Il palmento, vasca
scavata nella roccia, appartenente ad epoche
diverse, da quella pre-ellenica a quella bizantina,
come attestano anche le croci incise sulle pareti,
primordiale industria di trasformazione dei prodotti
agricoli (uve e cereali), è un bene culturale
importante per indagare la centralità che il
territorio assunse nelle relazioni economiche e
civili del Mediterraneo e ancor più per indagare le
nostre radici, i rapporti tra i contadini e la
terra, gli articolati processi di appropriazione del
territorio, di difesa e organizzazione del lavoro
agricolo e le trasformazioni dei sistemi produttivi.
Qui sono documentati i
palmenti identificati nelle zone a più intensa
vocazione vitivinicola, dall’antichità ai tempi
recenti: la vallata del Bruzzano e del Bonamico
nella Locride, la valle del Neto e il territorio
intorno a Cirò, gli altipiani dal Pollino alla Sila
e la costiera tirrenica.
I palmenti raccontano la
storia di un mondo contadino e pastorale, legato ad
una cultura trasmessa oralmente che non ha potuto
lasciare molte testimonianze scritte; illustrano il
lavoro e le tecniche di trasformazione dell’uva, dal
periodo greco ai nostri giorni. Come attestano fonti
storiche, il nome vero e proprio di "palmentum"
(il termine deriva dal latino palmes palmitis,
tralcio di vite o da "paumentum", l'atto di battere,
pigiare) lo si trova solo e con frequenza, in
numerosi documenti medioevali del IX e X secolo
dell'Italia meridionale, accanto a quello di "trapetum",
suo omologo per la preparazione dell'olio. Nella
documentazione medioevale di Rioja, terra del vino
nel nord della Spagna, appaiono per la prima volta
menzionati come torcularia, lacus o laco nell’anno
959, vasche scavate nella roccia ubicate in pieno
campo, nelle vigne. In un altro documento del 1095
si desume che i lagares spagnoli venivano istallati
anche nei centri urbani. I palmenti della penisola
Iberica, da Ebro, Duero, fino alla Catalogna e al
Portogallo, interessanti ed a volte spettacolari,
sono stati attribuiti dagli studi archeologici
all’epoca romana.
Dei numerosi palmenti di
Ferruzzano, così come di tanti altri rinvenuti in
Puglia, all’isola del Giglio, a Malta, in Campania,
in Lucania, per la maggiorparte scavati nella
roccia, a volte intatti, altre rimaneggiati in
epoche successive, è difficile definire l’epoca di
costruzione. I manufatti, tecnicamente elaborati,
sulle cui pareti sono ben riconoscibili i colpi di
piccone potrebbero essere di epoca magno-greca,
romana o bizantina; i più rudimentali, consunti, su
cui il tempo ha cancellato i segni, forse
appartengono al periodo preellenico. Discorso a
parte meritano i palmenti di Pietragalla in
provincia di Potenza; lì il prof. Vincenzo D’Angelo
ha prodotto una ricerca interessante sui circa 200
palmenti costruiti nella roccia dalla seconda metà
dell’Ottocento alla metà del ‘900. Il palmento tipo
(lanò, in grecanico, derivato dal greco classico
Làknos) era costituito da due vasche, comunicanti
tra loro attraverso un foro, scavate nella roccia
arenaria: una superiore (buttìscu), il calcatorium
dei Romani, dove l’uva veniva pigiata con i piedi,
ed una inferirore (pinàci), dove si raccoglieva il
mosto.
Dove non c’era roccia
friabile, il palmento veniva costruito in muratura,
impermeabilizzando le vasche con uno stato di
intonaco di circa 3 cm. costituito da sabbia e calce
mista a coccio pestato che faceva da collante, alla
maniera dei Romani. L’uva versata nel buttiscu, il
cui foro veniva otturato con argilla, veniva pigiata
e lasciata riposare lì per un giorno ed una notte;
quindi, eliminato il tappo, si lasciava defluire il
mosto nel pinàci, che aveva sul fondo un incavo a
forma circolare (fundèllu), per raccogliere il mosto
fino all’ultima goccia. Poi nella vasca superiore,
attraverso delle scanalature ricavate nelle pareti
laterali, veniva posizionata una grossa tavola piena
di fori (foràta), per creare una strettoia (consu)
in cui si versavano le vinacce per essere
ulteriormente schiacciate da una specie di pressa
costituita da un tavolone di legno di quercia forato
(chjancùni) su cui poggiava un pesante tronco di
legno (leva) che terminava a forcella, azionato da
un tronchetto filettato (fusu), retto da una pesante
pietra che fungeva da contrappeso (màzara). Infine
il mosto veniva riposto nelle anfore vinarie,
interrate per mantenere fresco il prodotto.
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palmenti a cielo
aperto a Ferruzzano (RC)
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palmenti in grotta a
Castrovillari (CS)
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palmenti a Casabona
(KR)
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palmento di epoca
romana a Belvedere M. (CS)
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palmento a Carolei
(CS)
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Santa Caterina
dello Ionio (CZ): palmenti nei vigneti. |
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