificità del territorio e gli aspetti etici, economici, antropologici ed anche etnici; e sono una preziosa risorsa identitaria per la Calabria, in grado di attivare programmi di investimento sul turismo culturale.

Cos'hanno più di noi i veneti, i romagnoli, i toscani che propongono Strade del Vino, come sistemi integrati di offerta turistica che si snodano lungo percorsi culturali sui quali si collocano emergenze artistiche ed architettoniche, luoghi del vino visitabili (vigneti, aziende, cantine) e attività imprenditoriali collegate (ristoranti, alberghi, agriturismi, enoteche, ecc.) ???

Questa testimonianza di cultura materiale, va analizzata, valorizzata e strappata all'onda distruttiva di un facile modernismo, irrispettoso della memoria storica e dell'ambiente.
 

 

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pubblicato il 21 Febbraio 2006

“Il mondo è un libro.
Chi non viaggia ne legge una pagina soltanto”
(Sant'Agostino).

di Maria Zanoni
 


Voglio iniziare con questa massima di Sant'Agostino le mie riflessioni sul libro di Pierfranco Bruni sul tema del viaggio e della diaspora nella letteratura Italo – Albanese.

Nel suo recente volume Tra Girolamo De Rada ed Ernesto Koliqi. Tracciati Arbereshe per viandanti Bruni, partendo da Girolamo De Rada, passando per Ernesto Koliqi, Ismail Kadaré, Nicola Misasi, Giuseppe Schirò, porta testimonianze ben precise, relative alla cultura arbereshe, come quelle di Belli, de Custine, D’Annunzio, Douglas, Dumas, Gramsci, Levi, Piovene.

Porta sulla scena delle minoranze linguistiche un rapporto emblematico tra civiltà, vita e cultura.

Anche in questo lavoro affiorano i due segmenti fondamentali che caratterizzano il viaggio letterario di Pierfranco Bruni: la memoria e la nostalgia.

La nostalgia (nòstos-àlgos, in greco) è la sofferenza per il ritorno.
Ma è anche nostalgia verso l'ignoto.
È l’impulso di andare via, di fuggire da casa, allontanarsi dal conosciuto, di vedere luoghi nuovi, di acquisire conoscenza e nello stesso tempo è desiderio di tornare.
Alla base del viaggio c’è sempre una contraddizione: desiderio di fuga e necessità di ritorno.
Il mito di Ulisse in Omero e in Dante è reso vitale dalle motivazioni al viaggio come ricerca esistenziale.
Sembrano due poli opposti, in realtà sono due poli univoci.

Ulisse e Dante sono eroi del viaggio: ambedue valicano i confini di spazi proibiti.
Dante e il suo viaggio purificatore dell’anima.
Ulisse ed il suo nostos ad Itaca.

L’Ulisse di Omero torna ad Itaca e l’Ulisse di Dante va oltre ogni limite verso l’ignoto, per “seguir virtute e canoscenza” e non per vivere come bruti.

Dall’Odissea al turismo globale...

In un’epoca in cui si va sempre più verso il NON LUOGO (come afferma Marc Augè) verso un mondo del provvisorio e dell'effimero, nel quale individui senza volto si sfiorano senza parlarsi,
con il racconto-confessione-espiazione si ripete e si riafferma uno dei cardini della letteratura di tutti i tempi (da Omero, a Dante, a... Bruni): il potere salvifico della parola.

Bruni viaggia sui sentieri della poesia, tra mediterraneità e metafora.
Il viaggio è metafora dell’abbandono ed il viandante è il naufrago dell’esistenza.
Con la partenza si ha il distacco dal noto per venire a contatto con l’ignoto.
Ed è qui che si incontra la propria identità.
Il viaggio è considerato nella sua circolarità: partenza – percorso – arrivo (come raggiungimento dei valori originari).
Il viaggio racchiude una polarità tra la fedeltà alla terra natale, alle proprie radici e la scommessa della ricerca, della conoscenza.

Per trovare la libertà, bisogna uscire dalla struttura di un unico sistema e capire altre culture: essere liberi è la possibilità di scegliere i modi in cui dare senso alla propria vita.
Ce lo ha insegnato magnificamente un grande globetrotter, Giovanni Paolo II°.
Il viaggio - come percorso da leggersi soprattutto per le tappe che propone alla riconquista del proprio io - assume dimensioni profonde, nel momento in cui si assolutizza la frattura tra padronanza certa di valori ed estraniazione dalla storia.

E Bruni nel suo saggio afferma che “nei Canti di Milosào De Rada, più che essere un poeta della liberazione, è un poeta del mito liberatorio (Skanderbeg)..
E' nella letteratura che si registrano i modelli di comprensione e di dilatazione della consapevolezza di una identità” (dice ancora Pierfranco Bruni).
E ribadisce: “Appartenenza qui significa radici. Significa consapevolezza storica e culturale di un legame con la terra e con un popolo.
Le radici sono la continuità di un passato che in poesia diventa fatto identitario come recupero di memoria.

Il mito, la favola, la magia della memoria restano e contano più della storia”.
È il mito che, prendendo il sopravvento sulla storia, fa degli arbereshe un popolo fuori dal tempo, con la loro epopea, ricca di coralità etnica e culturale.
Nei Canti di De Rada (rileva Bruni) c'è un modello di cultura mediterranea fondato soprattutto sul valore della memoria.
È una cultura intrisa di intrecci orientali ed occidentali, i cui valori di riferimento restano quelli etnici e quelli spirituali.
“La malinconia, la dolcezza, la nostalgia, l'impatto con la realtà sono connotati marcatamente mediterranei”.

Ancora e sempre il Mediterraneo, al centro di quegli itinerari di storia che hanno sempre caratterizzato la cultura italo - albanese e la cultura d'Albania.
E proprio la Calabria, molo al centro del mare nostrum, assomma spiritualità albanese e spiritualità arbereshe.
Una ricca spiritualità che ha incontrato persino la simpatia di Gabriele D’Annunzio, come attesta Koliqi.

Bruni, ci guida alla lettura in chiave antropologica ed esistenziale dei Tracciati Arbereshe per viandanti, per scoprire la dimensione profondamente mitico – onirica della diaspora albanese.

Qui, “il senso delle radici è un tangibile raccordo tra memoria e presente”.
“È letteratura non più di fuga, ma di memoria”.

“La memoria costituisce l’anima della tradizione del popolo arbereshe che si aggrappa al cuore di una civiltà (quella ereditaria) che è segnata dalla separazione”.

A Pierfranco Bruni il merito e il plauso di aver scavato in quella letteratura del viaggio e tra gli scrittori e viaggiatori che hanno raccontato la storia del popolo Italo–Albanese, offrendo originali elementi di conoscenza e d’interpretazione.
 

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pubblicato il 26 marzo 2006

Mario De Gaudio: l'uomo, lo scrittore, il giornalista

di Pino Barbarossa

 

“Non accade spesso di imbattersi in pagine così altamente liriche e profondamente religiose come quelle dedicate da Mario De Gaudio alle acque del Giordano. Siamo ben lungi dalla prosa sciatta di tanti teologi che trascurano la forma a favore del contenuto, ma pure ben lontani dalle forme vacue di tanti letterati nelle cui pagine formalmente perfette aleggia il vuoto di messaggi interpellanti. Qui si uniscono letteratura e religione, bello e mistero, fede e cultura”.

Così P.Stefano De Fiores, Ordinario di Mariologia alla Pontificia Università Gregoriana, nella Prefazione all’ultima pubblicazione di Mario De Gaudio dal titolo “Le acque del Giordano” (1999).

Nato a Francavilla Marittima, in provincia di Cosenza, nel 1928, De Gaudio lascia ben presto il paese natìo alla volta della capitale dove compie gli studi liceali ed universitari (All’inizio era difficile –mi confidava- poter terminare una frase di senso compiuto senza che mi interrompessero per dirmi: le solite “e” ed “o” aperte. Si sente che sei un meridionale!).

Nel 1951 consegue la Laurea in Lettere con una tesi avente per argomento “La Poesia di Sergio Corazzini”, relatore era Natalino Sapegno.

Subito “scoperto” dal conterraneo on. Gennaro Cassiani, ne fu per alcuni anni il “segretario particolare” riuscendo, neanche trentenne, a far tesoro di tanti suggerimenti ed esperienze che lo aiutarono nel prosieguo della sua attività giornalistico-letteraria.

Entra, in qualità di giornalista professionista, nella Redazione de “Il Messaggero” nel 1953 e qui svolge attività dapprima di Capo del Servizio Esteri, poi di redattore Capo fino a far parte dello entourage direttivo.
Esperto dei problemi del Sud America, De Gaudio fu inviato a seguire le drammatiche vicende politiche del Cile. Fu il primo giornalista a raccogliere notizie sulla vicenda umana e sulle ultime ore di vita di Allende dalla viva voce della moglie, signora Busi, fuggita a Roma un’ora dopo il suicidio del marito.
Svolse anche attività di inviato speciale in Romania ed in Russia, raccogliendo le voci del dissenso che portarono alla caduta del Muro di Berlino.

Appena poteva e quasi sempre per le vacanze estive, rientrava a Francavilla Marittima nella villetta che aveva voluto chiamare “Sinopia” (come il titolo della raccolta di poesie, datata 1979). Quella “Terra Rossa” che gli consentiva di spaziare con lo sguardo dal Monte Sellaro fino al litorale jonico, era entrata nel suo sangue, indelebilmente. Come indelebili -nelle sue poesie- i ricordi della fanciullezza, della madre morta ancor giovane nel 1973, dei primi amori.

E’ del 1988 la raccolta di poesie “Memorie di Stjbe”.
Così annota il prof. Ulivi: “De Gaudio evoca un “ritorno arcaico”che non è semplicemente dettato dall’affetto per il natìo luogo ma significa un riattingere le radici dell’essere, con lo scopo che si rinnovi, a caso vergine, il tessuto delle emozioni elementari”.”Straordinaria –scrive il prof. Spagnoletti- l’immagine della sacerdotessa sepolta da 2800 anni nella terra di Macchiabate. Una sopravvivenza non solo spirituale ma fisica, perché così la memoria del de Gaudio l’ha desiderata ed inseguita. Naturalmente Stjbe non è che il simbolo avvertito dal bisogno di recuperare il senso di un’antica civiltà, nel caso specifico di una civiltà per eccellenza greca sulle rive dello Jonio, a cui guarda il paese natìo”

“Il suo dolce poetare inteneriva il cuore”, così il prof. Gesualdi presidente del Brutium nella commemorazione tenuta nella Sala del Trono di Innocenzo XII a Roma nell’anno della sua scomparsa (2000).
Una sensibilità poetica sempre presente nella sua vita: dalle giovanili “Voci di un giorno”(1948) a “Quattro tempi d’amore”(1964) fino al “Rosso del braciere” (1997) con prefazione del prof. Giorgio Barberi Squarotti e che gli valsero il primo premio “Palazzeschi” nel 1976 e il premio “Terracina”.

La sua attività giornalistica lo portò ad incontrare molti personaggi pubblici di cui- sovente- diventava amico sincero.
L’arguzia, l’intuizione e la semplicità erano le caratteristiche principali ancorché non esclusive del suo animo. Amico di Pertini come di Bevilacqua, di Andreotti come di Argan, non lasciò mai trasparire alcun impeto di vanagloria o di presunzione. Fu per caso che mi accorsi, entrando nella sua casa di Francavilla, di un quadro regalatogli da Amintore Fanfani così come dell’Onorificenza a Cavaliere di Gran Croce della Repubblica per meriti culturali.
Si adattava a parlare con tutti e da buon giornalista annotava ,sornione, ogni curiosità, ogni particolare che facesse vibrare le corde della sua fantasia.

Per la narrativa ha pubblicato “Dolcedorme”, romanzo dal quale la RAI ha tratto uno sceneggiato radiofonico e per il quale ha ottenuto la selezione del “Viareggio” e l’opera prima del “Villa San Giovanni” nel 1976.

Del 1983 è “Solleone” vincitore, l’anno seguente, del Premio “Ragusa”.
Nell’introduzione Alberto Bevilacqua scrive:“De Gaudio è un favolista che, col candore che compete alla sua vocazione, applica qui i primi meccanismi fantastici ad una storia affondata nel quotidiano e nel domestico, convinto che giocare con la fantasia sia alla portata di tutti a cominciare dai suoi personaggi.Il tema di Solleone è questo: rivendicare all’immagine lo spazio che deve avere nella vita di ciascuno”.

Del 1990 , invece, è “Il Santuario della terra”, cui vengono assegnati sia il Premio “Graniti-Taormina” che il “Montalcino”.
Ispirato a personaggi del paese natìo, “Fontanavecchia” (1993) è una raccolta di 13 racconti. “Siamo di fronte ad un’opera- si legge nella prefazione di Barberi Squarotti-che congiunge la misura breve e nervosa del racconto con la continuità del romanzo. E’ anche questo il segno dell’impegno di reinvenzione del genere che De Gaudio ha esemplarmente compiuto”.

Presidente del Centro Studi “Corrado Alvaro” di Roma , De Gaudio è stato anche Ispettore Onorario per le zone Archeologiche di Timpone della Motta.
Uomo schivo e riservato, amava ricevere tanti giovani desiderosi di intraprendere la carriera giornalistica. Per tutti aveva un consiglio da dare, compreso quello di “lasciar perdere”, laddove ravvisava l’inutilità di un impegno non consono all’attitudine del soggetto.

Profondamente religioso e mai bigotto, era l’anima laica de “Il Messaggero” e volentieri si soffermava a raccontare di quando il Direttore Emiliani gli chiese di accompagnarlo da Giovanni Paolo II. Al Pontefice polacco regalò una copia del dramma sacro “La fanciulla di Nazareth” (1991) ed una elegia composta in onore dell’indimenticata madre. “Pregheremo per sua madre insieme” gli disse Woityla. Rimase colpito dalla tenerezza del Pontefice: “E’ un uomo profondamente mariano; parla, anzi, vede la Madonna!”

Andato in pensione dal Messaggero, veniva continuamente interpellato come consulente, avendo più tempo per dedicarsi alla Calabria ed a Francavilla, in particolare: “preparati a lunghe conversazioni” mi diceva per telefono prima di prendere il treno.
Amava fare il giornalista, per meglio dire era giornalista , e così morì, proprio mentre esercitava l’arte del comunicare. Era al telefono con lo scultore Amelio, quando la morte lo strappò all’affetto dei suoi cari. Si spense reclinando dolcemente il capo; sul suo volto l’accenno ad un sorriso, l’inizio di un eterno immergersi nel mistero del Verbo, della Parola.
Volle essere sepolto a Francavilla, che ,oggi ,lo ricorda con un premio giornalistico a lui dedicato.
Ne sarebbe stato contento.
“Tornare indietro è il sogno del poeta:/ricomporre suoni e voci/da meandri di fantasie primordiali/in altre dimensioni, testimonianze/ di epoche morte della storia./Dolce carezza di una mano/ che non ha fretta, lungo sonno/ nell’idea dell’irreale/” (da “Memoria di Stjbe”)

 

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pubblicato il 4 ottobre 2006

S'accabadùra - Un rito arcaico di Eutanasìa in Sardegna.

di Maria Zanoni
 


Eutanasia, sì? Eutanasia, no? Questo è il problema.

Testamento biologico, accanimento terapeutico, suicidio assistito ci pongono di fronte alla delicata riflessione sulla vita e sulla morte.

In una società sempre più insensibile, abituata a scene di morte (sgozzamenti e massacri in diretta televisiva), infermiere che eliminano negli ospizi anziani-malati-ingombranti, in una società in cui i giovani si divertono a gettare sassi dal cavalcavia e godono a tenersi come souvenir la scena ripresa con la fotocamera del telefonino del compagno rimasto infilzato sulle lance acuminate di un cancello, il problema eutanasìa (buona morte) divide le coscienze. E il senso vero e misterioso del vivere e del morire, nella sua dimensione umana, rischia di essere delegato ad una società distratta, frettolosa, efficientista.

Eppure, questo non è un problema di oggi. Di eutanasìa si parla sin dai tempi remoti. L’argomento, infatti, ha suscitato particolare interesse tra Antropologi e studiosi di tradizioni popolari che hanno fatto ricerca su ritualità arcane ed inquietanti della Sardegna dei tempi antichi. Le comunità agro-pastorali sarde hanno sempre avuto un particolare rapporto con la morte. L’ultimo atto della vita umana nell’isola era vissuto con coraggiosa rassegnazione, anzicchè con terrore.

Nelle campagne della Gallura era praticata una forma di eutanasìa “rurale”, un macabro rituale che affonda le sue radici nella notte dei tempi. Quando un moribondo restava in agonia troppo a lungo, i parenti che gli stavano attorno, per evitargli atroci sofferenze, chiamavano la “femina accabadòra”, colei che aveva il compito di porre termine all’agonia del malato.

S’accabadòra, o agabbadòri, la cui definizione, “finitrice”, trae origine dal sardo accabàre (a sua volta dallo spagnolo acabàr, terminare, e letteralmente: “dare sul capo”), era una donna coraggiosa che, chiamata dai familiari del malato terminale, dava la “buona” morte.
La femmina “accabadora” arrivava nella casa del moribondo sempre nelle ore notturne, accompagnata da una suonatrice di “matraca”, un tamburo cerimoniale, ricavato da un cilindro di legno coperto da una pelle d’asino da cui, al tocco di due bacchette, scaturiva un rullio tenebroso. Dopo aver fatto uscire i familiari dalla stanza, recitando preghiere e formule, assestava un colpo al centro della fronte del malato con “su mazzòlu” (un rudimentale martello di legno di olivastro), provocandone la morte.

S’accabadora andava via dalla casa in punta di piedi, senza chiedere niente in cambio, quasi avesse compiuto una “missione” ed i familiari del “malato” le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto ed, a volte, le offrivano prodotti della terra.
Questa donna, di solito anche levatrice, temuta e rispettata nello stesso tempo, secondo alcune testimonianze, ha esercitato fino alla metà del Novecento una pratica, ritenuta illegale, ma tacitamente accettata dalle Istituzioni e dalla Chiesa.
Nel Museo Etnografico “Galluras” si conserva il “mazzòccu” o “mazzòlu”, lo strumento usato in questa usanza sconcertante, trovato nel 1981: s’accabadora lo aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era la sua casa.

Studi approfonditi e analisi della documentazione rinvenuta presso curie e diocesi sarde e presso musei, hanno accertato la reale esistenza della figura inquietante della accabadora.
Già nel 1828 l’inglese Henry Smyth, visitando la Sardegna, scriveva:”Nella Barbagia vi era la straordinaria usanza di strozzare una persona morente nei casi disperati. Quest’atto era compiuto da una salariata chiamata s’acabadora”
E anche lo scrittore inglese Jonh Warre Tyndale nel 1849 parla de sas acabadoras.
Francesco Poggi nell’opera “Usi natalizi, nuziali e funebri della Sardegna” nel 1897 parla di acabadoras che esercitavano in epoche assai remote il pietoso ufficio di soffocare gli agonizzanti, perchè non soffrissero inutilmente.

Gli ultimi episodi noti di accabadura avvennero a Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952. Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la “signora vestita di nero”.
Era un fatto naturale: la levatrice aiutava a nascere, s'accabadora aiutava a morire.

Vi erano anche altri modi di praticare l’eutanasìa, (ad esempio il soffocamento con un cuscino, o solo con le mani) come testimonia una frase di uso comune dalle parti di Aritzo:” t’inde ao de boga” (ti soffoco, ti prendo per il collo).
Per metter fine ai giorni di un vecchio ammalato che non riusciva ad esalare l’ultimo respiro, arrivavano le mani della accabadora, che senza scrupolo alcuno e senza il minimo rimorso, toglieva la vita, convinta di aver assolto ad un compito necessario.

Giovanni Lilliu parla della rupe babaieca a Gairo, dove venivano soppressi gli anziani e i malati.
Si racconta di eutanasia della “rupe” (Mucidorgiu ..cioè silenziatori) per indicare la pratica mostruosa di alcuni figli che sopprimevano i genitori troppo vecchi, spingendoli giù da una rupe, sul ciglio di un burrone.

Eco, di una usanza lontana nei tempi, la pratica dell’eutanasia “ante litteram” (già praticata da Fenici, Etruschi e popoli africani), nei piccoli paesi rurali della Sardegna, come presso altre popolazioni sin dall’antichità, è un fenomeno socio-culturale e storico, legato a culture arcaiche, a condizioni di vita durissime, di leggi economiche di sopravvivenza, che appartiene all’indagine antropologica, non di certo agli attuali dibattiti che coinvolgono società, mondo religioso e politico.
 

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pubblicato Ottobre 2006

TERRA DEL VINO

ANTICHI METODI DI VINIFICAZIONE A BUONVICINO

di Maria Zanoni

 

Alla scoperta delle attività del mondo rurale di oggi, anche con uno sguardo al passato, ci inoltriamo, alla riscoperta dei colori e dei profumi della campagna, tra inediti scenari di fruizione del patrimonio culturale.
Buonvicino, un grazioso paese a pochi chilometri da Diamante, incastonato nei verdi contrafforti dell’Appennino tirrenico, il cui nome ricorda la sua origine nel XIII secolo derivata dai rapporti di buon vicinato tra i tre Casali (Salvato, Tripidone e Trigiano) nei pressi dell'abbazia di San Ciriaco, nella vallata del Corvino, popolosa per le molte contrade, riesce ad offrire prodotti genuini da un'agricoltura ancora a conduzione domestica.

In un mondo in cui l’urbanizzazione e ’industrializzazione indiscriminata hanno stravolto antichissimi ritmi di vita, paesaggi, salubrità, antichi mestieri, usi e tradizioni ed in cui prodotti tipici di alta qualità rischiano di essere sommersi da prodotti agro-industriali massificati, in questo paese di origine basiliana, restano le tracce di antiche civiltà. Come ai tempi della Magna Grecia, sotto lo sguardo protettore di San Ciriaco, benedicente dallo sperone roccioso "Zaccaniello" sovrastante il paese, nelle antiche casette rurali, abbarbicate ai terrazzamenti fertili coltivati a vigneti, si trova ancora qualche antico palmento alla greca.

Nelle terre dei vitigni autoctoni, dello zibibbo, famoso sin dai tempi antichissimi per la produzione delle uve passe usate per i panicèlli, ad esser ben fortunati, si può trovare qualche famiglia che, come nei tempi antichi, perpetua il rito della vinificazione, come un momento sacro di lavoro collettivo e convivialità. L’umanità e la generosità della gente calabrese credo che in questo borgo abbia la sua migliore espressione. E la famiglia Amoroso, che il senso dell’ospitalità ce l’ha nel sangue, ha invitato nel suo palmento in contrada Scala, come nel salotto buono di casa, anche alcuni giovani per “partecipare a fare il vino” e poi sedersi tutti a tavola.

Qui le tecniche di vinificazione si tramandano da padre in figlio, con la stessa passione e con gli stessi strumenti tradizionali. Dopo aver varcato la soglia del locale, senza aver pronunciato, ahimè, la rituale frase benaugurale “Santu Martinu”, c’immergiamo in un’atmosfera d’altri tempi, dove il senso spiccato dell'ospitalità e della cordialità si tocca con mano. È gente, che nei gesti quotidiani e nell'ospitalità cordiale del pranzo, alla fine del lavoro, rinnova il calore dei tempi antichi. D’altronde, l’accoglienza e l’offerta di cibo costituiscono uno dei modi autentici di comunicare la cultura di un territorio e della sua gente.

La tradizione consolidata di pigiare le uve per ricavarne un prodotto genuino qui non è stata fagocitata dalla meccanizzazione e dalla ristrutturazione dei processi produttivi. Le due vasche per la pigiatura delle uve e per la raccolta del mosto sono quelle di secoli addietro; sono state solo imbiancate di recente con una pittura impermeabile che assicura maggiore igiene, ma gli strumenti per pressare le vinacce ottenute dalla pigiatura dei grappoli con i piedi, rimaste a fermentare un’intera nottata, sono quelli tramandatici dai Greci colonizzatori, attraverso l’operosità dei monaci bizantini che hanno avuto il merito di diffondere maggiormente in queste terre la vitivinicoltura.

Nel palmento si conserva ancora il grosso masso di roccia, del peso di circa sei quintali, anticamente chiamato màzara, che fa da contrappeso al pesante tronco, azionato a mano, tramite un rudimentale argano di legno (manganèllu) che pressa le vinacce. E l’azione di filtro del mosto che scorre nella vasca inferiore del palmento è rigorosamente affidata ad un cestino di vimini. Poi la botte di legno custodirà nella fresca e buia cantina il faticoso lavoro di un anno. Non a caso, il proverbio recita: “a vigna è na tigna”.

Partecipare oggi a questo “rito del vino”, secondo tecniche consolidate nei secoli, soprattutto per i giovani, ha il senso della promozione e della rivalutazione di mestieri e di attività agricole di alta dignità umana, quand'anche modesti, se valutati solo sotto il profilo del mero aspetto economico, per la loro inestimabile valenza ambientale e culturale, lontani dal sistema di produzione industriale standardizzata. Si favorisce la permanenza e si tutelano dalla definitiva scomparsa le attività rurali degli anziani, i beni materiali della civiltà contadina, base della cultura, della lingua, della genuinità alimentare, della storia e della nostra identità.

È necessario moltiplicare le iniziative culturali, le dimostrazioni in loco, le attività di ricerca e di studio, per promuovere l'identità rurale, gli antichi mestieri, gli usi ed i costumi tradizionali, nonchè la lingua, per reimpostare l'antico rapporto di complementarità fra città e campagna. Va rivalutato lo stesso concetto di ruralità. Lo dico forte in una mia recente ricerca sui beni culturali, cosiddetti minori, inserita in un volume in corso di pubblicazione da parte del Comitato nazionale Minoranze del Ministero Beni Culturali: “Superando l’antica concezione che il termine “rurale” indichi un mondo agricolo, povero e arretrato dal punto di vista culturale, miriamo alla conoscenza del suo patrimonio (lingua, usi, costumi, beni materiali, religione, tradizioni, prodotti tipici) per la loro tutela e fruizione sociale, in quanto erede di civiltà greca-romana-bizantina-araba, incrociatesi nel Mediterraneo e fondamento della storia della Calabria.
Anche i cosiddetti beni “minori” (palmenti, frantoi, mulini, vecchie masserie) possono divenire una risorsa culturale europea, con il loro carattere di documento e veicolo di comunicazione, in una rete storica, scientifica e didattica; possono divenire una risorsa in grado di promuovere lo sviluppo turistico, e quindi anche economico, delle aree rurali, con opportuni interventi, che comportano investimenti ingenti e una politica sinergica ed integrata del territorio.

Salvaguardia e promozione passano soprattutto da circuiti economici e sociali, a livello nazionale e locale, in sinergia con attività terziarie, primarie, secondarie e mirate operazioni di marketing del territorio, in funzione di un’industria turistica da modernizzare nelle sue modalità di comunicazione e organizzazione.

Oggi, i beni culturali sono passati da un riduttivo modo di pensare ad essi solo come un insieme di risorse da catalogare, conservare e ammirare, ad essere considerati elemento da utilizzare per innescare anche processi di valorizzazione economica. La funzione economica dei beni culturali è strettamente connessa alla loro fruizione, che rappresenta un valore d’uso per il territorio, sia sotto il profilo economico che sotto quello dell’identità storica e sociale della collettività.

Lo studio, l'interesse per il passato e le forme di vita e di lavoro rende più consapevoli ed indipendenti nelle scelte per il futuro”.

 

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pubblicato il 2 Set 2006

I SEGNI DEL LEGAME ALLA PROPRIA TERRA

di Filomena Pandolfi
 

Nell'introdurre l'argomento oggetto di questo incontro, vorrei ringraziare la dott.ssa Maria Zanoni per la stima dimostratami nell'avermi affidato il compito di parlare del suo ultimo libro "Segni del tempo".

In questo suo studio la nostra autrice apre delle prospettive interessanti sul versante della promozione dei beni culturali e del patrimonio naturalistico, intesi come testimonianze della storia di un popolo quale quello calabrese sempre più orientato verso la ricerca della propria identità e verso la riscoperta della propria memoria storica.
Il lavoro di Maria Zanoni è un'incantevole proposta di conoscenza del territorio calabrese, frutto della sua assidua e costante indagine sul campo.
La Zanoni, infatti, ha prodotto in molti anni di ricerca migliaia di immagini, documenti, di reperti archeologici, registrazioni, filmati che le hanno consentito di restituire alla memoria luoghi e momenti di storia passata e presente.
Da queste immagini e dalle definizioni con cui la ricercatrice descrive il patrimonio naturalistico e culturale calabrese trasudano l'infinita passione e la profonda sensibilità di una donna che si sente intimamente ed intellettualmente legata alla propria terra.
E sono proprio questa passione e questa sensibilità a prenderci per mano durante la lettura del suo libro ed a condurci verso un paradiso di emozioni, di sentimenti, di esperienze, da vivere attraverso il gusto della scoperta e della riscoperta dei nostri tesori.
In questo libro Maria lavora molto sulle immagini, affidandosi con straordinaria abilità al loro potere evocativo che ci fa entrare nella storia e muoverci nelle dimensioni del tempo e dello spazio nel momento del loro incontro con i beni culturali.

Ed in funzione di questo incontro la sua ricerca diviene una sapiente lettura delle risorse territoriali della Calabria in un perfetto equilibrio tra ieri ed oggi in grado di non sottrarre al presente i suoi connotati , affinché il presente non soccomba mai di fronte al passato, ma dialoghi e si rapporti con esso.
Tale dialogo le permette, infatti, di offrire un'immagine più completa dal punto di vista antropologico del bene culturale.
Maria Zanoni nella sua opera ama definire la Calabria "terra amara ma da amare, alpestre, dura e fiera quanto mite ed accogliente, dalla lunga storia".
E ci ricorda che furono i Greci a dare il nome alla nostra terra, nome che significa terra "bella (dal termine kalà) e fiorente (dal verbo brio), ma che conserva intatti i segni delle nobili civiltà che l'hanno attraversata lasciando lungo i loro percorsi tracce profonde.
Tracce che delineano l'intenso rapporto tra passato e presente all'interno di una dimensione in cui ogni bene culturale appartenente al nostro territorio viene connotato da un retrogusto storico importante, in grado. di rispecchiare il nostro "modus vivendi, la nostra cultura, la nostra tradizione.

L'opera della nostra scrittrice è uno studio o, meglio, un viaggio all'interno del panorama culturale calabrese che collega inesorabilmente il passato al presente utilizzando valori e civiltà della nostra bella Calabria.
1 beni culturali ci trasmettono un'eredità viva, ricca di arte e storia, di immagini e linguaggi, che giocano un ruolo fondamentale nel rapporto tra l'antico ed il moderno.
Ed è all'interno di questo rapporto che nel patrimonio culturale di un territorio entrano in gioco, dunque, in tempi a volta lunghi a volte brevi, fattori geografici, climatici, storici, sociali, culturali. Ogni nostro prodotto diventa vero elemento d’identità per una serie di fattori che vanno dal clima e dal territorio favorevoli alla facilità di produzione, dalla necessità di dare sapore a un vitto insufficiente e monotono a concezioni mediche e di tipo magico nonchè ad identificazioni che affondano la loro origine in precedenti forme di autorappresentazione della popolazione calabrese. Esso, pertanto, riflette e racconta il più generale stile di vita di questa popolazione.
I nostri prodotti tipici evocano e, in qualche modo, presentificano luoghi antropologici, fatti di parole, memorie, ricordi, storie, persone, relazioni. Attraverso i beni culturali si snoda, si consuma, si risolve, talvolta si rafforza la nostalgia del luogo di provenienza e si misura il tipo di legame che con esso si continua ad avere.

La ricerca dei prodotti tipici rivela il bisogno di stabilire un rapporto con la propria terra, la propria storia, la propria cultura, la propria sensibilità ed afferma l’esigenza di un equilibrio alimentare, magari da inventare o da reinventare, oltre a rappresentare anche un elemento d’identità culturale con forti implicazioni economiche ed ecologiche.
Il patrimonio culturale, pertanto, diviene il tassello fondamentale del grande mosaico delle risorse della Calabria e la corretta direzione nella quale bisogna dirigersi è chiara: promozione del territorio "a tutto campo", a 360 gradi, nella consapevolezza che non esistano più barriere artificiose che tengano separati i mondi dell'enogastronomia da quello della cultura, dell'arte, delle tradizioni popolari, dell'ambiente.

Oggi più che mai per essere competitivi e portare avanti efficaci politiche di marketing territoriale è necessario diversificare l'offerta turistica e porla all'interno di un sistema integrato, dove gli attori primari sono tenuti ad impegnarsi nella valorizzazione del territorio, come un insieme omogeneo di storia, costume e cultura che si esprimono peculiarmente attraverso le sue tradizioni eno gastronomiche e i suoi prodotti tipici.
Si tratta, quindi, di valorizzare le ricchezze naturali e storico culturali integrandole in modo perfettamente sinergico e coordinato in una logica di mercato legata alla qualità dei servizi erogati ed alla soddisfazione dell'ospite.

In realtà, il fondamentale obiettivo di questa serata è proprio la promozione dell'enogastronomia calabrese in funzione del recupero dei prodotti tipici all'interno del medesimo territorio dì appartenenza, sviluppando nel contempo l'intima consapevolezza negli attori locali di possedere sufficienti elementi di attrazione per la diffusione di una mentalità turistica articolata su diversi livelli. Questa vuole essere una nuova proposta progettuale di creazione di un percorso itinerante finalizzato alla valorizzazione dei beni culturali e delle risorse del territorio a favore del turista che oggi si mostra come un consumatore di appartenenza che cerca sul territorio più che altrove le sue modalità di fruizione dei tempo e dello spazio.
Solo se condotte in questa nuova direzione, infatti, le ulteriori azioni intraprese dagli operatori diverranno più efficaci e consentiranno al nostro prezioso ed importante patrimonio ricco di "saperi” e di "sapori” di conservare una continuità sostanziale ed un carattere solido riconoscibili attraverso i valori dell'equilibrio e della mescolanza, affermando alacremente il profondo sentimento per i nostri luoghi di appartenenza e la chiara tendenza a raggiungerli e a custodirli.

Concludo, pertanto, rivolgendo i miei più sentiti complimenti per il suo prezioso lavoro a Maria Zanoni, illustre ricercatrice, ma soprattutto donna splendida, in una splendida terra che lei ha saputo raccontarci con notevole apprezzamento per le più energiche e sincere espressioni dell'intelletto umano e con un altisonante amore per la verità.
Una verità che deve resistere in un popolo quale quello calabrese che ha il dovere di recuperare il gusto delle cose semplici e di ritrovare gli spazi giusti per lasciare emergere la nostra meravigliosa cultura.


Relazione di presentazione del volume “Segni del tempo” a Morano Calabro – 26 agosto 2006
 


Nella foto da destra: Erminia Di Lorenzo, Filomena Pandolfi, Maria Zanoni, Ciro Mortati e l'on. Mario Pirillo a Morano - Museo dell'Agricoltura - 26-8-06

 

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pubblicato il 2 Settembre 2006

Antichi palmenti raccontano la storia della Calabria

di Maria Zanoni

“La Calabria, possiede un ricco patrimonio di cultura materiale, che ha avuto grande influenza nel processo di trasformazione sociale, economica e culturale di questa nostra terra, ma è quello meno noto e documentato, che necessita di interventi di recupero e valorizzazione”.
È quanto afferma Maria Zanoni, ricercatrice di Antropologia Culturale, che sta effettuando uno studio comparato sui palmenti (primordiali manufatti per la vinificazione) venuti alla luce in questi ultimi anni su tutto il territorio calabrese.
“La conoscenza delle testimonianze umane dei secoli passati, attraverso lo studio e la valorizzazione dei manufatti edilizi (vecchi mulini, palmenti, frantoi) espressioni della cultura materiale, che caratterizzano un ambiente storico-geografico, permette la ricostruzione dei sistemi insediativi, delle tecniche costruttive, delle tecnologie agricole, dei metodi di produzione, degli usi sociali ed economici e delle condizioni di vita materiale del popolo nel tempo – dice la Zanoni. Anche i cosiddetti beni “minori” possono divenire una risorsa culturale in grado di promuovere lo sviluppo turistico, e quindi anche economico, del territorio, con opportuni interventi, che comportano investimenti ingenti e una politica sinergica ed integrata.
Salvaguardia e promozione passano soprattutto da circuiti economici e sociali, a livello nazionale e locale, in sinergia con attività terziarie, secondarie e primarie, mirate operazioni di marketing del territorio, in funzione di un’industria turistica da modernizzare nelle sue modalità di comunicazione e organizzazione.


Oggi, i beni culturali sono passati da un riduttivo modo di pensare ad essi solo come un insieme di risorse da catalogare, conservare e ammirare, ad essere considerati elemento fruibile, da utilizzare per innescare anche processi di valorizzazione economica – chiosa l’antropologa.
La funzione economica dei beni culturali è strettamente connessa alla loro fruizione, che rappresenta un valore d’uso per il territorio, sia sotto il profilo economico che sotto quello dell’identità storica e sociale della collettività”.
La Calabria, accanto alle tante bellezze paesaggistiche, artistiche, architettoniche, possiede manufatti significativi per il loro valore storico: antichi palmenti, vecchi mulini, frantoi, filande, diffusi su tutto il territorio calabrese.


Questo ricco patrimonio di archeologia industriale va rivalutato, con opportune iniziative, per conoscere la nostra storia, per ricostruire, nei suoi aspetti materiali, civiltà e culture diverse che hanno lasciato i segni nella nostra terra.
Ci raccontano la storia della Magna Grecia, della dominazione romana e della civiltà bizantina i circa 700 palmenti (vasche per pigiare l’uva) scavati nella roccia più di duemila anni fa, rinvenuti nella Locride dallo storico Orlando Sculli; offrono interessanti spunti d’indagine archeologica i quattro palmenti in grotta scoperti dalla prof.ssa Zanoni nel territorio di Castrovillari; così come l’antico palmento individuato dal prof Riccardo Ugolino in contrada San Giorgio a Belvedere Marittimo.
A dire della Zanoni - “Proprio il palmento di Belvedere, già inserito degnamente in un percorso agrituristico, manufatto simile ad un altro presente nei vigneti dell’azienda Librandi di Cirò, potrebbe essere uno dei più antichi finora rinvenuti”.
La vasca superiore, scavata in un masso di roccia arenaria di circa 3 metri e 50 cm, è lunga 2 metri e 56 cm e larga m. 1,45. La vasca inferiore in cui veniva raccolto il mosto è a forma di ciotola del diametro di 1 metro.


Sulle colline della fertile riviera tirrenica dove andavano insediandosi gli esuli della grande Sibari, dopo la distruzione della ricca città nel 510 a. C, vivevano popolazioni indigene di cultura enotria che intrattenevano con i nuovi venuti rapporti commerciali.
Sulle alture prossime al mare ed alle vallate fluviali (pensiamo a Laos ed a Skidros) verso la metà del VI secolo a.C. vivevano comunità indigene di agricoltori.
La viticoltura a quel tempo era un’attività di grande importanza per l’economia della regione.
Le fonti scritte ci attestano dell’alta qualità dei vini prodotti in quel territorio, esportati in gran quantità; e la documentazione archeologica (anfore vinarie e monete su cui sono riprodotte scene dionisiache) nonchè i palmenti testimoniano l’organizzazione territoriale e le trasformazioni del paesaggio agrario dalle epoche preelleniche a quelle recenti.


I palmenti illustrano il lavoro e le tecniche di trasformazione dell’uva e raccontano la storia di un mondo contadino e pastorale, legato ad una cultura trasmessa perlopiù oralmente che non ha potuto lasciare molte testimonianze scritte.
Innovativi progetti di riqualificazione ambientale, con percorsi di conoscenza del territorio che permettano di rileggere le testimonianze della cultura materiale, significative per il loro valore storico rappresentano la risorsa ideale per le nuove forme di turismo culturale alternativo.


Da: LA PROVINCIA del 13 agosto 2006 - pag. 36

Nella foto: l'antico palmento di Belvedere, nell'Agriturismo di Contrada San Giorgio.

 

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pubblicato il 4 Luglio 2006

Un nuovo modo di leggere la Calabria

Segni del tempo: beni culturali e identità.
Un nuovo modo di leggere la Calabria e di porla ad un pubblico più vasto.


di ALFREDO FREGA



In questi giorni è all'attenzione delle novità librarie una recente opera di Maria Zanoni, studiosa ed attivissima operatrice culturale, che ha come obiettivo la sua regione, dove vive, immersa a tempo pieno ad insegnare italiano e storia negli istituti superiori ed a collaborare con la cattedra di antropologia culturale presso l'Università degli Studi della Calabria.
A Castrovillari, la città del Pollino per antonomasia, dirige il Centro d'Arte e Cultura "26", associazione di promozione culturale e ricerca antropologica, luogo dove si creano progetti e si realizzano mostre e convegni.


Il nuovo libro della Zanoni ha per titolo "Segni del tempo. Beni culturali e identità" ed è stato pubblicato dal Comitato Nazionale Minoranze Etnico-Linguistiche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dipartimento dei beni archivistici e librari. È il frutto di una sua ricerca sul territorio di una delle regioni dove vi sono importanti giacimenti culturali, storici, artistici, tradizionali ed eredità vive i cui depositari sono le popolazioni calabresi, quelle autoctone e quelle che derivano dagli insediamenti antichi che sono rappresentate dalle isole linguistiche dei Greci di Calabria (RC), degli Arbereshe / Italo- Albanesi (CS, CZ e KR) e degli Occitani di origine valdese di Guardia Piemontese (CS). Il testo, corredato da belle ed originali illustrazioni da lei stessa realizzate, è armonizzato nel suo assieme, avvincente e capace di guidare il lettore attraverso ben studiati itinerari di una Calabria dagli aspetti straordinari, tra antico e contemporaneo, e che offre al visitatore le stesse sensazioni e le stesse motivazioni che indussero i viaggiatori stranieri tra il '700 e l'800 a visitarla in lungo ed in largo, lasciando testimonianze attraverso diari ed opere.


L’Autrice, esperta conoscitrice dei luoghi (in precedenza aveva dato alle stampe "Riti e Miti: immagini, storia, tradizioni dei paesi del Pollino", "Salute e pane asciutto: Mediterraneo tra cultura del l'alimentazione e stile di vita", in collaborazione con M. A. Cauteruccio, Il concetto di etnia nella cultura popolare contadina", in "Etnie"), riassume i risultati di una sua ricerca sul campo e li offre al lettore quali linee essenziali per una conoscenza della Calabria sotto l'aspetto soprattutto culturale.
Essendo l'Autrice una docente, siamo convinti anche che in tale veste ha dato forma al suo lavoro perché possa indirizzarsi alle scuole, aperte al territorio, al fine di dare un contributo di apprendimento e di crescita culturale alle nuove generazioni, perché non vedano la loro terra soltanto come luogo di sopraffazione criminale, di rassegnazione, di insofferenza e di marginalità. Un discorso, se si vuole, anche politico perché questa terra diventi per la gioventù che sta crescendo un laboratorio di idee dove le risorse umane e culturali possano infondere loro fiducia e speranza. E' una terra dove è possibile emulare in altri luoghi il coraggio ed il grido dei "Giovani di Locri". Tornando al contenuto del libro, esso si apre con il viaggio, una motivazione ragionata da parte dell'Autrice che, nel mettere in evidenza i beni culturali che sono la ricchezza dei luoghi, propone alle scuole progetti educativi atti a formare, attraverso l’uso didattico del territorio, quel settore del turismo culturale sostenibile ed ecocompatibile che dovrà necessariamente aprirsi anche ai percorsi alternativi rappresentati dalle aree etnico-linguistiche.

Il secondo aspetto trattato è tra storia e mito, un inno alla regione che più di ogni altra condensa in sé questo binomio. Ricorda lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro, che di questa terra sacra ha scritto: "i miti si amalgamano e le religioni si integrano in un solo tessuto, che è poi quello della storia e della stessa civiltà della regione". Si continua con la Calabria quale terra di confine che racchiude secoli di invasioni, di passaggi e di dominazioni, e poi la sua ricostruzione, pur tra difficoltà di ogni sorta. Seguono capitoli di gran de interesse come la via dei parchi, la via Tirrenica, la via Ionica, così le antiche tradizioni, luoghi e sapori, musei e siti archeologici, le torri ed i castelli, i musei demo-etno-antropologici.


Maria Zanoni termina il suo lavoro auspicando che proprio dagli itinerari culturali, alla ricerca dei "segni del tempo", tra arte, natura, storia e tradizioni, sta l'avvio del cosiddetto nuovo "Rinascimento" della Calabria. Da parte nostra, pur condividendo questa conclusione, poniamo l'interrogativo che ancora manca nella nostra regione una classe politica rinnovata e culturalmente capace ad avviare quel processo rinascimentale di cui questa terra ha fortemente bisogno.


Pubblicato in EUROMEDITERRANEO 16-31 maggio 2006 - pag 13
 

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pubblicato il 10 Giugno 2006

DAL LIBRO AL WEB - IL PORTALE CULTURALE “USABILE”

di Francesca Marino
 


Nella Società dell'Informazione siamo invasi da immagini e parole, in tutte le forme.
Le informazioni vengono a noi in quantità ed anche in "qualità", dato che possono essere "spinte" nei nostri computer (push technology). Uno dei problemi di fondo del nostro tempo è, infatti, quello della sindrome da overload, il sovraccarico di dati.
Se per millenni la nostra evoluzione culturale ha trovato un suo sviluppo, grazie alla brama di cercare il sapere, oggi, sempre più, insorge la necessità di saper cercare, selezionando, trovando le parole chiave per le nostre indagini, scegliendo il tempo e il luogo per averci a che fare. Non si deve concepire l'uso delle tecnologie come una somma di nuove funzioni, ma come una moltiplicazione di opportunità.


L'accelerazione evolutiva in corso ci pone di fronte alla necessità di una continua riconfigurazione dei nostri assetti psicologici, una modificazione tale da risolversi in una flessibilità che ci predisponga continuamente ad imparare ed affrontare la fluidità e la complessità del futuro digitale.
Nel WEB è la comunicazione a farla da padrone, rilanciando il senso che sta alla base del concetto stesso di navigazione interattiva, con una prerogativa non indifferente: la personalizzazione del percorso, l’autonomia della scelta.
Attraverso la comunicazione in rete vi è la trasmissione organizzata del sapere, in una connettività telematica che espande la coscienza e che da forma all’intelligenza connettiva.
Il sito web è, essenzialmente, un insieme di documenti organizzati in forma ipertestuale e, se questi documenti hanno formati eterogenei, allora si parla di ipertesto multimediale.


Inoltre, ogni testo per Internet dovrebbe essere scritto tenendo conto di tutte le particolarità di questo nuovo medium: l'ipertesto, i link, la stretta relazione tra parole e immagini, le abitudini del lettore online.
E per chi è a caccia di grandi numeri tra i propri visitatori, è opportuno, e non solo etico, non tralasciare nessuno. In definitiva, bisogna saper progettare e realizzare il miglior sistema dei collegamenti ai vari documenti dell’ipertesto, per rendere a chiunque il sito facile da navigare, in una parola: “usabile”.
Ad oggi, il formato che meglio garantisce la possibilità di un collegamento di database e l’elasticità per accogliere sempre più informazioni, è quello “a portale”.


Nel web il portale ordina, indirizza, seleziona, organizza e facilita l’accesso alle molteplici risorse presenti in modo caotico ed indifferenziato nel cyberspazio, sempre più ridondante di dati e d’informazioni non strutturate.
Il portale culturale, poi, deve misurarsi con la validità, l’affidabilità e il senso delle risorse che individua e organizza, nonché con la loro manutenzione e gestione.
Ricordando la definizione di bene culturale quale «espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio» e che presenta un «interesse artistico, storico, archeologico, etno-antropologico, archivistico e bibliografico quale testimonianza avente valore di civiltà», possiamo agevolmente immaginare quanto la rete Internet e la struttura ipertestuale dei contenuti digitali possano facilitare comprensione e fruizione dei beni culturali, mettendo a disposizione notevoli e differenti risorse, dislocate in luoghi diversi.


Possiamo solo immaginare il numero d’informazioni e dati ascrivibili al medesimo “bene culturale”, e capiamo quale importante ruolo di sollecitazione culturale possa esercitare un portale della cultura.
Ma attenzione: non si può realizzare una pagina o un sito web prendendo testi pensati e scritti per la carta e salvandoli in html. La scrittura online è molto più complicata, perché Internet si evolve in continuazione, e non si fa in tempo ad elaborare, non tanto delle regole quanto delle idee, che queste sono già superate. L’ipertesto sta al cyberspazio come il libro alla stampa.
Imparare a scrivere per il web è particolarmente importante e urgente, perché, passata l'euforia per la novità del mezzo, su Internet oggi si cercano soprattutto i contenuti; e poi perché, contrariamente all'editoria tradizionale, riservata comunque a pochi, su Internet possiamo scrivere e pubblicare tutti. Senza strettoie, senza ostacoli e persino senza soldi.


La prima cosa che chi scrive per il web deve sapere è che Internet non ha lettori nel senso tradizionale del termine: l’80% dei navigatori non legge riga per riga, piuttosto "scorre" la pagina, cercando rapidamente, come su una mappa visiva, quello che più gli interessa.
Di sicuro sarà capitato un po’ a tutti, cercando qualcosa, per una misteriosa catena di associazioni, di essere approdati a tutt’altre informazioni, che si sono rivelate la risposta preziosa a un quesito in sospeso da tempo; esperienza che gli inglesi chiamano serendipity.
Qualsiasi ricerca nel WEB è fatta velocemente, sia perché navigare costa, sia perché Internet è un mondo sterminato e la voglia di andare a trovare altrove quello che stiamo cercando è sempre in agguato.


Solo chi cattura nei primi 30 secondi l'attenzione del lettore lo fa fermare sulla pagina. E allora? Allora bisogna disseminare la pagina di segnali che dicano immediatamente di cosa si parla e che rendano subito chiaro il contenuto della pagina. Può sembrare uno svantaggio e una corsa contro il tempo, ma chi scrive per il web ha dalla sua parte due grandi alleati: il design e l'ipertesto.
Il design è parte integrante del processo della scrittura. Anche il testo viene presentato come grafica e come immagine. La grafica, a sua volta, può essere letta come un testo e può fornire maggiori dati e informazioni di un'intera pagina scritta. In uno scenario simile, anche il vuoto e lo spazio bianco acquistano la loro importanza: indirizzano e fanno fermare lo sguardo.
Ecco perché testo e grafica vanno sempre concepiti insieme. Chi scrive non deve trasformarsi improvvisamente in un grafico, ma necessita di alcune informazioni: sullo schermo si legge con maggiore difficoltà, quindi: o testi brevi per chi consulta il web, o titoli e sottotitoli chiari: la pagina web è uno spazio in cui il lettore deve potersi orientare e ritrovare, o stessa struttura per documenti che trattano lo stesso tema o dello stesso tipo.


In Internet il testo acquista una nuova dimensione: cresce e si espande in profondità invece che in lunghezza. Chi scrive per il pianeta digitale deve, quindi, assolutamente imparare ad usare l’ipertesto e a sfruttarne tutte le potenzialità.
Scrivere un documento ipertestuale significa chiedersi chi è il nostro lettore, cosa vuole sapere prima, cosa dopo, cosa considera più importante e cosa invece un dettaglio. Significa non solo scrivere un testo, ma organizzare l'informazione, scegliere i link, cioè le porte che conducono avanti nel percorso di lettura, e dare a queste porte dei nomi semplici e brevi, ma che facciano immaginare e capire al lettore cosa troverà oltre. Scegliere un link e titolarlo è, infatti, uno dei compiti più difficili e fa parte del "nuovo" talento editoriale.
Bisogna pensare alla pagina web che si sta scrivendo come ad una mappa o ad un paesaggio visto dall'alto. È così che il lettore la guarderà, farà su e giù con gli occhi cercando quello che gli serve. Farne, quindi, un percorso chiaro, fatto di luoghi e di segnali ben precisi: titoli, sottotitoli, testi brevi, spazi bianchi, indici, parole chiave scritte in un altro corpo ed un altro colore, frecce, liste numerate o a punti; tutto ciò consente di creare un sito davvero fruibile.


Concludendo:
Un sito WEB culturale di qualità celebra la diversità fornendo l’accesso a tutti i contenuti culturali digitali. Dall'assoluta disponibilità deriva l'essere-per-tutti.
Le informazioni web sono tali in quanto sono disponibili a tutti, la cultura - in Internet - è alla portata di tutti.
Si tratta di un notevole passo avanti e allo stesso tempo di un evento che costringe la cultura stessa a ripensarsi. Ad affinarsi. Lo scopo, rimane il diffondere la conoscenza, individuando politiche e strategie per campagne di comunicazioni mirate alla valorizzazione delle identità ed alla fruizione del nostro immenso patrimonio culturale, fatto di “SEGNI DEL TEMPO”.

 

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pubblicato il 21 Maggio 2006

MERAVIGLIE E STUPORI

BENI CULTURALI ED ANTROPOLOGIA

di Francesco Fusca *

 

Relazione di presentazione del volume SEGNI DEL TEMPO di M. Zanoni alla Biblioteca Nazionale di Cosenza (20 maggio 2006)



Il Viaggio di Maria Zanoni prosegue.
La tappa tagliata oggi -2.006- s’intitola: Segni del Tempo –Beni culturali ed identità- e porta la Prefazione di Pierfranco Bruni.
Altre significative tappe di ricerca tagliate sono:
• 1989, Castrovillari - L’immagine e il Tempo-;
• 1999, Riti e Miti -Immagini/Storia/Tradizioni dei Paesi del Pollino;
• 2001, Immagine donna -Ruolo femminile / Società /Territorio in Castrovillari antica;
• 2003, Salute e pane asciutto -Mediterraneo tra cultura dell’alimentazione e stile di vita (scritto in collaborazione con M. Antonella Cauteruccio).

Una lettura trasversale e comparata, che riflette sul percorso formativo e di studio dell’autrice, ci indica il ricamo sottile dell’immaginario fil rouge di una ricerca antropologica svolta con dedizione e soprattutto con passione.
In effetti, i libri di Maria Zanoni si leggono piacevolmente, mentre scorrono le pagine e le immagini, tra un sorriso compiaciuto per le belle cose e una delicata riflessione su come noi eravamo: le Persone, la Natura, i Fatti, le Vicende umane e naturali, e su come siamo…
La studiosa di Castrovillari non è alla ricerca di eroi e di eroine, di personaggi storici; non indugia su fatti ed avvenimenti eclatanti e roboanti, ma accende i riflettori -e illumina a giorno- sugli episodi e accadimenti, sulle persone e cose di tutti i giorni, e li accarezza con una mano trèpida e pia che fa tanta tenerezza, suscitando così sana bonomìa.
Tuttavia, nei Segni del Tempo la Zanoni compie una scelta strategica di ricerca e forse un salto di qualità…
Le perplessità sono d’obbligo per chi, come noi, è innamorato delle piccole cose, delle persone e dei personaggi di paese e di contrada, di aspetti della Natura che vanno scomparendo sia per l’incùria umana -e tutti dicono che stiamo progredendo, l’Umanità, che ci stiamo sviluppando e sempre più civilizzando!- sia per un mal celato ma diffuso vezzo di vivere alla giornata il quotidiano, in un vomitevole “mordi e fuggi” e in un quanto mai beffardo “usa e getta” di tutto e, ahimè!, di tutti…
Insomma, “bene culturale” non deve essere solo la chiesa famosa, il reperto archeologico significativo, il manoscritto di secoli addietro, ma anche la pietra consumata dalle acque del fiume, la crepa di una casa diroccata, una ragnatela, una formica, il respiro del filo dell’erba e i fiori di campo…

La Poesia -è di essa che chiaramente si parla!- è nelle piccole cose come nelle grandi, è nei personaggi famosi della Storia universale dell’Uomo come negli uomini e nelle donne semplici, nei contadini e nei pescatori, negli emigranti… di ogni luogo della Terra e di ogni tempo…
Maria Zanoni -considerando complessivamente il lavoro sin qui svolto- lascia cogliere cambiamenti che sostanzialmente vanno nella direzione di una visione armoniosa dell’Antropologia e della Letteratura, della Storia dell’arte e dell’Archeologia, della Gastronomia…, che si dispiegano e chiaramente si manifestano nell’odierna, suggestiva e colta proposta di ricerca.
In effetti, scorrendo i capitoli attraverso cui si snoda il volume, noi cogliamo i “luoghi fisici” della Calabria -che sono, senza ombra di dubbio, “luoghi dell’anima!- che disegnano alcuni tratti salienti della costellazione e del paesaggio mediterranei, e che affondano nell’antichità più calda le emozioni ed i sentimenti di radici nobili, colte e civili.
Un’occhiata ai capitoli illumina e suggerisce -per la migliore Scuola italiana e della Cittadinanza europea dei venticinque Paesi-membri, da quella dell’infanzia sino alla scuola secondaria superiore- itinerari di ricerca, spunti ed occasioni di lavoro interdisciplinare, curiosità legittime per gli studi letterari ed artistici, per gli usi e costumi, e per le tradizioni di generazioni e generazioni di un Popolo fiero e passionale, quello calabrese, nel quale si stagliano armoniosamente sotto il profilo socio-culturale anche Minoranze etniche e linguistiche come, a mo’ d’esempio, gli Arbëreshë e cioè gli Albanesi d’Italia.
Quali dunque i capitoli dei Segni del Tempo?
Eccoli: Il viaggio; Tra storia e mito; Terra di confine; La ricostruzione; La via dei parchi; La via tirrenica; La via jonica; Antiche tradizioni; Luoghi e sapori; Musei e siti archeologici; Cartina Torri e castelli di Calabria; Musei Demo-etno-antropologici.
In conclusione. Una conclusione quanto mai aperta, quella che riguarda Maria Zanoni, si può così sintetizzare: (A) la studiosa di Castrovillari ha intrecciato e continua fondere l’impegno e il lavoro quale promotrice e moltiplicatrice culturale attiva e propositiva da circa trent’anni (nel campo dell’Arte, della Letteratura, ecc.) con lo studio e la produzione di personali opere significative; (B) ella, nel suo lavoro professionale di docente nelle Scuole secondarie superiori, incita e promuove nei giovani e nelle giovani quei sentimenti e quel “dar senso” alla vita attraverso l’impegno nello studio, perché solo la Cultura (ma, oggi meglio le Culture, le Civiltà, le Lingue…) libera o almeno slega un po’ dalle catene dell’ignoranza, in una strana “società conoscitiva” dove imbonitori e imbroglioni di ogni sorta e risma la fanno facilmente franca…

* Poeta di Spezzano Albanese (CS) – Poèt ka Spixana - Ispettore tecnico – Dirigente del MIUR

Nella foto da sin: Francesco Fusca, Elvira Graziani, Maria Zanoni e Pierfranco Bruni.

 

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pubblicato il 29 Aprile 2006

SEGNI DEL TEMPO - BENI CULTURALI E IDENTITA'

Il nuovo libro di Maria Zanoni
IL VALORE DI UN RAPPORTO TRA "ETNO" E STORIA


di Pierfranco Bruni
 

"Beni culturali e identità". Uno studio attento che precisa non solo alcuni particolari percorsi ma puntualizza, in forme teoriche, un dettato su come ragionare sul sistema del patrimonio culturale.
Maria Zanoni sottolinea nella sua ricerca alcuni capisaldi. Uno di questi è il concetto di “continuità” all’interno di un viaggio sul territorio. Il bene culturale è cultura popolare, è paesaggio, è antropologia nel “graffiato” delle immagini ed è storia che riporta sulla scena il passato pur vivendo il presente. Due temi significativi che occupano, d’altronde, il dibattito dei nostri giorni.

Ed è in questo contesto che Maria Zanoni intreccia elementi storici con questioni antropologiche, fenomeni linguistici con aspetti archeologici. Un bene culturale “interpretato” a tutto tondo. L’esame riguarda uno spaccato straordinario di Calabria. Un territorio all’interno di una temperie e di una visione completamente mediterranea. Gli elementi mediterranei fanno da sfondo, anche se in molte occasioni, diventano centrali per penetrare la coscienza stessa degli ambienti, dei paesaggi e delle storie locali. Ma il percorso è abbastanza articolato.

Si pensi ad una Calabria che sul piano della cultura etnica riferita alle minoranze linguistiche è interessata da ben tre poli di riferimento. Gli Italo–Albanesi, i Grecanici, gli Occitani–Valdesi. Queste tre realtà sono raccontate grazie ad una lettura non solo antropologica ma storica riferita alle strutture presenti in queste comunità la linea della cultura basiliana mi sembra un fatto significativo come lo studio su alcuni palmenti senza dimenticare il “diario” di bordo che va per castelli e chiese. Ma il concetto di bene culturale ha un’altra chiave di lettura che è quella collegata al mondo contadino e alle attività produttive.
Dalle etnie presenti sul territorio alle cosiddette culture del tempo ritrovato. Valori e civiltà sono modelli di comparazione con il presente.

Ritornando al discorso sulle minoranze etnico – linguistiche, definire un tracciato che va dalla chiesa di San Basile ai supporti storici e artistici di Frascineto, Civita, Lungro e alle forme di tradizione e di antropologia mirata e dello sguardo di Spezzano Albanese in un raccordo con la “grecanicità” dei paesi dell’interno della provincia di Reggio Calabria e alla lettura del “sito” di San Sisto dei Valdesi e di Guardia Piemontese è un dato di straordinaria rilevanza culturale, perché mette a nudo, nella sua straordinaria meraviglia, un’immagine articolata di una eredità che non smette di confrontarsi con il contemporaneo.

Ma Maria Zanoni compie un vero e proprio viaggio in quei “segni del tempo” che costituiscono la memoria di una civiltà.
La Calabria è una testimonianza, ma è da considerarsi una testimonianza all’interno di un ambito molto più vasto qual è appunto la cultura del Mediterraneo. La presenza delle etnie con quella più vasta della cultura del patrimonio archeologico, storico e antropologico è una “ricostruzione” tangibile di un legame che si sistematizza all’interno dei territori. Ed è qui che il concetto di “etno” si incontra con quello di “mito” e questo con quello di “rito”. Ma il bene culturale è la chiave di lettura per addentrarsi in questo puntuale ed affascinante “pellegrinaggio”. I siti qui restano fondamentali.

I beni culturali sono tracciati di tempo che testimoniano il vissuto delle civiltà. Sono l’espressione di una trasmissione di eredità che documentano identità, simboli e modelli di appartenenza. Soprattutto quando l’esperienza del bene culturale è fatta di linguaggi, di archeologia, di storia, di arte, di letteratura. Messaggi che lasciano segni e a questi segni bisogna fare riferimento per leggere un territorio, interpretarlo, definirlo in quella complessità che è un intreccio di elementi geografici, storici, estetici.

Il bene culturale è una dimensione in cui i valori diventano partecipazione all’interno di una realtà che coniuga passato e presente, ovvero quotidianità e memoria. Ed è questo un “messaggio” implicito nella ricerca della Zanoni.
È su questo piano che occorre penetrare il tessuto di un patrimonio che è sempre vivibile nel momento in cui il territorio stesso è un raccordo tra ambiente, paesaggio e determinazione storico–culturale. Il territorio è dentro un ambiente e si osserva nel suo presente ma è il portato di “infiltrazioni” che definiscono modelli di appartenenza. In questo caso il rapporto tra archeologia e storia è significativo. Non si può definire culturalmente e quindi storicamente un sito se lo stesso non lo si legge nella funzionalità di un quotidiano in cui il territorio si trova a vivere.

Proprio per questo una proposta di interpretazione archeologica deve avere naturalmente un suo senso attraverso una chiarificazione che ci offre soltanto una attenta valutazione del valore etnico. L’etnia sia in un contesto archeologico che storico ci porta ad una verifica di quel rapporto tutto giocato tra l’antico e il moderno, o meglio tra ciò che è stato, ciò che si è trasmesso e ciò che è. Ciò che si cattura immediatamente è il legame tra una relazione di passato e il vivere il tempo nel quale si opera.

La ricerca di Maria Zanoni non smette di porre all’attenzione tale importante problematica. Questi due aspetti permettono di offrire un’immagine più completa a quello che in senso piuttosto generale (o generico) chiamiamo bene culturale. Come può essere spiegata l’archeologia se non attraverso modelli in cui il presupposto antropologico risulti fondante per un inquadramento ragionato del territorio. Ma le etnie o il presupposto “etno” ormai è da riconsiderare in tutto quel percorso che richiama la valenza di una comprensione della storia grazie ad uno scavo di metodologia anche estetica nel tempo.

Il tempo va indagato. Sembra dirci questo studio, in virtù di una rappresentazione del bene culturale.
Infatti il bene culturale è rappresentazione, ma diventa tale solo se si compie quel percorso che porta dall’archeologia alla storia modulando l’approfondimento sul territorio attraverso la presenza etnologica, antropologica, demologica. E qui ci sono tutti questi elementi.

Le immagini parlano.

La Zanoni, d’altronde lavora sulle immagini e la fotografia è fondamentale proprio in quell’antropologia dello sguardo. Così anche i cosiddetti linguaggi “tagliati” o lingue sommerse devono essere presi in considerazione come tracciati di un bene culturale nel quale è necessaria la comparazione tra tempo archeologico e tempo storico. Non si tratta di “eccessi di cultura” ma di ridefinire anche una questione relativa al “taglio” concettuale di bene culturale. Nella interazione tra archeologia e storia il paesaggio della cultura ha una straordinaria importanza proprio perché si avverte la continuità della storia anche nella lettura dell’ambiente. Questo ci permette di non usare frammentazioni e di realizzare un corpus unico tra le varie stagioni della civiltà e le epoche.

Il bene culturale si porta sempre con sé i “segni del tempo” (i segni del tempo della Zanoni sono i segni del tempo di un rapporto tra popolo e civiltà) che diventano delle regole che, comunque, permettono di non assentarci/si dal tempo che viviamo mentre ne analizziamo i segni pregressi.
Anche l’archeologia, in una tale definizione, non appartiene soltanto allo studio di un passato lontano ma si stabilisce nella consequenzialità di un rapporto con il presente dei territori.

Allora l’interpretazione di un sito è una forza non slegata dalla nostra attualità perchè il rapporto tra passato e presente, come si diceva, si delinea nel momento in cui ci troviamo di fronte all’idea del bene culturale. Per capire come viveva un popolo all’interno di una civiltà e di una temperie del IV secolo a.C. bisognerebbe rapportare quel popolo alle esigenze di quel tempo, grazie a dei parametri ben strutturati alle esigenze di una cultura contemporanea.

Le rilevanze storiche non possono fare a meno di un impatto con due concetti chiave: il tempo e lo spazio.
Oggi ci muoviamo dentro queste due dimensioni per parlare del passato, invece, si entra nella storia. Ma il bene culturale non può fare a meno di questo incontro. Ecco perché il valore “etno” assume una sua sistematicità nel rappresentare e nel comprendere il bene culturale come identità e come realizzazione di una consapevolezza degli strumenti e della società moderna e contemporanea.

L’antico, in fondo, è quasi sempre parcellizzato nel moderno. Nel campo dei beni culturali recuperare la componente etnologica (in una lettura integrata e comparata dei territori) significa dare senso ad una manifestazione articolata delle culture presenti in un determinato contesto.
Questo mi sembra un dato sul quale bisognerebbe riflettere, anche perchè il ruolo dei beni culturali si è abbastanza ampliato ed è diventato trainante in molti settori grazie, tra l’altro, proprio a un legame duttile con i contesti territoriali. I beni culturali si presentano chiaramente diversificati, ma il territorio deve offrire una lettura omogenea, nella quale il presente non perda i connotati e il passato non affoghi il presente stesso.

La ricerca della Zanoni apre delle prospettive interessanti proprio su questi versanti. E il valore dell’ “etno” è una dimensione che interessa l’etica e l’estetica del bene culturale all’interno di un progetto il cui dialogo tra cultura, civiltà e popoli resta indelebile.

 

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