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Storia e cultura arbëreshë | |
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pubblicato il 5 Gennaio 2014 - Editoriale Etnie L’arberia
L’arberia fonda la propria esistenza su due elementi che la rendono particolarmente affascinante; il reale, riconducibile a tutto quello che appare, attraverso le innumerevoli manifestazioni viziate atte a dilapidare certezze; l’altro aspetto irreale, rappresenta l’essenza pura difficile da interpretare, quindi di non facile manomissione, riconducibile nei tanti gesti, riti, e consuetudini della millenaria storia arbëreshë. Due aspetti che coabitano e mantengono in vita la minoranza; facce della stessa medaglia, che portano, incise le diffuse favole della sua storia, da una parte e dall’altra, la matrice che con garbo tramanda solidi valori. Arberia, trattato di vita, regola, teorema, funzione dell’anno solare; respirati, avvertiti e vissuti solo da chi conosce l’essenza di questo popolo.
Aspetti della metrica del canto, che da un lato consuma le cose materiali e dall’altra difende le cose immateriali. Sono stati tanti quelli che, a vario titolo, hanno cercato di riassumere per grandi linee o con veri e propri trattati, la storia degli albanofoni ma senza mai venirne a capo in maniera decente, come pure è vastissimo lo scenario di chi ha copiato e divulgato frammenti di storia senza alcun ragionevole confronto con le realtà contigue. Vero è che a oggi le uniche informazioni che possano ritenersi tali e fungere come riferimento per le caratteristiche sociali e abitudinarie della comunità arbëreshë sono: Il Discorso Sugli Albanesi pubblicato nel 1807, i di cui manoscritti sono stati realizzati dal 1765 al 1799 e conservati nello studio di via San Sebastiano in quelle che si individuavano come le case dei Correale; le emergenze architettoniche ancora in vita; e Il Kanun, che in forma scritta, lo si trova per la prima volta nel XV secolo, formatosi sull'iniziativa di Leke Dukagjini;. Questi sono trattati di largo spessore per l’etnia perché forniscono la condizione degli arbëreshë sparsi nei territori del regno partenopeo e quella degli albanesi in terra d’origine.
Leggendoli con attenzione, si possono cogliere le tappe sociali e lo stato in cui vissero gli albanesi, da queste si possono trarre le certezze su quale sia stato il percorso che ha reso possibile la permanenza, l’integrazione, e la salvaguardia dell’idioma degli arbëreshë nei territori ritrovati. L’Arberia è da ritenersi una regione che fonda la propria diversità nella linguistica, nella religiosa e nel consuetudinario nonostante il continuo confrontarsi con le realtà indigene e quelle dominanti. Tutto ha inizio con l’instabilità politica sociale e religiosa dei territori di origine, individuati come il crocevia delle diaspore dell’est Europa, questa costrinse gli albanesi a continue migrazioni, prima negli ambiti della stessa Albania e poi in approdi extra territoriali. Alla fine del XV secolo, la politica, identificabile nei buoni rapporti di Giorgio Kastriota con i regnanti partenopei; la religione, di rito Greco-Bizantina, radicata nel meridionale bizantino riconducibile ai presidi del rossanese; il parallelismo orografico dei territori collinari, furono i motivi trainanti della scelta di abbandonare le terre natie e dirigersi verso il meridione d’Italia. Gli Arbëreshë approdati nelle rive della sibaritide si avviarono verso le zone collinari dell’interno, nei territori dai Principi Sanseverino di Bisignano e s’impegnarono con tutte le risorse che li rendevano unici nel rapporto mutualistico con il territorio e simili a quelli Albanesi.
I compiti loro assegnati nelle prime capitolazioni, di cui rimangono rare tracce, secondo regie disposizioni miravano innanzitutto a segnare il territorio, con il fine di inviare un segnale netto ai pirati che incrociavano lungo le coste dello Jonio. In questa prima fase, gli arbëreshë, si adoperarono anche a bonificare un territorio impervio, privo di strade, devastato dagli innumerevoli corsi fluviali, paludoso nelle aree estensive e per una moltitudine di calamità naturali, reso improduttivo, in fine misero a dimora produzioni intensive. Il periodo in cui gli albanofoni assunsero l’onere di assolvere queste due emergenze, viene erroneamente ricordato come la fuga dalle gabelle, della delimitazione urbana, del basto e delle intercessione della figlia del Kastriota al governo partenopeo. In questo intervallo storico i Sanseverino di Bisignano ristabilirono il controllo del territorio dalle incursioni e nello stesso tempo venne instaurato l’ideale mutualistico rapporto di cooperazione con gli ambiti intensivi che vennero messi in produzione. Richiesto e ottenuto, attorno al 1538 l’integrazione di nuove capitolazioni, il permesso di costruire case in pietra, gli arbëreshë innalzando le modeste dimore all’interno dei loro presidi recintati, dando inizio d’ora in avanti, allo sgretolamento della solida cellula familiare allargata, in quello spazio che l’aveva sempre protetta; sheshi.
A metà del secolo XVI, quando i principi Sanseverino di Bisignano avviarono il processo di rilancio dei loro territori, dopo la carestia e la peste, i terremoti che avevano sterminato gran parte della popolazione, nei paesi che diverranno i luoghi albanofoni, si contavano non più di una casa in muratura per ogni casale e non superando neanche la cinquantina, i casali minoritari, il territorio sicuramente appariva naturale e incontaminato. Più che luoghi costruiti essi rappresentavano luoghi di aggregazione, in cui il riferimento edilizio era rappresentata dall’unica Kaliva in muratura, dalla chiesa e dalle capanne in paglia, vista l’estensione del territorio di riferimento si può facilmente dedurre l’irrilevante presenza del costruito rispetto al paesaggio naturale . La caratteristica dei nuovi abituri di origine albanofona era rappresentata dal gruppo famigliare allargato che costruiva e modificava il territorio in maniera diffusa, insediandosi secondo schemi prestabiliti, nei tre ambiti della Calabria citeriore e precisamente quelli collinari della Sila Greca, del Pollino e della Mula che abbracciavano le valli dell’Esaro e del Crati. Il visitatore odierno, di quel grande vuoto edilizio non può certo avere percezione, anche perché per cinquecento anni, sino al rilancio economico degli anni, sessanta, in queste aree si sono evoluti, modelli abitativi funzionali all’economia del territorio e nella più assoluta conformità di materiali, tecniche e tipologie edilizie.
Il rilancio del modello industriale e la differenziale capacità economica tra il nord e il sud dell’Italia sono diventati la spia di una crisi più generale del rapporto tra le comunità e il loro spazio di vita. Un processo così capillare da apparire inarrestabile, verso il quale nessuna istituzione pone rimedio, ormai, così diffuso e radicato da costituire una grande metafora della crisi più generale e complessiva della Calabria interna. A fronte di ciò, gli ultimi censimenti ci raccontano di un vero diluvio di case, questa volta nuove, per lo più grandi, isolate e disperse nelle periferie dei villaggi, quanto le vecchie erano accentrate e compatte, estranee per forma e sostanza costruttiva al loro contesto, tanto quanto le precedenti erano pensate e costruite sulla misura locale. Assistiamo così al paradosso storico di paesi minoritari che crescono mentre si svuotano, che aggiungono case a case, occupando gli orti periurbani mentre la gente se ne va.
Il recinto e lo spazio vuoto tendono a contrarsi a vantaggio del pieno rappresentato dalla cellula edilizia. Lo spostarsi dell'equilibrio dalla proto-industria all’industria determina distinzioni più nette tra spazio della produzione e luoghi della trasformazione e del consumo domestico. Le attività direttamente produttive non abitano in questi territori, né chi siede a capo delle comunità, è in grado di produrre progetti solidi, mirati ad avere un senso compiuto. Un giorno si decide, irresponsabilmente, di svendere i propri ambiti, poi si rubano idee a coloro che di questa etnia hanno una lucida visione conservativa e allora si decide di realizzare: gli alberghi diffusi, rilanciandoli privi di progetti che abbiano solida applicazione e in linea con la storia d’ambito. Rendere noti e fruibili i propri contesti, attraverso elementi che hanno fatto la storia dei minoritari come ad esempio, il recinto, in cui emerge la cellula abitativa, la casa come fabbricato, in cui far rivivere frammenti di vita, farebbe rivivere le essenze più intime d’arberia. Il momento storico che viviamo va vissuto utilizzando al meglio tutte le risorse della diversità culturale a nostra disposizione, nulla può essere attuato senza progetti, essi non devono contenere chissà quali caratteristiche speciali, infatti, l’importante che abbiano quei piccoli segni della tradizione albanofona.
Atanasio arch. Pizzi Napoli 29-12-2013 http://www.scescipasionatith.it/larberia.html
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