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TRADIZIONI

rito del maiale


 

 

L'UCCISIONE DEL MAIALE

La tradizione della maialatura nella cultura contadina


Il maiale era il re della tavola nei tempi antichi. L’allevamento del maiale era di vitale importanza nell’economia e nella cultura contadina. 

Si diceva, infatti: ‘N’uortu e ‘nu puorcu risuscitanu ‘nu muortu. Per i nostri antenati l’orto ed il maiale erano capaci di resuscitare i morti.

 

A seconda delle possibilità economiche, quasi tutte le famiglie ammazzavano il maiale, per assicurarsi la provvista di carne (‘u còmmitu) per tutto l’anno.

         La macellazione del maiale era un rito, un’occasione di festa per la famiglia ed anche per i parenti e i compari o i vicini di casa che venivano invitati per aiutare nella preparazione dei salumi.

L’operazione di macellazione e lavorazione delle carni del maiale durava due o tre giorni.

 

Il primo giorno, dopo l’uccisione dell’animale si procedeva con grossi coltelli alla raschiatura delle setole, ammorbidite con acqua bollente; dopodichè si praticavano dei tagli sulle zampe posteriori per infilare tra i tendini un attrezzo di legno a forma trapezoidale (mangùnu o gambiàllu) che permetteva di appendere l’animale e squartarlo; quindi, le due mezzene venivano pulite, strofinandole con sale e arance spaccate; intanto le donne, dopo aver ripulito gli intestini che si utilizzavano per gli insaccati, preparavano il pranzo al quale partecipavano tutti coloro che avevano partecipato al rito.

 

Il giorno successivo si passava alla sezionatura delle parti che venivano disossate, tagliate e utilizzate in maniera diversa.

 

Del maiale non si buttava proprio niente. Si conservava il grasso, i cicoli, il lardo, la pancetta, le cotenne, le salsicce, le sopressate, i capicolli, il prosciutto; e le ossa spolpate venivano conservate in salamoia (carne ‘ncataràta), poi cucinate con le verdure durante l’inverno.

 

Si preparava anche la gelatina, ‘i scarafògli, con le zampe, le orecchie, e parti della testa, bollite e conservate in aceto aromatizzato con foglie d’alloro. Anche la trippa veniva salata e, ricoperta di polvere di peperoncino rosso piccante, messa ad affumicare; e, poi, col sangue, cotto a bagnomaria insieme a cioccolato, zucchero, noci, pinoli e bucce d’arancia grattugiate, si preparava il “sanguinaccio”.

 

I salami venivano conservati ed erano poi consumati in occasione di feste.

 

         La salsiccia veniva preparata tagliando manualmente a pezzetti medio-piccoli parti di polpa della spalla e del fianco del maiale, rifilature del prosciutto, che, amalgamate con pezzetti di lardo, insieme a sale, pepe nero e pepe rosso piccante o dolce, erano poi insaccate attraverso piccoli imbuti nelle budelle strette e lunghe. In alcune zone si usava insaporire l’impasto anche con semi di finocchio.

 

Le salsicce, così, legate a segmenti di circa 15 centimetri e punzecchiate con aghi grossi o sottili ferri da calza, per far sgocciolare i liquidi, venivano poi appese con canne alle travi della cucina, per la stagionatura, e trattate nei primi giorni con una leggera affumicatura di legna bruciata.

 

- Amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, a li travi sui nun mpica sazizza - Era, dunque, misera quella casa che non aveva salami appesi alle travi.

In ambienti ventilati per più di un mese, le salsicce si “curavano” per essere, poi, conservate nell’olio o nello strutto.  

 

         La sopressata era ottenuta tagliuzzando a mano parti scelte dal prosciutto, dal filetto, dalla spalla e dal lardo suino, impastate con pepe nero in grani, pochissimo pepe rosso e sale; la cui quantità variava nei diversi paesi, a seconda del clima, del gusto e delle abitudini alimentari.

L’impasto, ben amalgamato nella madia, veniva poi “pressato” nelle larghe e corte budelle (quelle dell’intestino crasso), punzecchiate, perchè fuoriuscisse l’aria accumulatasi durante l’insaccatura, e legate al centro con lo spago. La stagionatura delle sopressate durava circa un mese e mezzo e prevedeva la pressatura sotto peso, perchè non restassero spazi vuoti all’interno che avrebbero potuto alterare la qualità ed il sapore del ricercato salume.

 

Il metodo più usato per conservarle era quello di riporle in vasi di terracotta o vetro ricoperte di olio d’oliva o strutto. Ma c’era un altro antico metodo di conservazione, poi caduto in disuso: riporre le sopressate in casse sotto la cenere di legna.

 

         Il capocollo era preparato utilizzando pezzi interi di lombata disossata del maiale o parti di polpa del collo, venata di grasso, quindi più morbida.

I pezzi venivano salati e messi a riposare per una settimana; quindi si lavavano con vino o aceto e, cosparsi di pepe nero, venivano avvolti nei “veli” dei diaframmi e, legati stretti con spago, appesi a stagionare per più di tre mesi.

 

         La pancetta era ottenuta tagliando a pezzi rettangolari la parte grassa del ventre del suino, insieme alla cotenna, e messi sotto sale per circa otto giorni; passato tale periodo, venivano lavati con vino e aceto, cosparsi di pepe rosso e messi ad asciugare per più di un mese in luogo fresco e ventilato.

A volte i pezzi di ventresca dello spessore di circa tre centimetri venivano arrotolati e poi legati stretti con spago.

 

         I cìcoli o frìttuli erano ottenuti dalla lenta cottura nel calderone di rame, stagnato all’interno, in poca acqua e sale, del lardo avanzato, con le cotenne, private delle setole e tagliato a pezzetti.

Dopo circa un’ora di cottura, i cicoli, venivano tolti dal fuoco, scolati dal grasso sciolto e messi a raffreddare, per essere, poi, conservati in vasi di terracotta, ricoperti di strutto.  

 

         La nnuglia, detta anche finnìcula, agliata o stròscia (donna misera), perchè veniva prodotta con parti grasse suine di terza scelta, impastate con pezzetti di polmone, lingua, stomaco (precedentemente bollito), cuore, cotenne con sale, aglio e molto peperoncino piccante, era l’equivalente, nell’area settentrionale della Calabria, della famosa ‘nduja, prodotto tipico della zona del Monte Poro nel vibonese.        

L’impasto fine e morbido, ripassato più volte e ben amalgamato, veniva insaccato nell’intestino “cieco”. Questo particolare salume era consumato spalmato sul pane.

 

 

         Oggi, queste prelibatezze, simbolo del patrimonio alimentare della Calabria, sono prodotte con metodi di antica tradizione contadina e apprezzate in tutto il mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Il testo è tratto dal Libro "Salute e Pane Asciutto" di M. A. Cauteruccio & M. Zanoni -

© Edizioni Arte26 2003

©  Autore foto: Maria Zanoni

 

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