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Mostra del pittore Montefiore al Museo del Presente | |
pubblicato il 16 ottobre 2011 - Editoriale Arte Opere penitenziali di Ulrico Schettini Montefiore di Adriana De Gaudio
L’ultima produzione pittorica di Montefiore esposta al Museo del Presente di Rende (CS) crea choc visivo ed emotivo per il linguaggio provocatorio e sconcertante che egli usa nel rappresentare temi religiosi su tele di grande formato, ottenute con l’ ausilio del computer. Ai benpensanti la mostra fa istintivamente arricciare il naso e chiudere gli occhi. Opere terrificanti, che sconfessano non solo l’estetica rinascimentale, (ad eccezione dell’arte di Donatello e di Masaccio) ma fanno tabula rasa di tanta bella pittura della Storia dell’Arte italiana. Il “brutto” di Montefiore fa ricordare, in certo qual modo, alcune opere inquietanti dello scultore quattrocentesco Donatello; l’artista fiorentino, superando il canone medioevale, secondo il quale bisognava raffigurare orripilanti i diavoli dei Giudizi Universali e belle le immagini della Madonna, era convinto che l’esperienza della vita, la sofferenza, se da un lato abbruttisce, dall’altro matura nell’uomo la saggezza, la bontà e la santità interiore.
L’artista castrovillarese, diversamente, meditando sull’odierna realtà sociale mistificata e mistificatrice, la quale cerca in paradisi artificiali di eludere la sofferenza e la paura della morte, svela la vacuità dell’attuale vivere edonistico, e mostra crudelmente la verità del dolore umano, radicato al peccato originale. Da alcuni anni Montefiore, tormentato dal mistero dell’iniquità, cerca il senso del dolore umano, e lo trova in Cristo in Croce, eccelso esempio di Vittima innocente sacrificale, che ha versato il suo sangue per riscattare i peccati del mondo. Nella sua appassionata indagine Montefiore attinge a diverse fonti: i testi biblici, le Laude, che si prestano alla sacra rappresentazione, e il Miserere del monaco Iacopone da Todi, personalità complessa, fervido credente, affine, per certi lati, al suo passionale carattere. Nella straordinaria operazione rapsodica di Montefiore si individuano oltre alle fonti letterarie anche quelle artistiche. Con destrezza singolare egli assimila esperienze tratte da scultori romanici e gotici d’oltralpe, da artisti italiani (Giotto, G. Bellini) e da pittori rinascimentali tedeschi: Mathias Grünewald, Lucas Cranach, Hans Holbein, dal pittore fiammingo Hieronymus Bosch, i quali, rifiutando l’idealizzazione formale dell’iconografia sacra e l’ intento moralistico, hanno raffigurato temi religiosi in modo del tutto personale, con asprezza realistica.
La produzione matura di Montefiore porta, nel suo forbito lessico pittorico, l’impronta non solo del segno di questi artisti del passato, che hanno avuto l’ardire di operare controcorrente, ma anche, di ricordi picassiani. Per affinità elettiva il pittore calabrese potrebbe affiancarsi ad altri artisti del Novecento per come essi hanno reso espressiva l’atrocità fisica del Cristo Crocifisso. Ad esempio: il pittore tedesco Lovis Corinth, nella Crocifissione del 1907 e nel Cristo rosso, si riallaccia, anche egli al pittore Grünewald, dal quale mutua il toccante pathos, che altera l’anatomia del corpo del “suo”Cristo, ripreso nello spasmo dell’agonia; il pittore fauve Emil Nolde, che deformando la figura del Cristo, rischia, come Montefiore, la caricatura (La Crocifissione, 1912). Il pittore inglese Graham Sutherland nella Crocifissione (1946), esasperando la sofferenza, priva il Cristo di ogni attributo divino; in seguito accoglie nella sua pittura immagini repellenti che evocano il “bestiario”goticheggiante del Medioevo.
Figure bestiali che vediamo in molti dipinti di Montefiore, trapiantate sulle teste dei penitenti. L’esasperazione del dolore trácima nel corpo umano, ne altera la fisiognomica, fino a giungere a una metamorfosi animalesca. Dopo aver esaminato nel contesto le opere di Montefiore, ci potremmo chiedere: la svolta nell’arte del maestro calabrese, dopo la “bella ed elegante” pittura della prima maniera, caratterizzata da una linea euritmica, che rende le forme sinuose, e dai colori dolci e delicati, di memoria settecentesca, è generata dal bisogno di originalità, oppure il pittore, catturato nel profondo del cuore dal mistero dell’iniquità e del dolore umano, cerca col pennello-bisturi di sviscerare, vivisezionando le membra del Cristo uomo, la verità salvifica?
Che sia una pittura di forte effetto rappresentativo Montefiore ne è consapevole; per certo sa pure che non si può sradicare il male, il quale continua misteriosamente a straziare altre vittime innocenti. Da oltre duemila anni si segnalano innumerevoli martiri della violenza familiare, di morti bianche, di bambini trucidati o seviziati, di disastri bellici, di cataclismi naturali o di incidenti occasionali. I martiri, vivendo il supplizio di Cristo nello strazio della propria carne, “compensano” quel che è mancato al martirio di Gesù : questa è la spiegazione che San Paolo dà al dolore umano.
Montefiore, parimenti a Mel Gibson, indugia, attraverso le tante re-interpretazioni della Crocifissione e la Passione di Cristo, sull’efferatezza dell’omicidio e/o deicidio, senza correre il rischio d’imboccare un percorso eretico. Direi che egli è un inquieto cercatore di Dio attraverso Cristo, figlio dell’uomo. Le opere penitenziali, anche se non sono destinate ad essere inserite nelle Chiese, attestano proprio il travaglio interiore dell’Artista, che vive drammaticamente il rapporto uomo- mondo, uomo-Dio. Dall’analisi di alcuni dipinti immaginiamo di cogliere lo “sfogo” di liberazione interiore di una sofferenza che speriamo si evolva verso esiti meno icastici.
Hostia( 2010) è un dipinto che si ispira all’assassinio del vescovo Luigi Padovesi, avvenuto il 3 giugno 2010. Il titolo Hostia, offerta sacrificale, allude a un’ innocente vittima. Sulla croce sta inchiodato il prelato, il quale ha la mitria sul capo, indossa la casula sbrindellata, volge lo sguardo dolente al cielo, esala affannosamente l’ultimo sospiro. Il pastorale, attributo vescovile, gli trapassa la gola. I chiodi conficcati nelle mani e nei piedi sono ben evidenziati. Sulla croce si affacciano tre volti del Cristo, ripresi nell’agonia, morte e resurrezione. Nel cielo plumbeo balugina l’arcobaleno, segno di speranza e di gloria dopo il martirio.
Testimoni oculari (2010) è, tra le tante Crocifissioni, la composizione, a mio avviso, più unitaria stilisticamente, per l’armonica rispondenza di linee curve. L’arcobaleno circolare, dietro la croce, inscrive con la sua piena rotazione la circonferenza delle braccia di Cristo; l’aureola, le forme curvilinee dei muscoli pettorali, dei polpacci delle gambe, dei ginocchi valghi , dei talloni dei piedi incrociati, propri dell’agnello condotto al macello. Nella parte sottostante, secondo l’iconografia tradizionale, stanno la Madre e San Giovanni, maschere tragiche con occhi sgranati e bocche sdentate, un’altra figura con le palpebre socchiuse, quasi a non voler guardare né ascoltare l’urlo disumano del Cristo agonizzante. Fa da sfondo un cielo variegato di nubi.
Morte del sole ( 2010) – In questo dipinto 100x220, più volte rielaborato, il richiamo a M. Grünewald è evidente. In primo piano, Il Cristo in croce, oltraggiato dalla sofferenza più efferata e disumana che la Storia ricordi, presenta fattezze animalesche, davvero ripugnanti. Il Cristo, secondo le Scritture, rappresenta il Sole della nuova Era; questo Sole, alle tre pomeridiane, si eclissa all’orizzonte, ma nel buio del globo riflette la luce dell’aurora che si profila in variegate sfumature.
Altra opera, d’intensa espressività e coerenza stilistica, la Pietà per un povero figlio (2010), è un’originale interpretazione dello schema compositivo tradizionale della Pietà nell’Arte. Fa da sfondo alla scena un cielo sfavillante di colori sfumati. A sinistra, la Madre, vestita con un umile e ruvido saio di colore marrone chiaro, regge tra le braccia il Figlio morto. Colpiscono alcuni particolari raccapriccianti: i visi di entrambi, deformati dal dolore; le mani scheletriche del Cristo sembrano artigli che raspano la terra. A destra, in alto, irrompe gigantesca la testa del Padre Eterno, ripresa così come la raffigura il grande Michelangelo nella Creazione di Adamo nella Cappella Sistina. Media il rapporto tra il gruppo di figure a sinistra e Dio Padre a destra la colomba bianca, simbolo dello Spirito Santo. Ė evidente che Montefiore voglia ricordare la Trinità.
Altre opere meriterebbero uguale attenzione come: il Grande pianto (2010), dove il dolore della tragedia cristiana coinvolge da vicino lo stesso Autore, che si raffigura in un corale di voci; Giuseppe di Arimatea, un membro del Sinedrio, “uomo buono”, è ripreso nell’atto di raccogliere in un calice il fiotto di vivo sangue mentre sgorga dal costato del Cristo; Ai piedi della Croce(2011), dipinto che visualizza dettagli impressionanti, già visti,altrove, che Montefiore “zuma” in primissimo piano, forse per dare compiutezza al “frammento” pittorico. Credo che il maestro Montefiore, dopo aver raggiunto nella rappresentazione visiva l’acme del dolore umano, si volga verso altre sperimentazioni tematiche, che sicuramente daranno all’osservatore la possibilità di stupirsi ancora. |
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