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LA LINGUA ITALIANA |
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La lingua non è mai ideologia ma da Pasolini a Calvino è uno strumento politico. La lingua non è ideologia.
Il dibattito aperto da Manzoni non si è
mai chiuso. Così quel grande pensiero che vive nel De Vulgare di
Dante. Bisognerà dare un ruolo consistente alla lingua italiana
soprattutto partendo dalla letteratura del Novecento. È in essa che
si sono moltiplicate le forme e le metodologie di linguaggio che
hanno guidato la storia della lingua nella modernità, attraversando
epoche ed opere già con San Francesco d’Assisi sino ad
Angelo Poliziano, dal Rinascimento alle ‘etichette’ illuministiche,
che hanno cercato di formulare un inciso rivoluzionario, ma che
hanno consegnato la lingua stessa a Manzoni, e da questo alle
avanguardie di Pascoli e D’Annunzio, filtrando notevolmente il
Futurismo sino alla lingua post realista, alla quale la letteratura
si è agganciata e alla quale soprattutto il cinema si è aggrappata.
Dopo gli
anni Sessanta si è verificata una vere e propria modifica dei
canoni e se si vuole di un vocabolario. Dagli anni Sessanta ad oggi
la lingua ha assunto precise chiavi di lettura.
Quella codificata da una norma dei
vocabolari che hanno assorbito i cambiamenti anche sintattici e le
forme dialettali, oltre alla assunzione di comparazioni con la
lingua inglese, lingua che in molti termini ha preso il sopravvento,
ma che è la lingua italiana ufficiale.
Quella correntemente parlata che, se pur
in una forma corretta, ha innesti modulari rispetto a quella scritta
perché ha tagli favoriti da un linguaggio piuttosto discorsivo.
Quella cosiddetta “bastarda” che è dovuta
all’intreccio tra una
scrittura giornalistica, televisiva, telematica con ulteriori
innesti che sono distanti dalla tradizione degli anni Settanta. La
lingua non è mai ideologia. Eppure da Pasolini, pur contrapponendosi
a Sanguineti, a Calvino hanno usato la lingua come strumento
ideologico.
C’è una quarta
chiave di lettura, non inclusa in un discorso ufficiale ma insiste,
che è quella che proviene dai testi delle canzoni.
I giovani usano come forme direzionali
della comunicazione
l’incrocio delle due ultime chiavi per confrontarsi, per dialogare,
per definire un qualcosa e anche per definirsi.
Io addirittura aggiungerei ancora una
quinta chiave che è quella portata dalla presenza delle
lingue degli immigrati. Non sarebbe da sottovalutare considerato il
fatto che sono detentori di un loro linguaggio comunicante ma sono
anche depositari di una loro lingua. Non sempre il loro linguaggio
comunicante, che potrebbe essere inteso come una caratterizzante
formula dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi tunisini ed
eritrei, è fedele alla lingua della loro Nazione. Anzi non lo è
quasi mai.
Tutti questi aspetti riguardano
l’importanza di dare un senso storico alla
tutela della lingua italiana. È naturale che non c’è più una lingua
ufficiale tradizionale. La tradizione nelle lingue è un fatto
soltanto di consapevolezza di eredità, di ricostruzione identitaria,
di analisi dei processi sia letterari sia storici stessi sia
prettamente linguistici, ma si scende in una dimensione che è
antropologica.
Discutere di una lingua corretta, oggi,
significa ripristinare delle griglie che però, dobbiamo essere
consapevoli, non corrispondono alla realtà dei parlanti e degli
scriventi. Il parlante già di per sé, pur mantenendo fede, alla
consueta formula della grammatica e della sintassi, usa sempre un
vocabolario innovativo: innovativo, oggi, è anche il ripescaggio di
termini obsoleti, ovvero una parola usata da Tommaseo è innovativa
ma anche “arcaica”.
Lo scrivente, che dovrebbe usare la
lingua come estetica
e correttezza dell’ufficialità e dell’esempio, potrebbe essere lo
scrittore. Dante e Manzoni sono esempi e testimonianze che
rispecchiano un tempo linguistico che non c’è più.
Noi parliamo, in questo nostro tempo, il
linguaggio di Andrea
Camilleri, che ha una interpretazione prettamente
etno-antropologica (ne parlo in senso non negativo: attenzione), il
linguaggio di Carlo Emilio Gadda con le varie sfaccettature, anche sul piano
della punteggiatura, (lo dico senza voler entrare nella rivoluzione
linguistica futurista che ha stravolto la lingua italiana: si può
accettare o meno ma è così), il linguaggio di
Alberto Bevilacqua
con delle sfaccettature anche discutibili, ma che io accolgo con
piacere, il linguaggio di una scrittura puramente giornalistica
trasportata come una nuova impostazione narrante in testi che si
fanno passare per narrativa, il linguaggio attento di Pasolini che
soltanto ora trova una sua interessante ottimizzazione.
Sono solo pochi esempi. Si pensi a
Luigi Meneghello o a
Lucio Mastronardi o
ad Alberto Moravia o
alla poesia di Giorgio
Caproni. Noi viviamo in questa età e non tra Dante e
l’Illuminismo o tra il Romanticismo e
Ada Negri.
Poi c’è la presenza degli scrittori
stranieri che, se pur tradotti, vengono ben recepiti sul piano della
sintassi ma soprattutto su quello della punteggiatura. Uno scrittore
tra i tanti: Garcia Màrquez. Il romanzo che gli ha dato la
notorietà vira qualsiasi forma di punteggiatura e quella
standardizzazione di concetti ha influito notevolmente nella lingua
letteraria contemporanea. Il fatto, invece, è un altro. Il
vocabolario ha un suo compito specifico che instrada verso una
direzione ben definita. Il linguaggio è ben altra cosa. Non si può
imporre allo scrittore, pensate al poeta contemporaneo, di
impostarsi secondo i canoni del vocabolario della lingua. Sarebbe un
omicidio ma sarebbe anche un suicidio della stessa lingua.
Bisognerebbe una buona volta convincersi
che la tradizione del dibattito delle lingue, sviluppatosi intorno
al De Vulgari e anche prima, non interessa e non tocca la
comunicazione della letteratura dei nostri giorni e tanto meno i
“lucchetti” parlanti dei nostri figli e delle piccole macchine
parlanti che usiamo tutti per comunicare. E se Dante non interessa,
è storia e deve restare tale, non interessa neppure il rapporto
linguistico tra Manzoni sino a Carducci e a un certo Pascoli.
Dobbiamo convincerci che la lingua
italiana è completamente mutata rispetto agli anni Cinquanta del
‘900. E’ mutata rispetto agli anni ’70 – ’90. Chi si ricorderà la
lingua usata nei volantini delle Brigate Rosse negli anni Settanta
si renderà conto la tipologia sintattica (non parlo delle minacce o
dei codici terroristici ma della grammatica o di altre scorrettezze
morfologiche) che si innervava nella nostra società. In che termini
linguistici, mi sono spesso chiesto, comunicavano le Brigate Rosse
con l’attento e forbito Aldo
Moro?
I cambiamenti delle società cambiano
anche la lingua. I cantautori degli anni Sessanta capirono questa
trasformazione e a loro si deve molto nell’aver mantenuto fede ad un
codice sostanzialmente in linea con la tradizione. La cinematografia
è andata su un altro versante. Bisogna affrontare tale questione e
credo che una scuola dentro i mutamenti delle società dovrebbe avere
un ruolo predominante. Ma molte volte dipende dai docenti e
soprattutto dai testi adottati. Un altro problema dolente.
Le antologie scolastiche a moduli sono
completamente non convincenti perché svianti. Sono costruiti in modo
che non possono essere compresi senza l’interpretazione attenta del
docente. Che senso hanno i percorsi modulari in una antologia
letteraria? Io non ho neppure intenzione di affrontarlo questo
discorso perché son ostile a questa interpretazione che permette
soltanto una cosa: la distruzione dei parametri letterari dello
scrittore e l’incomprensione vera di uno scrittore o di un poeta. È
come se lo scrittore avesse scritto per essere inserito in un
modulo.
Ma dai, fa ridere questo sistema ed è
anche doloroso sia per lo scrittore che per la storia della
letteratura che adotta un’impalcatura di altro genere. Anche qui è
questione di lingua. Lo scrittore e il poeta non pensano mai di
essere strumento della critica, lo si vuole capire o no, e tanto
meno pensano se un domani verranno collocati in un determinato
blocco.
Pensate agli orrori commessi su
Cesare Pavese. Ancora
è un modulo neorealista, se lo si fa entrare in un modulo, quando
egli stesso ha scritto di non essere realista o neo, e di non essere
considerato tale.
Insomma, ci troviamo di fronte ad una
ristrutturazione sia della lingua e attraverso la lingua ad una
ristrutturazione della letteratura. Si avrà il coraggio, la forza,
la consapevolezza, la preparazione di mettere in discussione un
apparato del genere?
Noi cercheremo di fare la nostra parte.
Chiediamo alla scuola di fare la sua parte. Ai docenti di non
attraversare le antologie, ma di leggere gli scrittori e i poeti
direttamente e agli antologizzanti di rivedere le loro posizioni di
ogni genere o di ogni struttura.
Gli scrittori oggi, comunque, hanno un compito fondamentale che non è quello
di strapazzare la lingua. Se Dante resta ancora fondamentale è
chiaro che quella tradizione che parte con la Vita nova è da
riconsiderare tra Poliziano, Leopardi, Ungaretti e Pavese. Il
negativo della lingua è una linea Pasolini – Calvino. La lingua come
estetica ha una lettura nella linea Berto – Pavese.
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