pubblicato il 13 Feb 2006 -
Editoriale Arte
L’EROS
ASCENDE AL DIVINO
L’ultima
produzione di Ulrico Schettini Montefiore
di Adriana De
Gaudio
Nel
distinguere la capacità pratica dell’homo faber, che
produce “quanto gli necessita”, da quella
intellettiva dell’homo sapiens, portato a
visualizzare ciò che pensa e contempla attraverso il
disegno, Ulrico Schettini Montefiore
(Castrovillari,1932), molti anni addietro si era
chiesto,dopo una lunga dissertazione, (Addio Jonia!,
1990) se “la sapienza viene prima della capacità
grafica, se ne è il preludio, la condizione, il
veicolo, la causa efficiente”. A questo suo
postulato potrei dare una risposta solo oggi, dopo
aver seguito molto da vicino l’evolversi dell’arte
di Schettini Montefiore dall’immanente al
trascendente. Da temi più disparati a quelli sacri.
Senza alcun dubbio ritengo Montefiore un grande
disegnatore. Il disegno è il mezzo espressivo che
caratterizza la sua formazione stilistica; l’io
pensante guida la mano dell’artista che, attraverso
il tratto della matita o del pennello, fissa nella
forma la sintesi del processo selettivo mentale e
visivo, dal quale scaturisce l’idea. Dall’immediato
abbozzo grafico incipit l’opera che poi viene
elaborata e perfezionata nel tocco finale.
Montefiore, da questo punto di vista, è homo sapiens
nel significato di assaporare, derivante dal verbo
latino sàpere. Egli infatti ha la capacità di
percepire le cose nel profondo, di coglierne e
gustare il valore.
La sapienza, essendo uno dei sette doni dello
Spirito, precede e accompagna l’atto del suo
disegnare. Gitano per il mondo, Montefiore compie
quotidianamente esperienze sia sul piano speculativo
che su quello etico. Ha alle spalle una vasta
cultura artistica e una profonda conoscenza umana,
che gli consentono di creare un rapporto vero con la
realtà. La realtà, che egli trascrive, non è solo
quella che vediamo, controlliamo e tocchiamo con
mano, ma anche l’altra che spesso ci sfugge. Grazie
a questo suo saper vedere e sentire, Montefiore
interpreta, in modo personale ed originale, i
soggetti che rappresenta.
Da qui l’autenticità del segno e del linguaggio di
Ulrico, la cui personalità si esplicita proprio
attraverso il disegno, ideogramma straordinario, che
registra le pulsioni emotive, spesso parossistiche,
causate dal furore dell’eros. Ma l’eros, che è alle
radici della sua arte, non è generato dall’istinto
carnale, che predomina sulla ragione, al contrario
ascende al divino. Montefiore è un credente
cattolico; mosso da una fede profonda, non sconfessa
la ragione ma la integra. I suoi disegni, ispirati
ai testi sacri, il Vecchio e il Nuovo Testamento, lo
confermano.
Per comprenderne la validità, bisogna premettere che
il nostro Artista, pur conoscendo la “storia” del
disegno, attraverso lo studio dei grandi maestri,
non è molto ossequioso verso le regole. Egli non
persegue, infatti, la perfezione formale, ma la resa
espressionista. La figurazione, eseguita in modo
sommario ed immediato, con una scrittura che
asseconda la mutazione di stati d’animo, presenta
una volumetria spesso prorompente e sproporzionata,
a tutto vantaggio dell’espressività intensa dei
volti. Molti sarebbero gli esempi da citare, mi
limito ad un accenno sui lavori condivisi:
l’“Evangelo secondo San Luca” nella versione di
Giovanni Diodati (Lucca, 1576-1649), pastore
calvinista protestante, considerato eretico dalla
Chiesa e ultimamente riabilitato. In questi tempi di
apertura al dialogo interreligioso,
l’interpretazione grafica dei passi più
significativi di questo testo del Seicento, di
eccezionale valore linguistico, messo all’indice nel
1617, per una correzione calvinista riscontrata
(L’Annunciazione, Luca, 1,28), attesta come tra
l’artista Montefiore e il biblista Diodati si
stabilisce, per affinità elettiva, un rapporto
paritario di sintesi espressiva.
Diodati adopera la lingua toscana d’origine,
accessibile ed avvincente per l’immediatezza e per
l’efficacia della parola, Montefiore un linguaggio
sonoro e greve, scevro da idealismi formali, mirato
a comunicare concetti teologici in forma leggibile.
I disegni risultano acuti e penetranti (la linea di
contorno si presenta ora mordente, ora incisiva, ora
dolce ed evocativa), in simbiosi con la scrittura di
Diodati.
Altra preziosa sua rappresentazione grafica spicca
nella selezione di opere pittoriche di artisti del
passato e del Novecento, a fianco delle mie poesie,
ispirate alle Donne della Bibbia (Donne Bibliche
nell’Arte: un’interpretazione poetica, 1993). Con
vigoroso ed essenziale tratto di penna, Montefiore
schizza le figure femminili più note, toccandone
anche l’aspetto psicologico. Emergono dal suo album
di donne: Eva, la moglie di Lot, Giaele, Giuditta,
Rut, Susanna, la donna innamorata del Cantico dei
Cantici, ripresa con soavità di sentimento, nelle
sequenze dei versetti (7,3-8,5). Riguardo alle
protagoniste del Nuovo Testamento, egli dà
un’interpretazione non in chiave metafisica ma
umana. La sua grafica scarna ed essenziale, nella
scena delle pie donne al Sepolcro, porta soprattutto
a riflettere sulla tomba vuota del Cristo e ad
accettare per fede la Verità salvifica della
Resurrezione.
In ultima analisi, quando Montefiore combina il
disegno con i colori, realizza opere di pittura di
grande suggestione. Restando nell’ambito della
tematica religiosa, mi piace ricordare la serie
delle “sue” Madonne in trono col Bambino. In questi
dipinti la linea, condotta in modo armonioso e
fluida, ha valore funzionale e decorativo. Da un
lato, mettendo in risalto la corposità dei Soggetti,
valorizza l’aspetto umano, dall’altro campisce i
colori nel percorso armonioso e pacato della
pennellata. Un omaggio all’iconografia tradizionale,
per quanto riguarda l’impianto prospettico, ma
Montefiore punta non sulla regalità della Vergine,
posta sul trono, ma sulla maternità in senso
universale, resa molto teneramente. In questi
dipinti l’eros si evolve in agape. L’amore materno
della Vergine, nel dono ablativo di sé al Figlio, si
trasforma in divino.
La variazione sullo stesso tema, proposta da
Montefiore in più versioni, mi richiama le sequenze
di una meravigliosa poesia di Jean Paul Sartre: “È
fatto di me”. Ne riporto alcune strofe,
riconducibili alle sunnominate icone: (La Vergine)
“lo guarda e pensa: questo Dio è il mio bambino/
Questa carne divina è la mia carne./Egli è fatto di
me, ha i miei occhi,/ e questa forma della bocca è
la forma della mia,/mi assomiglia: Egli è Dio e mi
assomiglia./ E nessuna donna ha avuto il suo Dio per
sé sola,/ un Dio piccolino che si può prendere tra
le braccia….”
In attesa della Parusia
Cartone disegnato di Ulrico Schettini Montefiore
Dacché Ulrico S. Montefiore si è iniziato all’arte
sacra, gli si è aperta una visione più ampia e
luminosa della vita. I soggetti, tratti dalla
Bibbia, non sono una stereotipa raffigurazione
episodica ma comunicano, con grande forza ed
efficacia stilistica, concetti didascalici,
sapienziali o teologici. Nel raffigurare vetrate,
Montefiore inalvea il fuoco dell’ispirazione nelle
immagini, realizzandole, con destrezza magistrale,
in una raffinatissima grafica, congiunta alla
pittura.
Grande successo ha riscontrato, nel dicembre scorso,
l’inaugurazione ad Osimo della vetrata Tobia e
l’arcangelo Raffaele che Montefiore ha eseguito per
il Salone Pisana Grimani. La storia biblica,
scandita in tre tempi, si visualizza in una sinfonia
di linee e di colori che ammaliano lo sguardo per
l’eleganza decorativa ed il ritmo della linea
flessuosa e continua, per l’accordo tonale dei
colori brillanti, che manifestano la presenza del
divino. I volti dei protagonisti presentano
un’espressione intensamente dolce, pacata anche
nella sofferenza.
Un vero capolavoro, attestante la maturità
stilistica di Montefiore e la profondità della sua
fede religiosa, è il cartone disegnato a Lima per
una finestra centrale: un’opera grandiosa, non messa
in opera a causa delle vetrerie locali, sfornite di
materiali pregiati.
Il tema sacro, che ancora una volta Ulrico affronta,
è una sintesi alta del Vangelo, interpretato
dall’artista in chiave personale, sociale e
antropologica, per essere fruito da etnie diverse
del Perù, paese povero, ma fervidamente credente,
dell’America del Sud.
La vetrata della finestra (53 mq), che doveva essere
istoriata, presenta nel progetto la forma di una
croce rovesciata. Nella parte estrema del braccio
longitudinale prende forma umana La Trinità: Uno in
tre Persone uguali e distinte, le quali siedono in
posa ieratica, in uno spazio tripartito, con le mani
congiunte, immobili nel tempo. Al centro, Dio Padre,
contraddistinto dal triangolo dietro al capo; alla
sua destra il Figlio, con la corona di spine; alla
sua sinistra lo Spirito Santo, connotato dalla
colomba sul capo. Sul piano visivo le tre Persone
sono identiche, sul piano della fede si dà per certa
la consustanzialità, secondo il dogma. Montefiore
come i peruviani, non ha ombre di dubbio, crede
nella rivelazione. Il legame tra loro si evince
dalla base del triangolo, attributo di Dio Padre, il
cui lato orizzontale idealmente coordina il Figlio e
lo Spirito. Altre relazioni si individuano nello
svolgersi degli episodi evangelici sapientemente
concatenati.
Sul lato corto orizzontale della croce, a sinistra
dell’osservatore, è raffigurato il miracolo della
moltiplicazione dei pani e dei pesci. Cristo, in
piena luce, sulla sponda del mare, con le braccia
alzate, ha l’aspetto di un orante. Per terra si
vedono cesti di vimini colmi di pani e di pesci.
Sorpresi e felici, gruppi di persone, con costumi
tradizionali peruviani, esternano, con ampi gesti
delle mani e col suono di strumenti musicali, la
loro gratitudine. Il disegno a carboncino traduce
con adeguatezza le diverse reazioni emotive degli
astanti, la dinamica del racconto miracoloso,
indugiando sulla descrizione decorativa degli abiti
peruviani e su quella naturalistica dei cesti. Un
particolare attrae l’attenzione: la donna peruviana
con la sua bambina attorno ad un cesto di pani. Lo
stato di miseria in cui versano, le isola dal resto
della folla. Montefiore, particolarmente partecipe,
ritrae l’umile mamma, con gli occhi chiusi, avvolta
nel suo mantello, con un cappello a cloche sul capo.
All’esaltazione dell’evento soprannaturale,
successivo al completo abbandono degli affamati alla
divina Provvidenza, fanno da contraltare i simboli
del male e della violenza, raffigurati sul braccio
destro della croce, in relazione all’episodio del
Cristo deriso. In un angolo, i soldati con le armi
puntate, su cavalli imbizzarriti, sembrano
scagliarsi contro il Cristo alla colonna. La
fisionomia delle gigantesche figure, deformate fino
alla bestialità da un disegno espressionista forte
ed incisivo, esprime l’ottusità umana, riconducibile
allo stile mordente di H. Bosch. L’istinto, non
sorretto dalla ragione, determina il manifestarsi
del male, contraddetto però dalla pietas delle donne
penitenti, vestite in morado, abito di color viola
che esse indossano nella solenne processione di fine
ottobre. Sono figure femminili macilenti, poste in
disparte, con lo sguardo smarrito, rivolto al
Cristo, portano ceri. Cristo, Figlio dell’Uomo, è
una figura nitidamente vigorosa, vittima innocente
che, assumendo su di sé i peccati del mondo, assolve
il compito per cui è stato mandato da Dio sulla
terra: redimere, attraverso il suo olocausto,
l’umanità.
Il messaggio di Montefiore nel suo “poema”
evangelico figurato va oltre la morte: la
risurrezione di Cristo lascia aperta in tutti i
credenti la speranza del suo ritorno, alla fine dei
tempi. Non apocalittica la scena finale, ma un inno
gioioso che accompagna la deflagrazione della terra.
Dalle buche emergono corpi avvolti da lenzuoli
bianchi, rinati alla vita eterna. Uno scenario
toccante, di grande effetto, preludio della Parusia.
La luce della grazia copiosa scende dalla Trinità,
non sotto forma di raggi, ma di bianche colombe,
emanazione dello Spirito.
|