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L’ANTROPOLOGIA ROM |
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ETEROGENEITÀ E PROCESSI CULTURALI di pierfranco bruni *
Credo che sia necessario, sul piano della ricerca culturale,
conoscere quanti sono i Rom (o i popoli stanziali che sono stati
vaganti o nomadi) in ogni territorio italiano e che tipologie di
tradizioni custodiscono o a quale modello storico la loro
appartiene.
Conoscere la reale diversità tra nomadi e stanziali è un dato
antropologico che significa indagarne le radici e le appartenenze.
Sapere, sul piano scientifico e antropologico, il loro modello di
tradizione e di provenienza ci serve per stabilire la diversità tra
i popoli nomadi e stanziali. Addentrarsi anche in termini
antropologici nel loro emisfero non è facile o semplice, perché
hanno eredità ed identità complesse ed eterogenee.
Parlo da studioso e da persona che ama quella tradizione tra modelli
musicali e canto popolare. Sono popoli antichi. Bisogna studiarli
nella loro profondità ma per studiarli bisogna capire
antropologicamente il loro vissuto. Qui insisto su una antropologia
poetica e una antropologia della conoscenza. Non bisogna gridare
subito allo scandalo o a fantomatiche visioni razziste. Certo,
occorre capire la distinzione tra razze, etnie e tribù.
Pongo questo problema con forza ad una etno – antropologia che ha
bisogno di rinnovarsi e andare oltre gli schemi di Ernesto De
Martino. In fondo uno dei più grandi studiosi di civiltà e di anime
vaganti o nomadi è stato Mircea Eliade ed era nato in Romania.
Quindi, signori, un po’ di calma e tanta intelligenza. Ma anche
forza per approfondire alcuni aspetti. Gli zingari, un popolo che
viene da lontano e che trasporta lungo i suoi viaggi modelli di
identità e tradizioni. Nomadi, figli del vento, viandanti. Una
cultura orale che è nel solco di una storia che è ricca di
contaminazioni ma che è riuscita ad infiltrarsi nei segmenti di
eredità e di realtà che si determinano la contestualizzazione dei
territori.
Sinti, Rom e Kalè. Gruppi che si mostrano con una loro
fisionomia in quella dimensione dell’oralità che ha una specificità
nell’essere viaggianti o nomadi, semi – viaggianti, stanziali. In
Italia se ne contano circa 80.000 e sono, appunto, suddivisi in
quella sopra detta specificità, mentre in tutto il mondo sono circa
quindici milioni. Hanno una loro cultura attraverso la quale
trasmettono non solo codici esistenziali ma anche valori culturali.
Diversi sono i miei lavori nei quali si parla dei Rom e dei Sinti.
Non cerchiamo di negativizzare tutto.
A questi popoli, sostanzialmente, non interessa affatto di essere
inseriti nella Legge di tutela delle minoranze. Questa è la
questione – problema vero. Comunque viaggiamo un tratteggio nella
loro storia usando la percezione e i dati.
Origini antiche. Dalla storia dell’India o da Omero. I viandanti, i
Gitani. Ma il loro viaggio sembra un girotondo ovvero un “nomadismo
girotondo in tondo” come ha scritto Françoise Cozannet in “Gli
Zingari. Miti e usanze religiose” (1975). E questo girotondo
fa parte di un viaggio rituale perché senza il nomadismo non
avrebbero senso gli archetipi che sono dentro quella eredità del
rituale circolare. Il folklorico che è parte integrante della
struttura del tempo primordiale nel quale si configurano, è una
recita continua in una visione di una loro immagine popolare che si
tramandata nei secoli.
Il folklorico è nella danza, nella musica, nei canti, in quella
concezione del bohèmienne che ha raffigurato il personaggio zingaro.
Si pensi all’importanza del flamenco. Una ritualità gitana che
recupera le voci di una cultura profondamente radicata nel ceppo
culturale mediterraneo. La musica e la lingua costituiscono i veri
modelli di un codice che pone in essere una insistenza di matrici
sia occidentali che orientali, sia cristiane che islamiche. La
musica è un linguaggio, è una loro parlata inconfondibile che
caratterizza il loro mondo.
Recita un canto zingaro: “Quando il dolore mi
dilania il cuore,/quando non ho nemmeno un soldo in tasca,/io suono
una canzone sul violino,/e lenisco la fame e il dolore./Il mio
violino ha due compagni, due/che mi succhiano il sangue del
cervello:/uno si chiama Amore, l’altro Sete,/e mi accompagnano, me
suonatore”.
Il suonare è anch’esso un rituale. Come è un rituale la presenza dei
cavalli nelle comunità zingare. Il mondo gitano è un mondo ricco di
colori, di apparenze, di suoni che si definiscono in una vera e
propria sensualità della vita. In un altro canto si legge: “Alzati,
donna, su,/e accendi la lampada./Di nascosto ho condotto/tre bei
cavalli bai./E a te ho portato/un grembiule di seta ricamato/con
fili d’oro”.
Una cultura della fantasia ma anche del mistero. Ma dimostra un
altro aspetto particolare che è dimostrabile proprio nelle
contaminazioni. La musica zigana (zingara), gitana, è parte
integrante di quella cultura etnica che proviene dalla Catalogna. Ha
scritto nel 1964 B. Leblon: “Il Flamenco è noto: esso
simboleggerà ben presto la rinascita della Spagna… ma durante il suo
sonno questo patrimonio musicale Andaluso era diventato, per i
gitani di Spagna, la loro propria musica etnica. Oggi gitani di
Castiglia, di Catalogna o del sud della Francia, si riconoscono in
questa musica. Essa appartiene a loro”. D’altronde è proprio
questa danza e questa musica che formano un linguaggio gitano ricco
di simboli e la simbologia nella cultura orale zingara è
fondamentale.
Ha ragione Françoise Cozannet quando sostiene che: “Nel
Flamenco, danza e musica, abbiamo l’espressione più tipica
dell’anima zigana: dramma tragico del gesto e della voce, attitudine
fiera e altera dell’uomo, piena di seduzione e di nobiltà anche
nella donna”. Da questo punto di vista si tratta proprio di una
cultura musicale della sensualità nella quale esplode tutta una
psicologia del movimento che porta alla riconsiderazione di una
strategia rituale. Gli zingari hanno una forma di tradizione
ereditaria che non potrà scomparire perché la stessa tradizione si
muove all’interno proprio di una visione circolare della vita come
nella religiosità dei popoli antichi.
Ha ben evidenziato Jean Hancok nel sostenere, da zingaro, che
“le radici della nostra storia, del nostro passato sono dentro di
noi; tagliare le radici vuol dire dichiarare la morte dell’albero;
nessuno vuole distruggere il proprio passato; magari si può
innestare perché l’albero cresca meglio, ma sono sempre le vecchie
radici che fanno vivere”. Ciò dimostra che queste radici non
solo sono ben impiantate sul terreno ma non possono essere recise
proprio perché, come si diceva già prima, provengono da molto
lontano.
La cultura egiziana, la parentela con le lingue dell’India,
l’Epifania omerica, l’oriente biblico, sono tutti elementi che
vivono nell’idea del viandante che non è solo una metafora ma è il
testamento rituale di questo popolo. Non solo nella gestualità ma
anche nella oralità il gitano ha una lingua di grande vitalità. Così
sottolinea François De Vaux De Foletir: “La
lingua zingara o ròmani è una lingua della famiglia detta
indoeuropea. Per il vocabolario e la grammatica si collega al
sanscrito (come l’italiano al latino). Facendo parte di un gruppo di
lingue indiane, è strettamente imparentate con lingua vive quali il
hindi, il mahrati, il guzurati, il kashmiri”
(in “Mille anni di storia degli zingari,1990).
Popolo di migranti la cui lingua però insieme al canto alla
musica-danza rappresentano quella dimensione dell’essere di un
viandante che ha attraversato le geografie dei territori e ha
disegnato, in un attestato di civiltà culturali, una mappa
propriamente esistenziale. Certo questo bohémien, ovvero gitano, è
l’espressione di una parentela con quelle eticità che non può
essere considerato minoranza. Piuttosto è un modello di civiltà alta
che si caratterizza per la capacità di una fedeltà alle origini che
non si sono sradicate nonostante la fedeltà al nomadismo.
Il nomadismo è una specificità
perché secondo la loro identità essere “figli del vento” è
appartenere a quel libro dell’esistenza che una volta sfogliato non
si ripone ma ritorna ad essere riletto. La metafora di abitare il
vento è una caratteristica letteraria ma è anche una indicazione che
sottolinea “il loro modo di stare nel mondo”, anzi come sostiene
Giacomo Scotti “vogliono essere padroni del tempo e liberi di dare
del tu anche a Dio” (in “I figli del tempo”, 2004).
Radici storiche, patrimonio culturale, ritualità del flamenco,
senso circolare del viaggio sono emblemi di un valore che può essere
considerato etnico, in quanto valore di un popolo ma la loro
diversità consiste proprio nel mostrare l’anima come un paesaggio
dell’essere. D’altronde il grande poeta Rabindranath Tagore, nato
a Calcutta il 1861 e morto sempre a Calcutta il 1941, cantando i
viandanti nelle liriche dal titolo “Gitanjali”, ci
lascia questa straordinaria immagine “ Come uno stormo di
nostalgiche gru/in volo notte e giorno verso nidi lontani/ tutta la
mia vita si metta in viaggio/ verso la sua dimora per l’eternità/
nell’estremo saluto a te, mio Dio”.
L’andare o il ritornare, il partire o il rincasare nel mitico
girotondo delle danze rom o nel volteggiare delle pieghe dei vestiti
zigani sono la rappresentazione di una fantasia che solo in quel
viaggio interiore che è espressività di un reale percorrere il
tempo può richiamare i segni e i miti di una cultura che va
rintracciata soltanto restituendo ai riti il loro significato.
Quindi se il folklore ha un senso la storia degli zingari è una
storia di libertà nel tempo che sa usare le tracce del vento come le
danze mitiche indiane protette dalla luna e dai fuochi che
richiamano un’arcaica religiosità. Patrimonio di culture ma anche
storie di uomini e di popoli.
Ora, cerchiamo di riflettere su tale questione. Io sono uno di
quelli che ha voluto riaprire la discussione sulla legge di tutela
delle minoranze etno – storiche proprio per una questione di
inclusione sia dei popoli stanziali che del popolo armeno. Il
problema si pone. Non soltanto in termini giuridici istituzionali,
ma anche antropologici.
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